IoArch 20 years Special Issue

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ioArch20

Anno 20 | Giugno 2025 euro 12,00 Numero Speciale ISSN 2531-9779

NUOVA COLLEZIONE PIETRA EDITION

LE PIETRE ICONICHE DEL MEDITERRANEO DECODIFICATE DA DEKTON

Meaningful Design to Inspire People’s Lives

RIVESTIMENTO

Tre sistemi, infinite soluzioni.

Sistema Pareti 30 - 60 - 90. Acustica. Flessibilità. Modularità. Estetica.

Parete 90 con masselli nell’intercapedine e porte battenti, tutto in essenza.

SOMMARIO

ioArch Special Issue

19. BIENNALE DI ARCHITETTURA DI VENEZIA

10 Intelligens. Natural. Artificial. Collective. | CARLO RATTI

12 Padiglione Italia | GUENDALINA SALIMEI

14 Biotopia. Architettura vivente | THE WHY FACTORY, FEDERICO DÍAZ

16 Ancient Future. Bridging Bhutan’s Tradition and Innovation | BIG

18 Cantico Tiberino | LABORATORIO ROMA050

20 La bilancia delle risorse | PADIGLIONE DELLA SPAGNA

22 Heatwave | PADIGLIONE DEL BAHRAIN

24. TRIENNALE MILANO

24 Inequalities | STEFANO BOERI REPORT di Aldo Norsa

28 Vent’anni di imprenditoria di progetto | ASTI DODI MOSS GBPA ISOLARCHITETTI POLITECNICA TECNICAER NOVECENTO

42 Casa Tabarelli. Abitare un capolavoro | ALEXANDER ZOEGGELER

52 Viaggio a Chandigarh | SILVIA MONACO

SOMMARIO io Arch Special Issue

ARCHITETTURA

60 Vent’anni di Architettura in Italia | LUIGI PRESTINENZA PUGLISI

112 Vent’anni di Architettura nel mondo | CARLO EZECHIELI

154 Sondaggio critico

170 Premio Dedalo Minosse | MARCELLA GABBIANI

DESIGN

176 Vent’anni di Design in Italia | PIERLUIGI MOLTENI

182 I campioni del Design

188 Artigianato e Industria 4.0 | MONICA E GIUSEPPE PEDRALI

190 Ecologia, estetica e colore | CLAUDIO FELTRIN

192 Un secolo di Design con lo sguardo al futuro | MARIA PORRO

194 Design che ascolta, ricerca che vive | FRANCO CAIMI

196 Cinque risposte per un mondo ibrido | HENNING FIGGE

Direttore editoriale

Antonio Morlacchi

Direttore responsabile

Sonia Politi

Advisor

Giulia Floriani

198 Approccio olistico al benessere | RICCARDO TURRI

200 Mondi paralleli | RAFFAELLO GALIOTTO

202 La narrativa del luogo e del prodotto | LISSONI GRAPHX

204 La semplicità è un sistema complesso | ANDREA GARUTI

206 Elegia della luce | JACOPO ACCIARO

In copertina Illustrazione di Javier Mayoral, as known as Pulpbrother pulpbrother.com

Contributi

Jacopo Acciaro, Luisa Castiglioni

Carlo Ezechieli, Alessia Forte

Marcella Gabbiani, Roberto Malfatti

Pierluigi Molteni, Silvia Monaco

Aldo Norsa, Matteo Pericoli

Mario Pisani, Luigi Prestinenza Puglisi

Elena Riolo, Alexander Zoeggeler

Grafica e impaginazione

Alice Ceccherini

Marketing e Pubblicità

Elena Riolo elenariolo@ioarch.it

Editore Font Srl, via Siusi 20/a 20132 Milano T. 02 2847274 redazione@ioarch.it www.ioarch.it

Fotolito e stampa Errestampa

Prezzo di copertina euro 12,00 arretrati euro 24,00

Abbonamenti (6 numeri) Italia euro 72,00 - Europa 116,00 Resto del mondo euro 182,00 abbonamenti@ioarch.it

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Reg. Tribunale di Milano n. 822 del 23/12/2004

Periodico iscritto al ROC Registro Operatori della Comunicazione n. 34540

Spedizione in abbonamento postale 45% D.L. 353/2003 (convertito in legge 27.02.2004 n.46) art. 1, comma 1 - DCB Milano ISSN 2531-9779

LA

FINO AL 23 NOVEMBRE

A VENEZIA DIVERSE FORME

DI INTELLIGENZA CONVERGONO

NELLE TRE SEZIONI TEMATICHE

DI UNA DELLE BIENNALI DI ARCHITETTURA PIÙ ATTUALI

E STIMOLANTI DI SEMPRE

PREFIGURANDO POSSIBILITÀ DI ADATTAMENTO DELL’AMBIENTE

COSTRUITO A UN MONDO ORMAI ALTERATO

BIENNALE DI CARLO RATTI INTELLIGENS. NATURAL. ARTIFICIAL. COLLECTIVE.

Il Terzo Paradiso è diventato un inferno afoso, con decine di condizionatori accesi sopra le vasche d’acqua circolari all’ingresso delle Corderie. È il primo segnale di una Biennale che chiama a raccolta tutte le forme di intelligenza per tornare a un’architettura che è sempre stata una risposta all’ostilità del clima e degli elementi naturali. Un’ostilità che, ben oltre i dati oggettivi e le previsioni più pessimistiche, si manifesta ovunque con incendi, alluvioni, siccità. L’approccio basato sulla mitigazione fin qui

praticato – spiega Carlo Ratti – non è più sufficiente. L’architettura deve ricollegarsi alla sua lunga storia di adattamento e ripensare la maniera di progettare in un mondo ormai alterato. Un ripensamento che è anche un invito alla collaborazione. L’Intelligens del titolo è un neologismo che include ‘gens’, le persone e, nel progetto e in questa 19esima Mostra Internazionale di Architettura, collettivi di esperti portatori di varie forme di intelligenza. Più di 750 partecipanti, di diverse generazioni

e discipline, convocati a Venezia attraverso la call interattiva e aperta Space for Ideas avviata da Ratti per presentare gli oltre 300 contributi in mostra nel percorso curatoriale. Una multidisciplinarietà promossa con spirito di ricerca e di indagine che si propone anche di abbandonare il tradizionale modello di autorialità che vede l’architetto come unico ‘creatore’, riconoscendo invece il contributo intellettuale di ogni collaboratore.

Così, al progetto Canal Cafè (Leone d’Oro per la migliore partecipazione alla Mostra) che, accanto alla gru idraulica Armstrong Mitchell, conclude all’aperto il percorso lungo gli spazi delle Corderie, Diller Scofidio + Renfro ha lavorato insieme agli ingegneri di

Natural Systems Utilities e dell’italiana Sodai. Per bere un caffè prodotto con chicchi Lavazza e acqua della laguna di Venezia filtrata da piante alofite (resistenti alla salinità) e sterilizzata con un bioreattore a raggi UV attraverso un processo di osmosi inversa. Un esempio di possibile adattamento a mutate condizioni ambientali.

Organizzate con esemplare chiarezza, le tre sezioni tematiche di Natural, Artificial e Collective Intelligence sono concepite ciascuna come uno spazio modulare e frattale che collega progetti di grandi e piccole dimensioni. All’avvio della sezione Collective, fino al 23 novembre, l’anfiteatro temporaneo Speakers’ Corner ospiterà talk di approfondimento.

In questa pagina, The Other Side of the Hill. Su un versante i mattoni raffigurano la crescita della popolazione mondiale sull’altro, un ammasso informe raffigura la dinamica di crescita delle colonie di microbi: incubo o possibile modello di adattamento per le città dell’uomo? (Beatriz Colomina, Roberto Kolter, Patricia Urquiola, Geoffrey West, Mark Wigley).

In alto nella pagina di sinistra Canal Cafè, Leone d’Oro per la migliore partecipazione alla mostra, e sotto, Terzo Paradiso Foto Marco Zorzanello, courtesy La Biennale di Venezia.

PADIGLIONE ITALIA

LO SPOSALIZIO CON IL MARE

LA CONDIZIONE DI SOGLIA TRA L’ITALIA E IL MEDITERRANEO

È IL TEMA DEL PADIGLIONE

ITALIA CURATO DA GUENDALINA SALIMEI

PER LA 19. BIENNALE DI ARCHITETTURA DI VENEZIA

Il ‘muro’ di tele e tubi Innocenti all’ingresso della prima Tesa è metafora delle cesure che interrompono la continuità tra terra e mare, la prima delle tematiche che la mostra Terrae Acquae ha affrontato con la call aperta a gennaio da Guendalina Salimei che ha portato a raccogliere gli oltre 600 contributi esposti, tra progetti realizzati, ricerche, elaborazioni visionarie e proposte ingegneristiche. La pluralità delle partecipazioni trova spazio nelle tre sezioni della mostra: il Censimento sul Presente, che espone progetti realizzati o in via di realizzazione in Italia; il corpus più voluminoso della Quadreria, insieme di progetti, visioni, riflessioni che suggeriscono come affrontare con maggiore consapevolezza la crescente complessità delle aree costiere; e, al centro della seconda Tesa, il Laboratorio della Ricerca, officina interattiva e interdisciplinare di approfondimento dei temi legati all’intelligenza del mare sviluppata in collaborazione con università, centri di ricerca e associazioni. Il mare ispira anche l’arte, con il bianco

cityscape composto di frammenti di vetro Long Winter di Marya Kazoun e i Paradisi di specchi infranti di Alfredo Pirri.

La mostra si completa con Mare Mosso, racconto fotografico di Luigi Filetici, le mappe geopolitiche di Laura Canali e Via Maris, affresco digitale sulla civiltà marinara dell’antropologo Francesco De Melis, realizzato grazie all’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura.

La visita si conclude all’esterno, con le casse di legno dell’Arca di Ulisse che un immaginario naufragio ha disperso sull’erba del Giardino delle Vergini.

Terrae Acquae è sostenuta da Banca Ifis, che l’1 giugno presso il proprio Parco Internazionale di Scultura di Villa Fürstenberg a Mestre ha ospitato l’evento di apertura del Public Program del padiglione, da Oice e da Fondazione Berengo. Sponsor tecnici Layher e Vibia ■

Guendalina Salimei
Foto
Karen Di Paola

Terrae Acquae

Commissario Angelo Piero Cappello

Curatrice Guendalina Salimei

Assistente Anna Riciputo

Team Giancarlo Fantilli, Luigi Filetici, Gianluigi Giammetta, Roberto Grio, Mariaugusta Mainiero

Comitato d’Indirizzo Silvia Botti, Laura Canali, Anna Lambertini, Beatrice Majone, Marzia Marandola, Ezio

Micelli, Rosario Pavia, Clara Tosi Pamphili

Comitato per la Ricerca Francesca Romana Castelli,

Alessandra Criconia, Anna Giovannelli, Maria Teresa Granato, Cristina Imbroglini, Domizia Mandolesi, Giovanni Pogliani, Laura Romagnoli

Staff Michele Astone, Federica Colanzi, Giulia Di Monaco, Roberto Sforza con Marco D’Andrea, Alberto Runco

Organizzazione generale Giulia Floriani con Flaminia Zanzi

Aspetti didattici ArchiDiAP - Sapienza Università di Roma

Allestimento Tstudio; Giammetta Architects

Progetto della luce Mario Nanni

In alto, la Quadreria del Padiglione Italia e il ledwall che proietta opere realizzate e in fieri. Sotto, le mappe geopolitiche di Laura Canali e il Laboratorio della ricerca nella seconda tesa. Nella pagina di sinistra il Muro Bicefalo, metafora delle grandi infrastrutture marittime, che accoglie i visitatori all’ingresso. Foto Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia, e Luigi Filetici

BIOTOPIA: PROPAGATIVE STRUCTURES

ARCHITETTURA VIVENTE

DIMENTICATE LA FORMA.

BIOTOPIA: PROPAGATIVE STRUCTURES

L’INSTALLAZIONE DI THE WHY FACTORY E FEDERICO DÍAZ PREFIGURA UN’ARCHITETTURA DI BIO-MATERIA CHE CRESCE, SI MODIFICA, MUORE E SI RIGENERA. COME AVVIENE IN NATURA

Immaginate città che diventano foreste, architetture che crescono come alberi e strade illuminate da luce bioluminescente dentro una grande spugna di bio-materia che cresce, si restringe e si rigenera. Una spugna che raffresca, filtra l’acqua, genera energia e ospita la vita. È la storia che racconta alla Biennale di Architettura il think tank e istituto di ricerca The Why Factory, guidato da Winy Maas presso la Delft University of Technology, con il film Biotopia, e che Federico Diaz mette in scena con l’installazione Propagative Structures, che dà forma scultorea all’idea di materia vivente in trasformazione continua.

Frutto di una lunga ricerca su biomimetismo, design algoritmico e strutture adattive, Propagative Structures propone un’architettura

che partecipa attivamente ai cicli ecologici. L’installazione si ispira alla resilienza e all’intelligenza dei sistemi naturali, come le reti di radici di mangrovie, per esplorare possibili modi con cui le strutture possano un giorno crescere, adattarsi e decomporsi come esseri viventi.

L’opera esposta in Biennale cattura un momento di questo processo in divenire: un’entità ibrida in cui la forma non è fissa, ma generata dall’interazione tra dati, materiali e ambiente e, come il film, suggerisce che gli habitat futuri potrebbero emergere non dalla costruzione, ma dalla coltivazione.

Biotopia: Propagative Structures è sostenuto da una sovvenzione del Creative Industries Fund NL ■

Foto ©Celestia Studio

BRIDGING BHUTAN’S TRADITION AND INNOVATION ANCIENT

FUTURE

ALLEANZA TRA UOMO, MACCHINA E INTELLIGENZA ARTIFICIALE

BIG PORTA IN BIENNALE ARTIGIANI BHUTANESI E ROBOT

CHE COLLABORANO NELL’INTAGLIO DELLE TRAVI DI LEGNO DEL FUTURO AEROPORTO DI GELEPHU

Mettendo al lavoro un esperto intagliatore bhutanese e un braccio fresatore robotico, le prime travi di legno lamellare del futuro aeroporto di Gelephu vengono scolpite in questi mesi in Biennale. Al termine della mostra di architettura di Venezia partiranno in aereo verso il piccolo regno himalayano dove la popolazione, forse attratta da una politica di sviluppo orientata verso l’Indice Lordo di Felicità anziché verso il Pil, è in crescita al pari del turismo internazionale, e diventeranno parte della diagrid del nuovo terminal. L’intaglio trasferisce sulla superficie del legno intricati disegni che riflettono l’identità e la spiritualità nazionale realizzati da artisti bhutanesi.

Ancient Future: Bridging Bhutan’s Tradition and Innovation , spiega Giulia Frittoli di Big, «mostra come la tradizione possa evolversi senza andare perduta. Tra una trave intagliata a mano e una lavorata a macchina la differen-

za si nota, ma le tecniche si sostengono a vicenda. L’intelligenza artificiale può aiutare l’artigianato, ma l’arte e le idee rimangono radicate nelle mani dell’uomo. Le opere d’arte create da artisti bhutanesi locali riflettono il passato, il presente e il futuro del Bhutan. Mostrano come la spiritualità, incorporata nell’architettura, porti avanti le storie e mantenga vivo il patrimonio all’interno dello sviluppo urbano contemporaneo».

La mostra di Big si completa con un documentario di Laurian Ghinitoiu e Arata Mori, anteprima di un film che verrà presentato in autunno. Attraverso sequenze alternate, il film contrappone gesti umani e robotici, intervallati da filmati del mondo reale del Bhutan, tra cui la musica, l’architettura e la danza tradizionali, in una coreografia visiva che parla del potenziale delle sinergie umane e algoritmiche ■

Ancient Future

Il team di Big Bjarke Ingels, Giulia Frittoli (partners-incharge), Luca Nicoletti, Filippo Dozzi, Filippo Cartapani, Kai-Uwe Bergmann, Anna Küfner, Anders Holden Deleuran, Alexandra Marie Gezelle, Camilla Trolle Lind, Michael Hagelund Hjorth, Lewis Edwards

Il team di Integrated Wood Processing Plant Thimphu Sangay Thsering, Yeshi Gyeltshen, Tashi Penjor, Ngawang Tshomo, Ugyen Doya, Tshewang Tezin

Il film Laurian Ghinițoiu, Arata Mori (registi), Yu Miyashita (musiche), Rob Walker (tecnico del suono)

Collaboratori FlexWood, Abb Robotics, Cnc Fabrikken, Bang & Olufsen, Arteria, Brick Visual Sostenitori The Bhutan Foundation, Pro Bhutan e.V., Roca, Schindler, Rockwool, Artemide, Tvitec | Cricursa, Vitra, Squint/Opera, Naco, StructureCraft, Turner Construction

Foto

CANTICO TIBERINO

LABORATORIO ROMA050

UNA VISIONE SUL FUTURO DELLA CAPITALE

IN BIENNALE E IN TRIENNALE LE PRIME ANTICIPAZIONI DEL LAVORO DI RICERCA CONDOTTO DA UN TEAM GUIDATO DA STEFANO BOERI

Venticinque anni è un arco di tempo abbastanza lungo per immaginare il futuro di una ‘metropoli mondo’, come il gruppo di lavoro definisce Roma, alla luce dei cambiamenti sistemici che investono il pianeta e delle future possibili esigenze della popolazione. Durata 18 mesi, la ricerca, promossa da Roma Capitale e dall’Assessorato all’Urbanistica con Risorse per Roma Spa, verrà presentata nelle prossime settimane al sindaco Roberto Gualtieri e all’assessore all’urbanistica di Roma Capitale Maurizio Velocci ma per il momento due anticipazioni sono in mostra a Venezia e a Milano.

Nell’ambito di Intelligens, l’installazione Cantico Tiberino si focalizza sul ruolo del Tevere e sulle sue potenzialità in termini di biodiversità quale possibile motore di rigenerazione sociale ed ecologica della città.

A Milano, tra le mostre della 24esima Triennale intitolata Inequalities, il Laboratorio

Roma050 presenta invece la riflessione che il gruppo di lavoro ha sviluppato sul ruolo dell’archeologia della capitale – ben più diffusa di quanto gli attuali percorsi turistici lascino intendere – quale possibile risorsa dinamica in grado di generare nuove economie e immaginari, così da redistribuire non solo i beni materiali ma anche il capitale simbolico e culturale della città.

«Due narrazioni ma un’unica visione – commenta Stefano Boeri – quella di una Roma che si confronta con il mondo portando il proprio patrimonio di complessità, stratificazione e innovazione nel dibattito internazionale sul futuro delle città».

Diretto da Stefano Boeri, il Laboratorio Roma050 è coordinato da Matteo Costanzo ed Eloisa Susanna con Giorgio Azzariti, Giulia Benati, Jacopo Costanzo, Margherita Erbani, Carmelo Gagliano, Susan Isawi, Riccardo Ruggeri, Marco Tanzilli ■

Foto
Marco Zorzanello, courtesy La Biennale di Venezia

Designed for Work. Inspired by architecture.

PADIGLIONE DELLA SPAGNA

LA BILANCIA DELLE RISORSE

CURATA DA ROI SALGUEIRO E MANUEL BOUZAS, INTERNALITIES ARCHITECTURES FOR TERRITORIAL EQUILIBRIUM ESPLORA IL CONTRIBUTO DELL’ARCHITETTURA PER RIDURRE LE ESTERNALITÀ ASSOCIATE AI PROCESSI PRODUTTIVI

La sala principale del padiglione della Spagna ai Giardini si apre con 16 progetti e 32 modelli – il primo alla scala costruttiva, il secondo alla scala territoriale – posti a due a due sui piatti di grandi bilance in legno (vedi foto in alto). I piatti sono in equilibrio, a evocare la volontà della nuova architettura spagnola di limitare i costi indiretti che qualsiasi attività di produzione di beni – e tra questi l’edilizia, responsabile del 37% delle emissioni globali di CO 2 – fa ricadere su persone e territori.

Sono le cosiddette ‘esternalità’ alle quali, guardando invece alla circolarità dei processi naturali, i curatori contrappongono il neologismo che dà il titolo all’esposizione. Perché se è vero che ogni volta che costruiamo un ambiente ne distruggiamo un altro, possiamo rispondere in maniera responsabile alle necessità di riparo e

di spazi da abitare impiegando materiali locali, rigenerativi e a bassa impronta di carbonio e riattivando il legame tra queste risorse e i paesaggi da cui provengono.

Tutti realizzati, gli edifici esposti fanno uso di diversi tipi di pietra (graniti, calcari, marés e ardesie), o varietà di legno (pino, abete, sughero, teak) scelte in base alle specie disponibili nei rispettivi contesti geografici, ricorrono a materiali provenienti direttamente dal suolo locale (argille, terre compattate o mattoni), incorporano fibre e isolanti naturali o sviluppano tecniche di urban mining. Esemplificano cioè almeno uno dei cinque temi che team di architetti e fotografi hanno affrontato – nelle altre sale del padiglione – studiando territori e risorse della geografia spagnola: materiali, energia, lavoro, rifiuti, emissioni ■

Foto ©Luis Díaz Díaz

Passion, Knowledge and Art. Since 1906, masters of natural stone.

PADIGLIONE DEL BAHRAIN HEATWAVE STRATEGIE PASSIVE DI RAFFRESCAMENTO NATURALE

LEONE D’ORO AL BAHRAIN PER L’INGEGNO CON CUI L’INSTALLAZIONE AFFRONTA LA DOPPIA SFIDA DELLA RESILIENZA AMBIENTALE E DELLA SOSTENIBILITÀ

Sabato 24 maggio in Bahrain la temperatura segnava già 43°C, e se in estate si superano i 50 gradi, è evidente che c’è un problema di sopravvivenza. Fin qui affrontato, negli sviluppi immobiliari di stampo occidentale, con impianti di aria condizionata e un imponente fabbisogno energetico che contribuisce a sua volta all’innalzamento delle temperature. Dimenticando l’intelligenza del passato, che aveva inventato le torri del vento per creare correnti d’aria e impiegava la condensa dell’umidità notturna per raffrescare le abitazioni. Lezioni riprese e ingegnerizzate nell’esposizione curata da Andrea Faraguna, con un grande

soffitto metallico radiante che copre l’intera superficie del padiglione.

L’aria che diffonde arriva – raffrescata da un percorso geotermico che l’ha portata a 20 metri di profondità – dalle colonne di metallo al centro dell’ambiente. Senza scambio acqua/aria, com’è ormai in uso ma come appare proibitivo in regioni aride come quelle del Golfo. Via via che l’aria immessa si riscalda, sale e esce da un camino. Il salto termico è evidente – la temperatura interna viene portata a 31-32 gradi – ma non è solo questione di numeri: la sensazione di benessere è data dal flusso ben calibrato dell’aria che esce da ogni piccolo foro.

Niente di nuovo? Non esattamente. L’esposizione in Biennale – per forza di cose in un ambiente interno – è solo un prototipo di un progetto di spazio pubblico. Il regno del Golfo immagina piazze, mercati e allestimenti temporanei per proteggere con questa tecnica – nuova nei calcoli precisi che determinano profondità, diametri e lunghezze dei condotti – coloro che si trovano all’aperto: una cosa che l’aria condizionata non potrà mai fare.

Commissario Khalifa bin Ahmed bin Abdullah Al Khalifa; espositori Andrea Faraguna, Wafa Al Ghatam, Eman Ali, Alexander Puzrin, Mario Monotti ■

Foto
Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia

A sinistra, sullo scalone del Palazzo dell’Arte l’installazione di Filippo Teoldi 471 Days. Sopra, immagini della mostra Cities che si concentra sulle diseguaglianze geopolitiche. Foto Alessandro Saletta e Agnese Bedini, Dsl Studio.

NEGLI STESSI GIORNI DELLA BIENNALE DI ARCHITETTURA DI VENEZIA SI È APERTA A MILANO LA 24. ESPOSIZIONE TRIENNALE INTERNAZIONALE. FINO AL 9 NOVEMBRE MOSTRE INSTALLAZIONI E PARTECIPAZIONI

NAZIONALI ESPLORANO LE DIMENSIONI GEOPOLITICA E BIOPOLITICA DELLE DISEGUAGLIANZE

24. TRIENNALE

«Le differenze segnano fin dall’inizio ciascuno di noi – dice Stefano Boeri presentando l’esposizione internazionale che si concluderà a Milano il 9 novembre – non solo per i geni che ereditiamo, ma per la famiglia, il luogo, la parte di mondo in cui veniamo alla luce. Possono agire come risorse identitarie o come catene da cui liberarsi» Inequalities, che conclude la trilogia avviata sei anni fa con Broken Nature e seguita nel 2022, apice del periodo nel quale l’umanità tutta si è confrontata con l’ignoto dei virus, da Unknown Unknowns, da un lato parla di città e spazi e dall’altro di corpi e vite. Elemento centrale dell’esposizione – fin dall’i-

dentità visiva, sviluppata da Giorgia Lupi con il suo studio Pentagram – i diagrammi che, in svariate forme, raffigurano diseguaglianze che si manifestano nel mondo. Diagrammi che si fanno disegni plastici in Forme di Disuguaglianze di Federica Fragapane, o installazioni, come ad esempio in 471 Days: i nastri rossi che Filippo Teoldi appende a fianco dello scalone d’onore del Palazzo dell’Arte contano giorno per giorno, dal 7 ottobre 2023 al 19 gennaio 2025, il numero di vittime del conflitto tra Israele e Hamas. Progetto collettivo che si interroga sulle sfide globali legate alle differenze presenti in vari ambiti dell’esistenza, la 24esima Esposizione

Internazionale di Triennale Milano – unica manifestazione culturale riconosciuta in via permanente dal Bie-Bureau International des Expositions – è composta da otto mostre e dieci progetti speciali che insieme occupano i 7.500 metri quadrati del Palazzo dell’Arte e molti spazi esterni. Il piano terra ospita le riflessioni sulla

In alto, all’ingresso della mostra Cities, curata da Nina Bassoli, l’installazione di Kimia Zabihyan Grenfell. Total System Failure Sotto, il team dei partecipanti. Foto Saletta e Agnese Bedini Dsl Studio.

Foto
Gianluca Di Ioia

In alto e a destra due installazioni della mostra We the Bacteria, curata da Beatriz Colomina e Mark Wigley.

Sotto, Forme di Disuguaglianza, di Federica Fragapane.

Foto Alessandro Saletta e Agnese Bedini, Dsl Studio.

dimensione geopolitica, riferite soprattutto al mondo delle città con la mostra Cities, a cura di Nina Bassoli, perché è nelle città, storicamente luoghi delle possibilità, che anche le differenze vengono esacerbate (a livello globale una persona su quattro vive in insediamenti informali senza accesso alle infrastrutture di base). Il primo piano è dedicato invece alle implicazioni biopolitiche delle diseguaglianze sociali, economiche e di genere, e in particolare alle abitudini, stili e aspettative di vita nelle società contemporanee, partendo dall’osservazione della biodiversità dei e nei corpi sociali, e considerando la loro diversa mobilità nello spazio. Tra i 28 curatori e curatrici che insieme hanno coinvolto 341 autori e autrici provenienti da 73 Paesi, per la prima volta anche le cinque università milanesi e più di venti istituzioni internazionali, tra cui Nazioni Unite, Arctic Center, Democracy and Culture Foundation, Columbia University, Norman Foster Foundation, Oficina del Historiador, Princeton University, Serpentine.

