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COMITATO DIFESA DUEMILA

L’Occidente sotto attacco

Venezia, 18-19 novembre 2005


Comitato Difesa Duemila Prof. Michele Nones (coordinatore) On. Ferdinando Adornato Gen. Mario Arpino Gen. Vincenzo Camporini Dott. Massimo De Angelis Gen. Carlo Finizio Dott. Renzo Foa Gen. Carlo Jean Dr. Andrea Nativi On. Luigi Ramponi Prof. Stefano Silvestri Amm. Guido Venturoni Dott. Giovanni Gasparini (segretario).



Indice

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1. Il nuovo terrorismo internazionale

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2. Convivere col terrorismo

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3. Il quadro europeo

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4. I rischi per l'Italia e le azioni da intraprendere


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1. IL NUOVO TERRORISMO INTERNAZIONALE Per oltre cinquant’anni i nostri Paesi hanno vissuto in un contesto internazionale in cui la minaccia (pur altissima, poiché arrivava a ipotizzare una guerra nucleare generale) era funzionale al mantenimento del sistema e comportava costi complessivi bassi. Di più, in molti Paesi, tra cui l’Italia, l’equilibrio tra i due blocchi contrapposti ha contribuitoì al consolidamento del quadro politico interno (dal compattamento dei due schieramenti della maggioranza e dell’opposizione sino a decisioni strategiche essenziali per il mantenimento degli equilibri istituzionali, come ad esempio la rinuncia alla lotta armata, il varo della Costituzione in una logica bi-partisan, l’unità di intenti contro il terrorismo negli anni Settanta). Nel frattempo, almeno all’interno del mondo Occidentale, la strategia multilaterale di dissuasione e difesa, assicurata a livello di “blocco”, ha consentito di garantire un alto livello di sicurezza a costi ridicolmente relativamente bassi (in particolare se rapportati al livello “apocalittico” della minaccia e alla sua apparente assolutezza ideologica), che quasi mai hanno superato il 5% del PIL ed in genere si sono attestati, specie per i Paesi europei, a livelli molto più bassi e per di più in progressiva diminuzione (dato che hanno consumato la “sicurezza” prodotta dagli Stati Uniti). Oggi la situazione è molto diversa. Il sistema internazionale è fortemente integrato sul piano globale e le nuove minacce che si stanno delineando non sembrano essere funzionali al suo mantenimento, al contrario, ne minacciano la stabilità e il funzionamento. In effetti, la minaccia terroristica, così come quelle legate alla proliferazione di armi di distruzione di massa, ai “failed states”, alla criminalità transnazionaleinternazionale, pur esercitate contro l’insieme della comunitài soggetti internazionalie, insistono in modo molto diverso sui singoli soggetti e alimentano percezioni molto differenziate in merito alla loro urgenza e pericolosità, alle strategie di contrasto e alle priorità di azione. Per gli americani la lotta al terrorismo è warfighting (che giustifica leggi eccezionali come il Patriot Act), per gli europei è invece crimefighting e solo dopo gli

attentati del 7 e 21 luglio a Londra sono passati ad adottare misure più severe. Di più, il discorso sulle nuove minacce contenuto nei più importantimaggiori documenti strategici europei ed americani mette assieme fenomeni molto diversi tra loro. Benché sia possibile in alcuni casi scorgere un collegamento tra queste minacce o tra alcune di esse, si tratta comunque di fenomeni strutturalmente diversi, che richiedono approcci molto differenziati e che comunque hanno un impatto diverso sui vari soggetti internazionali (in funzione della loro collocazione geografica, delle loro vulnerabilità economiche, del loro ruolo geo-politico e degli effetti dell’avere o no subito un attentato). Per queste ragioni è molto difficile per l’Occidente concepire una strategia in grado di operare contemporaneamente e con efficacia su tutti questi fronti, e non è stata neanche concordata o proposta una gerarchia di importanza o temporale o altra per affrontarle nel loro insieme o una dopo l’altra. Infine, la natura non convenzionaletradizionale di queste minacce - e il fatto che esse spesso coinvolgano soggetti non statuali -, fa sì che sia molto difficile elaborare ed esercitare una strategia credibile di dissuasione nei loro confronti. Ciò quindi spinge i nostri Paesi a studiare e mettere in opera soprattutto concrete e attuali misure di contrasto, per loro natura più difficili, costose e meno consensuali di quelle dissuasive. Tutto ciò spiega, almeno in parte, le gravi oscillazioni e le incertezze vissute dal quadro internazionale negli ultimi anni, in particolare dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Né la comunità internazionale, né gli Stati Uniti hanno elaborato un “grande strategia” coerente e di lungo termine, corredata della relativa strategia operativa, nonché dei mezzi e delle risorse adeguate al raggiungimento degli obiettivi. In altri termini la comunità internazionale è andata avanti pragmaticamente, reagendo anziché agendo in modo proattivo, e a tentoni, cercando di sfruttare e di adattare al meglio gli strumenti a sua disposizione per condurre a termine gli interventi man mano intrapresi. E’ avvenuto così che ci si sia impegnati, nel quadro generico della “guerra al terrorismo”, in operazioni quali l’intervento in

