
3 minute read
1.2 Individualizzazione
1.2 Individualizzazione
Partiamo con il passaggio dalla società comunitaria alla reductium ad unum del
Advertisement
soggetto. L’individualizzazione e dunque lo sviluppo della coscienza dell’Io come unità fondante della società e della vita quotidiana.
Se l’individualizzazione è un classico dell’ascesa dei segni di riconoscimento di una
nuova borghesia Ottocentesca cara a Weber, ci pare doveroso analizzare come ci sia
arrivati. Diamo qui per assodata una correlazione tra individualismo e urbanizzazione
(si pensi ad esempio alla Parigi del Barone Hausmann, a Londra, ma anche a Milano e
Torino). Un fenomeno questo che tende a parcellizzare e nuclearizzare la famiglia: la
sua socializzazione sposta l’autorità verticalizzata di tipo patriarcale al piccolo nucleo
legato alla classe lavoratrice sempre più inquadrata come soggetto
dell’industrializzazione e della libera professione.
La chiave strutturalista suggerisce che religione, comunità e condizionamento sociale
siano alla base dei cardini delle società a impianto tradizionale caratterizzate da un
basso livello di individualizzazione (Cavicchia Scalamonti, 2003:56). Invece, la
tendenza all’individualismo e alla logica disgregativa della comunità indica un
processo evolutivo. Se dunque come dice Durkheim, la religione non è altro che la
società che adora sé stessa e che si autocompiace del suo essere, il disincanto del mondo
è anche il declino della società coesa.
Bisogna considerare che diversità nel grado d’individualizzazione possono coesistere
in una stessa società in un’ottica di stratificazione sociale. Spesso, infatti, le élite
dominanti possiedono un grado d’individualizzazione notevolmente più elevato rispetto alla restante parte della popolazione (Cavicchia Scalamonti 1984:30) e
rappresentano il ceto innovatore.
La fede nella scienza e il declino della violenza portano a miglioramenti demografici,
la morte diviene sempre meno centrale e relegata all’età anziana giustificata da un
innalzamento della speranza di vita e un declino della violenza che rende la morte per
vecchiaia un esito sempre più normale.
Come risultato abbiamo che
le società moderne sono riuscite ampiamente a contenere la dirompenza
sociale della mortalità. Ma l'impatto della morte su una società non è
semplicemente una questione di considerazioni demografiche quali il tasso
di morte e le dimensioni del gruppo sociale. La maniera in cui la società è
organizzata, le modalità con cui essa gestisce la morte come crisi e il modo
in cui le pratiche d morte e le istituzioni mortuarie sono legate alla struttura
sociale sono altrettanto centrali. (Blauner in Cavicchia Scalamonti, 1984:
141)
Cambia cioè la rilevanza sociale del morto (Blauner in Cavicchia Scalamonti,
1984:150). Infatti se la morte in vecchiaia sarà sempre più frequente e l’anziano sarà sempre più segregato all’infuori della classe produttiva, il suo essere outgroup dalla
forza lavoro, diminuisce l’intensità drammatica della sua perdita per la collettività. Da
ciò il declino dell'autorità dei morti e l'aumentare della distanza sociale tra essi e i vivi
sono al tempo stesso condizioni e conseguenze dell'orientamento verso la gioventù,
l’apertura sociale verso la recettività all'innovazione e il cambiamento sociale che
caratterizza la società moderna. C’è dunque un grado di alienazione dove la mobilità e
il cambiamento sociale hanno eliminato il significato degli anziani come vincolo alle
«radici». (Blauer in Cavicchia Scalamonti, 1984:163-164) Ciò quindi renderebbe il
mondo urbano e industrializzato più scevro da condizionamenti sociali. Allo stesso
modo, invece, nella società rurali e resilienti con scarsa propensione all’innovazione, i
morti continuano a avere un ruolo influente nella scrittura dei vivi, non c'è alcun
periodo che segni la fine delle connessioni di un individuo con la società e l'anziano,
già prima di morire comincia a ricevere parte del rispetto e autorità che sono attribuiti
al mondo degli spiriti. (Blauer in Cavicchia Scalamonti, 1984:164).
Eppure, teniamolo a mente, nella visione disincantata e residuale dell’anziano, non c’è forse, curiosamente, un richiamo ebraico? La negazione della morte del singolo è vista
come compimento di una vita lunga e sazia. Se prima infatti, la saggezza della senilità
era un privilegio per pochi come i grandi profeti del Vecchio Testamento, ora è
qualcosa di comune, letto in chiave di un compimento della vita terrena. La lunghezza
e la prosperità sono dei segni tangibili di aver bene operato, tale da raggiungere la
benevolenza divina. (Cavicchia Scalamonti:2006, 296). Sarebbe dunque il segnale di
un revival.
Passiamo ora all’analisi dell’immagine del memento mori. La morte a sfondo gotico e
barocco di cadaveri in putrefazione e di tutto il suo macabro repertorio di
rappresentazioni si semplifica e, anzi, scompare. Il cadavere rappresenta un'altra