Venti le partecipazioni nazionali invitate dal Bureau International des Expositions a sviluppare contributi originali. Quella del Togo, un’ampia tenda fatta di jeans rotti che segna l’ingresso dello spazio dei progetti nazionali al piano terra, ci ricorda dove finiscono i rifiuti del fast fashion occidentale ■

Vent’anni di imprenditoria di progetto

Aldo Norsa

Già professore ordinario di tecnologia all’università Iuav di Venezia, associato al Politecnico di Milano, incaricato all’università di Firenze, a contratto all’università di Chieti e ricercatore all’università di Montréal, Aldo Norsa, master all’università di Princeton, è direttore scientifico della società di ricerca e consulenza Guamari di Milano, che anima l’annuale conferenza Tall Buildings e cura i Report on the Italian Architecture, Engineering and Construction Industry e il Rapporto Classifiche - le Prime 70 Imprese dell’Edilizia Privata www.guamari.it

Per ricostruire l’evoluzione del mercato dell’imprenditoria di progetto nell’arco di tempo ventennale di pubblicazione di ioArch è possibile far riferimento alle classifiche delle maggiori società di architettura elaborate da Guamari a partire dai dati di bilancio 2008. Per completare il quadro dell’offerta risalendo al 2005 occorre invece rifarsi alla Rilevazione annuale svolta precedentemente per conto dell’Oice a partire dal 1995.

Dalla rilevazione Oice 2005 “Il 2005 è stato un anno di significativo rafforzamento per l’offerta di ingegneria, architettura e consulenza tecnico-economica. Il quadro congiunturale è ben riassunto da alcuni numeri chiave, rielaborati (ed estrapolati) sulla base delle risposte fornite da un campione significativo di 206 aziende (su 471 associate Oice). Da anni il quadro dell’offerta non si presentava in contemporaneo miglioramento su tutti i fronti: l’acquisizione di contratti, il rimpolpamento del portafoglio ordini, la produzione e ancor più l’occupazione. Ecco alcuni numeri chiave del 2005 confrontati con le evidenze della rilevazione dell’anno prima. La produzione è cresciuta in valori correnti del 17,4% (a fronte del 3,5% del 2004) totalizzando 8.614,7 milioni: un livello che ha finalmente raggiunto il valore del 1992, quindi il massimo di una serie storica venticinquennale. L’attività all’estero (che incide per il 52,3% sul totale) è aumentata del 13% mentre quella in Italia è cresciuta del 22,7%. Ma in base all’andamento degli ordinativi è prevedibile che l’incremento futuro tornerà a privilegiare l’estero. Il dato più eclatante del 2005 è però l’ammontare dei nuovi contratti: dopo una riduzione del’11,4 e dell’11,9% (rispettivamente nel 2004 e 2003) l’importo (12.387,8 milioni) è ampiamente raddoppiato (più 108,9%). In valori deflazionati è non solo il più alto della serie storica ma vale il 12,6 percento più del picco segnato nel 1991. Con il risultato di invertire il rapporto con la produzione: se nel 2004 l’ammontare dei nuovi contratti era inferiore del 19,2% al fatturato cumulato, nel

2005 esso è superiore del 43,8 e fa presagire una futura accentuazione della crescita del fatturato (soprattutto all’estero).

Di conserva è tornato a crescere dopo due anni di ‘magra’ (in cui era diminuito del 17% nel 2004 e dell’11,3 l’anno prima) anche il portafoglio ordini a fine esercizio mettendo a segno un più 64,3 percento che lo riporta a un confortevole livello (17.618,7 milioni) più che doppio del fatturato annuo. Senza però ancora superare in valori deflazionati gli importi più alti raggiunti nel 1990 e 1991.

Infine altro indice positivo è per il quinto anno consecutivo il numero di addetti: l’incremento del 20,6 percento del 2005 è migliore del 14,8 del 2004 e soprattutto del 4,7% del 2003. I 22.411 dipendenti dichiarati superano il record di 22.150 del 1991.

L’exploit del 2005 si prolunga nel 2006 soprattutto nel settore energetico galvanizzato dai persistenti alti prezzi petroliferi nel mondo mentre il mercato nazionale resta caratterizzato

3 DOMANDE a 6 architetti

• Paolo Asti Asti Architetti - Milano

• Valentina Dallaturca Dodi Moss - Genova

• Federica De Leva GBPA - Milano

• Beatrice Gentili Politecnica - Modena

• Fabio Inzani Tecnicaer - Torino

• Saverio Isola Isolarchitetti - Torino

1 Secondo la rilevazione dell’Oice il 2005 era stato un anno particolarmente significativo per l’imprenditoria di progetto. Questa congiuntura favorevole aveva influito sulla decisione di fondare allora la sua società?

2 Come percepisce il cambiamento del mercato in questi vent’anni? E come vi si è adeguato l’approccio della sua società?

3 Qual è il progetto più significativo dei primi vent’anni anni di vita della sua società e quello a cui sta attualmente lavorando?

Tabella 1

Nella tabella e nei grafici l’andamento delle prime 50 società di architettura in Italia dal 2008 al 2023. I NUMERI DELLE

Elaborazione di Guamari

3

Per affinare l’analisi con i commenti di alcuni dei protagonisti degli ultimi vent’anni abbiamo scelto 5 primarie società di architettura (tra le prime duecento oggetto della più recente classifica di Guamari) la cui fondazione risale al 2005, e una di ingegneria che in quello stesso periodo ha deciso di aprire una divisione architettura. Tutte italiane malgrado proprio intorno a quegli anni si registri l’apertura in Italia di filiali di grandi società straniere, delle quali però solo David Chipperfield Architects è ancora attiva

dall’incertezza congiunturale: nel privato per la lenta ripresa degli investimenti fissi a fronte di un recente recupero della produzione industriale, nel pubblico per i contraccolpi dell’aggravata crisi finanziaria dello Stato

Le indagini Guamari

Già con riferimento al 2008, Guamari è in grado di delineare un quadro congiunturale attinente alla specifica offerta di servizi di architettura (anche quando integrati con quelli di ingegneria), più pertinenti agli interessi di questa rivista. Esso viene aggiornato ogni anno (attualmente al 2023, ultimo esercizio per cui sono disponibili i bilanci depositati) nel report The Italian Architecture, Engineering and Construction Industry (che include anche le prime 200 società di ingegneria e le prime 200 imprese di costruzioni).

In questa serie storica si nota che dopo sei anni di sostanziale staticità il valore della produzione

delle maggiori 50 società è sempre cresciuto fino a segnare un’impennata negli ultimi tre anni per effetto, nel mercato privato, del cosiddetto ‘Superbonus’. Probabilmente non più riscontrabile già nel 2024 malgrado la possibile alternativa di uno stimolo al mercato pubblico derivante dagli investimenti del Pnrr.

A livello reddituale l’andamento è leggermente meno lineare: se il trend di ebitda e utile netto delle top 50 è comunque positivo, il primo ha subito cali nel 2010, 2012 e 2019 e il secondo nel 2011, 2016 e 2019. In entrambi i casi i valori massimi sono stati raggiunti nel 2022 prima di registrare una frenata nell’ultimo anno.

dati
società,
Elaborazione di Guamari su dati di bilancio delle
società
Elaborazione di Guamari sui dati di bilancio delle società
Tabella

3 DOMANDE a 6 architetti

1 Secondo la rilevazione dell’Oice il 2005 era stato un anno particolarmente significativo per l’imprenditoria di progetto. Questa congiuntura favorevole aveva influito sulla decisione di fondare allora la sua società?

2 Come percepisce il cambiamento del mercato in questi vent’anni? E come vi si è adeguato l’approccio della sua società?

3 Qual è il progetto più significativo dei primi vent’anni anni di vita della sua società e quello a cui sta attualmente lavorando?

1 _ L’attività dello studio Asti Architetti è decollata grazie allo sviluppo del fenomeno del real estate in Italia e in particolare a Milano, avvenuto nei primi anni Duemila. Difatti, l’arrivo in Italia della finanza internazionale che ha investito nell’immobiliare e ha dato origine al real estate ha coinciso con la fondazione e la crescita dello studio.

2 _ Negli ultimi vent’anni ho sempre portato avanti un’attività mirata principalmente a trasformare il territorio in modo da rendere adeguati gli edifici alle esigenze del momento: esigenze che sono di tipo tecnico, architettonico, ma anche economico e di adeguamento di destinazione d’uso sulla base delle richieste di una clientela di natura istituzionale e finanziaria. La mia società si concentra sulla necessità di conferire valore agli immobili attraverso il progetto, precisando che il valore è sì economico ma in parallelo è anche di recupero del patrimonio e della qualità architettonica.

3 _ Nel 2008 ho recuperato con destinazione residenziale un ex-palazzo uffici a Milano in viale Premuda 28, rivoluzionandone la vocazione originaria e trasformandolo in residenze col completo rifacimento dei prospetti: un nuovo involucro di travertino a poro aperto

che ha conferito compattezza ed eleganza all’immagine d’insieme. Attualmente ho appena concluso il progetto di riqualificazione della Torre Velasca includente una nuova piazza pedonale. La facciata di questo grattacielo iconico della Milano moderna ha un linguaggio molto forte che per quanto mi riguarda chiamo brutalista; quindi è bastato riportarla a quella che era la sua immagine e al colore originari. Il lavoro di restauro non è stato tuttavia unicamente di natura estetica ma anche strutturale e ha comportato trattamenti specifici per potenziare la struttura costruendo una rete elettrosaldata che assicura la torre da rischi di cedimento. Il reale intervento progettuale che abbiamo potuto realizzare all’esterno ha riguardato invece il basamento della torre, da sempre vissuto dai cittadini come un “non luogo” che inevitabilmente non favoriva la creazione di un rapporto osmotico tra l’edificio e il quartiere. Abbiamo quindi disegnato uno spazio di rispetto alla torre stessa, una sorta di “sagrato laico” che allo stesso tempo ne esaltasse gli aspetti dimensionali e architettonici, favorendo il giusto rapporto di intrecci continui con la città

Paolo Asti Asti Architetti
Milano, l’attacco a terra della Torre Velasca, riqualificata da Asti Architetti. Foto Giacomo Albo.
Ph. ©Andrea Cherchi

In alto, l’Antico Mercato di Corso Sardegna a Genova. Accanto. Dodi Moss, foto di gruppo (quinta da sinistra, nella fila in basso, Valentina Dallaturca).

3 DOMANDE a 6 architetti

1 Secondo la rilevazione dell’Oice il 2005 era stato un anno particolarmente significativo per l’imprenditoria di progetto. Questa congiuntura favorevole aveva influito sulla decisione di fondare allora la sua società?

2 Come percepisce il cambiamento del mercato in questi vent’anni? E come vi si è adeguato l’approccio della sua società?

3 Qual è il progetto più significativo dei primi vent’anni anni di vita della sua società e quello a cui sta attualmente lavorando?

1 _ Fu nel 2004 che Enrico Dodi, Graham Moss, Egizia Gasparini, Mauro Traverso, insieme ad altre figure professionali molte delle quali tuttora nella compagine societaria, decisero di unire le proprie competenze specialistiche dando vita a Dodi Moss. Fin dalla fondazione il nostro è un gruppo multidisciplinare che si pone come unico referente per le amministrazioni pubbliche nello sviluppo di progetti complessi: una connotazione non comune nel quadro dell’offerta di architettura.

2 _ La società ha conosciuto un notevole sviluppo a partire dal 2016 con l’ingresso di nuovi soci/e (tra cui io stessa) che hanno contribuito a consolidarne il know-how e ad accrescere il portfolio grazie all’assegnazione, tramite gare e concorsi, di importanti incarichi pubblici. Proporre a una collettività spazi da utilizzare come principale esito del proprio progetto impone l’etica della qualità e della massima conoscenza del tema che si sta affrontando. “Collective visions, ethical projects”: in questa formula sta la presa di coscienza che nessuna disciplina è esclusa dal nostro fare. La società vive il cambiamento aggiornando i processi progettuali, adottando nuove tecnologie soprattutto quando è in gioco una nuova concezione del luogo di lavoro, sempre mantenendo centrale il tema della multidisciplinarità come approccio alla complessità.

3 _ Senza dubbio quello per la riqualificazione e valorizzazione dell’Antico Mercato di Corso Sardegna a Genova è stato l’innesco di numerosi altri progetti che affrontano i temi del restauro di beni vincolati e della loro interazione con il paesaggio urbano. Siamo anche impegnati nel proporre luoghi per il benessere e la vita all’aria aperta come il progetto Appia Regina Viarum, la valorizzazione del Cammino della Via Appia (600 chilometri da Roma a Brindisi, da percorrere a piedi) e come i progetti per la riqualificazione dei waterfront urbani di Brindisi, Oristano, Rimini, Savona.

Valentina Dallaturca

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3 DOMANDE a 6 architetti

1 Secondo la rilevazione dell’Oice il 2005 era stato un anno particolarmente significativo per l’imprenditoria di progetto. Questa congiuntura favorevole aveva influito sulla decisione di fondare allora la sua società?

2 Come percepisce il cambiamento del mercato in questi vent’anni? E come vi si è adeguato l’approccio della sua società?

3 Qual è il progetto più significativo dei primi vent’anni anni di vita della sua società e quello a cui sta attualmente lavorando?

Gbpa ha riconvertito l’ex-sede Tecnimont di viale Montegrappa oggi occupata da Amazon. Foto Oskar Da Riz.

1 _ Quando Antonio Gioli ha fondato la società Gbpa Architects il settore viveva una fase espansiva e ricca di fermento. Due anni dopo ho scelto di entrare a far parte di questa realtà, attratta da una visione che univa rigore, creatività e apertura internazionale. Da allora condividiamo la guida della società, in un percorso che ha saputo adattarsi con consapevolezza ai cambiamenti del contesto economico e culturale.

2 _ In vent’anni abbiamo vissuto trasformazioni profonde: nuove tecnologie, centralità della sostenibilità, digitalizzazione dei processi e una nuova concezione degli spazi di lavoro. Tutto questo ci ha portati a sviluppare un approccio progettuale sempre più integrato e multidisciplinare, attento al dialogo tra estetica, funzione e benessere delle persone. Oggi collaboriamo con investitori istituzionali e brand globali su progetti complessi, in Italia e all’estero.

3 _ Tra i primi progetti che ricordo con particolare emozione c’è la riqualificazione della sede Amazon a Milano, un intervento su un edificio iconico, da sempre percepito come parte integrante del paesaggio urbano della città. Si tratta di una soluzione progettuale dal forte impatto estetico e innovativo, che ha saputo coniugare il rispetto per la sua storia con una visione contemporanea. Attualmente siamo impegnati su nuovi edifici per uffici e residenze di alta gamma a Milano oltre a un centro esperienziale a Singapore (dove abbiamo una filiale): progetti che riflettono la nostra identità e la volontà di evolvere costantemente. Credo che il valore di Gbpa risieda nell’equilibrio tra solidità e visione, tra esperienza e ascolto. Ogni progetto è per noi un’occasione per sperimentare, raccontare e migliorare il modo in cui viviamo lo spazio. Perseguendo un equilibrio che, giorno dopo giorno, continua a nutrire il nostro approccio all’architettura.

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3 DOMANDE a 6 architetti

1 Secondo la rilevazione dell’Oice il 2005 era stato un anno particolarmente signifi cativo per l’imprenditoria di progetto. Questa congiuntura favorevole aveva influito sulla decisione di fondare allora la sua società?

2 Come percepisce il cambiamento del mercato in questi vent’anni? E come vi si è adeguato l’approccio della sua società?

3 Qual è il progetto più signifi cativo dei primi vent’anni anni di vita della sua società e quello a cui sta attualmente lavorando?

Gentili Politecnica

1 _ Politecnica ha una storia che supera i cinquant’anni ma è all’inizio degli anni Duemila che ha vissuto una svolta decisiva. Da società (cooperativa) con solide radici nell’ingegneria applicata alle opere pubbliche italiane si è scelto di investire nell’integrazione dell’architettura come disciplina fondativa di un approccio integrato alla progettazione. È stato l’inizio di un’evoluzione che ha messo al centro il progetto come strumento per migliorare la qualità della vita, già allora sintetizzato nel nostro payoff “Progettare per vivere meglio”, oggi divenuto “Building for Humans”.

2 _ Negli ultimi vent’anni il nostro impegno si è esteso in modo coerente su scala nazionale e internazionale, in ambito pubblico e privato, nel segno della sostenibilità, dell’ambiente e della centralità della persona. Come architetto ho vissuto in prima linea questo percorso aziendale: dalla crescita dell’area architettura e restauro fino all’attuale guida della direzione commerciale Italia. Abbiamo rafforzato competenze, relazioni, approccio integrato e visione internazionale, affrontando sfide complesse in contesti storici, urbani e infrastrutturali. Siamo cresciuti senza mai perdere di vista il senso del nostro lavoro: progettare spazi, infrastrutture e luoghi che migliorino la vita delle persone, dentro e oltre i confini, culturali e geografici.

3 _ Tra i primi interventi vorrei citare il recupero del Forte e del borgo di Bard è stato emblematico: un progetto che ha trasformato un sito vincolato in una struttura complessa e integrata, capace di offrire servizi culturali e turistici, valorizzando le sue potenzialità monumentali e ambientali. Gli interventi – attenti alla leggibilità dei manufatti, all’accessibilità e alla coerenza storica – hanno restituito nuova funzione e significato a uno dei luoghi simbolo della Valle d’Aosta. All’estero, il masterplan della Cittadella di Gozo (Malta) ha espresso la nostra visione di equilibrio tra architettura e paesaggio. A metà del nostro percorso il Centro Würth di Capena (Roma) ha rappresentato la sintesi perfetta tra logistica, cultura e benessere lavorativo, mettendo al centro la qualità degli spazi e delle relazioni umane. Oggi, Crif21 a Bologna è la nostra nuova icona: un progetto di rigenerazione urbana che fonde architettura, sostenibilità, comunità e futuro. Non è solo una sede direzionale, ma un hub verde e permeabile, aperto al territorio, capace di connettere spazi pubblici e privati, cultura e lavoro, persone e paesaggio. Un segno architettonico riconoscibile, pensato per ispirare e includere.

Politecnica, il centro Würth di Capena. Roma.

render

3 DOMANDE a 6 architetti

1 Secondo la rilevazionee dell’Oice il 2005 era stato un anno particolarmente signifi cativo per l’imprenditoria di progetto. Questa congiuntura favorevole aveva influito sulla decisione di fondare allora la sua società?

2 Come percepisce il cambiamento del mercato in questi vent’anni? E come vi si è adeguato l’approccio della sua società?

3 Qual è il progetto più signifi cativo dei primi vent’anni anni di vita della sua società e quello a cui sta attualmente lavorando?

1 _ Tecnicaer in realtà è stata fondata ben prima del 2005, quindi non in risposta diretta a quella crescita del mercato, che però è stata l’occasione per trasformare uno studio associato in società. Infatti, proprio in quegli anni si è reso necessario un profondo rinnovamento, sia umano sia tecnologico, per affrontare l’impennata della domanda in modo efficace. L’introduzione del Bim e l’evoluzione della domanda di architettura/ingegneria integrata hanno spinto la società ad aggiornarsi per mantenere una posizione solida e rispettata nel mercato.

2 _ In questi vent’anni il settore ha subito cambiamenti significativi: tempi di consegna sempre più stretti e richieste tecnologiche più elevate. Per rispondere a queste nuove esigenze, abbiamo costruito un team numeroso e strutturato, con competenze diversificate e ruoli ben definiti. Un’evoluzione necessaria, anche perché l’università fatica ancora oggi a formare figure realmente pronte per questo tipo di mercato.

3 _ Fin dall’inizio della nostra attività ci siamo concentrati su progetti utili alla comunità, con un’attenzione particolare alla sanità pubblica.

Oggi stiamo lavorando a uno dei progetti più importanti a livello nazionale, quantomeno dal punto di vista sanitario: “Torino Città della Salute”, all’interno del masterplan di sviluppo della zona urbana di trasformazione ex-AvioOval. Il progetto prevede la realizzazione di un nuovo polo ospedaliero e formativo, insieme a spazi dedicati alla ricerca, alla didattica e alla residenzialità. L’obiettivo è ricucire il tessuto urbano tra il Po e la ferrovia, valorizzando l’eredità dell’area Lingotto e creando un insieme armonico con il contesto esistente (che ha un particolare focus nel grattacielo di Regione Piemonte). Il nuovo ospedale sarà all’avanguardia: modulare ed espandibile, in grado di rispondere a situazioni di emergenza, sostenibile dal punto di vista energetico (grazie a fonti rinnovabili come l’acqua del sottosuolo) e progettato secondo i principali protocolli ambientali (Leed, Itaca, Breeam). Il complesso sarà anche altamente tecnologico, con largo uso di robotica e soluzioni digitali. Il contratto, appena firmato, si configura come una concessione venticinquennale dell’importo di un miliardo di euro.

Tecnicaer,
della futura ‘Città della Salute’. Torino.

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Isolarchitetti sta lavorando alla trasformazione di Torino Esposizioni. Foto Fabio Oggero.

1 Secondo la rilevazionee dell’Oice il 2005 era stato un anno particolarmente significativo per l’imprenditoria di progetto. Questa congiuntura favorevole aveva influito sulla decisione di fondare allora la sua società?

2 Come percepisce il cambiamento del mercato in questi vent’anni? E come vi si è adeguato l’approccio della sua società?

3 Qual è il progetto più significativo dei primi vent’anni anni di vita della sua società e quello a cui sta attualmente lavorando?

Saverio Isola Isolarchitetti

1 _ Il nostro interesse si è sempre rivolto piuttosto a coltivare alcuni filoni di ricerca e all’approfondimento di temi che riteniamo centrali nella contemporaneità, come il modo in cui sono cambiate le costruzioni e, più in generale, il mondo del costruito. La società è nata soprattutto per dare continuità alla ricerca che Roberto Gabetti e mio padre (Aimaro Isola, NdR ) avevano sviluppato negli anni e poi per unire attorno a questo progetto una serie di amici, collaboratori e partner. Con loro abbiamo creato una struttura che oggi si dedica soprattutto al restauro e alla valorizzazione dell’esistente più che alla costruzione del nuovo.

2 _ Più che sui vent’anni mi concentrerei sugli ultimi quindici. Dopo esserci cimentati anche con grandi progetti di housing, recentemente ci siamo spostati sempre più verso la valorizzazione del patrimonio costruito, con un’attenzione particolare al restauro e ai musei. Si tratta di un cambio di rotta che risponde non solo a una nostra inclinazione ma anche a un’evoluzione culturale e politica generale, in cui la rigenerazione urbana, il riuso e il risparmio del suolo sono diventati centrali. Un altro aspetto importante di questo cambiamento riguarda la nostra presenza nella fase di di-

rezione lavori, che nei primi anni veniva spesso affidata all’esterno, mentre oggi riteniamo fondamentale seguirla direttamente curando il progetto fino alla sua completa realizzazione. In passato ci accontentavamo di una direzione artistica, ma nel campo del restauro è spesso necessario introdurre varianti, affrontare scoperte e imprevisti che richiedono decisioni in corso d’opera. La nostra presenza costante in cantiere, soprattutto per la gestione delle varianti, è quindi diventata essenziale per garantire coerenza, qualità e fedeltà al progetto.

3 _ Uno dei progetti che considero più significativi dei primi anni della nostra attività è la realizzazione del grande headquarter Ibm a Segrate. Oggi invece stiamo lavorando a interventi di grande portata nel campo del restauro. Tra questi sono particolarmente legato alla trasformazione del Padiglione Nervi di Torino Esposizioni che diventerà la nuova biblioteca civica centrale della città. Un intervento straordinario, sia per dimensioni – 24mila metri quadrati – sia per impegno economico e culturale con un investimento di 100 milioni da parte del Comune per ridare vita a un capolavoro dell’ingegneria e dell’architettura moderna.

3 DOMANDE a 6 architetti

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In alto, il soggiorno con il soffitto in stucco colorato che segue il disegno dei muri. A destra, i muri si allungano verso l’esterno creando uno spazio in cui si fonde interno e esterno.

La casa, poco visibile dall’esterno, è inserita nel paesaggio e nel pendio con cinque setti murari costruiti senza sbancamenti e allineati ai filari della vigna.

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A metà degli anni Sessanta i coniugi Laura e Gianni Tabarelli de Fatis vollero coronare il sogno di costruirsi una casa in Oltradige, a Cornaiano, a pochi chilometri da Bolzano. I Tabarelli erano titolari di un noto negozio di mobili di design in viale Stazione a Bolzano e appassionati collezionisti di arte, una passione che curavano tanto quanto le amicizie con alcuni grandi esponenti dei movimenti artistici e culturali dell’epoca.

È attraverso Dino Gavina, uno degli imprenditori più importanti nel settore dell’arredamento e del design, che Gianni Tabarelli conosce Carlo Scarpa, che in seguito incaricherà della progettazione della loro dimora. Carlo Scarpa era già un architetto molto apprezzato, insegnava alla facoltà di architettura, ed era conosciuto anche per il suo attento approccio

con il territorio. La sua capacità di comunicare l’architettura con un metodo umano, personalizzato alle esigenze della committenza, l’approccio empatico, umanistico e poetico, oltre alla stima nei confronti di Scarpa furono i motivi per i quali i coniugi Tabarelli decisero di incaricare Scarpa della realizzazione del loro sogno.

Nel 1967, alla visita del terreno Scarpa esordì: «La casa sorgerà dai filari... e sarà tutta in legno...». Fu la signora Tabarelli a mettere in discussione questa prima idea spiegando le proprie esigenze pratiche di manutenzione e pulizia. Scarpa sviluppa allora un nuovo progetto, che prevede 5 setti murari che riprendono i filari delle vigne e, come i loro terrazzamenti, così anche la casa viene posta su livelli diversi a simboleggiarne l’andamento ripren-

CASA TABARELLI, BOLZANO
Il fronte sud.
Testi e foto di Alexander Zoeggeler

Gli ambienti seguono i leggeri dislivelli del terreno.

dendo anche le quote, articolandosi e piegandosi in base alle esigenze spaziali dei singoli ambienti e generando una gerarchia dello spazio in piani sfalsati ben distinti. In questo modo si percepisce il paesaggio circostante anche all’interno dell’edificio.

La casa viene divisa in tre zone parallele: il piano con soggiorno e sala da pranzo – nel quale si trova uno splendido spazio finestrato su tre lati al livello dell’entrata, il piano lavoro – dove troviamo la cucina, lo studio, i bagni, il corridoio e i disimpegni e infine la zona notte con le camere da letto dei proprietari e dei figli. Si percepiscono i dislivelli dei filari: il paesaggio, il giardino, le vigne e tutto ciò che circon-

da la casa entra nell’edificio e fa parte dello spazio abitativo. Gli sfalsamenti sono di poco, bastano un paio di gradini per raggiungere il livello successivo. I muri si allungano verso l’esterno creando uno spazio in cui si fonde interno e esterno. I prospetti nord e sud sono completamente vetrati e la pavimentazione si estende oltre lo spazio interno, creando dei piccoli giardini ad ogni livello.