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Afghanistan e quello in Iraq, stabilendo solo successivamente gli obiettivi da raggiungere, mutando tali obiettivi in corso d’opera, senza un’analisi accurata dei mezzi necessari e senza un’accurata pianificazione strategico-operativa. In altre parole, si è verificata una grave soluzione di continuità tra gli obiettivi politici generali e l’operatività strategica, giustificabile inizialmente per la necessità di fornire una risposta immediata agli attacchi, ma successivamente aggravatasinonché, in taluni casi, e gravi . Poiché questo si accompagna con le incertezze e i dubbi sulla riforma dei sistemi di governo, le competenze e gli strumenti delle maggiori organizzazioni internazionali e in genere del quadro multilaterale, la più grandemaggiore debolezza del sistema sembra risiedere proprio nella sua incertezza e nella mancanza di coerenza interna. E’ necessario reagire a questa situazione, ricostruendo ora, a posteriori, gli elementi di una coerente Grande Strategia coerente da cui far discendere, per quanto possibile, la relativa pianificazione degli obiettivi, dei modi e dei tempi, compresa l’individuazione degli strumenti e dei mezzi necessari ed praticabili. Ciò richiederà un forte lavoro di concertazione tra alleati e all’interno delle organizzazioni ed alleanze internazionali: lavoro che sino ad oggi è stato sacrificato al perseguimento di limitati obiettivi settoriali. Nessuno è così ingenuo da ritenere che sia possibile attendere i tempi necessari per una tale rielaborazione strategica senza fare null’altro o abbandonando a metà gli impegni già presi. Vi è un’esigenza di continuità da garantire comunque, in quanto costituisce la base minima necessaria per la difesa della sicurezza collettiva dei nostri Paesi e il mantenimento di un livello minimo accettabile di solidarietà internazionale e di consenso reciproco. Il sistema internazionale è stato in questi anni sottoposto ad una serie di brusche accelerazioni e mutamenti di rotta, motivatie più da ragioni e percezioni interne ai nostri Paesi che da oggettive considerazioni sistemiche o da una spassionata valutazione delle minacce da affrontare. Non è quindi compiendo altre brusche correzioni di rotta che si può sperare di accrescere il consenso internazionale, la solidarietà tra alleati e la coerenza dell’azione. Si tratta, quindi, in questa fase di favorire, nella sta-

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bilità e nella continuità degli impegni presi, una progressiva razionalizzazione dell’azione strategica, individuando in primo luogo gli obiettivi prioritari da affrontare e correggendo progressivamente la situazione sino ad ottenere una piena coerenza strategica tra obiettivi, mezzi e azione. Quale priorità? Malgrado la molteplicità e la complessità delle molte minacce potenziali o in atto, si ritiene che l’attenzione debba oggi concentrarsi sul problema del terrorismo internazionale, non tanto perché esso costituisca la minaccia maggiore da un punto di vista meramente quantitativo le sue effettive dimensioni, quantoma piuttosto: per il forte fattore di disgregazione e di instabilità che esso alimenta nel sistema internazionale (e particolarmente in aree di grande importanza strategica, quali quelle del Medio Oriente, del Golfo, del Caucaso, del Sud Est asiatico, dell’Africa sahariana e sub-sahariana); per gli alti costi che esso fa pesare sulla libertà e fluidità delle comunicazioni e degli scambi, anche per i maggiori oneri assicurativi e per gli ostacoli associati al rafforzamento dei controlli; per l’alto impatto mediatico e politico che gli attentati terroristici hanno sulle nostre società, in particolare quando puntano al massacro indiscriminato. Se si concentra, in particolare, l’attenzione sul terrorismo internazionale di matrice radicale islamica, occorre prendere atto che uno degli obiettivi primari nel mirino dei terroristi, forse secondo solo alla conquista del potere attraverso la destabilizzazione della presenza occidentale nel mondo islamico, è quello della sicurezza e delle libertà tipiche dei sistemi democratici liberali, da cui il titolo sintetico dato a questo documento. Si tratta di un fenomeno mutevole, di lungo periodo, globale, che si esprime però in mille volti locali; caratteristica questa che rende difficile l’individuazione precisa dei suoi obiettivi strategici e apre di fatto un dibattito circa la strategia di contrasto. Risulta perciò problematico per i responsabili politici stabilire quali siano i criteri per valutare l’efficacia della risposta, anche perché il terrorismo, o meglio l’azione terroristica, è uno strumento, non un nemico, né una strategia.


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La natura di questaella minaccia, fra l’altro, non è univoca. Essa si articola in modo molto differenziato a seconda se si prende in esame: la minaccia di origine interna e internazionale esercitata in aree di importanza strategica diverse dall’Europa o dagli USA (in particolare nel “grande” Medio Oriente); la minaccia endogena di gruppi terroristici già presenti sul nostro territorio e composti sia di immigrati recenti che di immigrati di seconda o terza generazione o di “convertiti”; le minacce altamente distruttive basate sull’impiego di mezzi convenzionali o non convenzionali; le minacce altamente distruttive basate sull’impiego di armi o tecniche di distruzione di massa (nucleari, biologiche, chimiche e radiologiche). In ogni caso, secondo una logica consolidata nell’affrontare le minacce, una efficace strategia anti-terrorista dovrebbe articolarsi, da un punto di vista operativo, in una componente difensiva ed offensiva: e in una componente difensivaGgli obiettivi di una efficace strategia anti-terrorista di carattere offensivo dovrebbero includere quan l’individuazione e la neutralizzazione delle organizzazioni terroristiche; l’intercettazione e il blocco del loro sistema di comunicazioni, dell’apparato logistico e dei canali di finanziamento; la sterilizzazione dei canali di reclutamento e la distruzione dei campi di addestramento dei militanti; l’individuazione e la distruzione di eventuali capacità di minaccia e impiego di armi di distruzione di massa l’individuazione e la distruzione preventiva di eventuali capacità di minaccia o impiego di armi di distruzione di massa; una forte azione di non proliferazione e controproliferazione nei confronti dei soggetti statuali. Da un punto di vista difensivo, d’altro canto, sembra quanto meno necessario: accrescere la protezione degli obiettivi critici (in particolare quelli legati al normale funzionamento delle nostre società e del loro sistema economico e politico); rendere sempre più efficaci e tempestivi gli interven-

ti tesi a circoscrivere e limitare le conseguenze di eventuali attentati e a ristabilire una situazione di normalità; diminuire tendenzialmente l’impatto del terrorismo internazionale sul buon funzionamento del sistema, sia in termini di tempi e costi sia in termini di solidarietà e di consenso; .evitare, comunque, misure preventive di contrasto che, pur apparentemente efficaci a breve termine, potrebbero essere a lungo termine controproducenti qualora prestassero il fianco a interpretazioni che le vedano come una implicita vittoria del terrorismo. Risulta evidente da quanto qui elencato che una tale strategia non può essere definita in termini puramente militari, né può essere ridotta ad una equazione bellica classica, bensì richiede la messa in comune di risorse molto diverse (civili e militari) secondo una strategia globale in cui le operazioni militari possono giocare un ruolo solo marginale. Questa è una cosa non facile, che pone ai nostri Paesi difficili problemi politico-costituzionali ed operativi. Diventa, ad esempio, impossibile distinguere chiaramente tra uno stato di guerra e uno stato di pace (anzi, non è probabilmente possibile parlare di guerra, ma nello stesso tempo non si può neanche fingere che il sistema internazionale sia in pace). La lotta al terrorismo internazionale si svolge in una situazione intermedia, di “crisi”, che crea forti tensioni sia con le procedure del tempo di pace che con quelle del tempo di guerra. E’ tuttavia necessario evitare che prenda il sopravvento una delle due logiche estreme (pace o guerra), poiché in ogni caso ciò renderebbe più difficile, più costosa e meno efficace qualsiasi strategia anti-terrorista. Da un punto di vista organizzativo, peraltro, ciò suggerisce la necessità di integrare operativamente strumenti diversi tra loro (militari, di polizia, civili), secondo logiche proprie della “grande strategia” sperimentata nei nostri Paesi durante i periodi di “guerra totale”, ma con modi e mezzi che di necessità dovranno essere molto diversi da quelli sperimentati all’epoca della coscrizione obbligatoriamobilitazione di tutta la società per combattere le “grandi guerre totali”. In questo contesto è molto importante la definizione

