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La rivolta albanese
alle loro case spesso trovarono tutto distrutto. Senza cibo e senza casa, vennero colpiti anche dal colera. Solo nei due distretti di Knjaževac (distretto Zaglavski) e del Timok 12.186 persone rimasero letteralmente senza pane e 751 proprietari di poderi persero il bestiame.55 I danni materiali furono registrati da una commissione parlamentare serba che li stimò per una cifra complessiva di 2.683.797 dinari solo per il distretto del Timok. Il totale dei danni -comprendendo anche le altre zone, che rispetto a Knjaževac non erano state molto colpite- ammontava a 3-4 milioni di dinari.56
Non diverso fu comunque il comportamento delle truppe serbe nei villaggi nei pressi di Vidin e Belogradčik, in Bulgaria, una volta ricacciati i bulgari dalla Serbia e oltrepassato il confine. Le zone lungo la vecchia frontiera con la Serbia vennero infatti brutalmente devastate e saccheggiate e venne ripetuto ciò che era da poco accaduto pochi chilometri più ad ovest, nella Serbia orientale. A Voinica ad esempio, di 63 case 32 furono incendiate e il resto saccheggiate e distrutte, mentre gli anziani che non riuscirono a fuggire furono maltrattati e uccisi.57
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Che la situazione nei nuovi territori fosse radicalmente diversa da quella propagandata dal nazionalismo era parso subito chiaro a tutti, anche a coloro che avevano preso entusiasticamente parte alla «missione liberatrice». In un telegramma del febbraio 1913, un ex ufficiale serbo che aveva preso parte alle campagne di Kumanovo, Prilep e Bitola, appena nominato capo del distretto di Debar (Dibrano), in Macedonia occidentale, scrisse:
55 Stenografse beleške Narodne skupštine (SB, NS), XLII seduta ordinaria, 20 febbraio/4 marzo 1914, intervento di Jeremija Živanović, p. 904. Nell’intervento si sottolineano inoltre le condizioni dei civili a distanza di ormai otto mesi: «Queste persone sono disperate e si lamentano continuamente con le autorità locali e con il governo, perché dopo 8 mesi ancora non hanno ricevuto un aiuto. Sono anche andati di persona a Belgrado dal Ministro degli Interni, il quale ha promesso loro aiuto ma ancora non l’ha dato. (…) Il governo poteva approvare aiuti, considerando quanti soldi vengono spesi anche senza l’approvazione parlamentare, ma non c’é stata la volontà.(...) Un aiuto è stato dato solo all’inizio». 56 SB, II seduta ordinaria, 9/22 ottobre 1913, risposta del ministro degli interni Protić all’interrogazione parlamentare dei deputati Stanojević, Pavlović, Branković e altri, p. 58. 57 Report...., cit., pp. 136-139. Nelle stesse pagine si sottolinea che le atrocità serbe sono meno documentate per il semplice motivo che, mentre il governo serbo adottò tutte le misure necessarie affinché non rimanesse sconosciuto nemmeno uno dei crimini bulgari, il governo bulgaro non fu altrettanto previdente.