Gli interni e l’arredo sono caratterizzati da elementi fissi e mobili. Gli stessi setti murari si spezzano, creano nicchie, vengono spostati, disassati, rimossi e tagliati in base alle esigenze delle destinazioni d’uso degli spazi stessi. Troviamo bay-windows che si affacciano sulla val-

le a ovest, nicchie pensate per ospitare librerie e un caminetto in cemento, di chiaro stampo wrightiano, che domina il soggiorno e che allo stesso tempo si tramuta in una seduta lungo tutto il setto centrale della casa.

La semplicità degli spazi viene spezzata da piccoli elementi di rottura che trasformano la sobrietà della pianta in poesia architettonica, fatta per essere percepita come un’esperienza dinamica, valorizzando l’ampiezza degli ambienti stessi. Gli arredi provengono dal negozio dei proprietari: quasi una collezione di mobili dei grandi maestri del design sapientemente accostati con eleganza. Non era intenzione dei coniugi Tabarelli voler creare un museo o uno

A destra, dall’alto.

Affaccio a sud; lo studio con la parete mobile divisoria e l’affaccio sul giardino a nord.

showroom espositivo, era per loro un’esigenza estetica circondarsi di oggetti belli.

La soluzione divisoria tra la camera matrimoniale e lo studio nasce da esigenze distinte dei committenti, che non vogliono rinunciare a un contatto visivo nemmeno quando sono immersi nelle proprie attività: alla signora Tabarelli piaceva leggere a letto quando il marito lavorava in studio fino a tardi. L’idea di creare una parete mobile, partorita da una collaborazione e uno scambio d’idee tra Sergio Los e il padrone di casa, finisce per diventare uno dei pezzi forti dell’abitazione. È un gioco di quadranti roteanti su assi diversi, orizzontali e verticali, che a seconda della posizione forma-

no enormi disegni di labirinti e aperture tra un ambiente e l’altro.

Casa Tabarelli non si mette in gioco con il panorama culturale locale, nè tantomeno con le architetture rurali limitrofe, ma interagisce direttamente con la morfologia del territorio usando un proprio linguaggio. Questa è forse la ragione per cui ci sono voluti più tentativi per arrivare alla concessione edilizia. Il problema principale era il tetto. Il primo progetto prevedeva un andamento che riprendeva il disegno delle pergole delle vigne, infine si è optato per un tetto unico, massiccio, che visto dall’interno segue le linee dei muri piegandosi a ventaglio, un disegno che nega l’ortogonalità della pianta e crea altezze diverse e inclinate che definiscono una gerarchia anche spaziale. I soffitti in spatolato veneziano si distinguono con colori forti e cangianti che evidenziano le triangolature create con questo gioco di forme. Per Scarpa una parte del tetto doveva sormontare l’altra e viceversa, la vista dall’alto del tetto non avrebbe dovuto avere linee parallele. Forse meno preziosa nella scelta dei materiali rispetto ad altre opere più famose di Carlo

Scarpa per i limiti economici imposti dai Tabarelli, la casa comunque dimostra un’attenta ricerca da parte del progettista e del committente che ha seguito i lavori quotidianamente di persona insieme a Sergio Los, allora assistente e collaboratore di Carlo Scarpa, che seguì la costruzione dell’edificio.

Pochi i materiali: setti murari in cemento armato in parte intonacati a grezzo, ardesia della

Il soggiorno con il caminetto in cemento di chiaro stampo wrightiano che domina l’ambiente e si tramuta in una seduta lungo tutto il setto centrale della casa.

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In queste pagine Atelier e Art Garage l’ampliamento di Casa Tabarelli realizzato da Walter Angonese con Francesco Flaim e Quirin Prünster. Uno spazio espositivo ipogeo che ospita la collezione dei Dalle Nogare e mostre temporanee. A destra il corridoio di collegamento sotterraneo con Casa Tabarelli.

La
letto con la parete mobile che la separa dallo studio.

CREDITI CASA TABARELLI

Località Cornaiano

Anno 1969 - Casa Tabarelli

Progettista Carlo Scarpa, Sergio Los

Val di Vizze e lo studio meticoloso per la posa dei pavimenti, grandi vetrate poste alle estremità dei setti e delle porte a tutta altezza. Queste permettono alla luce di passare attraverso l’intero edificio, fendendo gli spazi e dando luogo ad effetti di luce, di ombre e di riflessi sullo spatolato veneziano dei soffitti lisci e lucidi. I vetri colorati che troviamo in tutto l’edificio creano atmosfere e ambienti sempre

diversi e individuali. L’edificio è concepito come un organismo capace di fondere interno ed esterno allargando lo spazio abitativo creando una Gemütlichtkeit, un’intimità che ha permesso ai Tabarelli di sentirsi a casa. A pochi anni dalla scomparsa del marito la signora Tabarelli decide di vendere la casa, era diventata troppo grande e troppo piena di ricordi. Vi aveva vissuto 40 anni senza mai

Il giardino dell’Atelier e ArtGarage
(BZ)
PIANTA D’INSIEME
La copertura dell’Atelier e ArtGarage con la piscina; sullo sfondo il fronte ovest della casa.

cambiare nulla. Se ne vantava: «ogni anno dovevamo dare l’olio di lino a tutti gli infissi della casa, così come una volta all’anno toglievamo tutti i mobili e lavavamo i muri con la pompa dell’acqua. Ci siamo presi molta cura della casa e l’abbiamo fatto perché essa corrispondeva esattamente ai nostri desideri e bisogni». L’ampliamento. Atelier e Art Garage Nel 2012 la casa cambia proprietario. Giuseppe Dalle Nogare, noto imprenditore locale e appassionato collezionista d’arte, la acquista come se fosse un’opera d’arte, per intero, mobili e opere d’arte inclusi. Dalle Nogare non vede la villa come un museo, bensì come un’abitazione in cui vivere e gioire di ogni dettaglio. A distanza di un decennio acquista il terreno sottostante e incarica l’architetto Walter Angonese, con gli architetti Francesco Flaim e Quirin Prünster, di realizzare un ampliamento, Atelier e Art Garage, uno spazio espositivo ipogeo, per esporre la sua collezione e ospitare mostre temporanee.

I nuovi spazi, inaugurati nel 2024, sono com-

pletamente interrati e quasi invisibili dalla villa. Insieme all’architetto paesaggista portoghese João Nunes gli architetti sviluppano il giardino. In superficie si notano solo i setti murari che lo disegnano con poche linee pulite integrando anche un’elegante piscina stretta e lunga in cemento a vista che dà sulla valle, mentre il concetto globale dell’intervento incorpora l’ambiente adiacente tenendo conto delle viti, dei frutteti e delle siepi che lo circondano.

Una lunga rampa a gradoni di 70 metri collega la nuova struttura a casa Tabarelli sbucando con un pozzo di luce nell’ex locale caldaie. La scalinata funge da passaggio e collega quasi ogni stanza dei piani interrati. Sono le installazioni artistiche, realizzate appositamente in loco da artisti internazionali, che le conferiscono un carattere museale.

Le sale interrate non vogliono entrare in concorrenza con la villa, volutamente la nuova presenza rimane in seconda fila, quasi con un approccio di ‘non finito’.

L’intervento, oltre agli spazi espositivi ospita

anche un ampio garage e un magazzino. La casa è di nuovo in buone mani, ha trovato un degno erede che l’apprezza, la rispetta e la usa. Giuseppe Dalle Nogare vive in casa Tabarelli e organizza mostre e vernissage aperti al pubblico. Continua ad essere una delle architetture più affascinanti dell’Alto Adige che ora, con i nuovi spazi espositivi, potrà essere apprezzata da tutti ■

Località Girlan, Italia

Anno 2024

Stato costruito

Programma Atelier e Art Garage

Progettista Walter Angonese Architekt, Flaim Prünster

Architekten

Collaboratori Roberto Zanini, Martino Stelzer, Francesco Baggio, Jacopo Vantini

Architettura del paesaggio João Nunes

CREDITI ATELIER E ART GARAGE
Il soggiorno dell’Atelier e ArtGarage

CITTÀ DI FONDAZIONE

VIAGGIO A CHANDIGARH TRA PIANO URBANO E CITTÀ ABITATA

SETTANT’ANNI DOPO, LA VITA REALE DELLA CAPITALE DEL PUNJAB COESISTE CON LA NATURA ASTRATTA DI UN PROGETTO NATO PER VOLONTÀ POLITICA

E DISEGNATO SECONDO I PRINCIPI DEL RAZIONALISMO

Nelle immagini, il complesso del Campidoglio progettato da Le Corbusier negli anni 1952-56. In alto il Palazzo dell’Assemblea e la Torre delle Ombre. A destra interno della Torre delle Ombre. A sinistra dettaglio dell’Alta Corte di Giustizia.

Per chi ha studiato architettura negli anni Ottanta, Chandigarh è impressa nella memoria visiva attraverso le foto in bianco e nero del Complesso del Campidoglio sulle sudate pagine di un volume di storia. Poche immagini sgranate sufficienti per accendere il desiderio di visitare la città, prima o poi nella vita. Nel 2025, per prepararsi al viaggio, ci si può abbuffare e perdere in una sterminata bibliografia disponibile in rete. Ma nulla prepara davvero all’incontro fisico con la città e l’architettura.

Appena usciti dall’aeroporto, la strada verso il centro è la negazione assoluta dei principi della Carta di Atene: un rettilineo caotico dove veicoli e esseri viventi di ogni specie – camion, biciclette, tuk-tuk, pedoni e sacre mucche – si contendono e si scambiano le carreggiate.

Ci spiegano nei giorni successivi che questo fenomeno è un’applicazione del concetto filosofico di ‘spazio negativo’: uno spazio senza attributi e senza gerarchia, insomma senza tutte quelle definizioni che la mente umana produce e che allontanano lo spirito dalla realtà ultima (Brahman o Nirvana).

In contrasto con questo caos, si entra nel primo viale con il cartello ‘Welcome to Chandigarh the City Beautiful ’ che rivela la griglia ortogonale del piano di Le Corbusier. La città è suddivisa in settori rettangolari (800x1200 metri), delimitati da grandi viali alberati con corsie per veicoli, piste ciclabili e marciapiedi. Ma l’impressione immediata è che inevitabilmente la natura, per quanto meticolosamente progettata, abbia ripreso il controllo dello spazio, così come i mezzi di trasporto.

Testi e foto di Silvia Monaco

In alto la Casa Museo di Pierre Jeanneret 1956. A destra un dettaglio della loggia con il brise-soleil di mattoni.

Ogni settore era pensato come un’unità autosufficiente, con scuole, negozi e aree verdi. Le residenze, progettate dal team guidato da Pierre Jeanneret, sono un’applicazione dei principi di Le Corbusier sulla qualità dell’abitare, adattati alle condizioni climatiche e sociali della nuova capitale del Punjab. Ma i brise-soleil di mattoni che schermano le logge, con funzione di raffrescamento, sono stati tamponati con ogni mezzo.

Proseguiamo nei settori più a nord, dove si trovavano le residenze dei funzionari dello Stato. Anche qui, il tempo e i cambiamenti sociali ed economici hanno depositato una pesante patina sulle sobrie residenze razionaliste: rivestimenti in marmi veri e finti, parapetti in vetro, tetti a falda, timpani, fregi e colonne doriche.

Una sofferenza.

Per ritrovare un po’ di sollievo si va nel settore 5 a visitare la casa museo di Pierre Jeanneret, che vi abitò per alcuni anni durante la costru-

zione della prima fase della città. Nella casa Tipo 6J si può entrare in contatto fisico con spazi di vita ancora attuali, definiti dalla combinazione tra elementi architettonici modernisti perfettamente armonizzati con materiali locali, pietre e mattoni. Poco lontano si trova il lago Sukhna, un bacino artificiale integrato nel sistema dei parchi. Sul lungolago, nel tardo pomeriggio di venerdì, gli abitanti della City Beautiful si godono il paesaggio. Protetto da queste aree naturali si trova il Complesso del Campidoglio, nel settore 1. Dal 2016 patrimonio Unesco, la zona è oggi delimitata e visitabile solo su appuntamento con una guida autorizzata. La distanza si sente, perché l’Alta Corte, il Palazzo dell’Assemblea , la Torre delle Ombre e gli spazi aperti che li circondano, erano concepiti come una prosecuzione della città, dove tutti gli abitanti potevano entrare in contatto con le funzioni civiche e governative.

Rimane l’impressione di un luogo unico, dove

In alto Il Cinema Neelam, 1954 progettato da Aditya Prakash. A destra, abitanti di Chandigarh al lago Sukhna.

i volumi scavati degli edifici, le facciate disegnate con luce e ombra, il grigio uniforme del cemento, gli accenti di colore, i grandi vuoti che li separano, lo skyline dell’Himalaya sullo sfondo, mostrano tutto l’ottimismo eroico di un momento della storia nel quale si pensava che l’architettura avesse la possibilità di realizzare un’ideale di vita civile.

Dopo la solennità del Campidoglio, un tuktuk a 30 km all’ora nella corsia per i mezzi veloci ci porta nel settore 17, cuore pulsante della città. La piazza è delimitata dal Cinema Neelam di Aditya Prakash, purtroppo abbandonato, e dagli edifici porticati nei quali l’architettura ha perso la sua missione ordinatrice e fa solo da contrappunto alla vitalità dello spirito commerciale dei suoi utilizzatori, in un carosello di insegne, merci, luci colorate. Per cercare di fare ordine mentale dopo avere visto le mille sfaccettature di Chandigarh, il nostro viaggio si conclude con una visita all’Architecture Museum

L’edificio, progettato da Shivdatt Sharma nel 1997 seguendo le linee guida di Le Corbusier, si trova nel settore 10, quartiere culturale del-

la città che si inserisce nel parco lineare della Valle dei piaceri. Qui si ricostruisce la storia del progetto: dal lavoro iniziale degli americani Mayer e Nowicki incaricati dal primo ministro Nehru, al subentro di Le Corbusier, affiancato da Maxwell Fry, Drew e Jeanneret. I documenti originali raccontano anche l’iter che portò alla scelta del maestro svizzero, dopo un tour della delegazione indiana che intrattenne una vasta corrispondenza con le ambasciate europee, compresa l’Italia, il cui possibile candidato era Vittorio Ballio Morpurgo.

Usciamo dal museo e torniamo al presente. Impossibile dire cosa sopravviva oggi della Chandigarh pensata sette decenni fa. Forse la sua vera eredità è proprio la possibilità di suscitare domande e riflessioni sul ruolo della pianificazione e del progetto di architettura. Oltre alle sopravvivenze materiali della città disegnata e organizzata che ne fanno, come si legge sul sito della Municipalità, ‘la città più pulita dell’India, secondo uno studio del governo nazionale ’.

Deepika Gandhi è laureata in architettura e urbanistica, è stata docente al Chandigarh College of Architecture e direttrice del Chandigarh Architecture Museum. È impegnata nella promozione del patrimonio culturale della città attraverso pubblicazioni, attività didattica nelle scuole e come membro di numerose associazioni. Presiede la sezione di Chandigarh della Women’s Indian Chamber of Commerce and Industry.

L’Architecture Museum di Chandigarh ha molto spazio dedicato al piano di Mayer e Nowicki. Quanto ha influito questo primo progetto sul lavoro di Le Corbusier?

A dire il vero fu Albert Mayer a svolgere la maggior parte del lavoro preparatorio per Le Corbusier: all’inizio c’era soltanto un terreno vuoto, qualche villaggio sparso, qualche albero. Mayer elaborò il concetto da zero, partendo dai dati numerici e realizzando un programma dettagliato. Nei suoi archivi abbiamo trovato studi che dimostrano quante analisi abbia condotto, affiancato dai migliori esperti come Clarence Stein, ha eseguito calcoli di densità, stime del parco auto e del numero di persone, definizione delle dimensioni dei settori, progettazione delle unità abitative. Le Corbusier ha apportato indubbi miglioramenti, ma di sicuro aveva già uno schema di base da cui partire. Quali sono oggi i principali strumenti di controllo urbanistico a Chandigarh? Esistono normative che tutelano l’architettura?

Esistono leggi e controlli: si stabiliscono altezze massime da non superare, ma non si impone uno stile architettonico. L’unico vincolo sui materiali o sul vocabolario formale riguarda gli edifici pubblici. Per gli edifici privati, invece, il limite è solo volumetrico.

Le ville progettate da Pierre Jeanneret sono tutelate? Qual è la situazione?

Tecnicamente dovrebbero essere protette, soprattutto quelle della zona nord vicino alla residenza di Jeanneret. Il problema è che spesso vengono assegnate a giudici o ufficiali che poi autorizzano modifiche e ristrutturazioni anche molto invasive. Per esempio, la villa accanto a quella di Jeanneret è stata completamente trasformata dal giudice che ne ha preso possesso. Quando ho curato il restauro della casa di Jeanneret, l’edificio era in condizioni com-

LA CONSERVAZIONE DEL MODERNO INTERVISTA A DEEPIKA GANDHI

pletamente diverse: era stato diviso in due, le finestre erano state chiuse, le facciate alterate. Il restauro ha ricostruito l’originale, ma dobbiamo considerare che dagli anni Cinquanta in poi sono cambiate le esigenze abitative: più bagni, più camere da letto.

Come è cambiato nel tempo il profilo sociale degli abitanti di Chandigarh? Chandigarh nacque come città amministrati-

verdi che hanno rappresentato la forza del progetto di Chandigarh.

Cosa rimane dell’utopia di Chandigarh?

Mi piace pensare che non si tratti di un’utopia, ma di una dimensione umana riflessa nell’architettura. Prenda l’edificio del Parlamento nel Capitol Complex: la sua progettazione mira a suscitare nel visitatore un senso di responsabilità non solo verso i propri simili, ma verso

va, pensata per funzionari governativi di classe medio–alta. È però diventata vittima del suo stesso successo: la domanda di terreni ha fatto lievitare i prezzi al punto che oggi la classe media non può più permettersi di vivere in città e si è spostata nei sobborghi. Molti hanno venduto le proprie case a imprenditori facoltosi provenienti da Punjab o Delhi.

Cosa attrae oggi gli abitanti di Chandigarh?

In realtà l’economia locale è debole: poche industrie, non ci sono grandi imprese, opportunità di carriera insufficienti rispetto a metropoli come Delhi o Bangalore. A meno di non avere un patrimonio personale e avviare un’impresa, chi ha alte qualifiche tende ad andarsene. Chi invece rimane, come me, è perché dà priorità alla qualità della vita.

Chi vive oggi nei sobborghi che si sono sviluppati oltre la fascia verde pensata come limite della città?

La maggior parte è impiegata in uffici governativi. Vive però lontano dai servizi e dagli spazi

l’intero cosmo.

Negli ultimi anni si è registrata una rinascita di interesse internazionale per Chandigarh. Come è percepita questa attenzione globale da lì?

Ultimamente in tutto il mondo si parla di Chandigarh – pensi al film ‘The Utopia’ [ The Power of Utopia. Living with Le Corbusier in Chandigarh, documentario di Karin Bucher e Thomas Karrer, Magetfilm 2023, NdA] – mentre qui in India c’è chi, persino in Parlamento, nega il valore dell’eredità moderna. Secondo l’Archaeological Survey of India, infatti, un patrimonio deve avere almeno cento anni. È paradossale: il mondo ci guarda come a un caso unico di città pianificata del Novecento, e noi rischiamo di perderne la memoria perché un membro del nostro Parlamento ha cercato di dimostrare a Delhi che non abbiamo bisogno di alcun comitato per la tutela della città. Abbiamo bisogno di persone che scrivano di noi. Dobbiamo diffondere gli articoli che escono nel mondo per far capire cosa sta accadendo ■

Il Museo dell’Architettura di Chandigarh.

L’Architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico, dei volumi assemblati nella luce

Le Corbusier
CZA. Edificio D nell’ex area industriale Junghans. Venezia.

2005 / 2025

Venti anni di Architettura in Italia

di LUIGI PRESTINENZA PUGLISI

La grande pace 1

2006. Atteso come lo spazio che avrebbe dovuto valorizzare l’architettura italiana negli anni a venire, il Maxxi tarda a essere completato. E, difatti, il museo disegnato da Zaha Hadid, vincitore del concorso nel luglio del 1998, sarà inaugurato solo nel maggio del 2010. Nonostante il ritardo, non manca l’euforia, la consapevolezza che si stia vivendo un buon periodo per l’architettura italiana. Prova ne sia che la Triennale di Milano e la Darc, la Direzione generale per l’Architettura e l’Arte contemporanea del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, lanciano la seconda edizione della Medaglia d’Oro e i premi all’Architettura. Come verrà detto non senza enfasi: “una prestigiosa occasione per incontrare i progetti protagonisti dell’architettura contemporanea e riflettere su cosa significa oggi progettare, costruire e pensare gli edifici”. Premiati Renzo Piano e Massimiliano Fuksas, i due progettisti italiani più famosi che hanno creduto all’internazionalizzazione della professione, rendendo la loro ricerca competitiva con quelle dei colleghi europei e americani. E premiato IaN+, un gruppo di architetti quarantenni che ha realizzato una costruzione volutamente semplice e in controtendenza rispetto alle mode postdecostruttiviste dominanti. Tra i numerosi segnalati da una giuria composta da Pio Baldi, David Chipperfield, Jean-Louis Cohen, Fulvio Irace e Arata Isozaki ci sono Francesco Garofalo e Sharon Yoshie Miura, Cino Zucchi, Guido Canali, C+S associati, Italo Rota, Benedetto Camerana e Giorgio Rosental, Corvino+Multari e Renato Sarno. Personaggi tranquillizzanti, moderatamente aperti al nuovo e, comunque, che perseguono linee di ricerca diverse. Sono anni in cui sembra che sia stata fatta pace tra le diverse componenti della cultura

architettonica italiana e l’Accademia mostra segni incoraggianti di apertura al nuovo, sia pure alternati da repentine chiusure, come ci raccontano i convegni sull’identità dell’architettura italiana che si svolgono con cadenza quasi annuale e di tale pacificazione non sono entusiasti affatto. La Darc, attraverso il direttore Pio Baldi e il suo infaticabile braccio destro Margherita Guccione, dal 2001, anno in cui è nata, sta facendo un lavoro prudente, ma instancabile, di mediazione. Per dimostrare che le nuove architetture europee e americane, provenienti dalla AA di Londra o dalle università di Los Angeles o di New York e la tradizione italiana, imbevuta di metafisica, postmodernismo, storicismo e di qualche nota barocca, possano coesistere. Da qui la scelta di nominare curatori del Padiglione italiano della Biennale di Venezia nel 2006 Franco Purini e, nell’edizione successiva del 2008, Francesco Garofalo. Purini appare l’uomo adatto per l’operazione: amato e rispettato dall’Accademia, mostra crescenti aperture per la ricerca contemporanea, soprattutto per i giochi linguistici alla Peter Eisenman. Allo stesso tempo, come tanti accademici, si è espresso più volte contro le eccessive aperture tecnologiche dell’high tech o per la troppo esuberante decostruzione alla Gehry. Per il padiglione italiano Purini inventa, con Margherita Petranzan, Nicola Marzot e Livio Sacchi, VeMa, una città di nuova fondazione per 30.000 abitanti tra Verona e Mantova, di cui progetta, con Francesco Menegatti e Sebastiano Giannesini, il rigido (per gli accademici: rigoroso) schema insediativo. Per gli edifici sono invitati architetti giovani, aperti alla sperimentazione, di tendenze diverse. Pier Vittorio Aureli di Dogma Office disegna il progetto del cimitero; Avatar Architettura il mercato; Lorenzo Capobianco

gli studi televisivi. Elastico spa + Elastico 3 si occupa del polo scolastico; Giuseppe Fallacara del lago; Santo Giunta degli uffici e del municipio della città; il gruppo Iotti + Pavarani disegna il centro commerciale; il gruppo Raffaella Laezza, Michele Moreno, Giovanni Santamaria lo spazio sacro; Liverani - Molteni architetti la città fabbrica; ma0 / emmeazero studio d’architettura il museo; Antonella Mari l’ospedale; Masstudio il parco del confine; Stefano Milani i depositi industriali; Moduloquattro la mediateca; Tomaso Monestiroli e Massimo Ferrari il teatro; OBR Open Building Research il parco dello sport; Gianfranco Sanna il polo ricettivo; Andrea Stipa il polo dell’intrattenimento; lo studio.eu il parco dell’energia, e infine Alberto Ulisse il sistema delle barre infrastrutturali.

L’operazione ricorda, sia pure vagamente, quelle piacentiniane della città universitaria di Roma e dell’Eur: la libertà di progettazione è concessa, anzi richiesta, ma all’interno di un ordine precostituito. Un ordine che ingabbia ogni velleità di integrale rinnovamento.

Nella edizione successiva del 2008, Francesco Garofalo, non meno abile e politicamente più strutturato di Purini, si muove con altrettanta disinvoltura tra i due schieramenti della ricerca e dell’accademia. Evita di affrontare il tema partendo dall’estetica per puntare, già dal titolo, sul sociale: L’Italia cerca casa. Così gli architetti invitati non faranno prevalere le questioni stilistiche. Un astuto non prendere partito su questioni formali che ricorrerà sempre più spesso nelle iniziative del Ministero. La cui direttiva sembra essere di evitare contrapposizioni, pacare e stemperare. Lo si vede, per esempio, nelle mostre monografiche che la Darc dedica ad architetti ritenuti particolarmente

importanti. Nel 2004 era stato il turno di Alessandro Anselmi. Scelto forse perché rappresentava bene una interessante apertura alle forme della contemporaneità, ma senza rinnegare la cultura accademica, storicista e postmoderna da cui proveniva. Nel 2005 tocca a Giancarlo De Carlo, l’anarchico che con gli amici del Team X aveva messo in crisi i CIAM di Le Corbusier e Sigfried Giedion. Sarebbe potuta essere una occasione per analizzare le rotture avvenute nella cultura architettonica italiana, per esempio lo scontro dentro la rivista Casabella tra De Carlo, Ernesto Nathan Rogers e Vittorio Gregotti. Invece l’architetto genovese è presentato dalla curatrice Margherita Guccione in sei sezioni, a dire il vero già immaginate dallo stesso De Carlo prima di morire il 4 giugno 2005, tre giorni dopo l’inaugurazione. Sono Abitare, Tra città e territorio, Laboratorio Urbino, Misurarsi con la Storia, Geometrie complesse e segni urbani, Progettare i luoghi pubblici. Una mostra in cui non mancano gli elogi da chi militava in campo avverso e proprio per questo di De Carlo non capiva lo spirito. Nel 2006 apre la mostra dedicata a Massimiliano Fuksas. “La Darc – commenta Pio Baldi – intende, coerentemente con la propria missione istituzionale, promuovere la riflessione e l’approfondimento sull’attività di questo grande interprete della realizzazione e della comunicazione architettonica”.

Appare a tutti chiaro il significato strategico della mostra. Celebrare la grande pace grazie alla quale trova un suo posto nel salotto buono del Ministero lo stesso Fuksas, che nel 2000 con la sua biennale Less Aestethics, More Ethics, aveva sparigliato gli equilibri architettonici nazionali.