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di obiettivi positivi da perseguire. Nessuna operazione di questa importanza può infatti sperare di avere successo se non riuscirà a convincere e coinvolgere la maggioranza delle popolazioni interessate, sia all’interno del mondo occidentale che nei Paesi delle aree più colpite e di maggiore importanza strategica. Si tratta, in pratica, di togliere l’acqua al pesce terrorista. Da questo punto di vista è certamente positivoappare determinante l’avvio di un discorso globale sui diritti umani e civili e sull’affermazione di sistemi politici democratici, a condizione naturalmente che si tratti di un discorso credibile e che finisca per essere percepito come tale dalle popolazioni direttamente interessate. Ma è anche necessario allargare questo discorso ad altri temi quali l’affermazione di una maggiore equità in campo economico, la difesa della salute e dell’ambiente. In altri termini, di fronte ad un messaggio totalizzante come quello terrorista, è necessario proiettare una risposta con un alto livello di credibilità e di completezza.

2. CONVIVERE COL TERRORISMO Il terrorismo internazionale di matrice radicale islamica è un fenomeno mutevole, di lungo periodo, globale, che si esprime però in mille volti locali. Questa sua caratteristica rende difficile l’individuazione precisa dei suoi obiettivi strategici e apre di fatto un dibattito circa la strategia di contrasto. In sostanza, risulta problematico per i responsabili politici stabilire quali siano i criteri per valutare l’efficacia della risposta perché il terrorismo è uno strumento, non un nemico, né una strategia. Come detto in precedenza, Certamente, uno degli obiettivi primari del terrorismo internazionale di matrice radicale islamica nel mirino dei terroristi, forse secondo solo alla conquista del potere attraverso la destabilizzazione della presenza occidentale nel mondo islamico, è quello di distruggere ella sicurezza e delle libertà tipiche dei sistemi democratici liberali. Pertanto, se rimane difficile definire cosa sia la vittoria contro questo fenomeno, si può invece essere certi che l’auto-mutilazionelimitazione del sistema politi-

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co liberale, pur invocata da diverse parti nel nome della sicurezza, rappresenti una sconfitta certa. L’eventuale adozione di misure eccezionali indiscriminate per applicazione e durata rischierebbero infatti di rappresentare un regalo al terrorismo, creando uno scenario da “scontro di civiltà” e quindi la mobilitazione delle masse islamiche. Questo non vuol dire che non debbano essere prese alcune misure che limitino lo sfruttamento da parte degli avversari delle tipiche “fallevulnerabilità” presenti in una società aperta. Si deve essere coscienti che con l’11 Settembre 2001 si è aperto un contrasto destinato a durare probabilmente molti anni, che richiede una serie di risposte di breve e lungo periodo, ovvero l’impostazione di una vera e propria politica di contrasto. Vanno conseguentemente rigettate misure frettolose e mal congegnate legate alla cultura dell’emergenza o dettate dalla tendenza’esigenza populista di “mostrare i muscoli”. Vi sono, invece, una serie di politiche efficaci nel contrasto a questo fenomeno che si possono intraprendere senza stravolgere le libertà civili ed individuali. Sicurezza e libertà non sono due termini in contrasto, anzi: in quanto ad effetti. Infatti la sicurezza garantisce unla vera libertà e l’affermazione dei principi di libertà garantisce che la sicurezza non sia fine a se stessa o ad un progetto di dominio, ma strumentale al godimento dei diritti civili e alla libertà economica. Però le misure di sicurezza, aumentando controlli e regole, comprimono lo spazio di libertà. Le misure di lungo periodo riguardano un mix di politica estera e di difesa e di politiche interne e di gestione dei fenomeni migratori. La politica estera deve negare per quanto possibile dei “safe heavens” ai terroristi, ovvero zone in cui si possano impunemente basare, addestrare, condurre politiche di ideologizzazione e reclutamento su vasta scala. E’ evidente che tale obiettivo è perseguibile non a livello nazionale, ma solo tramite la collaborazione dei tradizionali alleati occidentali, nonché delle popolazioni e leadership non radicali dei paesi potenzialmente coinvolti nel fenomeno. La politica mediorientale deve perseguire attivamen-


