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2.3 Gran Bretagna

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Conclusioni

Conclusioni

che una percezione di “complotto massonico” sarà strettamente correlata ad un effetto anticattolico e materialista? (Laqueur, 2008:67)

2.3 Gran Bretagna

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La pratica cremazionista in Gran Bretagna comincia nel 1885, ma è già nel 1874 che

la Cremation Society of Great Britain (CSGB) viene fondata e comincia a raccogliere

volontari e proseliti per diffondere l’etica di questo fenomeno. Nel 1854 un chirurgo inglese, Charles Cobb, pubblica il suo Burning the Dead or Urn

Sepolture e nel 1874 il vescovo anglicano, Fraser, dichiara che per Dio non è più

difficile resuscitare delle ceneri che della polvere d’ossa. Nuovi forni sono messi in funzione a Manchester nel 1888, poi in Scozia nel 1895. Le incinerazioni, che in questi

anni si contano ancora non più che in decine, nel 912 superano il migliaio. La pratica,

pur rimanendo statisticamente limitatissima, è dunque già qualcosa di più di una

semplice curiosità…Quindi, a partire dagli anni Venti, la cremazione viene occupando

in Inghilterra, e poi nell’Europa riformata, il posto considerevole che è oggi suo. (Vovelle 2010: 587)

La pratica della cremazione non desta dunque scalpore negli ambienti anglicani, anzi,

Frederick George Marshall (1899–1971) nel 1932 promuove il primo Book of

Remembrance nel 1932 che viene introdotto nel crematorio di Surrey. (Davies, Mates,

2005:92) e già nel 1919 la famiglia reale comincia a usufruire di questa pratica, il primo

caso fu la Duchessa di Connaught, nuora della regina Vittoria, al crematorio di Golden

Green.

Come in Italia, è una pratica presa in considerazione per distruggere i cadaveri causati

dalle epidemie di colera (Davies, Mates 2005 :113) ma, non c’è una posizione

dominante della Massoneria che quindi sembra acquisire una matrice preponderante a

contatto con il caso specifico del Risorgimento italiano.

Piuttosto, ciò che caratterizza la Gran Bretagna è la presenza delle funeral companies,

agenzie funebri private i cui servizi diventavano massivamente più diffusi a partire

dagli anni '30 a scapito delle pompose pompe funebri dell'epoca vittoriana. (Davies,

Mates, 2005:93)

Le società pioneristiche dei primi anni, si accollano anche le spese di costruzione dei

primi crematori (Davies, Mates: 2005,101). Il dato interessante è che queste compagnie

figurano anche come agenzie per il trasporto delle ceneri all'estero. È il caso ad esempio

del 1882, quando un giocatore di cricket viene cremato e le sue ceneri sono spedite in

Australia. (Davies, Mates 2005:136). Ciò ci offre un dato interessantissimo quindi: i

crematori diventano una sorta di hub, i crematori non sono residenziali, ma sono dei

vettori aperti all’esportazione, anche transnazionale delle ceneri, è normale quindi, che

tendano a svilupparsi in prossimità di vie di comunicazione naturali (fiumi, mari,

oceani) ma anche industriali è il caso delle città attraversate da grandi snodi di

comunicazione, porti ma anche strade ferrate e ferrovie. È l’esordio del fenomeno della banalizzazione dei trasporti. Non si cremano solo i morti di una determinata città, ma

possono essere una base per ceneri da esportare in altri luoghi del paese e all'estero. Le

città dotate di crematori avranno quindi una posizione strategica. Ma è anche vero che

possono falsare alcuni dati quantitativi: i cremati in Inghilterra potrebbero anche avere

altre nazionalità.

Cremazione quindi è anche una sorta di "bagaglio a mano della morte". Ciò può dare

man forte alla banalizzazione dei trasporti per il rimpatrio delle salme (tema caro tra

l’altro alle compagnie assicurative del ramo vita) ma anche per il trasporto di urne

cinerarie di famiglie migranti o addirittura in fuga o come nel caso della diaspora

ebraica.

In proposito dirà Ferdinando Coletti ordinario di farmacia dell’università di Padova a proposito del ruolo delle urne cinerarie:

Questi preziosi avanzi seguirebbero gli emigranti nelle lontane

peregrinazioni, e farebbero loro credere di non perdere la patria tutta

intera. Inoltre anche il popolo avrebbe una genealogia, ed è incomprensibile

che la genealogia nel popolo sarebbe un grande elemento di rigenerazione

morale Il legame con le ceneri, dunque, anche come strumento di

affermazione di un’identità individuale e collettiva, come tentativo di riappropriazione, specialmente per i ceti subalterni, di una dimensione

storica, di un senso di continuità con il passato che fino a quel momento era

loro sempre mancato. (Conti F., Isastia A.M., Tarozzi F., 1998:7)

Ma ritorniamo più propriamente al caso inglese. Sul fronte assicurativo della c.d.

previdenza funeraria bisognerà aspettare la fine della Seconda Guerra Mondiale per

porre le basi ad un interessante tassello di welfare già presente dal 1933, si tratterà di

polizze che vanno incontro al ceto medio promosse dal governo Laburista dal 1948 per

alleviare i costi funerari delle famiglie meno abbienti. (Davies, Mates 2005:139).

La cremazione, incrementatasi negli anni della guerra, aggiunge alla sua pratica una

nuova narrazione negli anni della ricostruzione postbellica: meno spazio per i cimiteri

avrebbe rappresentato nuovo spazio per la nascita di nuove realtà produttive, abitazioni

e agricoltura (Davies, Mates, 2005:139).

Un modello eccezionale? Non secondo, il parere di Vovelle che vede la portata di

questo fenomeno nettamente inferiore al caso di commercializzazione presente negli

USA. Secondo il suo parere:

Nel 1930 la cremazione riguarda meno dell’1 per cento dei morti, e ancora alla vigilia della seconda guerra mondiale meno del 3 per cento. All’indomani del conflitto, la pratica si diffonde massicciamente, raggiungendo e poi

oltrepassando la soglia del 20 per ceto negli anni Cinquanta, toccando il 34 per

cento nel 1960, il 57 per cento nel 1974. Un’autentica rivoluzione è avvenuta nel costume, molto meno nota, perché meno esposta alla luce dei riflettori, dei

fenomeni americani. Ma nel dossier del “tabù della morte” si tratta sicuramente

di un elemento essenziale. Ciò è tanto più vero, in quanto il modello inglese in

questo campo non è eccezionale. (Vovelle, 2000: 628-629)

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