Il padiglione italiano del 2010 è curato da Luca Molinari. Il titolo AILATI Riflessi dal futuro, basato sulla parola Ailati che, vista allo specchio, si legge Italia. Anche Molinari evita scelte precise di campo, valorizzando architetti con ricerche e poetiche molto distanti tra loro: per esempio Franco Purini e Piuarch, TAMassociati e Cherubino Gambardella. Bisognerà aspettare il 2012 per avere, con il padiglione curato da Luca Zevi, una riflessione più solida sui rapporti tra architettura e società. Per farlo Zevi tira in ballo la figura di Adriano Olivetti, sottintendendo che se si vuole essere seri è proprio da là che bisogna ripartire. Torniamo indietro: il 28 maggio 2010, dopo numerose e travagliate vicende di cantiere, le solite che impediscono la veloce realizzazione delle opere pubbliche italiane, inaugura il Maxxi. Roma ha finalmente un

museo di livello internazionale per celebrare e raccontare l’architettura contemporanea. Tuttavia, proprio la ricerca continua della mediazione e del compromesso, l’incapacità di fare scelte chiare, il rifiuto di far ruotare persone e ruoli, la mancanza di un chiaro orizzonte e la paura di sbagliare peseranno come una zavorra sulla nuova istituzione, impedendole di decollare. Forse con l’unica eccezione dello Yap ( Young Architects Program) un programma iniziato nel 2011 di promozione e sostegno alla giovane architettura in partnership con il MoMA di New York. Serve per individuare alcuni interessanti collettivi di progettazione quali studio stART (2011), Urban Movement Design (2012), bam! bottega di architettura sostenibile (2013), Orizzontale (2014), Corte (2015), Parasite 2.0 (2016), Studio D3R (2018), Lucy Styles (2020).

Italia/Ailati, Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2010. Foto courtesy Direzione Generale Creatività Contemporanea. MIC
Zaha Hadid Architects. Maxxi Roma

Lo star system e l’invasione dei barbari 2

Possiamo per comodità immaginare che lo star system nasca il 18 ottobre 1997, il giorno dell’inaugurazione del museo Guggenheim di Bilbao progettato da Frank O. Gehry.

Non che prima non si parlasse di architetti dotati di un particolare carisma: basti pensare alla figura leggendaria di Frank Lloyd Wright e a libri che ne amplificarono il mito come The Fountainhead di Ayn Rand. Ma, a partire da Bilbao e da Gehry, accade qualcosa di nuovo: un numero crescente di committenti e di amministrazioni comunali si auto-convincono che con una architettura esuberante disegnata dall’architetto giusto si possono cambiare i destini di un quartiere o anche della città, come appunto è successo a Bilbao. È il Bilbao Effect

Dal 1997 inizia in tutto il mondo la corsa all’archistar. L’Italia non è da meno. Tanto più che una firma prestigiosa può aiutare a velocizzare e semplificare l’iter del progetto, da noi sempre molto faticoso. Soprattutto se la costruzione si trova in contesti particolarmente delicati, soggetti ad autorizzazioni e nulla osta. Nel 1997 le star italiane sono ancora poche: a pieno titolo solo Renzo Piano e Massimiliano Fuksas (altri come Boeri, Cucinella, Zucchi, De Lucchi, Citterio lo diventeranno più tardi). Motivo per il quale le si cerca all’estero. Seguendo l’esempio del sindaco di Roma, Francesco Rutelli, il quale, per realizzare la teca dell’Ara Pacis, assegna nel 1998 direttamente a Richard Meier l’incarico senza concorso, suscitando polemiche a non finire che però non impediscono l’ottenimento del risultato in tempi lunghi ma accettabili rispetto alla media nazionale per le opere pubbliche: è inaugurata nel 2006 dopo otto anni circa dall’incarico.

Visto retrospettivamente, non si può non notare che le star straniere chiamate in Italia hanno stimolato e aiutato il rinnovamento della nostra architettura. Collaborando con professionisti locali e assumendo giovani risorse per i loro studi italiani, hanno trasmesso esperienze e introdotto un modo diverso di progettare. E, soprattutto, è stato utile per la crescita dell’architettura in Italia costringere i nostri progettisti a confrontarsi con una concorrenza di livello altissimo: Zaha Hadid, Jean Nouvel, Rem Koolhaas, Daniel Libeskind, Tadao Ando, BIG, MAD, Herzog & de Meuron, Richard Meier, Santiago Calatrava, Ricardo Bofill, David Chipperfield, Odile Decq per citarne alcuni. In un mondo sempre più interconnesso, ciò ha aiutato a integrare il Paese nei circuiti globali dell’architettura e del design. Considerata, però, la scarsa propensione dei soggetti pubblici e privati italiani a investire in edilizia di qualità, la crescente presenza nel territorio nazionale di studi di progettazione stranieri ha contribuito a prosciugare una fonte di finanziamenti per l’edilizia già quasi a secco. Soprattutto a seguito della crisi economica mondiale che segue l’attentato delle Torri Gemelle del World Trade Center dell’11 settembre 2001 e che si ripresenterà tra il 2007 e il 2008 con il collasso dei mutui subprime. Nel settembre del 2005, trentacinque accademici scrivono un appello diretto al Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e alle Istituzioni e Ministeri competenti. Appello che verrà anticipato sul Corriere della Sera con un articolo di Pierluigi Panza.

“L’architettura italiana – sostengono i trentacinque professori – attraversa una situazione drammatica. Mentre in altre

nazioni europee, in particolare in Francia, in Germania, in Spagna, negli ultimi decenni sono state realizzate grandi opere di interesse sociale che hanno trasformato sensibilmente l’ambiente urbano mettendo a disposizione dei cittadini nuovi servizi che esprimono lo spirito del nostro tempo, in Italia iniziative del genere si contano sulle dita, mancano di una meditata programmazione e si devono quasi sempre all’intervento di architetti stranieri. Nel riconoscere il carattere positivo dell’apporto di forze culturali esterne non si può fare a meno di notare che una delle ragioni della preferenza loro accordata si deve alle realizzazioni compiute, realizzazioni per le quali in Italia sono mancate le premesse concrete, con la conseguenza di aver privato gli architetti italiani di quelle occasioni di lavoro che avrebbero permesso loro di offrire un contributo originale all’attuale stagione di rinnovamento della architettura”.

Il tono è pacato, quasi curiale: si chiede per il bene del Paese una maggiore attenzione e impegno per l’edilizia di qualità. L’appello è però interpretato come un’alzata di scudi contro l’invasione straniera. Probabilmente per la lettura tagliata che suggerisce il fuorviante titolo dell’articolo apparso sul Corriere della sera: Architetti in rivolta. Invasi da progettisti stranieri. E un po’ per il fatto che tra i trentacinque firmatari della petizione ne compaiono diversi che in più occasioni hanno parlato dell’urgenza di valorizzare l’identità dell’architettura italiana. Tra questi Augusto Romano Burelli, Francesco Cellini, Claudio D’Amato Gurrieri, Paolo Marconi, Antonio Monestiroli, Carlo Olmo, Franco Purini, Laura Thermes, Franz Prati, Vittorio Gregotti, Paolo Zermani. Anche se occorre precisare che tra i firmatari dell’appello

ne appaiono altri ideologicamente meno schierati come Marco Casamonti, Manfredi Nicoletti, Renato Nicolini, Lucio Passarelli, Fabrizio Rossi Prodi, Ettore Sottsass. A generare il malumore tra i trentacinque firmatari, probabilmente, ha contribuito il concorso svoltosi l’anno prima (2004) per lo storico quartiere fieristico milanese. La cordata CityLife è prescelta ad altre due, anche per merito delle tre torri di 209, 175 e 177 metri disegnate da Arata Isozaki, Daniel Libeskind, Zaha Hadid. Il progetto prevede un parco pubblico, messo a concorso nel 2010, che occupa 170.000 metri quadrati, e si caratterizza per essere un mix funzionale di uffici, residenze e aree per servizi. City Life ospita circa 15.000 persone di cui circa 5.000 residenti. Alloggiano in sette edifici disegnati da Zaha Hadid, diversi uno dall’altro, con altezze da cinque a tredici piani. La forma del quartiere risponde a modelli nordamericani: è freddamente funzionale, tecnologicamente efficiente, lontana dall’architettura della città di Milano. A inasprire il giudizio sono le linee bislacche delle tre torri presto soprannominate il Dritto (Isozaki), il Curvo (Libeskind) e lo Storto (Hadid). CityLife diventa un caso internazionale sollevando numerose critiche da addetti e non addetti ai lavori (anche Silvio Berlusconi si esprime contro la torre sbilenca di Libeskind). Ma, alla fine l’opera, sia pure con tempi lunghi, è realizzata, diventando un landmark di Milano. Probabilmente non sarebbe avvenuto se il progetto non fosse stato affidato alle archistar. Le quali vengono chiamate con sempre maggiore frequenza per far passare ampi piani di edilizia speculativa o per ottenere con più facilità le autorizzazioni per intervenire in contesti molto delicati. Come è il caso di Venezia, dove si affida a Santiago Calatrava

il ponte della Costituzione (2002-2008), a Tadao Ando il museo a Punta della Dogana (2007-2009), a Rem Koolhaas il progetto per il Fontego dei Tedeschi (2009-2016), a David Chipperfield per le Procuratie Vecchie (2019-2022). Mentre a Mestre Sauerbruch Hutton firmano l’M9, il museo del Novecento (2010-2018). Inutile dire che l’archistar può essere italiana, come quando si affida a Fuksas il progetto per la Lanterna in vetro e acciaio tra via del Corso e via Tomacelli a Roma (2013) o a Renzo Piano la vasta urbanizzazione delle Albere a Trento (2013). Può funzionare anche un lavoro a quattro mani. Come per esempio il nuovo dipartimento delle arti islamiche al Louvre (2005-2012), una addizione moderna e tuttavia ben integrata nell’edificio, immaginata come un tappeto volante e

firmata insieme da Mario Bellini e Rudy Ricciotti.

Da tutte queste opere si percepisce che le prospettive stanno cambiando e ci si sta muovendo in direzione di una crescente internazionalizzazione.

Lo testimonia la discesa a Milano di Arup che nel 2000 apre uno studio diretto da Gabriele Del Mese, un profondo conoscitore dell’architettura e particolarmente attento all’innovazione.

I tempi sono maturi in Italia per puntare sulla qualità e sulla ricerca; per superare le banali e a volte arretrate tecnologie messe in cantiere dai progettisti italiani, soprattutto quelli formatisi all’ombra del culto dell’architettura disegnata.

I collettivi stranieri appaiono avere maggiore esperienza e dimestichezza nella gestione di cantieri complessi e pertanto

Tadao Ando. Punta della Dogana, Venezia. Foto Alessandra Chemollo
Sauerbruch Hutton. M9 Museo del Novecento. Mestre

sono chiamati ad affrontare l’architettura di grandi infrastrutture, quali le stazioni per l’alta velocità: Zaha Hadid ad Afragola (2017), Foster & Partners a Firenze Belfiore (in costruzione), Arep a Torino Porta Susa (2013), Santiago Calatrava a Reggio Emilia (2013). Mentre ad un gruppo italiano, ABDR (Arlotti, Beccu, Desideri, Raimondo), è affidata la stazione di Roma Tiburtina, inaugurata il 28 novembre 2011 dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Collettivi stranieri, oltre a italiani, sono chiamati a disegnare le stazioni della metropolitana di Napoli, forse il sistema più importante e meglio riuscito di spazi pubblici realizzati in Italia, grazie alla compresenza di buona architettura e di opere d’arte.

Spiccano la stazione Toledo (2012), progettata dall’architetto catalano Óscar Tusquets Blanca, la stazione Università disegnata da Karim Rashid (2011), la sistemazione di Piazza Garibaldi opera di Dominique Perrault (2016), mentre

deludente è la stazione Municipio (2015) progettata da Àlvaro Siza e Eduardo Souto de Mura come se fosse uno spazio protorazionalista, con un’uscita su una piazza senza alberi o coperture dove d’estate batte il sole a picco. Tra le stazioni affidate a progettisti italiani, ricordiamo quelle di Massimiliano Fuksas (2021) e Benedetta Tagliabue (in costruzione). Criticate per i costi eccessivi, queste affascinanti e invitanti stazioni hanno avuto notevole successo presso la popolazione, che le ha fatte proprie. Dimostrano che non ha senso lesinare sugli spazi utilizzati giornalmente da migliaia di utenti e il cui costo è comunque una piccola frazione di quello complessivo, dove la parte del leone nella spesa la fanno lo scavo delle gallerie e il materiale rotabile.

Le numerose opere progettate in questo periodo da studi stranieri non celebrano il predominio di alcuno stile particolare. I progettisti chiamati in Italia sono molto diversi tra loro e coprono tutto l’arco formale: dal quasi punk di

Odile Decq al classicismo autoritario di David Chipperfield, dall’intellettualismo spiazzante di Herzog & de Meuron al kitsch ultracolorato di Karim Rashid, dal monumentalismo postmoderno di Ricardo Bofill alle perversioni moderniste di Rem Koolhaas, dalle trame colorate di Patricia Urquiola al minimalismo anoressico di Kazuyo Sejima. Si può però affermare che le star straniere contribuiscono a promuovere i linguaggi contemporanei e a mettere in soffitta quelli obsoleti degli anni Ottanta, in cui l’Italia aveva avuto ampia voce in capitolo (si pensi al successo internazionale di Aldo Rossi). Un eclettismo politeista e possibilista che sarà il principale atteggiamento progettuale di questo inizio di millennio.

E difatti, un numero crescente di architetti italiani abbandonano la fedeltà a un unico linguaggio, un po’ per convinzione, un po’ per sopravvivenza, cioè per fare contento il cliente. Lo si vede quando c’è un concorso e scatta la corsa ad affiancarsi a uno studio straniero, qualsiasi esso sia purché in grado di vincere.

La crisi del linguaggio produce ricerche interessanti che nascono dal mettere insieme universi poetici diversi. Da qui la nascita di opere innovative, concettualmente e formalmente ibride. Penso ai progetti di concorso in cui Gianluca Peluffo si è associato con il francese Rudy Ricciotti, per esempio quello per il Palazzo della Regione Siciliana (2021). Occorre infine dire che, appresa la lezione, per evitare di cedere gran parte dell’eventuale parcella agli studi stranieri (molti dei quali della compartecipazione ai concorsi all’estero fanno uno dei business dello studio), diversi italiani preferiscono correre da soli, intrecciando con eccellenti risultati poetiche e competenze diverse. Lo si è visto per esempio al concorso per il Grande Maxxi (2022) a Roma quando si sono uniti Gianluca Peluffo, Stefano Pujatti e Beniamino Servino per generare un progetto ispirato alla felice precarietà di un circo. Sottraendosi così da quei facili stereotipi che vedono con apprensione l’invasione dei barbari e il soggiacere alla loro cultura come il nostro ineluttabile destino. C’è però da aggiungere che il gruppo vincitore, composto da LAN, Scape Architecture, SNA, Bollinger+Grohmann Ingegneria, Frank Boutté Consultans, Bureau Bas Smets, Folia Consulenze era italo-francese.

Frank O. Gehry. Museo Guggenheim. Bilbao
Zaha Hadid Architects. Stazione AV Napoli Afragola. Foto Hufton+Crow

Materiali, finiture e sensazioni tattili influenzano il carattere di ogni stanza. Per questo è sempre più importante che tutti i dettagli siano coordinati alla perfezione. I diversi sistemi di cerniere a scomparsa di SIMONSWERK consentono la massima libertà di progettazione unendo design, finiture e funzionalità ai massimi livelli adattandosi, in modo quasi naturale, alle esigenze dei diversi materiali.

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Il presepe 3

Negli ultimi 20 anni, l’Italia è stata colpita da numerosi terremoti che hanno causato danni significativi a persone, infrastrutture e territori. Ecco un elenco dei principali: terremoto del Molise del 2002 con magnitudo 5.7; terremoto dell’Aquila del 2009 con magnitudo 6.3; terremoto dell’Emilia del 2012 con magnitudo 6.1; terremoto del Centro Italia 2016-2017 ad Amatrice, Accumoli, Norcia e altri centri colpiti da scosse fino a magnitudo 6.5; terremoto del Molise del 2018 con magnitudo 5.2.

Vi sono poi le alluvioni tra le quali quelle recenti in Emilia Romagna, e le frane a volte gravemente rovinose come quelle del 2009 che hanno interessato numerosi comuni del messinese.

Le cause sono principalmente due: la prima è il cambiamento climatico con aumento di eventi meteorologici estremi; la seconda è una cattiva gestione del territorio causata da urbanizzazione selvaggia, deforestazione e scarsa manutenzione delle infrastrutture.

Terremoti e alluvioni pongono a loro volta un duplice problema: cosa fare per limitare i danni, intervenendo subito con strutture provvisorie ( le così dette casette) e come ricostruire le opere monumentali, i centri storici, gli edifici di pregio, le infrastrutture e i tessuti urbani prima esistenti.

I manufatti provvisori di emergenza sinora realizzati, come per esempio gli alloggi antisismici del progetto C.A.S.E. per i terremotati aquilani, sono stati di scarsa qualità e sono, a giudizio di molti, costati troppo. Gli interventi definitivi, invece, sia pure con somma lentezza, si stanno realizzando ma quasi sempre facendo prevalere la logica del dove era e come era, soprattutto negli edifici monumentali e di valore storico.

Questa metodologia di recupero compulsivo dell’esistente è utilizzata non solo a seguito di calamità, quando sono in gioco intere zone o quartieri storici, ma interessa sempre di più la ristrutturazione degli edifici di pregio, soprattutto se ubicati nei centri storici. Si sta abbandonando così, in nome del dove era e come era, una importante tradizione italiana, che ha avuto come protagonisti Carlo Scarpa, Franco Albini, i Bbpr, Guido Canali, Andrea Bruno e che concepiva l’intervento sugli edifici antichi come un progetto contemporaneo, che valorizzava le stratificazioni storiche e mostrava senza problemi il nuovo. In questi ultimi anni le voci che hanno dominato la scena sono quelle delle associazioni quali Italia Nostra e di personaggi quali Vittorio Sgarbi, Salvatore Settis, Tomaso Montanari che non perdono occasione per denunciare lo scempio del territorio e dell’ambiente costruito, anche quando di scempio non si tratta. Le polemiche investono le opere più semplici di rifunzionalizzazione di edifici storici. Come è accaduto per esempio al Palazzo dei Diamanti di Ferrara dove Sgarbi ha letteralmente impedito la realizzazione di un intervento, per altro di dimensioni modeste, del gruppo Labics che nel 2017 aveva vinto, insieme a 3TI Progetti, Elisabetta Fabbri e Vitruvio, il relativo concorso. La polemica, che ha coinvolto a sostegno di Labics numerosi critici di architettura e ha avuto vasta eco sulla stampa specialistica, ha aiutato a sbloccare la situazione con un compromesso e nel 2023 sono stati completati i lavori, ma con un progetto semplificato e banalizzato.

Si è impedito, se non altro, il pasticcio della Villa Romana del Casale a Piazza Armerina dove la distruzione dell’intervento (1957) di Franco Minissi, una splendida

serra protettiva accusata di essere troppo moderna e poco funzionale, ha portato alla costosa realizzazione di un pasticcio storicista inguardabile (2007-2012), una parodia disneylandiana del dove era e come era che ancora oggi ha seri problemi di funzionamento.

Intervenire nei contesti storici e ambientali italiani sembra sempre di più una impresa impossibile. Nel 2000 il sociologo Domenico De Masi pensa di realizzare a Ravello un auditorio per rilanciare il turismo colto di questo splendido paese della costiera amalfitana. Racconterà, a distanza di anni e dopo esserci riuscito, che quella dell’auditorio di Ravello è stata l’esperienza peggiore della sua vita. E questo nonostante l’idea geniale di coinvolgere uno dei più famosi architetti mondiali, Oscar Niemeyer, per donargli il progetto. Progetto poi reso esecutivo e messo in cantiere da Gnosis Progetti (2006-2010), un eccellente collettivo di progettazione, capitanato da Francesco Buonfantino, che lavora molto con i beni culturali.

La Storia è diventata da amica, come profetizzava negli anni cinquanta Paolo Portoghesi, a nemica, un tabù per noi intoccabile; le città sempre più fasulle perché con il tempo la gran parte dei materiali antichi è sostituita con materiali moderni antichizzati.

La vicenda delle Gocce di Cucinella è anch’essa emblematica. Poste davanti alla piazza Maggiore di Bologna (2003) coprono le entrate a un sottopasso brutto e dimenticato per farlo diventare un dignitoso luogo di informazione sui progetti comunali in atto. Sono però accusate di essere troppo moderne, di compromettere l’antica bellezza del luogo. Vengono smantellate nel 2005, dimenticando che buona parte degli edifici vicini sono falsi storici.

Vince la poetica del presepe. Cioè di un passato anestetizzato e imbellettato. Che non è mai esistito, ma è radicato nelle nostre fantasie. E conseguentemente l’Italia diventa la patria della copia e del falso. Una Disneyland in gran parte reinventata. Vi è stata però una storia di successo. È il progetto a Venezia di Cino Zucchi per l’area industriale dismessa della Junghans alla Giudecca (1997-2003) e, in particolare, per la Palazzina D. Questa si caratterizza con una immagine vivace grazie alla libertà della composizione delle bucature e alle grandi cornici che la disegnano come un’opera astratta. Nello stesso tempo, si integra nel difficile contesto veneziano perché le stesse ricordano quelle delle residenze popolari veneziane. Le cornici, insomma, rappresentano contemporaneamente un richiamo alla tradizione e la negazione della tradizione stessa.

Viene da pensare alla Casa alle Zattere di Ignazio Gardella (1958-1962), anche quella una palazzina il cui difficile inserimento è garantito da elementi, quali i balconi, che possono contemporaneamente essere letti come moderni o come richiami alle forme del passato.

Giocando sulla contraddizione (sono antica/sono nuova) Zucchi riesce a risolvere un problema per molti altri irrisolvibile, realizzando un’opera persuasiva, antica quanto basta per piacere ai conservatori, nuova quanto basta per non dispiacere a chi crede nelle ricerche contemporanee.

Tanto da meritare la copertina della Storia dell’architettura italiana 1985-2015 di Marco Biraghi e Silvia Micheli edita nel 2013. I moderni moderati, quando passano davanti a questa casa, non possono non togliersi il cappello.

Un discorso a parte merita il caso di Favara, un paese nell’agrigentino che

sta diventando un importante centro di produzione artistica grazie all’impulso fornitogli da un notaio con vocazioni artistiche, Andrea Bartoli, dalla moglie Florinda Sajeva e dalle due giovani figlie. Con l’aiuto di giovani artisti e architetti, a partire dal 2010 una parte degradata del centro storico, priva di valore artistico e ambientale, viene letteralmente stravolta. Si realizza così un sistema di spazi stimolanti e anche chiassosamente colorati ( i sette cortili ) perfetti per ospitare le

numerose attività che vi si alternano. Nella città, che comincia a crescere grazie al turismo indotto da queste attività, si affrontano opere di restauro, rinnovamento e sostituzione più corpose. Tra queste l’Alba Palace Hotel disegnato da Architrend (2014-2017) e il Quid Vicolo Luna progettato e realizzato da Lillo Giglia (2009-2016). È la prova che la strategia del presepe, almeno nei centri storici dove non esistono valori architettonici o ambientali, può essere evitata.

RA Consulting. Castello di Postignano. Sellano. Foto Gratet & Maglione
Lillo Giglia. Quid Vicolo Luna. Favara

Gli stilisti 4

Gli architetti italiani che ci hanno preceduto – penso per esempio a Giancarlo De Carlo, Leonardo Ricci, Luigi Pellegrin –avevano una concezione alta, sicuramente esagerata, della professione. Pensavano di poter essere loro a individuare i modelli di vita e ad organizzare l’esistenza della società. E proponevano utopie di cui le architetture che loro stessi realizzavano erano un tassello. Se davi un Palazzo di Giustizia a Ricci, questi ti riorganizzava il modo in cui si svolgevano i processi, il rapporto tra il cittadino e il potere, tentando di democratizzarlo.

Oggi nessun architetto crede che ciò sia possibile, anche perché ha visto i fallimenti delle generazioni che lo hanno preceduto. L’imperativo degli ultimi venti anni è dunque diventato quello di adeguarsi alle richieste del cliente realizzando edifici ineccepibili e piacevoli da un punto di vista estetico. In assenza di contenuti (innovativi, stimolanti, creatori di nuovi orizzonti) trionfa la logica del buon gusto e del bello stile. E così, come i cuochi e i sarti, anche gli architetti sono diventati stilisti.

Questa sensazione la si ha chiarissima quando si osservano gli esiti dei concorsi di architettura, per esempio quello delle scuole innovative del 2016, del Grande Maxxi o del nuovo museo della scienza a Roma. È difficile trovare progetti brutti, ma spesso le soluzioni sono scontate: ampie vetrate, materiali naturali (per esempio travi e pilastri in legno lamellare), verde nelle coperture e nelle terrazze, una diffusa sensazione di trasparenza e leggerezza. E poi rendering con bambini che giocano, aquiloni o mongolfiere e qualche persona che, su sedia a ruote, si muove felice. La riduzione dell’architettura ad arte del piacevole, come dicevamo, non è un fenomeno isolato, fa parte di

un atteggiamento più generale che riscontriamo nella moda, nel cibo, nel bere, nel design, nella grafica.

Da qui tre conseguenze: la prima è che stanno nascendo firme che operano su più settori. Si pensi per esempio a Bulgari: produce gioielli ma poi realizza e gestisce alberghi di lusso e gestisce una cantina vinicola. La seconda è che i prodotti, per essere valorizzati esteticamente, richiedono una cornice architettonica adeguata che può essere fornita solo da un progettista, spesso una star, all’altezza del compito. Inoltre, per non svalutare il marchio, anche uffici e fabbriche devono presentare una immagine accattivante. La terza è che tutte queste attività sono apparentate con l’arte. Che è esposta e collezionata dagli stessi stilisti, i quali così, come se il contagio si trasmettesse per vicinanza, possono dire di essere anche loro artisti e quindi alzare i prezzi. Da qui la corsa delle firme a creare musei e collezioni, a volte con eccellenti risultati come nel caso dello spazio espositivo della Fondazione Prada (2008-2018) realizzato a Milano su progetto di OMA guidata da Rem Koolhaas. Per questi tre motivi, nell’ultimo ventennio in Italia gli architetti più famosi hanno lavorato per gli stilisti. Anche se occorre aggiungere che non tutte le realizzazioni sono indimenticabili. Spiccano gli alberghi, a Roma e Milano, di Citterio e Viel insieme a numerosi negozi ed edifici industriali che il duo ha realizzato in Italia e all’estero all’insegna di una ricerca figurativa solida e raffinata. Gli spazi per Armani di Massimiliano e Doriana Fuksas sono caratterizzati da una notevole forza cromatica e plastica, come avviene con l’avvolgente corpo scala del negozio di New York (2009). Chipperfield ha lavorato, tra gli altri, per Valentino e Issey Miyake. Tadao

Ando per Armani e Benetton. Piuarch per Dolce e Gabbana, Gucci e Balenciaga. Guido Canali, sicuramente uno dei grandi maestri dell’architettura italiana, ha disegnato le bellissime Fabbriche Giardino per Prada (2005-2017).