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te lo spegnimento dei focolai di crisi che pur indirettamente favoriscono o “giustificano” l’operato di sostegno ideologico alla causa del terrorismo islamico. In questo quadro, il rifiuto della logica dello scontro di civiltà può contribuire a neutralizzareridurre la forte carta identitaria giocata della minoranze radicali. La politica interna non può essere basata solo su misure di polizia, controllo e repressione, che pur vanno marginalmente rafforzate, procedendo in particolare ad una razionalizzazione complessiva degli apparati di sicurezza. La politica dell’immigrazione deve puntare ad uUn ragionevole controllo del flusso migratorio, teso a garantire l’effettiva integrazione dei soggetti coinvolti, anziché la loro marginalizzazione in nome del mito del multiculturalismo, contribuirebbe al rafforzamento degli anticorpi necessari per evitare la propagazione del radicalismo armato nelle minoranze etnico/religiose presenti in Europa. Va, però, tenuto presente che, solo se accompagnata dal contrasto verso la propaganda estremista, questa politica potrebbe impedire o, per lo meno, ridurre significativamente il reclutamento all’interno dell’ormai ampia presenza di immigrati islamici presenti in Occidente. In particolare, è necessario impedire che, sotto la copertura della professione religiosa, nelle moschee e nei luoghi di aggregazione si svolgano azioni di propaganda e reclutamento a favore del terrorismo islamico. Dal punto di vista tattico, il fenomeno va contrastato essenzialmente con azioni di intelligence, rivolte più alla prevenzione del crimine che non alla sanzione dello stesso secondo i criteri tipici dell’investigazione giudiziaria. Ciò coinvolgerà essenzialmente l’intelligence, senza trascurare la possibilità di, e che comunque possano costituire premessa di operazioni “covert” di “intervento chirurgico” qualora la situazione dovesse aggravarsi. In ogni caso, va perseguitoa, possibilmente a livello europeo ed internazionale, nonostante la sua evidente difficoltà dato che i terroristi per gli uni sono combattenti per la libertà per altri, il chiarimento della portata giuridica del fenomeno terroristico, teso a ridurre l’attuale discrezionalità interpretativa della una definizione giuridicamente uniforme di “terrorismo”, in

modo da evitare i dubbi espressi da parte della magistratura sul considerare “terroristi” i guerriglieri. Le infrastrutture critiche e i nodi sensibili delle reti vannoGli obiettivi sensibili possono essere parzialmente “induriti”, pur sapendonella consapevolezza che la sicurezza assoluta è impossibileun miraggio e la difesa deve essere studiatale misure di prevenzione vanno attuate in termini di rapporto fra costi e benefici. In quest’ottica si dovrebbero riportare alla piena efficienza alcune infrastrutture “protette” realizzate durante la guerra fredda e poi trascurate per ragioni di costo. La miglior difesa è dinamica e legata alla prevenzione dell’attacco, individuando i possibili perpetratori, piuttosto che perseguendo la difesaprotezione “a pioggia” di ogni possibile obiettivo, troppo costosa e tendenzialmente irrealizzabile senzasenza anche se si imporrenesse un qualche tipo di “stato di polizia”. Sul piano tattico non sembrano esistonoere misure di deterrenzaprevenzione e contenimento completamente efficaci, in particolare di fronte ad fenomeni di attacchi suicidi, ma anche, più in generale, poiché difendere un obiettivo rende più facile l’attacco ad un altro.. Si deve poi agire per moderare i danni nel caso in cui un attacco venga portato a segno con successo. Si tratta non solo di limitare le perdite umane e i danni materiali, ma anche e soprattutto gli effetti psicologici immediati e di lungo periodo. In tal senso, è cruciale l’impostazione di una strategia di comunicazione istituzionale di emergenza che serva a contrastare il panico, rassicurare la popolazione e creare un clima di fiducia nelle istituzioni che possa arginare iniziativereazioni emotive. Le autorità dello Stato (e, in particolare, la Presidenza del Consiglio, datao l’inevitabile natura interministeriale sia della fase preventiva, sia dell’eventuale fase successiva ad una crisi) devono essere pronte all’evenienza e mantenere il completo controllo della situazione. In quest’ottica andrebbe perseguita a tal fine la messa a punto di un codice deontologico, basato sull’adesione volontaria dei mezzi di comunicazione di massa, teso a garantire un’informazione quanto più completa e obiettiva, ma scevra da sensazionalismi e inizia-

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tive che, amplifichinoando il fenomeno, stimolandoino o favorendo iniziativeanche reazioni incontrollabili da parte della popolazione e amplifichino il terrore, facendo il gioco dei terroristi. La cultura della sicurezza si crea con una strategia della comunicazione istituzionale che deve operare continuativamente ed essere rivolta, con modalità differenziate, a tutti i settori della popolazione. I mezzi di comunicazione devono essere coinvolti in una campagna di prevenzione e di diffusione di una cultura della sicurezza non allarmistica. Di qui l’opportunità di organizzare anche una serie di incontri con i direttori delle testate per concordare le modalità per la diffusione delle informazioni nell’eventualità di un attacco terroristico e, soprattutto, per preparare la popolazione alla realtà degli attentati. I danni e le perdite che possono provocare sono trascurabili di fronte ai più gravi incidenti ricorrenti come ad esempio quelli automobilistici (nei soli Stati Uniti 45000 morti all’anno contro i circa 3000 dell’11 settembre). E’ in gran parte responsabilità del sistema politico garantire che ciò avvenga, impegnandosi a sua volta a mantenere un comportamento responsabile e, soprattutto, a non strumentalestrumentalizzare eventuali attentati in un’ottica elettorale. Un accordo informale fra maggioranza e opposizione in una logica bi-partisan darrebbe un preciso segnale al Paese e costituirebbe una solida base per far sì che la gestione di un’eventuale crisi potesse svolgersi con maggiore efficacia e senza dannose ed inutili polemiche. Per ora il terrorismo è di tipo convenzionale e produce danni dello stesso ordine di grandezza delle grandi catastrofi naturali o antropiche (gli incidenti industriali come quello di Bhopal o Cernobyl). Se, però, riuscisse a disporre di WMD-Weapon Mass Distruction, diventerebbe apocalittico. Dato l’impatto potenzialmente devastante di un attacco sul piano economico, si devono prevedere una serie di misure tese a supportare la fiducia del sistema finanziario e produttivo in seguito all’evento. L’impostazione di regole note, condivise dagli operatori economici, dovrebbe garantire l’assorbimento di contraccolpi anche duri, quali potrebbero essere quelli generati da un attacco catastrofico, potenzialmente