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Secondo il censimento, effettuato con la massima attenzione sotto la mia supervisione e di quella degli organi locali, il misero quadro del Dibrano è il seguente: Nella provincia Donjodebarska (con sede a Piškopeja) ci sono in tutto 110 case di cristiani e 3.884 albanesi; Nello provincia Matska sono tutti albanesi, e non slavi albanizzati ma albanesi veri. Questa provincia purtroppo esiste solo sulla carta perché fino ad oggi il nostro esercito non ha conquistato questa zona. Nella città di Debar ci sono in tutto 385 case di cristiani e 2.025 di albanesi. Nella provincia Gornjodebarska ci sono 1.608 case di cristiani e 4.291 di musulmani. Nella provincia Rekanska ci sono 1.856 case di cristiani e 1.995 di musulmani. La densità della popolazione è misera. La provincia più grande – la Matska - ha in tutto 14 villaggi con 12 [parola illeggibile, nda] albanesi, e la nostra famosa Reka (Rekalije) in tutta la sua provincia ha solo 20.995 anime di tutte le religioni e nazionalità. E i pochi cristiani che ci sono, sono stati a tal punto avvelenati dalla propaganda che a Lazarpolje, in quella che un tempo era la serba Reka, non vogliono accettare un serbo come sindaco e i sacerdoti sono così sfacciati che in chiesa non vogliono nominare il nostro re e il nostro metropolita ma quelli bulgari. Il metropolita Kozna ha creato una tale agitazione che ha detto perfino «Cosa vogliono questi serbi a Debar, quando in tutto qui ci sono solo due serbi, e sono pure stati comprati con 40 lire!» (per questo motivo Sua Eccellenza Reverendissima è stato dovuto essere allontanato da questo distretto).58
E proprio in queste zone, poco dopo la prima proclamazione di annessione della Macedonia e del Kosovo del 25 agosto/7 settembre 1913, mentre le ultime truppe serbe si ritiravano su forti pressioni austriache dall’Albania, scoppiò una violenta rivolta contro quello che veniva considerato ormai come il «regime serbo».
In quei territori appena annessi, in cui si stava ancora cercando di realizzare la demarcazione dei confini, il 10/23 settembre circa 15.000 uomini ben organizzati e ben armati entrarono in azione e in breve tempo si impossessarono di Debar, Ohrid e Struga, arrivando anche nei pressi di Gostivar. All’azione sembra che avessero partecipato anche ufficiali bulgari; certo è che la diplomazia austriaca guidata dal conte Berthold intraprese immediatamente una serie di provvedimenti diplomatici per la difesa degli albanesi insorti,59 mentre al
58 AS, MID-PO, 1913, XVIII/42, pov. br. 17, da capo distretto Debar a Presidente del Consiglio Nikola Pašić, 15/28 febbraio 1913. 59 Vladimirr Ćorović, op. cit., p. 535.
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contempo organizzava (ma in realtà aveva già effettuato) il loro rifornimento di armi e munizioni.60
Per contrastare la rivolta vennero inviate due divisioni dell’esercito serbo, scatenando tra i rappresentanti delle grandi potenze delle forti preoccupazioni per la repressione che avrebbero potuto mettere in atto.61 Contemporaneamente l’Austria-Ungheria impose una sorta di ultimatum alla Serbia rea di aver ripetutamente varcato i confini con l’Albania dallo scoppio della rivolta (i confini erano considerati tali dall’Austria-Ungheria, perché a livello internazionale non erano ancora stati accertati con precisione nonostante fossero stati stabiliti dall’accordo di Londra). In una nota verbale inviata il 4/17 ottobre il conte Berthold invitò la Serbia ad abbandonare i territori dell’Albania occupati entro otto giorni, in caso contrario l’Austria-Ungheria sarebbe stata obbligata ad utilizzare metodi «più adatti ad assicurare l’esecuzione delle sue richieste».62 Già due giorni dopo il Presidente del Consiglio serbo Nikola Pašić ordinò la ritirata dell’esercito dai territori albanesi secondo i confini del trattato di Londra. Il 12/25 ottobre la ritirata fu conclusa, mentre all’interno dei confini la rivolta era stata sedata con estrema violenza.