Dove l’architettura ha dato il meglio, e non solo in Italia, è nelle cantine. Il livello di qualità medio è altissimo, forse perché i progettisti italiani sono bravi nel rapportarsi con la natura o forse perché il confronto con gli enti che tutelano il paesaggio è stato positivo. E, poi, i committenti avevano budget generosi.

Della Cantina Antinori di Archea parleremo in un successivo paragrafo. Le cantine disegnate da Fiorenzo Valbonesi, un progettista dotato di notevole carica espressiva, mostrano senso dello spazio e controllo dei materiali. Tra queste spicca la cantina de Il Bruciato (2018) ritmata da plastici volumi trasparenti.

Renzo Piano costruisce a Rocca Frassinello (2007). Piero Sartogo a Magliano in Toscana (2008), Arnaldo Pomodoro a Bevagna (2012). Alvisi e Kirimoto a Podernuovo (2013).

Qualche parola in più sugli alberghi. Se ne stanno costruendo molti, di lusso e superlusso, dotati di spa, per rendere l’esperienza esteticamente la più soddisfacente possibile. In questo campo operano professionisti specializzati, quali Marco Piva, specialisti del lusso quali Citterio e Viel, designer di ottimo livello quali Matteo Thun, visionari quali Alberto Cecchetto, giovani e promettenti studi quali noa*. A volte il lavoro è diviso tra edilizia e arredo. Per quest’ultimo provvedono designer specializzati, conosciuti e apprezzati come Patricia Urquiola.

OMA. Fondazione Prada Milano. Foto Moreno Maggi

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Partire, tornare, restare 5

Nel 1999 nasce Villard, seminario itinerante di progettazione architettonica che ogni anno coinvolge università italiane e straniere. Villard fa entrare gli studenti in contatto con luoghi fisici e soggetti culturali, incrociando esperienze e conoscenze anche con studenti con altre formazioni e con alcuni tra i migliori professori che insegnano nelle facoltà di architettura europee. Tra gli italiani: Carmen Andriani (Genova), Aldo Aymonino (Venezia), Francesco Cellini (Roma 3), Pippo Ciorra (Ascoli), Alberto Ferlenga (Venezia), Sergio Polano (Venezia), Mosè Ricci (Genova), Andrea Sciascia (Palermo). Se Villard favorisce il confronto, è il programma Erasmus che dal 1987 ha permesso agli studenti europei di trasferirsi in un Paese della Comunità, diverso dal proprio, per studiare. Ha favorito così l’integrazione europea e l’attitudine agli spostamenti. Che si concretizza quando, conseguita la laurea, toccano con mano la mancanza di lavoro e lo sfruttamento negli studi professionali italiani e decidono di trasferirsi all’estero per lunghi periodi o definitivamente. Comprano, come sintetizzano i giornali, il biglietto di sola andata. Mete privilegiate sono Spagna e Francia: la prima per la lingua e l’attenzione all’architettura, la seconda perché ci sono gli studi di Renzo Piano e di Massimiliano Fuksas. E poi Portogallo, Olanda e anche Germania e Paesi Scandinavi. Altri si recano negli Stati Uniti, dove però le leggi per l’immigrazione sono severe, e alcuni in mete prima remote come il Giappone e l’Australia. Nel 2012 l’Associazione Italiana di Architettura e Critica decide di raccontare le storie di 50 architetti trasferitisi all’estero, chiedendo loro di inviare una valigia nel cui interno ci sono documenti e testimonianze della loro storia. La mostra è curata da Diego Barbarelli e allestita da Orazio La Monaca prima a Castelvetrano in occasione

delle giornate di Architects meet in Selinunte e poi a Palermo e Roma e ha il titolo Partire, tornare, restare. Nello stesso periodo Graziella Trovato, un architetto siciliano trasferitosi in Spagna, pubblica per i tipi di Mancosu Editore un libro con i profili di 19 italiani che lavorano in pianta stabile in Spagna producendo opere di interesse. Sono: Claudia Bonollo, Daria De Seta, Ciszak Dalmas, Ebv Estudio Barozzi Veiga, ecosistema urbano, Embt (Benedetta Tagliabue), Patrizia Falcone, Elena Farini d’Orleáns Borbón, Fondarius Architecture, Emanuela Gambini, grábalosdimonte arquitectos, L.O.L.A. (local office for large architecture), Mab Marotta Basile Arquitectura, Enrica Mosciaro, myrA (arquitectos), Nábito Architects, PiSaA, Teresa Sapey, Solinas + Verd Arquitectos. Con la lentezza che lo contraddistingue anche il Maxxi decide di interessarsi al problema e il 6 dicembre 20013 è inaugurata a Roma la mostra Erasmus Effect a cura di Pippo Ciorra.

La fuga dei cervelli comporta certamente il depauperamento del Paese, regalando ad altri Stati risorse umane che sono state formate con notevole impegno di risorse economiche. Si stima che un laureato costi più di 100.000 euro. La crescente internazionalizzazione degli studi di progettazione (che deriva dal fatto che anche altri Paesi hanno fughe di cervelli o semplicemente che ormai fa parte della formazione trascorrere un periodo di lavoro all’estero) comporta altre due conseguenze. La prima è che nasce una koinè di linguaggio e di stile ormai diffusasi quasi ovunque, perché, per quanto il team possa essere gestito da una forte personalità, la gran parte del lavoro è realizzato dal backstage. Diventa sempre più difficile individuare se il progetto

sia stato prodotto in uno studio italiano, portoghese o olandese. La seconda è che, quando rientrano, i progettisti che hanno lavorato all’estero portano le esperienze acquisite e ciò contribuisce non poco alla sprovincializzazione degli studi di progettazione italiani. Molti dei quali stanno capendo che, a fronte di un mercato asfittico, occorre cercare incarichi all’estero, dove anche la macchina dei concorsi di progettazione funziona meglio. A fare la parte del leone sono grandi strutture professionali (Progetto Cmr, Politecnica, Lombardini 22, Il Prisma) che, insieme alle grandi firme, quali Piano, Fuksas, De Lucchi, Archea, Abdr, Schiattarella Associati, Studio Valle Progettazioni che producono all’estero gran parte del fatturato. E anche studi più piccoli ma di qualità quali Paolo Lettieri, HZ studio, Amaart, Scau, Studio Costa Architetture puntano alle occasioni offerte dai Paesi arabi o anche da Paesi amici quali Albania e Malta.

All’estero operano, inoltre, i collettivi di progettazione specializzati nel settore della cooperazione internazionale, come ARCò architettura e cooperazione. TAM Associati ha realizzato, insieme a tante altre opere, un ospedale chirurgico pediatrico in Uganda per Emergency co-firmato con Renzo Piano (2021). Vi sono poi 2A+P/A, Ian+ e MA0 che hanno realizzano nel 2011 una scuola in Afghanistan dedicata alla memoria della giornalista Maria Grazia Cutuli. Di interesse per la tecnologia adottata, le Green Schools di Mario Cucinella a Gaza che operano in autosufficienza energetica.

Il libro di Salvatore Spataro Needs, Architetture nei Paesi in via di sviluppo (2013), ci racconta quanto stia diventando importante, anche per i risultati formali conseguiti con materiali poveri e di risulta, l’architettura della cooperazione.

30 Agosto 2013. Il presidente della Repubblica Giorgio Napoletano nomina l’architetto Renzo Piano Senatore a vita. Qualche commentatore nota che Piano è probabilmente un voto in più per la traballante maggioranza di centro-sinistra al Senato. Ma la scelta è sotto ogni profilo inappuntabile. Piano, all’epoca settantacinquenne, è l’architetto italiano più famoso e apprezzato al mondo, autore di opere acclamate dalla critica e apprezzate dalla opinione pubblica. Premio Pritzker nel 1998. Sembra di esser anni luce distanti dal 1976, anno in cui era stato liquidato da Manfredo Tafuri come un progettista minore, un giovane architetto che “traduce in superflue metafore immagini oramai canoniche del nuovo ambiente naturale”. La colpa principale di Piano era stata il progetto del Centro Pompidou (19711977), realizzato insieme a Richard Rogers e Gianfranco Franchini. Raccontava che l’architettura poteva essere altro rispetto ai monumenti di Louis Kahn e ai cimiteri rossiani. I suoi riferimenti erano le avanguardie, gli Archigram e Cedric Price. Un edificio nudo, anzi con le budella di fuori (Reyner Banham parlerà di Bowellism) diverso dagli edifici amati dagli accademici, chiusi da prospetti punteggiati da finestrelle quadrate. Un delitto di lesa maestà per il quale, almeno sino agli anni Novanta, Renzo Piano fu bandito dall’università. Forse a causa di questo ostracismo, o probabilmente per un ripensamento dovuto alla sua indole pacata e certamente non rivoluzionaria, Piano modifica nel tempo la propria poetica spostandosi dall’High Tech all’High Touch. Lo si vede già nel Museo Menil di Houston (1981-1984) dove sceglie di lavorare con il legno e la luce. Nelle opere successive sperimenta idee progettuali avanzate ma sempre con

Il Senatore

mano morbida e approccio convincente e moderato. Come nella città della Musica a Roma (1995-2002) dove le tre sale concerto rassomigliano più a strumenti musicali che alle forme hyperbiologiche alla Greg Lynn che negli stessi anni andavano di moda tra gli architetti di avanguardia. Straordinario comunicatore, Piano capisce che la tecnologia la si può cavalcare in ogni progetto ma solo a condizione di celebrarla il meno possibile, descrivendola e paragonandola mediante immagini di oggetti noti e ben accetti. Le tre sale a forma di blob della città della musica? Traggono ispirazione dalle cupole di Roma. Il verde nel tetto della California Academy of Science? È il ricordo dei giardini pensili di Babilonia. Come si chiama il centro commerciale in Campania? Vulcano buono. A cosa rassomiglia il ponte San Giorgio sul Polcevera? A una nave. Contro la retorica intellettualistica e il linguaggio oscuro dell’accademia, Piano introduce nel discorso architettonico le tecniche comunicative della pubblicità. Poco importa se si tratti solo di mezze verità e le automobili non sono così silenziose ed ecologiche come appaiono nei video promozionali. E anche i biscotti non sono sfornati in un mulino da Antonio Banderas. Importante è ipnotizzare il pubblico con belle immagini e convincenti metafore. La più efficace delle quali è il “rammendo”. L’architetto, sostiene Piano nelle interviste che compaiono sui più diffusi canali di stampa, deve comportarsi nei confronti della città come un buon sarto che rammenda ciò che è strappato. Pazienza se ciò non avvenga negli edifici disegnati da lui stesso. È, infatti, molto difficile pensare come rammendi opere quali lo Shard di Londra (2009-2012) che è l’edificio più alto d’Europa; l’aeroporto di Kansai in Giappone

(1988-1994) posato su un’isola artificiale di svariati chilometri quadrati; il grattacielo del New York Times (2004-2007) che svetta a Manhattan; le costose abitazioni a Monaco (35.000 mq con un prezzo di vendita pubblicizzato di oltre 100.000 euro al metro quadrato).

La nomina di Piano a Senatore suscita negli architetti numerose aspettative. Sperano che il Senatore decida di portare avanti la legge per l’architettura, riprendendola magari da quella francese che ha funzionato benissimo. Piano potrebbe diventare, grazie alla sua popolarità, alla fiducia che riscuote e alla facilità che ha di comunicare con i non addetti ai lavori, il portavoce della necessità di una buona architettura e il testimonial di tutti gli architetti, cioè di una categoria sempre più mortificata da leggi e regolamenti incomprensibili, dall’assenza di concorsi, dalla concorrenza sleale e dalla abolizione dei minimi tariffari prevista dalla legge Bersani del 4 luglio 2006 (durerà sino al 21 Aprile 2023 quando sarà introdotto l’equo compenso).

Tutto questo sembra interessarlo poco. E lo si capisce all’VIII Congresso Nazionale degli architetti (2017) in cui il presidente del CNA Giuseppe Cappochin cerca di promuovere la Legge sull’architettura. Il Senatore, nonostante la scelta simbolica di lanciare l’iniziativa dall’auditorium da lui disegnato, non si fa vedere. Un tonfo per Cappochin e per l’intera categoria. Piano, sin dal suo insediamento a Palazzo Madama, preferisce volare basso. Inventa il G124, dal nome della sua stanza al Senato, un workshop di dubbia utilità in cui coinvolge brillanti tutor e giovani architetti nel proporre piccoli progetti per le periferie. Progetti raccolti a futura memoria in agili pubblicazioni, strutturate come si fa oggi:

immagini affascinanti e scarsi contenuti specifici. Quaderni che ci ricordano che il ruolo di un Senatore della Repubblica non è quello, sia pur importante, di un assistente universitario, ma di avere una visione politica, urbanistica, edilizia per il Paese e di perseguirla con atti efficaci e tra loro coordinati. E ovviamente con una costante presenza in Aula. Il 14 agosto del 2018 crolla a Genova il ponte Morandi. La vicenda è nota: Renzo Piano si offre di regalare il progetto per il nuovo ponte, anche questo pubblicizzato con la sua persuasiva retorica. Lo faremo in acciaio e durerà mille anni. I pilastri ricordano le navi, cioè la cultura marinara su cui è stata costruita la città. La popolarità di Piano tra gli architetti scende bruscamente, come testimoniano i social con un numero crescente di post che lo

criticano per la scelta di accettare, se non perorare, l’abbattimento di un ponte capolavoro, orgoglio della ingegneria italiana, disegnato dal genio di Riccardo Morandi, per sostituirlo con un viadotto di design. Se fosse caduto un pezzo della basilica di San Pietro, l’avreste abbattuta per sostituirla con una pur pregevole chiesa disegnata da Piano? Molti non perdonano, poi, la strategia del dono vista come un espediente per ottenere l’incarico, senza passare per i concorsi di architettura. Strategia che, richiamando anche questo precedente, altri architetti cercheranno di utilizzare successivamente per ottenere incarichi pubblici, contribuendo alla svendita della professione.

Grazie al fatto che il ponte viene ricostruito in meno di due anni, tempi decisamente

brevi rispetto a quelli richiesti in situazioni normali dalle opere pubbliche, la vicenda abbattimento e assenza di concorso passano in secondo piano, almeno per quanto riguarda stampa e opinione pubblica. Più difficile è invece recuperare la fiducia e l’ammirazione da parte dei colleghi architetti. La vicenda del Senatore viene rubricata come una delle più grandi occasioni mancate. Renzo Piano sarebbe potuto diventare il santo custode dell’architettura italiana mentre invece si è dimostrato un progettista con scarso senso del gioco di squadra. Nel frattempo la vicenda della legge sull’architettura resta aperta e irrisolta. Anzi, con il nuovo codice dei contratti, i concorsi sono fortemente ridimensionati. Fare buona architettura in Italia diventa sempre più difficile.

RPBW. Parco della Musica. Roma Renzo Piano
RPBW. Museo Istanbul Modern

7 Università Fuksas e Università Piano

I due personaggi che nel periodo da noi considerato esercitano la maggiore influenza sugli architetti italiani sono, senza dubbio, Renzo Piano e Massimiliano Fuksas. Diversi uno dall’altro, hanno in comune il fatto che, per raggiungere il successo, sono dovuti emigrare in Francia. Inoltre ambedue sono stati snobbati dall’università italiana. Fuksas direi a vita, Piano per un periodo che potremmo far concludere nel 2007 quando la Triennale di Milano, in occasione del suo settantesimo compleanno, gli dedica una imponente mostra, curata dal più professionale critico italiano, Fulvio Irace, dal titolo Le città visibili

Fuksas e Piano hanno stili diversi sia nel modo di comunicare che di progettare. Pacato e suadente Piano, energico e tagliente Fuksas. Piano quando progetta parte dal particolare per arrivare al generale. E difatti i suoi dettagli costruttivi sono sempre ineccepibili. Fuksas ha una visione paesaggistica che parte dal segno alla grande scala. Pazienza che qualche attacco non risulti particolarmente brillante.

Lo si vede per esempio nella fiera di Milano Rho, inaugurata nel 2005, che stupisce per la sua felice dimensione territoriale ma non mostra cura per gli alberi metallici che sostengono le bolle vetrate. Mentre il Santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, progettato da Piano e inaugurato nel 2004, è ineccepibile alla scala del dettaglio a partire dal modo in cui sono tagliate le pietre, ma poco intenso come segno paesaggistico. Oberati dal lavoro professionale, gli studi di entrambi hanno avuto un intenso turnover di giovani architetti che sopperivano a una non sempre convincente formazione universitaria. E così, di fatto, i loro studi sono diventati le due più importanti università del Paese. Dove hanno studiato e praticato Giovanni Bellaviti socio di Bellaviti Coursaris, Enzo Amantea, Filippo Pagliani di Park, Enrico Frigerio, Carmelo Baglivo e Luca Galofaro ex soci di Ian+, Massimo Alvisi e Junko Kirimoto, Mario Cucinella, Riccardo Roselli, Marco e Gianluigi Giammetta, Fabio Barillari, Luca Peralta solo per citarne alcuni.

Attività questa che Renzo Piano sta ora continuando in forma ufficiale, con il coinvolgimento della sua Fondazione nelle attività didattiche del Politecnico di Milano. Nel 2017 è inaugurata la Nuvola disegnata da Fuksas. Le polemiche impazzano: per i costi che pare abbiano superato i 380 milioni, per la mancanza di spazi di servizio adeguati al funzionamento, per le spese di gestione. Gli argomenti sono su per giù gli stesse invocati per criticare il Maxxi. Poco si riflette sul fatto che l’edificio, come tutte le opere pubbliche italiane, ha messo sedici anni per essere realizzato ( il concorso era stato bandito nel 2001). Questo costante ritardo comporta per quasi tutte le opere pubbliche di nascere già vecchie. È merito però del Presidente del Consiglio Mario Draghi nel 2011 di insistere per ospitare nella Nuvola il G20, invece che al Palazzo dei Congressi di Libera, come pare gli fosse stato prospettato. Come a dire che il problema dell’Italia e della sua burocrazia ministeriale è vergognarsi di essere moderna.

8 Il Bosco Verticale

2014. Se l’edificio più rilevante di fine secolo è il museo Guggenheim di Bilbao, disegnato da Frank O. Gehry, il più famoso di inizio nuovo millennio sorge a Milano ed è a firma Boeri Studio (Stefano Boeri, Gianandrea Barreca e Giovanni La Varra). In realtà gli edifici sono due: un grattacielo di 80 e l’altro di 110 metri. Ma, per tutti, si tratta di unica costruzione: il Bosco Verticale. Si caratterizza per essere ricoperta da verde, precisamente da oltre 2.000 specie arboree, tra arbusti e alberi di alto fusto. Ecco come lo presenta Wikipedia: “si tratta di un ambizioso progetto di riforestazione metropolitana che, attraverso la densificazione verticale del verde, si propone di incrementare la biodiversità vegetale e animale del capoluogo lombardo, favorendone l’espansione urbana e contribuendo anche alla mitigazione del microclima”. Non è difficile intravedere una operazione speculativa con appartamenti destinati a un pubblico danaroso che si può permettere di acquistare a oltre 10.000 euro al metro quadrato e pagare cospicue spese condominiali determinate dagli altissimi costi di gestione del verde, mantenuto da una squadra di giardinieri acrobatici periodicamente calati dall’alto tramite meccanismi posti in copertura. Il Bosco Verticale non è un’idea particolarmente nuova. Basti pensare agli edifici di Emilio Ambasz, considerato unanimemente come il precursore dell’architettura verde, autore tra gli altri dell’edificio Acros di Fukuoka con una facciata scandita da splendidi giardini pensili ricoperti di vegetazione (1992-1995). Alle opere di James Wines, autore di un fortunato libro sulla Green Architecture edito da Taschen (2000) e recentemente ripubblicato per festeggiarne i 25 anni.

Ai progetti di Mvrdv, e tra questi il Padiglione Olandese all’Expo 2000 ad Hannover (1997-2000), particolarmente interessante perché usa il verde per la costruzione dello spazio architettonico, oppure la Torre Huerta progettata per Valencia (2007). E alle opere di molti altri quali il francese Édouard François. Tra gli italiani, Gabetti e Isola con il Quinto Palazzo per Uffici dell’Eni (1988-1991) e Luciano Pia con il Condominio 25 Verde a Torino (20102013).

Resta tuttavia da spiegare perché il Bosco Verticale, rispetto ai suoi colleghi non meno green, abbia avuto tanta fortuna sino a diventare un simbolo di cui si parla nelle riviste, sui social, al cinema e in televisione. Probabilmente è la scelta del nome. L’idea che un edificio possa avere a che fare con una foresta è fortemente suggestiva. Soprattutto in un periodo nel quale si ha la crescente consapevolezza che la cementificazione del territorio abbia prodotto danni irreversibili all’ambiente. Il Bosco Verticale, inoltre, sembra sanare una contraddizione irrisolvibile tra il cemento e il verde. Invece di porre i due termini come antagonisti, li fa lavorare insieme. È, insomma, possibile continuare a costruire grandi complessi edilizi, anche grattacieli, senza compromettere l’habitat umano, anzi sfruttando i benefici della densità. Non più la logica del ‘o/o’ ma quella del ‘e/e’ o, come dicono gli anglosassoni, del win/win. Ma, ci chiediamo: vincono veramente tutti o, invece, il Bosco Verticale è l’ennesimo prodotto di una cultura che brillantemente evita le scelte?

Se così fosse non possiamo non vedere la figura di Boeri come quella di un precursore di un clima culturale che trasforma il negativo in positivo. Dove

cioè le contraddizioni non esplodono ma coesistono e il segreto dell’architetto è farle funzionare entrambe (una lezione questa di Bjarke Ingels che a sua volta si è ispirato a Koolhaas che è amico di Boeri: tutto torna). Boeri a questo gioco sembra appassionato da sempre. A partire da una formazione eclettica che mette insieme e senza troppi problemi avanguardia e reazione. Nel libro La città scritta, che riprende la sua tesi di dottorato, accosta, con la stessa disinvoltura con la quale assocerà verde e grattacieli, Carlo Aymonino, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Bernardo Secchi, Giancarlo De Carlo. Non si potevano scegliere personaggi più diversi e antagonisti.

Evitando strappi decisi con l’establishment, Boeri ha potuto sovrapporre, esattamente come nel Bosco Verticale, il nuovo al vecchio. Lo ha fatto con iniziative particolarmente intelligenti quali le mostre Multiplicity e Mutations (2000) con Rem Koolhaas, Hans Ulrich Obrist, Stanford Kwintes, Nadia Tazi. Ne è venuto fuori un manifesto che ha mostrato le contraddizioni di un mondo reale che le vecchie indagini tipologiche e morfologiche non riuscivano a captare.

Lavorando sulle contraddizioni, ha poi diretto le due storiche riviste Domus e Abitare. A volte con articoli illeggibili del radicalismo contemporaneo. A volte mostrando progetti inguardabili come l’ampliamento della scala di Milano ad opera di Mario Botta. A volte facendo commentare le opere di architettura con un racconto. A volte con invenzioni giornalistiche come con i numeri monografici di Abitare che raccontavano le giornate degli architetti visti dietro le quinte (memorabile il numero su Renzo Piano). Complessivamente un tonfo, a mio avviso,

ma a fin di bene, per contrastare con nuove strategie il declino irreversibile della pubblicistica di settore.

Vi sono poi le battaglie politiche per Milano, ma alla fine lo scontro con il suo referente, il sindaco Giuliano Pisapia, lo ha fatto mettere da parte.

Insomma, Boeri ha mostrato che tutto è cambiato, deve cambiare e sta cambiando e che non ha senso pensare a un architetto fermo al tavolo da lavoro. Per guidare il mutamento occorre essere in continuo movimento, veloci, astuti e forti. E, quindi, come tutti i personaggi importanti che lo hanno preceduto (Gio Ponti, Ernesto Nathan Rogers, Vittorio Gregotti), i ruoli per portare avanti le sue iniziative li ha occupati tutti e, spesso, contemporaneamente: professore universitario, direttore di riviste, organizzatore di mostre, animatore culturale, politico, professionista, saggista, presidente della Fondazione Triennale di Milano.

Sembra però che negli ultimi tempi gli interessi di Boeri siano principalmente professionali. Dopo essere diventato il numero tre nella classifica delle star italiane, dietro Piano e Fuksas, è chiamato a realizzare edifici e piani urbani in ogni parte del mondo. Progetti in cui una coltre di verde sembra coprire ogni peccato della nostra e delle altrui civilizzazioni. Un atteggiamento, a mio avviso, semplificante delle problematiche in gioco e che proprio per questa sua facilità nel replicarlo sta diventando uno stile condiviso da un numero crescente di architetti. Considerata la non più giovane età di Piano ottantasettenne, e di Fuksas ottantenne, Boeri, oramai vicino ai settanta, appare pronto per diventare il numero uno.

Boeri Studio. Il Bosco Verticale Milano. Foto Giovanni Nardi
Emilio Ambasz. Fukuoka Prefectural International Hall. Foto courtesy Leaf-Legacy Emilio Ambasz Foundation

9 Cantina Antinori

12 dicembre 2008. Il Corriere della Sera pubblica la notizia che l’architetto fiorentino Marco Casamonti è coinvolto, a seguito di intercettazioni telefoniche, in due inchieste per turbativa d’asta entrambe per operazioni di project financing. Non passa un anno e la magistratura indaga sulle opere edilizie legate ai grandi eventi del governo Berlusconi. Tra questi i lavori alla Maddalena, eseguiti per ospitare il G8. Per la procura di Firenze l’inchiesta avrebbe rivelato corruzione negli appalti che sarebbero stati assegnati a seguito di scambi di favori tra dirigenti dello Stato e imprenditori. Assieme a Marco Casamonti è coinvolto Stefano Boeri, incaricato del recupero dell’Arsenale della Maddalena. Il G8, a seguito di questo scandalo, con un brillante coup de théâtre, è spostato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a l’Aquila dove si sta lavorando alla ricostruzione seguita al terribile terremoto che ha distrutto la città. Le opere alla Maddalena sono lasciate incompiute e, poi, in stato di abbandono. La vicenda giudiziaria non si ferma ma sia Boeri che Casamonti ne escono puliti. E segnati, tanto che, probabilmente a seguito di questa esperienza, ripensano i loro percorsi professionali.

Boeri, che ha appena terminato la sua esperienza di direttore ad Abitare (2010), anch’essa non un successo, pubblica un libro, che analizza le vicende della Maddalena, dal titolo Effetto Maddalena: Una vicenda di architettura (2010). Sono meditazioni sull’architettura e sul fallimento dei propri progetti. Tema che ripropone anche in due dibattiti con l’estensore di queste pagine, a marzo 2010 al palazzo della Triennale di Milano e ad aprile alla Casa dell’architettura a Roma. Segue qualche anno di minore esposizione

mediatica che si conclude con la Biennale del 2014 diretta da Rem Koolhaas. Dove Boeri presenta un video dal titolo La Maddalena realizzato da Ila Beka e Louise Lemoine. L’utilizzo di due straordinari film maker per un filmato alla Koolhaas (Ila Beka e Louise Lemoine sono infatti gli autori del celeberrimo video che pubblicizza la casa di Koolhaas a Floriac) servirà a preparare la ripartenza, che avverrà grazie al successo del Bosco Verticale, inaugurato proprio nello stesso anno. Da questo momento Boeri sembra focalizzarsi sui temi del verde e dell’ecologia, impiegando la gran parte delle sue energie per puntare sulla professione.