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anche con armi non convenzionali. Inoltre, va rivista la politica delle assicurazioni, garantendo una maggiore e migliore copertura integrativa da parte della collettività, pur nel rispetto della logica di mercato. Attualmente, in Italia invece,(a differenza degli altri maggiori paesi europei che hanno stabilito specifiche leggi in materia e degli Stati Uniti dove dal 2002 è in vigore il TRIA-Terrorism Risk Insurance Act) non è stato risolto il problema della collaborazione pubblico-privato per far fronte al rischio terrorismo). lLa quasi totalità delle coperture assicurative verso le persone e verso i beni materiali non coprono eventi di questa natura, facendo ricadere sui singoli o su interventi pubblici mirati il costo di ogni eventuale risarcimento. Una politica preventiva e di lungo periodo, distribuita su tutta la comunità, come potrebbe essere realizzata attraverso l’estensione delle coperture assicurative, ridistribuirebbedepotenzierebbe le conseguenze economiche negative degli attacchi terroristici, riducendone l’impatto complessivo. Le misure sinora esposte, pur nella loro generalità, si riferiscono specificatamente alla realtà italiana. Lla dimensione internazionale del fenomeno, però, impone che vi sia uno stretto collegamento non solo fra le risorse nazionali, ma anche a livello internazionale. La sistematizzazione delle forze operanti in Italia (strutture di intelligence, apparati di polizia e vigilanza, magistratura, sistemi di gestione delle crisi, difesa civile…) è quanto mai necessaria non solo per garantire l’efficacia e l’efficienza del sistema di contrasto nazionale, ma anche per consentire unala corretta collaborazione con gli omologhi apparati degli alleati. La cooperazione internazionale è un elemento irrinunciabile per il successouna strategia di vittoria; le divisioni politiche ed operative fra i possibili paesi coinvolti non possono che generare una distinzione fra obiettivi “duri” e “morbidisoffici”, offrendo quindi maggiori opportunità ai terroristi. In generale, la strategia terroristica si configura come una tattica asimmetrica dal debole al forte che può essere contenuta e sconfitta con misure razionali di prevenzione, gestione e limitazione del danno. La sconfitta del terrorismo deriva dall’isolamento e dal progressivo prosciugamento dell’area nella quale reclu-


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ta i suoi adepti, in modo che le loro perdite superino i rimpiazzi e diminuisca il numero di fiancheggiatori e di simpatizzanti. Il miglior alleato del terrorismo sono le nostre inefficienze e le nostre paure: una politica responsabile deve essere capace di agire su questi due fronti ridurre loper negare ai nemici ogni spazio di manovra delle organizzazioni terroristiche all’interno delle nostre società. 3. IL QUADRO EUROPEO La caratterizzazione internazionale del nuovo terrorismo impone una risposta che necessariamente travalichia i confini nazionali. Tenuto conto degli obiettivi di questo terrorismo, lLa solidarietà euro-atlantica deve rimanere alla base di ogni iniziativa politica ed operativa di contrasto. Da questa angolazione, quindi, è comprensibile come E’ questo uno dei motivi per cui gli Stati Uniti vedaono con preoccupazione le divisioni fra paesi europei e l’attuale fase di incertezza in cui sono caduti i 25 a causa dei problemi insorti nella ratifica del Trattato Costituzionale firmato a Roma. Si deve quindi evitare che il rallentamento dell’integrazione politica e istituzionale dell’Unione Europea possa avere un impatto negativo sulla cooperazione in materia di sicurezza e difesa, quanto mai necessaria alla luce delle nuove sfide internazionali alla stabilità, tradizionali e di nuovo tipo. L’esigenza determinata dalla lotta al terrorismo internazionale richiede anzi di anticipare alcune misure previste dal Trattato -Costituzionale, tramite decisioni unanimi del Consiglio Europeo o, al limite, iniziative ad hoc supportate da un nucleo ristretto di paesi “willing and able”, pur in una logica inclusiva e cioè aperta a unadi successiva integrazione nell’acquis communautaire. Si dovrebbe rendere operativa la “Clausola di Solidarietà” prevista dal Trattato, definendo una serie di misure pratiche che trasformino il suo forte significato politico in un risultato tangibile e visibile agli occhi dei cittadini europei. Lo sviluppo logico della clausola di solidarietà dovrebbe portare alla costitu-

zione in ambito europeo di una struttura comune con elevata capacità antiterroristica, costituita dal pool delle forze speciali dei diversi Partners. A somiglianza di quanto deciso ad Helsinki per il Corpo d’Armata Europeo per gli interventi di tipo Petersberg, anche in questo caso si dovrebbe procedere definendo: compiti; struttura e composizione dell’Unità da costituire; organismi di gestione a livello politico ed a livello militare; tempi di approntamento per l’intervento; durata dell’impegno; tempi di realizzazione; modalità d’intervento. Si dovrebbe poi procedere a definire i contributi offerti dai singoli Partners (offerte di capacità) ed alla progressiva messa a punto dello strumento secondo i tempi di realizzazione previsti. L’integrazione nel settore della difesa prosegue comunque sia all’interno della logica comunitaria che tramite iniziative intergovernative fra i Paesi europei più coinvolti. L’Agenzia Europea Difesa è, forse, l’esempio più promettente di anticipazione di una struttura prevista dal Trattato, a condizione che venga e andrebbe sfruttato interamente il suo potenziale di motore dell’integrazione operativa ed industriale delle realtà nazionali, attualmente frammentate. La messa a sistema delle diverse realtà nazionali è uno dei nodi di una riforma del settore della sicurezza e difesa in Europa, divenuta irrinunciabile alla luce dei più recenti avvenimenti. Si deve poi proseguire nello sviluppo di iniziative di settore più limitate, ma di grande interesse, quali la cooperazione delle forze operative e di quelle di polizia militare, come la Gendarmeria Europea. A livello intergovernativo va ricordato lo sforzo di cooperazione fra le Marine Militari per il monitoraggio del Mediterraneo, misura necessaria per la sicurezza anche in funzione antiterroristica e di controllo dell’immigrazione clandestina dalla sponda sud del Mediterraneoi fenomeni migratori. Le attività di natura non strettamente militare che ricadono sotto il cappello nell’ambito della sicurezza

