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Lavoro e libertà Aldo Corgiat
D
a sfruttati a produttori. Lessi quel libro di Bruno Trentin, scritto nel 1977, quando avevo 18 anni, con l‘orgoglio e il senso di appartenenza di chi si sentiva Produttore. Pochi mesi dopo iniziava il mio impatto con il mondo del lavoro, il lavoro vero. La prima busta paga, con la consapevolezza che sarebbe arrivata tutti i mesi e che, con essa, sarebbe cambiata anche la mia identità sociale. Allora lavoravo in Pirelli. Contratto gomma plastica. Delegato Fulc a 20 anni. Prima tessera del Pci in tasca dopo essere stato militante del Manifesto - PDUP. Ci credevo davvero. Da sfruttati a produttori: nonostante che i mezzi di produzione continuassero ad essere saldamente in mano al capitale e i rapporti di forza chiaramente a svantaggio della classe operaia. Sarà stata la gioventù o la forza dell’ideale (e dell’ideologia) ma sembrava che tutto potesse andare nella direzione giusta. Gli operai finalmente padroni del proprio destino. Ricordo i lunghi dibattiti con chi nel sindacato si era già messo avanti con il lavoro e compilava tabelle per la saturazione degli impianti, concordava nuovi orari concedendo sabati e domeniche lavorate, parlava di mercati internazionali, di competitività, di concorrenza. La fabbrica era anche degli operai e questo comportava nuove responsabilità e disponibilità. Gli operai erano “classe generale” e dunque dovevano farsi carico dei problemi globali della società e del sistema paese, in cambio avrebbero aumentato il loro potere che già si stava affermando attraverso il ruolo del Partito e del Sindacato. Mi permetterete, credo, questa sintesi un po’ irriverente di un dibattito ricco e pieno di complessità e contraddizioni da risolvere ma espressione di un’elaborazione collettiva, di un pensiero condiviso che ti faceva crescere. Poi il mondo cambiò in fretta. In poco più di un decennio avvennero sconvolgimenti politici epocali e destinati a fare la storia. Le identità vennero seppellite dalla globalizzazione galoppante iniziata alla fine degli anni 90 principalmente nei settori della finanza, dell’energia e delle telecomunicazioni. Si affermava, anche e soprattutto
a sinistra e nel pensiero razional-progressista, il nuovo credo liberista nato dalla teoria economica dei vantaggi comparati e secondo il quale tutto poteva essere messo in discussione. Il pensiero, per il mondo capitalistico occidentale, divenne unico e sistemico. I mercati, liberi da restrizioni pubbliche e nazionali e dunque finalmente perfetti, potevano assumere pienamente il proprio ruolo messianico di regolatori e selezionatori dello sviluppo. Prima venne il mercato finanziario, il numero uno, quello più semplice e pronto da globalizzare. In pochi nano secondi, si potevano spostare capitali immensi e realizzare profitti altrettanto grandi. Le società preesistenti iniziarono un processo di aggregazioni e fusioni e più in generale di concentrazione delle governance detenute a loro volta da società holding finanziarie, che a tutt’oggi non può considerarsi ancora concluso. Nuovi prodotti finanziari venivano creati senza sosta con un intreccio perverso tra assicurazioni, banche, sistemi di garanzia. Utilizzando la teoria dei frattali era possibile ottenere remunerazioni, per singola transazione, sempre più tendenti allo zero e quindi concorrenziali ma su quantità tali da rendere potenzialmente infiniti i profitti. Poi vennero i mercati delle merci. I cosiddetti paesi in via di sviluppo erano le mete dei nuovi pionieri. L’età dell’oro e dell’occupazione delle terre dell’Ovest erano state sostituite dall’apertura di joint venture nei paesi dell’est Europa, in Cina, nel sud est asiatico. Le merci non avevano più confini (o quasi) un solo grande mercato consentiva di consumare prodotti a prezzi sempre più bassi confezionati a migliaia di Km. di distanza. L’enorme flusso di merci e di trasporti intercontinentali alimentava manco a dire il mercato finanziario e i più svariati sistemi di finanziamento dell’economia. Poi fu la volta del mercato dei servizi, e si incontrarono le prime difficoltà “nazionali”. La direttiva Bolkestein, dopo vent’anni, ancora oggi fa fatica ad affermarsi. Nei servizi la produttività è più scarsa e difficilmente raggiungibile solo con investimenti tecnologici. In molti servizi le persone sono ancora indispensabili per assicurare qualità e “umanità”.