Anche Casamonti cambia decisamente registro. Prima di questi scandali era stato una delle figure di maggiore spicco del dibattito nazionale operando con successo da ponte tra i giovani emergenti e l’Accademia. Aveva diretto la rivista Area nel 1995, portandola a tirature considerevoli e ne aveva messe in piedi e dirette altre. Era stato promotore di mostre e di iniziative editoriali. Dal 1998 era stato curatore scientifico ed editoriale della Casa editrice Motta Architetture. Aveva valorizzato personaggi come Paolo Portoghesi che in quegli anni erano stati messi da parte: Portoghesi diventando direttore scientifico e Casamonti direttore responsabile della rivista Materia. Aveva stimolato la nascita di Aid’a, Agenzia italiana di architettura, un raggruppamento di progettisti italiani nato per promuovere l’architettura di qualità, oltre che per valorizzare i propri associati con mostre e premi di architettura e il supporto della rivista d’Architettura, dal 2002 al 2009 diretta da Giovanni Leoni. Era stato membro di giuria di concorsi. E aveva intessuto un dialogo proficuo con Stefano Boeri (ricordiamo: direttore

dal 2004 al 2007 di Domus e dal 2007 al 2010 di Abitare) con inviti e apprezzamenti reciproci, che facevano pensare che proprio Boeri e Casamonti fossero le due figure di riferimento della nuova architettura italiana: direttori di rivista, professionisti, accademici, in buoni rapporti con la politica.

Dopo le vicende giudiziarie, Casamonti si fa vedere di meno, quasi sembra scomparso dalla scena nazionale, lascia più spazio agli altri soci di Archea. Si muove sempre di più all’estero, approfittando delle numerose occasioni che si offrono in altri Paesi, per esempio l’Albania. Tanto che la Marco Casamonti & Partners / Archea Associati vanta oggi sedi a Firenze, Roma, Milano, Genova, Parigi, Tirana, Dubai, Sao Paulo, Pechino.

Il capolavoro di Casamonti e dello studio Archea è la cantina Antinori inaugurata nell’ottobre del 2012. Un’opera gigantesca di 58.000 metri quadrati scavata nella terra del Chianti, quasi 300.000 metri cubi ricavati su 12 ettari di campagna e ottenuta gettando 40.000 metri cubi di cemento. Il suo fascino risiede nella perfetta integrazione nel paesaggio e nella magistrale esecuzione del progetto. Caratterizzata da una grande terrazza con una magnifica scala panoramica, da una complessa spazialità interna, dalla felice scelta dei materiali tra i quali un perfetto cemento color rosso ruggine. Sicuramente l’opera italiana migliore degli ultimi venti anni. L’ edificio ottiene unanimi riconoscimenti, anche all’estero, contribuendo non poco alla fortuna professionale di Casamonti, orientandolo sempre di più verso l’attività professionale e distogliendolo dall’intervenire nelle scivolose vicende architettoniche italiane. È interessante notare che l’edificio più

Marco Casamonti / Archea Associati. Cantina Antinori. Chianti Classico Sotto, l’architettura inserita nel paesaggio. Foto Pietro Savorelli.

affascinante, cioè la cantina Antinori, e quello più famoso degli ultimi decenni, cioè il Bosco Verticale, sono due risposte inconsuete ai temi dell’ambiente. Si può discutere se il Bosco mantenga le sue promesse e sul fatto che la Cantina, che appare magicamente inserita nella collina, in realtà Casamonti l’ha riempita di ferro e cemento. Ma certo è che entrambi gli edifici

mostrano che l’architettura italiana si sta muovendo verso nuovi paradigmi. Numerose e interessanti e non prive di bellezza sono le altre opere realizzate da Archea anche se nessuna del peso specifico di Antinori, C’è sempre, a mio avviso, un eccesso di forma e ossessione del bel disegno e della decorazione che le rende un po’ compiaciute.

10 La vecchia guardia e lo stile casabelliano

Il 23 gennaio 2020 muore Adolfo Natalini, Il 15 marzo 2020 Vittorio Gregotti, il 30 maggio 2023 Paolo Portoghesi. Scompaiono nel giro di tre anni i maggiori rappresentanti dell’Accademia italiana. Adolfo Natalini di questa Accademia ha rappresentato le contraddizioni. Aveva da giovane fondato il gruppo radicale Superstudio (1966) diventandone il più noto esponente per poi abiurare e muoversi dalle ricerche di avanguardia al più tradizionale post modernismo. Dotato di una mano estremamente felice e professore carismatico, era stato un punto di riferimento dell’Università. Ma come portavoce di un punto di vista cinico e disincantato per il quale era lecito progettare in tutti gli stili, compreso quello moderno. E in uno stile moderatamente moderno sono due tra le sue ultime opere importanti per Firenze: il progetto la Scala di Ponente e per i nuovi Uffizi ( dal 2003) e Il Museo dell’Opera del Duomo (2005-2015). Per Firenze, occorre scordarsi che siano possibili interventi meno compromissori, come per esempio la pensilina progettata da Arata Isozaki per l’uscita degli stessi Uffizi, un progetto contestato e rinviato e infine cassato che avrebbe dovuto essere completato nel 2003. Una vicenda che fa il paio con il progetto per l’uscita delle Cappelle Medicee, vinta dal professore Paolo Zermani (2015-2023) che sembra una pietra tombale per non dare nell’occhio, mimetizzandola il più possibile.

Se dell’anima che vive nel compromesso tra nuovo, postmoderno e antico Natalini era stato il punto di riferimento, Gregotti aveva invece rappresentato l’anima autoritaria e anti possibilista del moderno. Lo ha fatto esercitando una ampia influenza culturale come direttore della rivista Casabella dal 1982 al 1996, come

direttore della rivista Rassegna, attraverso i puntuali articoli sul Corriere della Sera e con innumerevoli libri. Come si capta già dai titoli di questi ultimi ( Contro la fine dell’architettura del 2008 o Quando il moderno non era uno stile del 2018) il nemico da combattere è l’architettura dello Star System, quella che si basa sull’effetto sorpresa, si vende come una semplice pratica stilistica e, così facendo, determina la morte della vera Architettura che, invece, coltiva i valori e punta sulla permanenza. Considerazioni non sbagliate ma che crollano di fronte alla produzione gregottiana di falansteri ed edifici neorazionalisti, spesso fallimentari come lo Zen a Palermo (1969 in poi sino al 1990) o il più recente quartiere Bicocca a Milano (1991-2005).

Il terzo protagonista che scompare è Paolo Portoghesi, un personaggio estremamente rilevante nella storia dell’architettura italiana. Per i suoi studi sul Barocco e sul Liberty e per essere stato il maggior promotore e sostenitore del ritorno della storia nella progettazione. Per aver fondato e diretto dal 1966 al 1983 la rivista Controspazio e successivamente numerose altre. Per aver lanciato la Biennale di Architettura di Venezia sulla scena internazionale con la mostra del 1980 dal titolo ‘La presenza del passato’ dove era stata installata La Strada Novissima. Di carattere generoso, Portoghesi è stato il collante di una generazione di architetti che si riconoscevano nella versione più colta del post modern, quella che cercava di recuperare la continuità con il passato. La scomparsa di Natalini, Gregotti e Portoghesi crea un vuoto nel fronte conservatore. Di una accademia che sta anche lei invecchiando. Francesco Cellini è del 1944, Franco Purini del 1941, Francesco

Dal Co del 1945, Francesco Moschini del 1948, Carlo Olmo del 1944, Giorgio Grassi del 1935, Pietro Derossi del 1933, Alberto Ferlenga del 1954. Personaggi tutti che, pur culturalmente attivi, sono ormai fuori dalle aule universitarie e patiscono la crisi della carta stampata, il medium privilegiato attraverso il quale avevano trasmesso le loro idee e teorie.

Chi sono i progettisti che tra il 2000 e oggi hanno fatto scuola nelle università italiane e che, comunque, anche conclusa l’esperienza universitaria, sono rimasti dei punti di riferimento? Che, cioè, hanno maggiormente influenzato il modo di progettare delle generazioni più giovani? Sicuramente alcuni Maestri che hanno fatto i conti con la sperimentazione e l’innovazione. Penso per esempio al magistero di Giancarlo De Carlo (1919-2005) a Genova, a Massimo Pica Ciamarra (1937) a Napoli, a Franco Zagari (1945-2023) a Reggio Calabria, a Alberto Cecchetto (1949) a Venezia.

Si tratta però di una sparuta minoranza, mentre la maggior parte dei Maestri appartiene al fronte moderato o conservatore. Tra questi, come dicevamo, certamente Adolfo Natalini a Firenze. Meno Paolo Portoghesi: la sua influenza è stata più culturale in senso lato che progettuale. Forse Gregotti e Purini per coloro che optano per uno stile neorazionalista. Vi sono altri sette progettisti che, a mio avviso, sono stati molto influenti come professori di progettazione, anche perché dotati di indubbio talento e autori di opere rilevanti. Sono il siciliano Pasquale Culotta (1939-2006), l’ispiratore indiscusso della scuola palermitana; Sandro Anselmi (1934-2013) che ha operato a Roma 3; Claudio D’Amato Guerrieri (1944-2019) che è stato attivo a Bari; Francesco Cellini

(1944) preside per lungo tempo a Roma 3; Francesco Venezia (1944) a Napoli; Massimo Carmassi (1943) a Venezia e nel centro nord; e il più giovane Paolo Zermani (1958) a Firenze. I sette, tutti membri dell’Accademia di San Luca, sono tra i relatori di maggior peso dei convegni sull’Identità dell’Architettura Italiana di cui lo stesso Paolo Zermani è fondatore e ideatore. Tutti si caratterizzano per un atteggiamento sospettoso nei confronti della più recente architettura. Chi con maggiore chiusura. Chi lasciando la porta socchiusa alla mediazione. Chi con qualche apertura anche nella propria ricerca personale, come nel caso delle ultime opere di Alessandro Anselmi che denunciano concessioni al piacere delle forme e alla felicità del segno, ad esempio nella chiesa di San Pio di Petralcina a Roma (2005-2010), caratterizzata da tre grandi arcate asimmetriche.

Appaiono critici di un costruire in cui la tecnologia è esibita e che, come afferma Zermani, “è sempre più schiava e dipendente da un fabbisogno tecnologico ed energetico crescente del quale ora, con un discorso che si morde la coda, ci si affanna a cercare la sostenibilità, attraverso una ulteriore complicazione tecnologica”.

Da qui un duplice atteggiamento: di recupero di configurazioni spazialmente semplici, stereometriche, formalmente chiare e dall’altro dell’uso di materiali tradizionali quali il mattone e le pietre, a volte, come nel caso di D’Amato, tagliate con moderne tecnologie e recuperate come materiali strutturali. In proposito è emblematico il complesso scolastico a Trevi di Massimo Carmassi (2002-2006), un edificio austero, ben localizzato, costruito con mattoni duraturi. In altri progetti, per esempio nel concorso per la copertura del

teatro greco di Eraclea ad Agrigento (2024) di Francesco Cellini, si registrano misurate apertura alla modernità, utilizzando ferro e vetro e anche il verde. Così come leggeri sono, dello stesso Cellini, il ponte degli Annibaldi in ferro di fronte al Colosseo (1998-2000) o la ariosa sistemazione di Piazza Augusto imperatore (in corso di costruzione).

Non c’è dubbio, tuttavia, che nella lotta tra metafisica e futurismo nessuno di loro, pur nella diversità delle linee poetiche, opterebbe per il futurismo, anzi cercherebbe di evitare qualsiasi atteggiamento avanguardista o decostruttivista, collocandosi, invece, in una linea di ricerca che ha in massima considerazione i temi dell’architettura della città di Aldo Rossi e della Tendenza. Non disdegnando, inoltre, di rifarsi a Louis Kahn, come nel caso di Anselmi, Carmassi o Zermani. Oppure al Movimento Moderno,

ripreso più per i suoi aspetti lirici e puristi che per il coraggio innovatore, come è il caso di Francesco Venezia. Oltre a questi ve ne sono altri, a mio giudizio meno influenti, come per esempio Giangiacomo D’Ardia a Pescara (1940), Carmen Andreani (1953) a Pescara e a Genova, Franz Prati (1944) a Genova.

Francesco Dal Co, attraverso la rivista Casabella, ha sostenuto questo approccio progettuale misurato e contestuale, che, semplificando le differenze tra le diverse poetiche, possiamo chiamare lo stile casabelliano. Un educato e raffinato comporre non privo di reminiscenze classiche e/o disciplinari che da molti è considerato lo stile italiano per eccellenza e a cui non è difficile ascrivere altri progettisti operanti dentro e fuori l’università le cui opere sono puntualmente pubblicate nella stessa rivista o nei suoi annuari.

Gregotti Associati International. Università degli Studi di Milano Bicocca
Massimo Carmassi. Restauro del panificio della Caserma
Santa Marta di Verona e trasformazione in sede universitaria

11 Tra Milano e l’Alto Adige

Nel 2008 Milano batte Smirne dopo una lunga competizione ed è scelta come la città ospitante l’Expo del 2015. Il titolo individuato per la manifestazione è ambizioso: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. E lo è anche il progetto di allestimento curato da Steano Boeri, Herzog & de Meuron, Ricky Burdett che, all’inizio, prevede una inedita piattaforma espositiva di oltre un milione di metri quadrati con le caratteristiche di un Orto planetario, senza i soliti padiglioni e in cui a ogni Stato è assegnato un appezzamento di terreno dove coltivare, esporre e far consumare i cibi regionali, mettendo in scena la biodiversità. Il progetto è troppo ambizioso e probabilmente velleitario nell’idea di mettere tutti gli espositori sullo stesso piano e viene cassato: è impossibile rinunciare a padiglioni ciascuno diverso dall’altro attraverso i quali autorappresentarsi. Di conseguenza, alla fine, l’Expo milanese non si discosta granché dagli schemi consueti, che però interpreta con intelligenza e anche attraverso costruzioni e installazioni notevoli firmate da Michele De Lucchi, Nemesi, Carlo Ratti, Alessandro Scandurra e altri. Inaugurata il primo maggio 2015, accoglierà oltre 22 milioni di visitatori. Un ulteriore successo per una città che, dopo la crisi di Tangentopoli, ha saputo ricreare la propria immagine, diventando una delle capitali europee del design e della moda inventando o rilanciando eventi in grado di attrarre un pubblico internazionale. È il modello Milano. Che porta il capoluogo lombardo a superare Roma, che vanta beni artistici e architettonici ben superiori, per presenze annue di turisti. Una città efficiente che, in tempi brevi, ha realizzato un complesso avveniristico come il polo fieristico a Rho-Pero, capta l’arte attraverso

musei e fondazioni di livello internazionale, costruisce i progetti di City Life e di Porta Nuova, ha riqualificato quartieri quali la Bicocca, porta a termine progetti infrastrutturali, in primis la metropolitana che la collega all’aeroporto di Linate. Tutto ciò si riversa nella domanda di architettura, che a Milano è alta. Tanto che vi risiedono i maggiori e i più qualificati studi di progettazione. A fronte del successo, diverse criticità: prezzi esagerati di affitto e di vendita delle abitazioni con costo della vita alle stelle, un estetismo diffuso fatto di ristoranti stellati, di negozi disegnati dall’architetto, di una incessante movida. Non mancano le voci critiche. Tra queste il documentato e appassionato libro di Lucia Tozzi, L’invenzione di Milano (Cronopio 2023) che mette in evidenza quanto di sbagliato ci sia in un modello di sviluppo che estetizza la città e trascura, se non dimentica, le necessità primarie. Oltre al modello Milano ci sono in Italia altre storie di successo. Quasi tutte sono da attribuire alla legge dell’elezione diretta dei sindaci (1993) emanata subito dopo Tangentopoli che, dando maggior potere e responsabilità ai primi cittadini, ha ben funzionato. A Salerno con Vincenzo De Luca, a Roma con Francesco Rutelli, a Venezia con Massimo Cacciari, a Catania con Enzo Bianco, a Palermo con Leoluca Orlando, a Firenze con Matteo Renzi. I buoni risultati dei primi periodi, segnati dalla messa in cantiere di numerose opere, spesso realizzate da grandi nomi, difficilmente sono stati bissati con il nuovo millennio. Così come si è esaurita la stagione dei concorsi di architettura, numerosi e con giurie rispettose delle norme per la paura delle manette, che aveva permesso l’emergere di giovani progettisti e, comunque, di buoni progetti.

Vi sono poi i programmi edilizi, anche a scala urbana, che si attuano in occasione di grandi eventi, come è successo a Torino nel 2006 con i ventesimi giochi invernali quando si sono costruiti impianti sportivi, infrastrutture, complessi abitativi. I risultati non sono però tali da cambiare profondamente l’assetto delle città. Anzi a volte, come è successo per la vela di Calatrava a Roma (2007), pensata per i mondiali di nuoto del 2009, rimasta interrotta e non finita sino al momento in cui scriviamo, le opere approvate sono causa di problemi e polemiche.

Mentre fonte di soddisfazione, almeno per gli architetti interessati, sono le numerose chiese di ottima qualità grazie all’esperienza millenaria del Vaticano e a un buon sistema di concorsi ad invito.

Tra le tante realizzate ne ricordiamo tre.

La chiesa San Paolo Apostolo a Foligno (2001-2009), progettata da Massimiliano e Doriana Fuksas, è una opera di grande interesse spaziale ma poco empatica per il monumentale volume in cemento a vista che la caratterizza.

La chiesa della Resurrezione di Gesù a Sesto San Giovanni (2004-2010), disegnata da Cino Zucchi, è caratterizzata, invece, da una forma accogliente e dal felice alternarsi di rivestimenti chiari e scuri.

La chiesa di S. Maria Goretti a Mormanno (2011-2022), di Mario Cucinella, si inserisce nel paesaggio grazie al gioco di curve che strutturano la pianta.

Sono tre opere molto diverse tra loro. Non esistono, infatti, prescrizioni stringenti se non per il buon funzionamento, che è delegato a un liturgista di supporto al gruppo di progettazione. Per il resto massima libertà. A partire dalla scelta dei progettisti noti e meno noti, di età diverse, che perseguono ricerche formali

contrastanti. E così troviamo professori di progettazione architettonica di grande sensibilità quali Marco Petreschi, architette note internazionalmente quali Benedetta Tagliabue, giovani promettenti quali Lillo Giglia, esperti del tema quali Danilo Lisi, progettisti appassionati di arte quali Piero Sartogo, personaggi creativi come lo scomparso Italo Rota.

Le chiese sono però opere disperse nelle realtà urbane italiane, che migliorano ma non hanno la forza di cambiare un territorio. Per cambiare il quale occorre raggiungere una massa critica.

L’unica realtà, oltre al caso Milano, che con architetture di qualità ha prodotto questa massa critica, sfruttando l’autonomia

regionale e provinciale, credo sia quella altoatesina. Emerge per continuità, qualità e quantità di realizzazioni. Si caratterizza per la forte istanza regionalista, per l’uso di materiali naturali, per l’attenzione alle esigenze bioclimatiche, per la stretta integrazione con il paesaggio.

Tra i caposcuola vi sono Werner Tscholl, Matteo Thun, Walter Angonese. Tra i più giovani e sperimentali MoDus Architects e il gruppo noa*- network of architecture fondato nel 2010. Vi sono poi Bergmeister Wolf Architekten; Feld 72; Claudio Lucchin (Cl&aa); Roland Baldi.

Punta a architetture iconiche e neorazionaliste, infine, il gruppo Pedevilla Architects, fondato a Brunico nel 2005 e

vincitore del premio Architetto Italiano del 2023, con un’opera, a dire il vero, pesante e bloccata.

Nella mostra Architetture recenti in Alto Adige 2018-2024, curata da Filippo Bricolo e inaugurata nel 2024, si sono fatti i conti. E si è visto che sommando i progetti della mostra con gli altri delle precedenti (del 2006, del 2012 e del 2018) si superano le 200 realizzazioni, e sarebbero almeno 4 volte di più contando i progetti che per motivi di spazio non sono stati selezionati (nel 2024 i progetti esposti sono stati 56 su 240 candidati). Una qualità diffusa, quella altoatesina, su cui le altre realtà territoriali dovrebbero riflettere.

Cino Zucchi Architetti. Chiesa della Resurrezione di Gesù. Sesto San Giovanni
Werner Tscholl. Cantina Traminer. Termeno

12 La critica tra carta e digitale

Non è azzardato avanzare l’ipotesi che la crisi attuale della critica in Italia sia stata innescata da quella delle riviste di architettura, da sempre deputate alla produzione e alla diffusione delle idee. Crisi che, a sua volta, è stata determinata dal passaggio al digitale, con strumenti molto più aggiornati ed economicamente competitivi della carta stampata ma, proprio perché più veloci e superficiali, meno attenti alla riflessione teorica.

Nel 2005 chiude L’Architettura. Cronache e storia fondata nel 1955 da Bruno Zevi. Nel 2006 chiude Ventre, una rivista aperta alla sperimentazione e alle ricerche d’avanguardia, fondata nel 1995 e diretta da Diego Lama.

Chiudono le testate Costruire (2011), Controspazio (2015), L’Arca (2024). Quest’ultima, diretta da Cesare Casati, aveva svolto un buon lavoro nell’individuare voci critiche e nuovi talenti, rifuggendo dalle logiche di lobby che sono state uno dei problemi principali della pubblicistica italiana.

La rivista Abitare è acquistata dal gruppo Rcs (2005) che nel 2014 è sul punto di chiuderla per poi salvarla in extremis con una redazione ridimensionata rispetto ai tempi d’oro della direzione di Italo Lupi. Lotus International, diretta da Pierluigi Nicolin e da tempo visibilmente in affanno, inizia con il numero 175 del 2024 un percorso di collaborazione con la Triennale di Milano che dovrebbe concludersi con l’acquisizione della storica testata. Esce con cadenza sempre più ritardata Abitare la Terra diretta prima da Paolo Portoghesi e poi da Mario Pisani. L’industria delle costruzioni sopravvive grazie a una partnership tra costruttori e InArch, è affidata alla direzione di Massimo Locci e passa da bimestrale a semestrale

Nuovo_Disegnoallitaliana, nata nel 2021 e diretta da Pino Scaglione (che era stato l’inventore e il primo direttore della rivista d’Architettura prima che fosse assorbita da Aid’A) fatica a mantenere il ritmo quadrimestrale. Cosi come fatica il trimestrale I l Progetto, una delle riviste in prima linea alla fine degli anni Novanta nella battaglia per il rinnovamento dell’architettura italiana, diretta da Maurizio Bradaschia.

AND, diretta da Paolo Di Nardo, si struttura come rivista scientifica per consentire a chi ci scrive di avere pubblicazioni utili per la carriera universitaria.

Chiudono il cartaceo e passano al digitale Il Giornale dell’architettura (2014) e Op.Cit E, in un certo senso, tutte le testate diventano digitali affiancando al cartaceo il sito web, per poter essere più reattive alle notizie e avere più spazio per pubblicare opere.

Domus di regola ogni tre anni cambia il direttore. Dopo Boeri per un triennio è il turno di Flavio Albanese. Segue un breve intervallo in cui si ripesca Alessandro Mendini. Nel 2011 tocca al trentaquattrenne Joseph Grima che ha il compito di potenziare la versione online utilizzando la rivista su carta per gli approfondimenti, ma la sensazione è che la rivista divaghi, perda colpi rinunciando all’architettura per occuparsi genericamente di temi culturali e sociali. Segue la educata ma pallida direzione di Nicola Di Battista. Dal 2018 Domus decide di ridurre la permanenza dei direttori a un anno chiamando i personaggi dello star system, da De Lucchi a Foster, da Nouvel a Chipperfield. Con la conseguenza di una ancora minore continuità editoriale e critica.

È una scelta, quella del guest editor, che fanno anche alcune testate più piccole:

Iqd per esempio cambia guest editor ogni numero ma con alle spalle un direttoreeditore, Roberta Busnelli, che cerca di garantire unitarietà di disegno.

Casabella, dal marzo del 1996 diretta da Francesco Dal Co, fa scelta di continuità ma procedendo stancamente in visibile crisi di idee e contando su un nucleo di lettori che le sono fedeli, nonché, come gli aristocratici decaduti, sul prestigio della propria storia.

The Plan, nata nel 2001, e Arketipo Magazine, nata nel 2000, si specializzano fornendo ai lettori progetti ben illustrati sin nei particolari costruttivi appositamente ridisegnati. Arketipo, per cercare nuovi lettori, chiama dal 2024 Benedetta Tagliabue a dirigerla.

Area, diretta da Marco Casamonti, punta a numeri monografici. Ognuno, infatti, tratta un argomento diverso indagato attraverso la presentazione di progetti realizzati in tutto il mondo, concorsi e saggi critici. Una scelta che fa anche AR Magazine, il semestrale dell’Ordine degli Architetti di Roma che, sotto la direzione di Marco Maria Sambo, si rinnova producendo dal 2019 eccellenti numeri monografici.

Vi è infine IoArch. Nasce nel 2006, in pieno periodo di crisi: decide di evitare le edicole per essere distribuita solo in abbonamento.

Punta sul racconto dell’architettura, soprattutto quella italiana, che le riviste maggiori evitano per focalizzarsi più sulle opere delle star (da qui anche la scelta di IoArch di pubblicare questo lungo racconto su vent’anni di Architettura in Italia).

Tutte le riviste su carta sopravvissute alla crisi, per non perdere centralità, devono, insomma, rinegoziare ruolo e contenuti, reinventandosi. Mentre prima erano il passaggio obbligato di chi voleva far conoscere il proprio lavoro, ora diventano

uno dei tanti canali di diffusione. I primi anni del Duemila si caratterizzano, oltre che per la crisi della carta stampata, per essere il periodo eroico delle riviste su internet.

Un numero crescente di architetti preferisce informarsi online, dove si trovano prima e gratuitamente i progetti più recenti. Per esempio su Europaconcorsi (1998) o su Professione Architetto (2000) che oggi arriva a 2 milioni di pagine lette al mese, numeri impensabili per la carta stampata. In questa prima fase, alcuni siti si specializzano nella critica. Il più importante dei quali è stato Arch’it diretto da Marco Brizzi, attivo sin dal 1995.

Vi sono poi Archphoto, fondata nel 2002 da Emanuele Piccardo; Antithesi fondata nel 2000 da Sandro Lazier con Paolo Ferrara; Architecture.it di Furio Barzon; Channelbeta fondata nel 2002 da Gianluigi D’Angelo. Dal 2003 sono diffuse presS/ Tletter e presS/Tmagazine, riviste atipiche distribuite via mail, fondate da chi scrive queste note e da Anna Baldini. Nel 1999 nasce NewItalianBlood.com fondata da Luigi Centola, per promuovere i giovani vincitori di concorsi.

La fase eroica della critica on line si esaurisce con la discesa in campo delle grandi riviste su internet, quali ArchDaily (2008), Dezeen (2006), Archilovers (2005), Architizer (2009) le quali si focalizzano meno sul dibattito teorico o deontologico, per esempio sulla cronaca dei concorsi di architettura, in Italia sempre controversi e chiacchierati. Mostrano, invece, puntualmente, con gran dovizia di immagini e spesso in assenza di valutazioni critiche, quanto di più interessante si costruisce nel mondo.