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hanno visto recentemente anche un maggiore attivismo da parte della Commissione Europea. Si tratta di un settore nuovo per le Istituzioni europee, le quali, pur con qualche difficoltà iniziale, stanno convogliando risorse economiche di una certa entità a favore dell’operatività del concetto di sicurezza del cittadino europeo. I programmi allo studio sono orientati al contrasto del fenomeno terroristico, in particolare nella sua dimensione tecnologica. Un ulteriore settore di competenza europea, oltre che nazionale, riguarda le politiche di non proliferazione di armi nucleari, chimiche e batteriologiche. E’ sempre più necessario rilanciare il rafforzamento della cooperazione e del consenso politico internazionale nella lotta al terrorismo: l’Unione Europea deve posizionarsi come credibile attore di sicurezza, migliorando i suoi tradizionali meccanismi d’attrazione, essenzialmente di natura economica ed istituzionale, e dotandosi di quegli strumenti operativi anche di natura militare di cui ancora non dispone in misura adeguataa sufficienza. Le iniziative di difesa sono necessarie, ma non sufficienti e certamente non focalizzate al contrasto al terrorismo. Bisogna quindi favorire le iniziative già in corso di sviluppo di una politica di sicurezza comune, che agisca nei settori della prevenzione, controllo, cooperazione di polizia e giudiziaria e soprattutto condivisione di intelligence a tutti i livelli. Il rapporto transatlantico, fondamento della sicurezza comune, beneficerebbe largamente di un Europa unita, forte e capace. Anzi, volendo considerare il mezzo-pieno del bicchiere europeo piuttosto che quello mezzo-vuoto lasciato dalla mancata ratifica del Trattato Costituzionale, si potrebbe addirittura giungere al paradosso che il rallentamento dell’integrazione politico-istituzionale dell’Unione porterà ad un sostanziale miglioramento delle relazioni transatlantiche. La politica di difesa europea, pur con lentezza, sta evolvendo positivamente, anche a prescindere dalle formule (Berlin-plus) e dalle ratifiche dei trattati. Ciò vale da Saint Malo, e Amsterdam e Helsinki in avan-

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ti, e i progressi compiuti confermano che il processo è costante. Il tutto può essere guardato di buon occhio da Oltre Atlantico, dove certamente si vedono i vantaggi di una maggiore capacità militare europea, senza dovere per questo pagare lo scotto, anche economico, di trovarsi di fronte un’Europa graniticamente unita sotto il profilo politico, e quindi potenzialessibile concorrente. E’ una situazione che potrebbe affrancare gli Stati Uniti da parte dei propri doveri “in and around Europe”, consentendo loro di dedicare maggiori risorse al restante scenario mondiale. E, forse, favorire anche una loro maggiore disponibilità nella cessione ai paesi europei di tecnologie e know-how. Gli Stati Uniti guardano con attenzione alle risorse e agli sforzi che gli europei mettono in campo nel settore della difesa per contenere il gap esistente fra le due sponde dell’Atlantico, ritenendo questi elementi gli indicatori chiave della serietà del vecchio continente a proporsi come affidabile partner nel settore della sicurezza. In buona sostanza, volendo considerare il mezzo-pieno del bicchiere europeo piuttosto che quello mezzo-vuoto lasciato dalla mancata ratifica del Trattato Costituzionale, si potrebbe addirittura giungere al paradosso che il rallentamento dell’integrazione politico-istituzionale dell’Unione, qualora prosegua però il processo volto a sviluppare le capacità militari comuni, porterà ad un sostanziale miglioramento delle relazioni transatlantiche.

4. I RISCHI PER L’ITALIA

E LE AZIONI DA INTRAPRENDERE

Nel nuovo scenario di minaccia globale contro l’Occidente e i suoi valori anche l’Italia si trova esposta ad un maggiore livello di rischio. Lo è in quanto parte della comunità occidentale e in quanto presenta, come gli altri paesi già colpiti da azioni terroristiche, le condizioni oggbbiettive e soggettive perché possa avvenire. Viviamo in una società aperta che, in quanto tale, assicura un’ampia libertàpossibilità di movimento sul territorio e attraverso i suoi confini e di comunicazione.


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Sta diventando una società multietnica in cui la presenza sul territorio di immigrati legali e illegali offre maggiori occasioni di contatti e di reclutamento, oltre a creare l’indispensabile retroterra logistico per ogni eventuale azione terroristica. E’ meta di forti flussi turistici, il che contribuisce a rendere più difficile l’attività di prevenzione in quanto deve risultare compatibile con le conseguenti esigenze di movimento e deve misurarsi con una più facile mimetizzazione degli eventuali attentatori. Sul piano operativo l’Italia sconta soprattutto tre limitazioni: l’irrisoltoil mai risolto problema della molteplicità delle forze di polizia e di una loro attività e direzione integrata; il mancato potenziamento ed efficientamento dei servizi e la loro riqualificazione per far fronte alle nuove minacce; un quadro giuridico che non favorisce l’incisività delle azioni preventive e che è reso più vulnerabile da un certo bizantinismo giudiziario, più o meno ideologicizzatopoliticizzato, che vede troppo spesso prevalere la forma sulla sostanza e che prevede un sistema di garanzie difficilmente compatibili con la lotta al terrorismo, quale, fino all’estate scorsa, la poco chiara distinzione fra terroristi e guerriglieri. Fino all’11 settembre tutto era più semplicechiaro all’interno del binomio “Sicurezza e Difesa”. Sebbene si intravedessero già allora le aree di sovrapposizione cui abbiamo già fatto cenno, “sicurezza” aveva un suo significato, che era diverso da quello di “difesa”. Dopo l’11 settembre è opportuno intendersi meglio sul linguaggio, perché una difformità di interpretazione potrebbe portare a difformità di provvedimenti, considerato che le aree di sovrapposizione sono sicuramente aumentate non solo tra i compiti delle forze dedicate all’una o all’altra funzione, ma anche nello stesso interno di ciascuna funzione. Persino discutendo di Europa può ancora capitare di sentir equivocare tra PESC e PESD, mentre qui da noi il solo pronunciare i due termini del binomio porta ancora la nostra mente ad una netta suddivisione tra aree di competenza, con le Forze di Polizia ,e SISDE e Protezione Civile che vanno automaticamente a col-