Gli scontri tra insorti ed esercito ebbero un forte impatto sulla popolazione civile, tanto che Pašić, alcuni mesi dopo, nel sostenere che le truppe serbe avevano subito diverse perdite, confermò che «le zone degli scontri, come ad esempio il Dibrano, erano state completamente distrutte».63 Che cosa significassero queste parole, pur molto chiare, era già stato descritto in più circostanze dal quotidiano socialista di Belgrado, che ancora una volta rappresentò l’unica voce discorde, in un coro di nazionalismo generale, attraverso la pubblicazione di una lettera di un soldato serbo:
Non ho molto tempo per scrivere, ma posso dire che qui stanno succedendo cose spaventose. Ne sono terrificato, e costantemente mi chiedo come gli uomini possano essere così barbari da commettere simili crudeltà. È orribile. Non oso dire di più (anche se avessi tempo, cosa che non ho), ma posso dire che il Ljum (una regione albanese lungo l’omonimo fiume), non esiste più. Non ci sono che cadaveri, polvere e cenere. Ci sono villaggi di 100, 150, 200 case dove non c’è letteralmente nemmeno un uomo. Li abbiamo radunati a gruppi di quaranta o cinquanta, e poi li abbiamo trafitti a colpi di baionetta tutti fino all’ultimo. Ovunque si saccheggia. Gli ufficiali dicono ai soldati di
60 Ivi, p. 537. 61 Ivi, p. 539. 62 Ivi, p. 545. 63 AS, MID-PO, 1914, pov. br. 1330, da Nikola Pašić ad ambasciatore Spalajković, 10/23 aprile 1914.
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andare a Prizren e vendere quello che hanno rubato.64
Come nelle zone del fiume Ljum, anche tutti i villaggi attraverso cui passarono le truppe serbe vennero saccheggiati e incendiati, e intere famiglie vennero massacrate. Solo a Sulp vennero uccise 73 persone e a Portchassie i maschi adulti del villaggio vennero separati dal resto della popolazione, mentre le donne vennero costrette a pagare un riscatto. Nonostante tutto ciò, gli ostaggi vennero rinchiusi nella moschea che venne fatta saltare in aria con quattro colpi di cannone.65
Alla rivolta parteciparono anche i comitadji bulgari. Ma all’inizio di ottobre, quando da Ohrid si dovettero ritirare, nei villaggi circostanti vennero uccisi 500 tra turchi e albanesi e 150 bulgari; 50 giovani vennero imprigionati, torturati e lasciati senza cibo e i quartieri dei familiari dei capi comitadji furono distrutti. Infine, molti notabili bulgari furono vittime della repressione e alcuni villaggi misti bulgaro-albanesi, nelle regioni della Macedonia occidentale, vennero incendiati.66
L’obiettivo non fu solo reprimere la rivolta, ma cambiare la composizione etnica di una zona abitata esclusivamente da albanesi.67 Il risultato fu che dalle zone interessate dall’insurrezione, che si erano estese fino alle città di Prizren e Djakovica (quest’ultima parte del Regno di Montenegro), circa 25.000 albanesi si rifugiarono in Albania.
Alcune frammentarie relazioni di ufficiali serbi che parteciparono alla repressione permettono di intravedere che la situazione fu molto complessa e non si limitò ad uno scontro tra insorti ed esercito.
In una di queste relazioni, il comandante truppe di stanza in Macedonia e Kosovo, il generale Damjan Popović, il 21 ottobre/2 novembre 1913 scrisse:
Debar, Piškopeja, Trgovica e Mavrovi Hanovi sono caduti in mano albanese, e il loro numero aumenta; si sta allargando a Gostivar e Kičevo. […] Ci sono dei villaggi bruciati; una parte di questi sono stati bruciati dalle nostre truppe perché da lì si sparava su di noi; alcuni sono stati bruciati dagli arnauti stessi che in fuga hanno dato fuoco a quei villaggi dove nascondevano le munizioni; la maggior parte comunque sono stati bruciati dai contadini cristiani che si sono vendicati perché gli arnauti li avevano derubati di tutto. Questo è provato dal fatto che in alcuni villaggi le case dei cristiani sono distrutte e
64 Report..., cit., p. 149. La lettera è ripresa da Radničke novine, 9/22 ottobre 1913 (traduzione dell’autore). 65 Ivi, p. 150. 66 Ivi, pp. 182-184. 67 Ivi, p. 151.
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