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I social e le nuove reti

Il confronto teorico cerca nuovi spazi e li trova nei social, all’inizio su Facebook (2004) dove si formano gruppi di discussione che coinvolgono anche decine di migliaia di persone e poi su Instagram (2010); social sui quali è possibile postare immagini, intervenire e commentare. Anche se è vero che su questi medium il dibattito critico tende a banalizzarsi, è ugualmente vero che si democratizza coinvolgendo nuove figure e punti di vista. Inoltre costringe alla sintesi e alla chiarezza, diversamente dai vecchi discorsi critici prolissi e illeggibili.

Si registrano due modalità diverse per i social: di uso critico e di uso commerciale. Da un lato emergono nuovi commentatori che si trovano a loro agio con fotografie e testi brevi: penso per esempio a Guido Aragona, a Vincenzo Ariu, a Fabio Barillari, a Claudio Catalano, a Rosario Francalanza, a Gaetano di Gesu, a Luca Guido, a Emanuele Piccardo ma anche ad architetti più noti come Cino Zucchi, Gianluca Peluffo, o Efisio Pitzalis che intervengono giornalmente sulle più diverse questioni architettoniche. Dall’altro si lavora sulla pubblicità: un numero crescente di architetti, spesso supportati da esperti di marketing, si raccontano: anche in maniera creativa come Michele De Lucchi o Doriana e Massimiliano Fuksas che su Instagram mostrano se stessi più che i propri lavori. Oppure in maniera più istituzionale come il Renzo Piano Building Workshop (RPBW) che però umanizza la presenza in rete con le foto dei ricordi dello studio pubblicate da Shunji Ishida nella sua pagina. In entrambi i casi, sia che si muovano sul versante della critica sia su quello della comunicazione, gli architetti sono indotti dai social a individuare e definire le proprie posizioni, esplicitandole e rendendole

pubbliche. Sono i lettori attenti e i leoni da tastiera che si aggirano nella rete che provvedono eventualmente a smascherarle nel momento in cui siano inesatte, false o esagerate.

Ci sono quindi buoni motivi per essere moderatamente ottimisti o, quantomeno, moderatamente pessimisti. La critica in Italia non è morta, sta solo migrando sui social, trasformandosi e democratizzandosi. Una posizione sulla quale non tutti sono d’accordo, come mostrano gli atti di un convegno del maggio 2014 promosso dall’Accademia Nazionale di San Luca e dalla Triennale di Milano, curato da Franco Purini, Francesco Moschini e Claudio De Albertis, dal titolo La Critica oggi. Eppure, con i suoi quasi novanta critici coinvolti, alcuni dei quali sconosciuti come tali, credo che il convegno abbia dimostrato proprio la definitiva democratizzazione di questa disciplina un tempo esercitata da poche voci autorevoli e ascoltate.

Alla volatilità dei social si affianca un numero crescente di iniziative tese alla valorizzazione degli architetti. Sono La Medaglia d’oro all’architettura italiana istituita nel 2003 dalla Triennale di Milano; i premi nazionali e regionali promossi dall’Istituto Nazionale di Architettura (Inarch) e dalla Associazione Nazionale Costruttori Edili (Ance); i premi Architetto/a e giovane Talento promossi dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori (Cnappc); il Premio Internazionale di Architettura Barbara Cappochin; il premio Ischia di Architettura (Pida); i premi del Maggio dell’Architettura presso le Basiliche paleocristiane di Cimitile; i premi conferiti in occasione degli incontri Architects Meet in Selinunte e poi a Lecce organizzati

dall’Associazione Italiana di Architettura e Critica (Aiac). C’è, infine, il Dedalo Minosse fondato nel 1997 e promosso da Ala Assoarchitetti che è assegnato ai committenti.

I premi, attraverso le call che servono per raccogliere le candidature, fanno emergere progettisti che in tempi passati sarebbero rimasti sconosciuti. Contribuiscono quindi al formarsi di nuove reti. Così anche i festival dell’architettura e le biennali, che sorgono sulla scia di quella più famosa di Venezia, quali la Biennale di Pisa, nata nel 2015 e giunta nel 2023 alla quinta edizione. Infine le numerose mostre, organizzate dai soggetti più diversi. A volte auto promosse, con confusione di ruoli tra curatori e progettisti; a volte ben allestite e curate, come quelle prodotte da Mirko Zandini o Luca Molinari; a volte curiose sullo stato dell’architettura in Italia come quelle promosse dall’Aiac: Supermostra (2022), Nuove Normalità (2023), HyperRegionalism (2024).

Nonostante sia spesso percepita come latitante, in questi anni la carta stampata generalista ha ospitato un numero crescente di articoli che parlano di architettura. Con pezzi, per ricordarne solo alcuni, di Enrico Arosio, Stefano Bucci, Paolo Conte, Pierluigi Panza, Paola Pierotti, Giorgio Santilli, Irene Scalise; con inserti dedicati del Corriere della Sera, quali Living diretto da Francesca Taroni, che dal 2021 dirige anche la rivista Abitare; attraverso riviste di moda quali Elle Decor, dal 2001 diretta dall’architetto Livia Peraldo Matton; con le interviste televisive di Giorgio Tartaro. Vi sono, poi, i più approfonditi articoli scritti da critici: per esempio sul Sole 24 Ore da Fulvio Irace e sul Foglio da Manuel Orazi. O da architetti, come è stato il caso di Vittorio Gregotti su Repubblica e

sul Corriere della Sera. Anche i costruttori fanno la loro parte con Edilstampa. Sotto la guida di Giuseppe Nannerini la casa editrice dell’Ance ha pubblicato le monografie di architetti italiani e stranieri innovativi. Rassomigliano ai numeri di El Croquis ma hanno un formato più agile e costo ridotto per favorirne la diffusione. Nannerini, una figura notevole ma poco ricordata, sino al 2017 è anche il curioso e dinamico direttore della rivista L’Industria delle Costruzioni

Tra le case editrici specializzate, Skira ed Electa riescono a resistere in un mercato sempre più difficile. Altri editori, quali Einaudi, Laterza, Marsilio, Zanichelli, Etas Kompass che hanno in passato pubblicato libri importanti di architettura, sembrano sempre meno interessati al settore. Da segnalare infine quattro piccole case editrici. Mancosu Editore, attiva soprattutto

nel primo decennio, con la raccolta di tutti i numeri de L’Architettura. Cronache e storia di Zevi e la pubblicazione di una universale di architettura a prezzi molto contenuti. Libria pubblica autori di nicchia. Quodlibet vanta un catalogo con numerosi libri di teoria: dagli scritti di Koolhaas a Wittgenstein architetto. LetteraVentidue, fondata nel 2007, cioè in pieno periodo di crisi della carta stampata, con un catalogo in crescita. Tra le recenti proposte vi è la collana dal titolo Imprinting, curata da Antonino Saggio, che dedica agili monografie ai nuovi architetti italiani: da Stefano Pujatti a Giovanni Vaccarini, interessandosi anche di figure accademiche di spessore quale Luigi Franciosini.

Si tratta comunque di eccezioni perché la maggior parte dei libri di architettura sono pagati dagli stessi architetti e

quindi hanno più valore documentario che critico. Oppure sono sovvenzionati dalle università, per aiutare dottorandi, ricercatori e professori ad accumulare titoli per la carriera. Conseguentemente, la scelta dei temi e lo svolgimento dei contenuti seguono logiche gerarchiche e di promozione accademica più che scientifiche.

Del resto, a logiche promozionali non meno inquietanti sono soggetti gli articoli che si pubblicano sulle riviste. Per risparmiare sui costi delle immagini, le sempre più ridotte redazioni ricorrono al materiale fotografico gratuito fornito dai progettisti. E per i “testi critici” ai pezzi già scritti dagli uffici stampa. Materiali che gli autori non fornirebbero per articoli problematici nei confronti delle loro opere. Con il risultato che le riviste evitano sempre di più di azzardare critiche di sorta.

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Nel 1995 Paolo Desideri, che in quegli anni insegna a Pescara, pubblica un fortunato volume: La città di Latta. Favelas di lusso, autogrill, svincoli stradali e antenne paraboliche (Meltemi). Il libro evidenzia le nuove modalità di uso del territorio metropolitano, in particolare quello dell’area adriatica. Un territorio caratterizzato dallo sprawl urbano, dai non luoghi, dagli iperluoghi, dagli attraversamenti, dalla fine del modello di città europea alla quale ancora pensiamo quando parliamo di assetti urbani. Nello stesso anno un gruppo di architetti coordinato da Mirko Zardini sottolinea anche simbolicamente il nuovo modo di vedere la realtà metropolitana compiendo un viaggio in macchina lungo l’autostrada A4 per verificare dal vivo come il territorio stia trasformandosi in una città diffusa. A interessarsi di queste problematiche sono anche alcuni docenti universitari che operano tra Pescara, Ascoli Piceno, Roma e Venezia: Aldo Aymonino, Pippo Ciorra, Antonino Terranova, Rosario Pavia, Umberto Cao, Mosè Ricci e il sociologo Massimo Ilardi. Pavia e Ricci dirigono la collana Babele edita da Meltemi che pubblica numerosi saggi sul tema. Ilardi dirige dal 1998 al 2007 la rivista Gomorra, sempre di Meltemi, dove appaiono contributi importanti in forma di scritti più brevi.

Sebbene sia forse eccessivo parlare di una scuola di pensiero urbano, comincia a delinearsi in questi anni una nuovo modo di guardare la realtà metropolitana. Per studiare la quale servono nuovi strumenti in grado di individuare gli innumerevoli flussi che nei territori si generano e si incrociano, si sommano e si scontrano.

La conseguente necessità di un disegno urbano meno ingessato e più fluido va di pari passo con l’interesse per i nuovi

Pro e contro i flussi

modi di progettazione della città messi a punto da scuole quali la AA di Londra e da personaggi quali Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, Coop Himmelb(l)au. E va con l’interesse per la rivoluzione digitale che è tra i principali responsabili dei cambiamenti metropolitani, se non altro perché ridefinisce il nostro modo di relazionarci con le persone e le cose.

Ad approfondire questi nessi sono due docenti pescaresi, Livio Sacchi e Maurizio Unali, i quali pubblicano nel 2003 un libro a più voci edito da Skira dal titolo Architettura e cultura digitale. Due anni prima, nel 2001, Antonino Terranova scrive un libro di grande interesse: Mostri Metropolitani. La nuova cultura produce una nuova estetica in cui l’orrido, il sublime, il meraviglioso e l’assurdo, il destabilizzante e l’ipotetico diventano protagonisti.

Tre anni prima, il 24 novembre del 2000, a Bordeaux, presso il centro di architettura Arc en rêve, apre una mostra dall’emblematico titolo di Mutations. A curarla sono, tra gli altri, Rem Koolhaas, Stefano Boeri e Sanford Kwinter. Il primo propone il lavoro che da alcuni anni sta conducendo con gli studenti della Harvard Design School sulle realtà urbane della Cina e della Nigeria, nonché sull’impatto dello shopping nella città contemporanea. Stefano Boeri presenta USE (Uncertain States of Europe), un’indagine elaborata dal gruppo di ricerca Multiplicity in cui si mostrano i profondi cambiamenti che la globalizzazione sta causando in città così diverse quali Mazara del Vallo e Belgrado, Pristina e San Marino. Stanford Kwinter affronta i cambiamenti nella città americana e in particolare a Houston, la metropoli texana storicamente allergica alle costrizioni della pianificazione urbanistica. A illustrare la mostra: statistiche, diagrammi

e molte fotografie d’autore, tra cui quelle dell’italiano Francesco Jodice. L’obiettivo è segnalare che il mondo – come avverte l’ultima pagina del catalogo dove compare scritta a grandi caratteri l’equazione World=City – avrà sempre di più le caratteristiche della città. E che numerosi cliché e luoghi comuni ci impediscono di guardarla realmente e di comprenderne gli sviluppi. Da qui l’imperativo di organizzare strategie alternative più puntuali, anche se programmaticamente parziali, che puntano a sostituire il tradizionale disegno urbano con il bigness, l’urban landscape, le tecniche diagrammatiche e altri strumenti messi a punto dalla recente ricerca architettonica.

È appena il caso di notare che esiste una notevole convergenza tra queste iniziative e il tema delle metropoli urbane affrontato dalla Biennale di Fuksas.

In opposizione a questo approccio, negli stessi anni, emerge un filone di pensiero neotafuriano nostalgico della Tendenza e di Aldo Rossi e il cui esponente di maggior spicco è Pier Vittorio Aureli. Il quale in numerosi saggi e in un fortunato libro del 2011, The Possibility of Absolute Architecture, sostiene che l’architettura può tornare ad avere valore politico se decide di contrastare gli edifici del neocapitalismo dominante: quelli che esaltano la società dei flussi e del cambiamento. Occorre recuperare, infatti, l’idea di una architettura assoluta. La tesi è discutibile, e in realtà neanche troppo chiara, ma ispira Aureli a produrre progetti di oggetti monumentali che hanno un certo fascino. Sempre se lasciati sulla carta, perché si tratta di costruzioni monumentali e bloccate che fanno impallidire il Corviale e lo Zen. E, difatti, conquistano numerosi studenti universitari oltre che la simpatia di Peter

Eisenman. Ad Aureli è dedicato anche un numero dell’agognata rivista spagnola El Croquis (2021).

Nasce una nuova moda che cerca di sintetizzare, a partire dalla dogmatica venerazione per Tafuri, il concettualismo di Koolhaas, lo sperimentalismo radicale di Superstudio, la purezza analitica di Giorgio Grassi. Come una sintesi del genere sia possibile sembrano capirlo in pochi (Tafuri detestava, per esempio, Superstudio). Tra questi pochi vi sono Gabriele Mastrigli, Manuel Orazi e Marco Biraghi, anche loro autori di numerosi scritti i cui protagonisti sono Koolhaas, Tafuri e Superstudio. La mostra al Maxxi su Superstudio, curata da Mastrigli, è del 2016, il libro di Biraghi, Koolhaas: L’architettura al di là del bene e del male, è del 2024. Un paradosso direi notevole se consideriamo che l’adesso

venerato e ascoltato Koolhaas, al quale è affidata la direzione della Biennale architettura di Venezia del 2014, era negli anni Novanta rifiutato dall’Accademia italiana e che Superstudio era considerato un collettivo di pazzoidi. Con una posizione a mio avviso più laica e convincente si schiera Valerio Paolo Mosco nel libro Nuda Architettura (2012) dove sostiene che un buon edificio dovrebbe fare da sfondo alla vita più che da primo piano di una fasulla rappresentazione teatrale. E, in effetti, qualunque sia la posizione che possiamo avere nei confronti di una nuda architettura, oggi la passione per conformazioni formali complesse sembra essere ridimensionata e ridotta drasticamente, almeno rispetto alla fine degli anni Novanta, quando si registrava un maggiore interesse per forme bloboidali e

decostruite.

Da ricordare, infine, due libri che hanno suscitato particolare interesse, a inizio e a chiusura del ventennio che stiamo esaminando. Il primo è di Alain De Botton, tradotto dall’inglese e edito in Italia da Guanda (2006): Architettura e felicità ha avuto il merito di porre l’architettura su un piano concreto, quello della felicità, e non astrattamente disciplinare della riflessione teorica.

Il secondo libro, di Reinier De Graaf, Architect, Verb. The New Language of Building, edito da Verso (2023) affronta con distaccata ironia grandezze e miserie della critica, dei premi di architettura, dell’uso di internet, a partire dal quasi plagio delle immagini che circolano nella rete, utilizzate per progetti sempre più simili.

15 High Touch

Edoardo Persico osservava che gli architetti italiani non credono mai a nulla di preciso. E, difatti, è diffi cile pensare che ci possano essere italiani rigidamente minimalisti come Kazuyo Sejima, rigorosamente concettuali come Peter Eisenman, costruttivisti e parametrici come Zaha Hadid, solo per citare tre stranieri che, invece, sembrano credere a qualcosa di preciso.

Se si osserva la gran parte dell’architettura italiana di questi ultimi decenni, troviamo infatti un sostanziale rifiuto di aderire a poetiche ben definite, per preferire un pragmatismo empirico e teoricamente

accomodante che porta a edifi ci eleganti, ben proporzionati e misurati, con una ottima scelta dei materiali ed esecuzione dei dettagli. Un atteggiamento questo che, se proprio lo volessimo vedere come uno stile, potremmo definirlo High Touch O, se vogliamo seguire un suggerimento di Valerio Paolo Mosco, Stile Assertivo: “questo stile si è espresso, e continua a esprimersi, con una architettura di impianto, chiara e proporzionata, tendenzialmente di sfondo, tale da determinare in tutte le sue parti una sensazione di equipotenzialità plastica e iconografi ca. Un’architettura stereometrica

e misurata dunque, sobria se non pacata, lontana da qualunque forma di espressionismo e avversa alla concezione iconica dell’ipermodernismo” ( Architettura italiana dal postmodernismo a oggi, Skira, 2017 pag. 150).

Non è diffi cile vedere attraverso la lente High Touch i maggiori architetti italiani, da Renzo Piano a Michele De Lucchi, da Cino Zucchi a Mario Cucinella, da Citterio e Viel a Dante O. Benini, da Mario Bellini a Giulia de Appolonia, e anche Studio Fuksas, nonostante le aperture di quest’ultimo alla poetica della gestualità e dell’espressione.

ACPV Architects Antonio Citterio Patricia Viel. Fastweb Headquarters Milano. Foto Giovanni Nardi
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16 Orientamenti

Sarebbe interessante a questo punto fare un passo ulteriore e vedere se, all’interno o ai margini o anche all’esterno dello stile High Touch, sia possibile declinare sottocategorie che ci permettano di mettere meglio a fuoco gli orientamenti dell’architettura italiana degli ultimi venti/venticinque anni. Ovviamente con l’avvertenza di non considerarle come etichette inappellabili ma come artifici che ci aiutano a intravedere linee operative, oltretutto organizzate in forma asistematica, in una materia altrimenti molto articolata e di difficile catalogazione.

Occorre, inoltre, considerare che lo stesso architetto potrebbe appartenere a più sottocategorie con progetti anche molto diversi per rispondere alle richieste del committente e agli specifici contesti. Viviamo in un periodo eclettico e opportunista caratterizzato dal ‘e/e’ e non dal ‘o/o’ ed è in crescita il numero dei progettisti che rivendica i vantaggi di non aderire a scelte linguistiche o stilistiche fissate a priori. E poi, similmente a quanto succede nella moda, una certa incoerenza è ritenuta utile per acquisire nuove fasce di gusto e quindi di mercato. Con il risultato che si perde o, quantomeno, si attenua l’autorialità e diventa sempre più difficile distinguere uno stilista da un altro. Tutto questo per dire che, se siete pignoli e rigorosi, potreste essere infastiditi dalle seguenti classificazioni e sarebbe quindi meglio per voi saltare il capitolo.

A) Leggerezza.

Chi si muove nella direzione della leggerezza punta ad una architettura essenziale, non priva di riferimenti al ‘meno è più’ di Mies van per Rohe. Ma può essere anche abbastanza pragmatico da confrontarsi con le esigenze del cliente e

confrontarsi con il paesaggio e i materiali locali.

Leggerezza e giochi di trasparenze si riscontrano negli edifici di Alvisi Kirimoto quali la Cantina Pordenuovo, realizzata per Paolo e Giovanni Bulgari nel 2013. Corsaro Architetti disegna abitazioni che entrano in sintonia con la natura circostante. A Polignano a Mare (2020) il piano terreno, circondato da vetrate su tutti e quattro i lati, consente l’esperienza di vita di una glass house miesiana.

Case non meno affascinanti, aperte al paesaggio, sono disegnate da Alfredo Vanotti, con studio a Sondrio.

Balance, formato da Alberto Lessan e Jacopo Bracco, trasforma spazi industriali in luoghi aerei e leggeri per adattarli alle nuove funzioni lavorative. Nel 2022 il duo vince il premio Giovane Talento dell’architettura italiana assegnato dal Consiglio Nazionale Architetti. Giovanni Vaccarini Architetti con Riviera 107, a Pescara (2022) realizza un edificio che ricorda le palazzine di Monaco e Luccichenti, caratterizzate da aerei balconi e ampie vetrate.

Lda.Imda lavora sulle trasparenze e sull’astrazione con edifici a volte diafani a volte vibranti.

Studio Bianchi si ispira ai palazzi volanti di Luigi Pellegrin che non toccano quasi terra per lasciarla libera dalla costruzione. Lazzarini e Pickering sono autori di opere per una clientela ricca e sofisticata che oscillano dal minimalismo miesiano alla leggerezza decorativa di Gio Ponti. Lorella Fulgenzi O+ realizza spazi a volte leggeri a volte dinamici, se non cinematografici.

Sulle trasparenze, la luce, il colore, le vibrazioni atmosferiche operano a vario modo e con eccellenti risultati Barozzi

Veiga, C+S, Caprioglio Architects, De Amicis Architetti, Susanna Ferrini, Geza (Gri e Zucchi), Ghisellini Architetti, Iotti e Pavarani, Salvator J. Liotta, Francesco Librizzi, Luconi Architetti Associati, Oberti+Oberti architetti associati, Filippo Tisselli, Antonello Stella. Sulla leggerezza, ma non intesa in senso minimalista, fonda la propria poetica Orazio Carpenzano. Prima (2001-2009) con le coreografie interattive dell’accademia di danza di Lucia Latour, successivamente (2018-2021) con il museo diffuso che Rimini ha dedicato a Federico Fellini.

B) Regionalismo e HyperRegionalismo Il regionalismo consiste nel recuperare il valore storico e ambientale dell’edificio utilizzando tecniche e materiali locali. Mentre possiamo parlare di HyperRegionalismo quando si interviene con un linguaggio più contemporaneo, che non nasconde il presente, dialoga con tecnologie aggiornate e concepisce la costruzione come una serie di stratificazioni visibili, oppure che riutilizza creativamente materiali e tecniche del passato e le integra, anche ibridandole, con quelle odierne, evitando il vernacolare.

In Piemonte Studio Ata realizza raffinati recuperi di piccoli edifici rurali in uno dei quali, nelle Langhe, sperimenta un geometrico tetto in mattoni (2014-2018). Camillo Botticini, dopo una partenza fatta di opere convincenti ma non particolarmente innovative, sta sperimentando progetti sempre più complessi e interessanti. Dal 2016 lavora con Matteo Facchinelli (Botticini + Facchinelli ARW) con il quale ha realizzato il nuovo teatro Borsoni a Brescia (2024), caratterizzato da un coraggioso rivestimento a bugnato a forte impatto chiaroscurale.

Bricolo Falsarella gioca sulla poesia della luce e della materia nella cantina Gorgo (2021) con un approccio memore della lezione kahniana. Studio Valari mostra l’importanza del non finito nella masseria Belvedere in Puglia (2021). Giuliano Fausti Architetto ridisegna con forme moderne l’auditorio Bruno Buozzi della Uil a Roma (2022) ma sceglie materiali antichi facendoli posare seguendo le rigide regole dell’arte. Luca Bullaro, operante tra la Colombia e Palermo, usa materiali locali adattandoli a nuove spazialità.

Studio Scau realizza ville e alberghi nel territorio acese alternando intonaci bianchi e pietra lavica. Studio Ponsi in Toscana sonda la possibilità di un raffinato dialogo con il contesto lavorando sulle analogie formali tra costruzione e territorio.

Didonè e Comacchio Architects, con studio ubicato a Bassano del Grappa, valorizzano le preesistenze intervenendo quasi in trasparenza.

Toti Semerano lavora a sofisticati progetti tra Padova e Lecce valorizzando e reinventando i materiali locali e organizza

in Puglia un seminario per trasmettere le proprie conoscenze. Operazione simile la fa a Bergamo Enrico Milesi con il legno tramite la scuola permanente dell’abitare.

Lo studio Cusenza Salvo realizza in Sicilia alberghi recuperando cave abbandonate e reintegrando così il paesaggio.

Valeria Caramagno e Christian Rocchi, chvl, sono specializzati nel lavorare sulle stratificazioni storiche.

Diversi gli autori che, con progetti di grande qualità, dialogano creativamente con i contesti circostanti, a partire

Morpurgo de Curtis Architetti Associati. Memoriale della Shoah Milano. Foto Matteo Piazza
Demogo. Municipio di Gembloux. Belgio. Foto Pietro Savorelli

dai materiali: Archisbang, Ariu Vallino Architetti, Paolo Belloni Architetti, Silvia Brocchini Studio, Burnazzi Feltrini, Luca Compri, Corvino+Multari, CE-A Studio, Massimiliano Ceccotti, Paolo Cermasi, Raffaele Cetto, CGS Studio, Diele Kerciku Architects, Marco Del Francia, Studio Del Boca & partners, Dunamis Architettura, Andrea Eusebi, Renato Filippini, Foresta Studio, franzosomarinelli, Galeotti Rizzato, Massimiliano Masellis, Navarrini architetti associati, Nextbuild, Padiglione b, Moreno Pivetti, Mario Clemente Rossi, Rossi Prodi associati, Mauro Saito, Scannella Architects, Emanuele Scaramucci, Paolo Simonetti, Enzo Tenore, Davide Vargas, Federico Verderosa, Weber+Winterle architetti.

Tra i macro fenomeni regionali citerei gli architetti siciliani ispirati dallo Stile Internazionale nelle sue molteplici declinazioni, soprattutto minimaliste e puriste, e, insieme, ai volumi netti e solari delle case del Mediterraneo. Sono: Walter Angelico, Architrend, Alfonso Cardinale e Giovanni Geraci, Santo Giunta, Giuseppe Gurrieri, Iraci Architetti, Orazio La Monaca, Maria Elena Madonia, Morana + Rao, Giuseppe Todaro, Ivana Sorge e altri tra i quali Maurizio Oddo che punta a un linguaggio con numerose citazioni e stratificazioni.

Andando al Nord, vi sono numerosi progetti di architettura alpina, lavori spesso minuti che sembrano essere l’ultimo spazio esente da grandi committenti immobiliari.

Tra questi le architetture selezionate dal premio Costruire il Trentino promosso dal Citrac, Circolo Trentino per l’Architettura Contemporanea. E anche le recenti realizzazioni in Alto Adige, di cui abbiamo parlato al punto 11. E, inoltre, i tentativi di rigenerare gli spazi abbandonati nei territori interni. In proposito è interessante l’esplorazione che da curatore del Padiglione Italia fece Mario Cucinella alla Biennale del 2018.

L’approccio hyperegionalista può fare la differenza all’estero. Schiattarella Associati sta proponendo con successo negli Emirati Arabi un’architettura lontana dagli stereotipi dell’International Style di matrice anglosassone, che valorizza, senza cadere nell’oleografico, il paesaggio e la cultura locale. Sulla stessa linea si stanno muovendo altri studi italiani che così possono sopperire con un surplus di qualità estetica alla maggiore specializzazione organizzativa e tecnico professionale dei grandi studi americani.