locasi nell’isola “Ministero degli Interni”, mentre SISMI e Forze Armate, con circa 20.000 dei 116.000 Carabinieri, restano nell’isola “Ministero della Difesa”. Immaginiamo poi la Presidenza del Consiglio, che tuttavia non dispone di un organo adatto e permanente, che elabora le direttive per temperare le sovrapposizioni, esaltare le sinergie, disseminare le informazioni utili ad entrambe le funzioni, coordinandone le attività concorrenti. La “guerra totale” al terrorismo ha però complicato di molto attività e competenze, rendendo vitale, per esempio, lo scambio di informazioni tra le due funzioni in tempo reale, evidenziando l’esigenza di un’organizzazione informativa orizzontale, a retecomplanare piuttosto che verticalizzata. Già da questo la necessità di un riordino risulta evidente, come pure evidente risulta che ciò è impossibile senza un uso generalizzato delle cosiddette Information Technologies e senza un preliminare censimento delle Agenzie e delle categorie di attività dove è necessario intervenire con mezzi aggiornati allo stato dell’arte, per renderle colloquianti ed immediatamente “leggibili”. E’ un lavoro lento, paziente, costoso e difficile, cui tuttavia non è possibile sottrarsi, pena il pericolo di rimanere vittime di una massa di informazioni preziose, che probabilmente contengono tutti i dati di interesse, ma che rimangono negli archivi e nelle memorie dei computers per incapacità di analisi comparata in tempo reale. Una situazione del genere deve essere accaduta negli Stati Uniti l’11 settembre se, subito dopo, conosciute dolorosamente alcune chiavi di lettura, in pochissimi giorni è stato possibile risalire a nomi, date ed eventi. Non si tratta, tuttavia, di un discorso che riguarda, come potrebbe in prima analisi sembrare, la disponibilità di particolari tecnologie. E’ un discorso che riguarda cultura, mentalità e strutture. Le tecnologie esistono, e sono già in possesso o comunque accessibili anche alla nostra industria. Il problema è che non sembrano inquadrate in una strategia nazionale onmnicomprensiva, in qualcosa di simile ai concetti che, negli Stati Uniti, hanno condotto agli studi effettuati con largo supporto dell’industria, delle Università e

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degli Istituti specializzati, studi sfociati poi nella decisione di costituire un apposito dipartimento per la Homeland Security. Senza una strategia che serva da indirizzo comune almeno per l’applicazione delle tecnologie già note si rischia di disperdere risorse ed accontentarsi di scarsi risultati, come appunto sta accadendo in Italia, pur disponendo, come abbiamo già ricordatoosservato, di un addetto alla Sicurezza mediamente ogni 100 abitanti. Abbiamo considerato tutti ed in più occasioni, anche nelle precedenti edizioni del documento curatoe dal Comitato Difesa 2000, come la particolare natura della guerra globale al terrorismo renda indispensabile affrontare le tematiche operative, siano esse di polizia o militari, con fantasia e spirito innovativo, nella consapevolezza che dobbiamo pianificare non solo come conseguire la capacità di affrontare le minacce presenti, o quelle più probabili, ma anche quelle imprevedibiliignote, o meno probabili, che potrebbero presentarsi in un futuro che non conosciamo, ma che dobbiamo sforzarci di immaginare. Se ne siamo convinti e la volontà di fare c’è davvero, allora anche noi, pur nei nostri limiti, dobbiamo avere il coraggio di darci degli obiettivi e coordinare tutte le risorse, materiali e di pensiero, per mettere ordine e d avviare gli adattamenti indispensabili, compresi quelli culturali e strutturali. Ciò che è possibile fare in termini di razionalizzazione nell’area della Difesa lo si sta facendo, con risultati già osservabili, ma non è solo la difesa a dover essere “razionalizzata”. In effetti, sembra meno accessibile alla nostra conoscenza, presumibilmente per la particolare delicatezza del settore, ciò che si sta facendo o si intenderebbe fare per eliminare le fascie di sovrapposizione, adattare alle nuove esigenze e finalmente razionalizzare anche le aree della Sicurezza e dei Servizi. Vero è che ultimamente abbiamo visto dei risultati significativi, per quanto riguarda gli aspetti operativi, anche nelle azioni preventive anti-terrorismo e, specie tra le forze dsi polizia “con le stellette”, si notano sforzi e progressi assai interessanti nell’ambito del Comitato di Coordinamento. E’ però difficile cancellare l’impressione che si tratti più della buona volontà e dello spirito di collaborazione dei singoli operatori, piuttosto che di nuovi assetti struttura-

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li derivanti da una effettiva presa di coscienza nazionale. A questi elementi di debolezza si è aggiunta più recentemente un’accentuazione della polemica interna sulla presenza delle nostre Forze Armate in Iraq. Mentre è evidente che la scelta di contribuire alla ricostruzione di un quadro di stabilità in Iraq aumenta la nostra visibilità, non è sostenibile che questa sia questa l’unica causa di rischio. O, meglio, potrebbe tendenzialmente diventarlo proprio nel momento in cui si dovesse dare all’esterno l’impressione che, in caso di sconfitta elettorale dell’attuale maggioranza nella prossima primavera, vi sarebbe un immediato ritiro delle nostre truppe. In questo caso, secondo il modello già sperimentato in Spagna, si offrirebbe un ulteriore specifico incentivo ad un attacco di tipo terroristico contro obiettivi italiani. Fermo restando il diverso giudizio sull’opportunità di mantenere una presenza militare, sarebbe auspicabile un atteggiamento di grande prudenza nel manifestare la volontà di attuare una exit strategy che rischierebbe di assumerebbe i connotati di una fuga da parte del nostro paese e destabilizzerebbe la situazione in Iraq e nella coalizione.. Quest’ultimo problema ripropone, più in generale, il tema della mancanza di una cultura della sicurezza che dovrebbe basarsi innanzi tutto sulla definizione degli interessi nazionali e sulla loro assimilazione come patrimonio indivisibile della nostra comunità. Quello che manca sembra essere soprattutto la consapevolezza dell’ineluttabilità del processo di globalizzazione e della conseguente necessità di accettare tutte le sfide che implica. Fra queste, vi è anche l’interdipendenza del quadro strategico la cui stabilità rappresenta anche un preciso interesse nazionale. Di qui la necessità di essere disponibili a offrire comunque un forte contributo al suo mantenimento. Ciò non significa necessariamente che questo contributo debba avvenire necessariamente tramite un intervento di tipo militare, ma, nello stesso tempo, non lo può escludere. Si tratta in sostanza di essere coerenti nella scelta dei comportamenti con quanto stabilito dal capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite che prevede “anche” l’intervento armato su decisione del Consiglio di Sicurezza nei con-


