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1.2 Individualizzazione

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Conclusioni

Conclusioni

1.2 Individualizzazione

Partiamo con il passaggio dalla società comunitaria alla reductium ad unum del

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soggetto. L’individualizzazione e dunque lo sviluppo della coscienza dell’Io come unità fondante della società e della vita quotidiana.

Se l’individualizzazione è un classico dell’ascesa dei segni di riconoscimento di una

nuova borghesia Ottocentesca cara a Weber, ci pare doveroso analizzare come ci sia

arrivati. Diamo qui per assodata una correlazione tra individualismo e urbanizzazione

(si pensi ad esempio alla Parigi del Barone Hausmann, a Londra, ma anche a Milano e

Torino). Un fenomeno questo che tende a parcellizzare e nuclearizzare la famiglia: la

sua socializzazione sposta l’autorità verticalizzata di tipo patriarcale al piccolo nucleo

legato alla classe lavoratrice sempre più inquadrata come soggetto

dell’industrializzazione e della libera professione.

La chiave strutturalista suggerisce che religione, comunità e condizionamento sociale

siano alla base dei cardini delle società a impianto tradizionale caratterizzate da un

basso livello di individualizzazione (Cavicchia Scalamonti, 2003:56). Invece, la

tendenza all’individualismo e alla logica disgregativa della comunità indica un

processo evolutivo. Se dunque come dice Durkheim, la religione non è altro che la

società che adora sé stessa e che si autocompiace del suo essere, il disincanto del mondo

è anche il declino della società coesa.

Bisogna considerare che diversità nel grado d’individualizzazione possono coesistere

in una stessa società in un’ottica di stratificazione sociale. Spesso, infatti, le élite

dominanti possiedono un grado d’individualizzazione notevolmente più elevato rispetto alla restante parte della popolazione (Cavicchia Scalamonti 1984:30) e

rappresentano il ceto innovatore.

La fede nella scienza e il declino della violenza portano a miglioramenti demografici,

la morte diviene sempre meno centrale e relegata all’età anziana giustificata da un

innalzamento della speranza di vita e un declino della violenza che rende la morte per

vecchiaia un esito sempre più normale.

Come risultato abbiamo che

le società moderne sono riuscite ampiamente a contenere la dirompenza

sociale della mortalità. Ma l'impatto della morte su una società non è

semplicemente una questione di considerazioni demografiche quali il tasso

di morte e le dimensioni del gruppo sociale. La maniera in cui la società è

organizzata, le modalità con cui essa gestisce la morte come crisi e il modo

in cui le pratiche d morte e le istituzioni mortuarie sono legate alla struttura

sociale sono altrettanto centrali. (Blauner in Cavicchia Scalamonti, 1984:

141)

Cambia cioè la rilevanza sociale del morto (Blauner in Cavicchia Scalamonti,

1984:150). Infatti se la morte in vecchiaia sarà sempre più frequente e l’anziano sarà sempre più segregato all’infuori della classe produttiva, il suo essere outgroup dalla

forza lavoro, diminuisce l’intensità drammatica della sua perdita per la collettività. Da

ciò il declino dell'autorità dei morti e l'aumentare della distanza sociale tra essi e i vivi

sono al tempo stesso condizioni e conseguenze dell'orientamento verso la gioventù,

l’apertura sociale verso la recettività all'innovazione e il cambiamento sociale che

caratterizza la società moderna. C’è dunque un grado di alienazione dove la mobilità e

il cambiamento sociale hanno eliminato il significato degli anziani come vincolo alle

«radici». (Blauer in Cavicchia Scalamonti, 1984:163-164) Ciò quindi renderebbe il

mondo urbano e industrializzato più scevro da condizionamenti sociali. Allo stesso

modo, invece, nella società rurali e resilienti con scarsa propensione all’innovazione, i

morti continuano a avere un ruolo influente nella scrittura dei vivi, non c'è alcun

periodo che segni la fine delle connessioni di un individuo con la società e l'anziano,

già prima di morire comincia a ricevere parte del rispetto e autorità che sono attribuiti

al mondo degli spiriti. (Blauer in Cavicchia Scalamonti, 1984:164).

Eppure, teniamolo a mente, nella visione disincantata e residuale dell’anziano, non c’è forse, curiosamente, un richiamo ebraico? La negazione della morte del singolo è vista

come compimento di una vita lunga e sazia. Se prima infatti, la saggezza della senilità

era un privilegio per pochi come i grandi profeti del Vecchio Testamento, ora è

qualcosa di comune, letto in chiave di un compimento della vita terrena. La lunghezza

e la prosperità sono dei segni tangibili di aver bene operato, tale da raggiungere la

benevolenza divina. (Cavicchia Scalamonti:2006, 296). Sarebbe dunque il segnale di

un revival.

Passiamo ora all’analisi dell’immagine del memento mori. La morte a sfondo gotico e

barocco di cadaveri in putrefazione e di tutto il suo macabro repertorio di

rappresentazioni si semplifica e, anzi, scompare. Il cadavere rappresenta un'altra

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