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fronti di chi, Stato, organizzazione, movimento, rappresenti una minaccia immanente alla pace ed alla sicurezza della società mondiale. E, comunque, ogni intervento ha un costo che la comunità nazionale deve affrontare. Si è, invece, allargata nel nostro paese una concezione “isolazionista” sempre più concentrata sui problemi interni, in un’ottica che privilegia il particolare sul generale. All’interesse nazionale viene così contrapposto quello locale fino ad arrivare a quello individuale nell’illusione di poter sfuggire alle conseguenze della globalizzazione. Ma qui non si tratta di una diversa impostazione etica e politica. Bisogna comprendere che la sicurezza è globale o semplicemente non esiste e che la sicurezza è il presupposto di ogni forma di sviluppo economico e sociale. E’, quindi, verso una radicata consapevolezza del rapporto fra sicurezza e sviluppo che dovrebbero essere concentrati gli sforzi per costruire una più chiara identificazione degli interessi nazionali. Se la sicurezza è un nostro interesse primario, bisogna assegnarle la giusta priorità in termini di obiettivi da perseguire e di attenzione nell’attività politica. Parlamento e governo non sembrano fino ad ora aver operato in questa direzione. La politica di sicurezza e difesa raccoglie poca attenzione ancor prima che poco consenso. Il dibattito si accende, per lo più a livello emozionale invece che razionale, solo in occasione di attentati che ci ricordano l’esistenza del terrorismo o delle decisioni sul proseguimento della nostra partecipazione militare ad operazioni di mantenimento della pace. Prima di affrontare operativamente i problemi connessi con le nuove minacce bisognerebbe, quindi, fare crescere nel paese e nei decisori politici la consapevolezza della strategicità della sicurezza per la sopravvivenza del nostro sistema di vita e di valori. Senza di essa risulta molto difficile, se non impossibile, ipotizzare che si possano superare le resistenze ai necessari cambiamenti organizzativi e giuridicilegislativi e che vi siano destinate le necessarie risorse umane e finanziarie. La tutela della sicurezza presenta, infatti, per il nostro paese un duplice profilo di intervento: quello della sua impostazione e gestione e quello della sua messa in

opera. Vi sono, quindi, numerosi nodi ancora da sciogliere. In prima approssimazione si possono ricordare: Una migliore organizzazione dell’attività del governo, puntando a rafforzare il ruolo del Presidente del Consiglio dei Ministri e a definire più chiaramente le responsabilità in termini di sicurezza/difesa civile/protezione civile. Il potenziamento dell’attività di supporto alle decisioni, creando presso la Presidenza del Consiglio una nuova struttura che sia la base di un sistema decisionale nazionale in grado di avvalersi anche delle capacità delledelle di tutte le singole Amministrazioni ed organismi (in pratica un Consiglio per la Sicurezza Nazionale a carattere interministeriale); questo supporto dovrebbe avere un carattere di continuità e fornire costantemente elementi di valutazione, nonché simulazioni sulle conseguenze delle minacce alla sicurezza e delle scelte governative sia sul piano strategico, sia su quello tattico, nonché definire le strategie, anche di comunicazione istituzionale, da adottare. L’impostazione di una politica dell’informazione per fronteggiare crisi ed emergenze che contemperi il diritto all’informazione con la necessità di evitare allarmismi e panicoreazioni incontrollabili. La definizione di un più chiaro quadro giuridico per tutto ciò che attiene l’attività di prevenzione e repressione del terrorismo, sia sul territorio nazionale, sia in ambito internazionale. La predisposizione di un quadro di tutela economica contro le conseguenze delle azioni terroristiche che ne limiti la portata attraverso una distribuzione collettiva e temporale dei costi e la creazione preventiva di fondi utilizzabili in caso di necessità. L’attribuzione di adeguate risorse al comparto della sicurezza e difesa in un quadro di programmazione certa, evitando un triplice rischio: quello degli interventi contingenti volti solo a sanare le carenze più evidenti, quello di trasferire risorse dagli equipaggiamenti al personale dimenticando che l’efficienza è data da un loro rapporto equilibrato e, infine, quello di trasferire risorse dalla difesa (strumento militare) alla sicurezza (forze di polizia) dimenticando che la minaccia non è né esterna, né interna, ma globale.

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La riorganizzazione dei Servizi in modo da assicurare una maggiore efficienza anche attraverso il coordinamento delle attività sul territorio nazionale e all’estero, nel campo della sicurezza e in quello della difesa; in quest’ottica risulterà indispensabile una diversa politica di reclutamento e di crescita professionale in modo da valorizzare adeguatamente le capacità individuali. La riorganizzazione delle forze di polizia (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Guardia Costiera) sviluppando una logica interforze analoga a quella delle Forze Armate, anche se inevitabilmente limitata dalla divisione in più Amministrazioni. Non va, infatti, dimenticato che, sulla carta, le dimensioni delle nostre forze di polizia ci collocano ai primi posti delle classifiche internazionali con circa un uomo ogni cento abitanti. Ma questo non si traduce in una presenza più capillare perché vi ostano numerosi fattori: eccessivi compiti burocratici, eccessiva rigidità nell’impiego del personale, eccessivo utilizzo delle scorte, duplicazioni e sovrapposizioni nell’impiego di uomini e negli equipaggiamenti fra le diverse forze con una preoccupante tendenza alla

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concorrenza soprattutto nei sistemi di maggiore complessità, squilibrio nella distribuzione territoriale. In quest’ottica sembrerebbe, inoltre, utile predisporre un “Libro Bianco” sulla sicurezza che fornisca al Parlamento e all’opinione pubblica un quadro più preciso delle attuali forze, della loro organizzazione, dei mezzi a disposizione e della loro attività. Su questa base sarebbe più facile avviare un confronto sulle azioni da intraprendere per aumentare l’efficienza di questo settore. Si deve prendere atto che, nonostante siano passati quattro anni dall’11 settembre, stenta ancora a prendere corpo la consapevolezza dei rischi che stiamo correndo e della necessità di adottare tutte le misure necessarie per prevenirli o attenuarne la portata o gestirli nel momento in cui dovessero concretizzarsi. Una nota positiva è venuta dall’approvazione del pacchetto di misure presentate dal Ministro degli Interni, ma l’elenco delle azioni da intraprendere è ancora lungo e, purtroppo, supera quello dei problemi risolti. Non è un compito della maggioranza, qualunque essa sia, ma dell’intero paese. Ma, soprattutto, è un compito che non può essere ulteriormente rinviato.


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