C) Decorativismo colto

Il decorativismo colto ha in Italia tre principali esponenti: Cino Zucchi, lo studio Archea, Benedetta Tagliabue. Più geometrici i pattern di Zucchi e Archea, più materici e colorati quelli della Tagliabue. Raffinate trame caratterizzano numerosi lavori di Labics, per esempio gli edifici nella aerea Città del Sole di Roma (20072016). Notevole per i suoi vibranti giochi chiaroscurali l’Itas Forum (2017-2022)

realizzato da Studio BBS nel cuore del quartiere Le Albere di Renzo Piano a Trento.

Sui colori e sulle trame lavora il lucchese Pietro Carlo Pellegrini. Vi sono poi gli interni di Renato Arrigo, attivo tra Messina e Milano, caratterizzati da repentini passaggi di colore che destrutturano lo spazio. I notevoli bassorilievi alla maniera di Costantino Nivola nelle facciate del Museo Archeologico di Cabras (2020-2024) opera del duo Dejana Fiamma. E infine gli spazi pubblici di Cosimo Balestri Studio.

D) Costruttori verdi

Gabetti e Isola sono stati in Italia gli antesignani dello stretto connubio tra verde e architettura. Che può espletarsi in diversi modi di cui due appaiono i principali. Il primo consiste nel considerare piante e arbusti un rivestimento ecologico delle facciate come accade nel Bosco Verticale a Milano di Stefano Boeri. Il secondo nel considerare il verde un materiale da costruzione con il quale progettare edifici non convenzionali, come accade nell’edificio 15 Green a Torino, di Luciano Pia. Una terza via, meno integralista, ma non meno efficace, la percorre Ambientevario.

Vi è poi l’idea di utilizzare il verde per rivitalizzare gli spazi pubblici. Da qui la recente Pista500 di Benedetto Camerana, un giardino pensile sulla pista del Lingotto (2021), ispirato all’High Line di New York, che però ha avuto ben altro successo.

Progetto CMR. Business district The Sign Milano. Foto Andrea Martiradonna

Sono diversi i collettivi che lavorano sul verde, sugli orti urbani, sulla qualità ambientale degli spazi pubblici. Tra questi Caarpa Architettura e paesaggio fondata a Genova nel 2017 da un gruppo di architetti e paesaggisti.

A testimoniare quanto la problematica del verde sia, oltre che una moda, una opportunità, c’è il libro di Maurizio Oddo, L’albero dell’architettura (2024) in cui sono raccontati con dovizia di particolari i più importanti progetti che impiegano strategie green.

E) Tecnologia soft.

A rappresentare al meglio un approccio innovativo soft è Mario Cucinella (MCA). Il quale non esita a utilizzare tecnologie molto avanzate ma lasciandole in vista solo per quel che serve a dare l’idea che l’edificio sia efficiente, funzionale e, naturalmente, contemporaneo. L’obiettivo, più che lo stupore da prestazione, è l’empatia. Se in alcuni edifici Cucinella fatica a liberarsi dall’ombra di Renzo Piano dal quale ha lavorato, in altri mostra una decisa ricchezza inventiva. Come per esempio nell’asilo di Guastalla (2015) dove materiali naturali e riciclati costruiscono una struttura ritmata, accogliente e stimolante che ricorda il ventre di una balena. Tra i progetti più grandi, spicca il nuovo ospedale di Cremona caratterizzato da una grande corte verde circolare e dall’integrazione del costruito nel paesaggio (progetto del 2023). L’obiettivo della umanizzazione della

tecnologia coinvolge le grandi società di progettazione integrata, quali Lombardini 22, Open Project, Progetto Cmr - Massimo Roj, Politecnica, Il Prisma.

E coinvolge gli studi professionali a dimensione più artigianale quali OBR, diretto da Paolo Brescia e Tommaso Principi, che propone progetti di grande leggerezza e raffinatezza, che ricordano il migliore Renzo Piano.

A Napoli opera il collettivo Vulcanica autore di Brin69 (2012-2013) un intervento soft di riconversione di un capannone dei primi del ‘900, caratterizzato da due parole chiave: riciclo e agopuntura urbana.

Marco Visconti è autore di numerosi edifici per la Ferrari tra cui il Centro servizi per dipendenti (2005-2008).

Luca Peralta, dopo esperienze con Hadid, Fuksas e Foster, ha prodotto opere caratterizzate da uno spazio coinvolgente e dalla tecnologia soft, quali la scuola di infanzia Sandro Pertini a Bisceglie (20092017).

Enrico Frigerio è uno scrupoloso progettista formatosi alla scuola di Renzo Piano che persegue la slow architecture

F) Gesto e paesaggio

I progetti di questo gruppo, invece che nascere da una logica che parte dall’interno, sono originati dal confronto con il paesaggio circostante che si vuole emulare e/o modificare. A volte con un approccio organico che riprende le linee morbide della natura circostante, a

volte, come accade con diverse opere di Fuksas, con un atteggiamento espressivo e gestuale che mira a costruire una natura artificiale.

La romana Guendalina Salimei per il nuovo terminal del molo Beverello (2024) a Napoli immagina un edificio che, come quelli della prima Zaha Hadid, si distende sul terreno diventandone parte integrante. Operazione simile la compie Duilio Damilano con l’Officina Vidre Negre a Cuneo (2011), forse uno dei migliori edifici per uffici costruiti nel periodo.

I progetti di Plasma Studio si confondono con il paesaggio, grazie alle loro forme organiche, mentre noa* il paesaggio lo crea inserendovi oggetti che suscitano interesse e curiosità, come una piattaforma sospesa a Valdaora (2022) che sfida la forza di gravità e ospita la spa dell’albergo Hubertus

Vibranti aperture alla cultura organica, gestite attraverso il calcolo parametrico, caratterizzano il lavoro dell’avellinese Massimo Russo.

Il napoletano Mario Coppola nel 2017 esordisce come scrittore, con un romanzo autobiografico, e come scultore, con la personale Cosmogonie. Nel settembre 2017 pubblica su Domus il manifesto dell’architettura postumana, in cui natura e architettura convergono.

Un ruolo crescente nell’architettura italiana gioca il paesaggio, avverando la previsione del suo massimo interprete italiano, Franco Zagari, scomparso nel 2023, dopo aver

Atelier(s) Alfonso Femia / AF517. The Corner Milano. Foto Stefano Anzini

formato una scuola di moderni paesaggisti. Tra questi Daniela Colafranceschi che fa la spola tra Reggio Calabria e Barcellona e il siciliano Alessandro Villari. Sono, infine, notevoli i lavori degli studi LAND/Andreas Kipar, Ag&p Greenscape e di Greencure diretto da Marilena Baggio.

G) Lusso.

Progettisti quali Citterio e Viel, Studio Marco Piva e Mazzeo Architects lavorano sul lusso realizzando numerosi progetti all’estero. Alberto Apostoli (Studio Apostoli e ora Escape) è specializzato in spa e wellness. Luca Dini progetta i nuovi paradisi per i miliardari e gli yacht per recarvisi. Giorgio Pes, formatosi con Luchino Visconti, realizza interni sia per l’aristocrazia che per i nuovi ricchi, Silvio Berlusconi compreso. Scompare nel 2010. Luigi Sturchio orienta l’attività sul disegno di superyacht oltre i 50 metri. Nel 2002 è chiamato a progettare a Maranello per la Ferrari. Dopo Renzo Piano e prima di Marco Visconti, Jean Nouvel, Massimiliano Fuksas, Mario Cucinella, tutti architetti famosi scelti dalla casa automobilistica in base al principio che lusso chiama lusso. Vi è infine, Piero Lissoni, una figura difficile da collocare, che si occupa del design e

dell’architettura a tutto campo, ma con una particolare predilezione per l’esclusività. Il lusso è un mercato che, pur entrato in crisi a causa di crisi finanziarie, epidemie, guerre ed embarghi, continua a generare domanda.

H) Stile Milanese.

Milano ha elaborato un suo stile. Potremmo chiamarlo del rigore elegante. Se potessimo paragonarlo alla moda, diremmo: stile Armani. Secondo alcuni, è stato inventato da Citterio e Viel combinando severità e lusso, minimalismo con gusto per il dettaglio e i materiali pregiati. È perfetto per gli uffici delle grandi corporazioni, per i palazzi della moda, per gli edifici delle industrie che puntano alla qualità.

Tra i progettisti dello Stile Milanese più attivi e interessanti, emerge Piuarch con numerosi edifici realizzati per gli stilisti della moda e in particolare per Dolce & Gabbana.

Park Associati lavora sull’eleganza con una leggerezza e felicità costruttiva che i due soci, Filippo Pagliani e Michele Rossi, hanno appreso da Renzo Piano e Michele De Lucchi.

Alfonso Femia, dopo la separazione con

Peluffo nel 2017, ha fondato Atelier(s) Alfonso Femia e ha realizzato The Corner (2014-2019) un edificio che di facciate milanesi ne ha due, diverse tra loro, che si incontrano appunto nell’angolo.

Alessandro Scandurra combina la severità milanese con più morbide suggestioni organiche che gli provengono da personaggi così diversi quali Carlo Scarpa, Juan Navarro Baldeweg, Umberto Riva. Nella valorizzazione del costruito, Paolo Asti mostra una spiccata sensibilità verso la storia della città moderna; suo il delicato intervento di riqualificazione della Torre Velasca da poco completato.

Dap Studio, diretto da Elena Sacco e Marco Dainelli, produce opere raffinate che si rifanno alla tradizione del razionalismo lombardo e del Movimento Moderno, aggiornandola. Da qui un intrigante dialogo con le preesistenze, come avviene con la biblioteca Elsa Morante a Lonate Ceppino (2007-2008).

Il gruppo Metrogramma lavora applicando un approccio ispirato dalla lettura dei testi e dei progetti di Rem Koolhaas. Altri rilevanti studi di progettazione ascrivibili allo Stile Milanese sono Giuseppe Tortato Architetti, Carlo Donati Studio, Barreca & La Varra, messisi in proprio dopo la separazione con Stefano Boeri al cui Bosco Verticale avevano lavorato.

I) Kitsch.

A giocare con il kitsch è in Italia una sparuta minoranza. Due gli interpreti principali: il recentemente scomparso Italo Rota e Cherubino Gambardella il quale nel Palazzo d’oro a Montesarchio (2005-2007) non esita a usare il prezioso metallo per le facciate e un gigantesco ed esagerato cornicione a coronamento.

Filippo Bricolo. Cantina Gorgo Custoza. Foto Alessandra Chemollo

L) Casabelliani

Dei casabelliani abbiamo parlato in un precedente capitolo. A una visione lirica non priva di riferimenti alla poetica di Francesco Venezia si ispirano i siciliani Vincenzo Latina, Roberto Collovà, Emanuele Fidone. A Milano ha operato il barese Mauro Galantino (scomparso nel 2022), probabilmente il più talentoso. Più vicini a Pasquale Culotta (deceduto nel 2006) appaiono Giuseppe Guerrera, Vincenzo Melluso, Marcello Panzanella. A Roma Alessandro Anselmi (scomparso nel 2013) e Francesco Cellini hanno avuto un notevole influsso su progettisti quali Luigi Franciosini e Stefano Cordeschi. Nel centro nord i riferimenti sono stati Carmassi e Zermani con uno stile più severo non privo di richiami a Louis Kahn. Tra i progettisti influenzati: Fabio Capanni e Dedalo Building Lab.

Vi sono infine i progettisti che, in un modo o nell’altro, si ispirano a Vittorio Gregotti o a Franco Purini. A volte con composizioni severe e bloccate che ricordano i complessi edilizi alla Bicocca (1991-2005) del primo o la Torre Euro Sky (2007-2013) del secondo. A volte con articolazioni spaziali originali e interessanti come nel caso di Ruggero Lenci.

M) Nuova astrazione

Punta ad una architettura asciutta, astratta, materica. Tra i riferimenti Valerio Olgiati e Massimo Carmassi, un asse questo tra Mendrisio e l’università Iuav interessante da ipotizzare.

Lo studio Demogo si fa conoscere con il municipio di Gembloux (2015-2021) a seguito di un concorso Europan. Un edificio perfettamente integrato nel tessuto circostante, dal disegno spartano. Francesca Torzo è considerata l’astro

nascente dell’architettura italiana per la sensibilità con la quale lavora con materie e colori suggestivi e carichi di nostalgie. Amaa opera su spazi astratti, non finiti e a volte tanto evanescenti da far apparire il loro lavoro più mentale che fisico e a tratti snob.

Lorenzo Degli Esposti ha un approccio severo, intellettuale. Fa pensare a Peter Eisenman e forse a Pier Vittorio Aureli, ma con un atteggiamento formalmente meno bloccato.

Conrad-Bercah architects propone spazi che sfuggono alle retoriche della tecnologia e dell’ecologia, per raggiungere la bare architectural form, cioè una forma senza ridondanze.

N) Post Team X.

Massimo Pica Ciamarra e Alberto Cecchetto dirigono studi molto attivi rispettivamente a Napoli e a Venezia. Allievi di Giancarlo De Carlo, realizzano edifici in cui lo spazio pubblico ha un ruolo centrale. Massimiliano Rendina, operante a Caserta in collaborazione con l’architetto ed ex sindaco di Capua, Luca Branco, concepisce progetti per la comunità e lavora sui beni sequestrati alla camorra. Tutti hanno poetiche che derivano in maniera diretta o indiretta dalle problematiche sociali messe a fuoco dal Team X.

Si tratta comunque di sopravvissuti a una cultura che sta cambiando. Come dimostra la retrospettiva al Maxxi dedicata a Riccardo Dalisi (2024), un designer geniale, sempre in ascolto della gente, e che concepiva il proprio lavoro a fini sociali. La mostra lo tradisce inserendo il design popolare se non povero di Dalisi in un ambiente pulito e asettico alla milanese, cioè raffinato e minimale, disegnato da

Fabio Novembre. Dimostrando che siamo oramai estranei alle logiche di una stagione, quale appunto quella del Team X, che snobbava il lusso e credeva alla disordinata vitalità della partecipazione.

O) Spazio e Dissonanze.

Lo studio Morpurgo - de Curtis con il Memoriale della Shoah, situato al piano terra della Stazione Centrale di Milano, pone la questione zeviana dell’architettura che chiede la parola, esprimendosi attraverso lo spazio.

Vi sono poi i progettisti fortemente influenzati dal magistero del critico romano, scomparso nel 2000. Marcello Guido punta su spazialità complesse e dissonanti. Sua la torre Skyline a Cosenza (2008-2011). La piazzetta Toscano, realizzata nel 2002, è oggetto di interminabili polemiche per il suo aspetto troppo coraggioso per alcuni, aggressivo per altri.

Studio Transit, rinnovatosi e dando maggiore spazio alle nuove generazioni, ha realizzato a Roma numerose trasformazioni urbane. Tra queste gli Headquarters della Angelini (2006-2019), progettati insieme a Enzo Pinci.

Dante Benini realizza uffici e fabbriche caratterizzati da complesse spazialità e da un poetico pragmatismo. Importanti gli edifici a Istanbul per la casa farmaceutica Abdi Ibrahim (2007). Gianluca Brini opera soprattutto nel residenziale, proponendo edifici dissonanti rispetto al conformismo dominante in area bolognese.

Alessandro e Leonardo Matassoni hanno realizzato una opera di superba intensità plastica, Villa N a Bucine (2012). Costruttori raffinati, evitano gli effetti superficiali e decorativi e lavorano sull’articolazione di spazi coinvolgenti.

Enzo Fontana e Giovanni Bartolozzi,

Guendalina Salimei Tstudio. Social housing bioclimatico Roma. Foto Luigi Filetici

entrambi laureati diversi anni dopo la morte di Zevi, danno vita a FabbricaNove con progetti che si confrontano con i temi zeviani della dissonanza, delle stratificazioni, della sperimentazione. La mostra al Maxxi, Gli architetti di Zevi. Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944-2000, a cura di Pippo Ciorra e Jean Louis Cohen denuncia una sostanziale incomprensione dei due critici per il personaggio (2018).

P) Prammatici

Numerosi studi selezionano volta per volta il linguaggio più appropriato, anche in funzione delle richieste della committenza, evitando quindi di farsi intrappolare in gabbie stilistiche predefinite. Alcuni nomi: 3c+t Capolei Cavalli, Progetto CMR; Studio Costa, Cotta Solomita, Studio Dedalo Associati, Genius Loci Architettura, Giammetta architects, Ipostudio, Lagrange, Leonardo srl, Lombardini22 con DEGW, Alfonso Mercurio AMA group, Open Project, Studio Valle Progettazioni, Studio 101 Architetti Associati, Filippo Spaini reduce dalla separazione con il socio Mosè Ricci avvenuta nel 2016.

Q) Radical

Per quanto i Radical siano stati in questi anni riscoperti in considerazione dei rapporti avuti da Koolhaas con Superstudio, la loro stagione appare terminata. Resiste Gianni Arnaudo con progetti quali la cantina L’Astemia Pentita

in Barolo (2017). Sembra una gigantesca cassetta dei vini, in onore dell’immaginario Pop. Massimo Mariani, uno dei più talentosi bolidisti, realizza banche dove arte, design e architettura si mescolano. Un altro bolidista, Massimo Iosa Ghini, si è convertito all’architettura verde e sostenibile e produce opere piacevoli e tranquillizzanti. Aldo Cibic lavora su progetti di spazi pubblici e di rinnovamento urbano in Cina (2018) che espone alla Biennale. Andrea Branzi (scomparso nel 2023), dopo la No-stop City, teorizza una modernità debole e diffusa. Debole perché punta su tecnologie a bassa energia, diffusa perché produce spazi aperti che, senza limiti strutturali, seguono regole a-geometriche e a-tipologiche.

A raccontare l’avventura oramai storicizzata dei vari personaggi provvede Gianni Pettena. I radical diventano di moda e, come abbiamo visto, il Maxxi ne celebra il ricordo con la mostra su Superstudio (2016) ben curata da Mastrigli.

R) Digitali

Giuseppe Fallacara, professore a Bari, e allievo dell’ultra conservatore Claudio D’Amato Guerrieri, lavora sulle nuove tecnologie, cercando di applicarle sia alle pietre della tradizione pugliese che alle strategie parametriche, dialogando a tal fine con personaggi quali Patrik Schumacher.

Antonino Saggio a Roma indaga da tempo la rivoluzione informatica, ed è diventato un

punto di riferimento per queste ricerche. Arturo Tedeschi a Milano investe sulle potenzialità del design computazionale. Massimo Russo ad Avellino esplora le capacità progettuali della intelligenza artificiale, evitando distopie complesse e invivibili.

Fabio Forconi a Firenze scrive il monumentale MMXX: Human creativity, desire and complexity. Fundamentals of Systemic Design in Architecture (2022) che fa il punto sulle ricerche mirate a spazializzare dimensioni della psiche, della coscienza e del desiderio, prima inaccessibili.

S) Situazionisti

Uno dei personaggi più interessanti della scena architettonica italiana, Lorenzo Romito, è stato co-fondatore di Stalker (1995), Osservatorio Nomade (2002), Primaveraromana (2009) e Stalker Walking School. Recuperando la cultura situazionista, ci suggerisce a non pensare a costruire l’ennesimo edificio inutile, ma a come vivere poeticamente e consapevolmente nello spazio urbano.

Per Francesco Careri, autore di Walkscapes Camminare come pratica estetica (2006), il passo umano è lo strumento per percepire e trasformare il paesaggio.

Diego Terna e Chiara Quinzii indagano a partire dall’area milanese strategie progettuali per lo spazio pubblico che tengano in conto le nuove problematiche ambientali e i nuovi modi di usare la città.

Corsaro Architetti. Casa Ceno Brindisi. Foto Dario Miale

17 Ratti o Peluffo

Carlo Ratti è un progettista atipico e non solo perché è ingegnere. Sta delineando una nuova via di ricerca progettuale che si interessa più dei comportamenti che dello spazio, utilizzando le nuove tecnologie. Le quali, essendo intimamente interattive, ci ridisegnano. Si pensi a come le app per il car sharing abbiano fatto considerare utile ciò che prima si vedeva come una iattura: il disordine. Se oggi cerco una macchina a noleggio non ho più bisogno di andare in un posto prefissato, ma in strada dove, grazie al disordine, posso trovarne una vicino a me. Un altro esempio: se nella casa il riscaldamento mi segue, invece di essere distribuito in posti fissi dai radiatori, il disegno della abitazione stessa cambia. A questo punto, potendo giocare sulle relazioni immateriali, che senso ha ostinarsi su questioni trascurabili come la forma di una finestra o di una porta?

Inutile sottolineare che queste ricerche stanno mettendo in discussione l’architettura nei suoi aspetti fondativi. Rispetto a Ratti, Gianluca Peluffo ha una posizione opposta. Per innovare, sostiene, occorre la materia del mondo, rischiare con il proprio corpo, mettere in crisi il prevedibile, ridimensionare e insieme umanizzare la scienza e la tecnologia. E, poi, avere la consapevolezza che una buona architettura richieda una certa dose di eresia e allo stesso tempo sia immersa in quella cultura che ci ha fatto proprio quello che siamo: una genealogia, come la chiama. Per ragionare della quale ha scritto un libro: Il giuramento di Pan. Per una fratellanza estetico politica in architettura (Marsilio, 2021).

Obiettivo di Peluffo è la critica alla cattiva architettura che non sperimenta e non ricerca: quindi non solo le società di progettazione che si limitano al

funzionamento del manufatto edilizio ma anche due opposte culture. Dell’Accademia che ripropone schemi e forme che hanno perduto il loro senso. E della cultura scientifica anglosassone che tende a smaterializzare lo spazio per lavorare sull’immaterialità dei flussi, su relazioni sempre più astratte, sulla gestione dei comportamenti attraverso tecnologie pervasive ed evanescenti.

Da qui la polemica con Carlo Ratti, da Peluffo individuato come il principale promotore di questo malsano approccio tecnocratico.

Il confronto tra i due ha avuto punte molto dure, come per esempio nell’incontro 31 maggio 2017 presso la sede dell’Associazione Italiana di Architettura e Critica a Roma, e ha sollevato un notevole interesse tra gli architetti. I quali, come mostrano i post sui social, parteggiano in maniera sfacciata per Peluffo.

Ratti ha probabilmente capito che i suoi “immateriali” potevano non essere compresi e spaventare o inquietare. Così si è messo in società con Italo Rota, un architetto colto e profondamente creativo, formatosi con Gae Aulenti e Vittorio Gregotti, ma che poi ha puntato dritto alla sperimentazione formale. Ne è venuto fuori uno strano ibrido, lo studio Carlo Ratti Associati e Italo Rota, che ha portato alla realizzazione di opere insieme tranquillizzanti e spiazzanti quali il Padiglione Italiano all’Expo di Dubai del 2020 ( inaugurato, a causa del Covid, l’1 ottobre 2021).

Nel 2024 è stata annunciata la decisione della Biennale di Architettura di Venezia di nominare Ratti curatore della edizione del 2025. Un incarico molto ambito che da 25 anni non toccava a un italiano: l’ultimo era stato Fuksas con la Biennale del 2000.

Carlo Ratti e Italo Rota. Padiglione Italia a Expo Dubai 2020

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18 Architetti più o meno spericolati

Dicevamo che pochi architetti italiani si mostrano coraggiosi e sperimentali. Potremmo però tentare una lista con una quindicina di loro, che nella differenza degli approcci, mostrano una forte ansia creativa. Di Gianluca Peluffo abbiamo parlato. Dopo la separazione da Alfonso Femia con il quale avevano costituito lo studio 5+1AA e realizzato edifici rilevanti, quale la sede di Bnl-Bnp Paribas a Roma (2016), costituisce la Peluffo&Partners con sede ad Albissola, a testimoniare il desiderio di radicarsi in provincia e di sfuggire da città quali Milano in cui è sempre più difficile effettuare una ricerca autentica. Ricerca che professionalmente lo porta in Egitto dove realizza il masterplan per il Monte Galala, una urbanizzazione di oltre 200 ettari, e una moschea caratterizzata dal contrasto tra l’ombra e la luce che penetra dai molti lucernari della copertura.

Stefano Pujatti è forse il più dotato e spericolato. Sperimenta materiali e forme con grande bravura e abilità, spesso giocando con materiali poveri e residuali. Tra le sue opere migliori l’hotel a Piancavallo (2010-2012), il Flower pavilion a Chieri (2008) e il Complesso residenziale di Jesolo (2022). Benedetta Tagliabue riesce in un compito particolarmente difficile, continuare senza tradirli i progetti iniziati con il marito e genio Enric Miralles, e caratterizzare la propria ricerca in senso autenticamente originale. Tra i progetti più interessanti del nuovo corso è la chiesa di San Giacomo Apostolo a Ferrara (2011-2021) generata da una spazialità complessa e destrutturata e, allo stesso tempo, colorata e accattivante Giulia de Appolonia realizza edifici caratterizzati da una spazialità insieme compatta e articolata, e da una visione strutturale quasi rinascimentale in cui tutte le parti sono tra loro correlate.

Giuseppina Grasso Cannizzo gode di una notorietà crescente che la porta ad esporre alla Biennale del 2016 e al Maxxi nel 2023. Tra i pochi progetti realizzati, un asilo a Mazzarone, in provincia di Catania, trasformato in una abitazione. Con il quale vince nel 2021 il Premio italiano di Architettura della Triennale.

Francesca Torzo ha fondato il proprio studio a Genova nel 2008. Ha studiato architettura alla TU Delft e all’Etsab di Barcellona. Il suo lavoro, che sta incontrando apprezzamento crescente, è caratterizzato dalle superfici materiche e dai colori che danno vita a opere di grande intensità.

Italo Rota, scomparso il 6 aprile del 2024, è stato un architetto inquieto che incessantemente ha cercato nuove strade. Ha così collaborato con gli architetti più diversi: in passato, come abbiamo già detto, con Gae Aulenti e Vittorio Gregotti e più recentemente con Carlo Ratti con il quale ha firmato opere quali il Padiglione italiano a Dubai (2020) caratterizzato da una retorica copertura a forma di barche rovesciate. Una partnership, questa con Ratti che, se fosse durata più a lungo, avrebbe portato a risultati molto interessanti, completandosi i due a vicenda.

Nemesi Architects sono tra i pochi italiani che producono edifici caratterizzati da forme parametriche e complesse, gestendoli con perizia. Come il Padiglione Italia all’Expo 2015 a Milano. Michele Molè, uno dei partner, è a mio giudizio tra gli architetti più dotati della sua generazione. Ma0 progetta edifici, oggetti, installazioni per modificare le relazioni tra lo spazio e i suoi abitanti. Da qui la progettazione di dispositivi spiazzanti dove si ridiscutono i confini tra spazio pubblico e privato, tra architettura e natura.

Cherubino Gambardella è forse

eccessivamente kitsch nelle sue ricerche. Tuttavia è uno che ha talento e rischia, cercando continuamente di cambiare toni e registro, sperimentando creativamente anche materiali poveri e colori dissonanti. Il fatto di avere una famiglia fortemente radicata nell’università e di essere stato nominato professore in giovanissima età non gli ha giovato.

Renato Rizzi si fa conoscere per il tentativo di saldare architettura e filosofia. Si forma con Peter Eisenman con cui collabora per un decennio. Scrive testi in cui affronta Parmenide, Severino, Heidegger e altri filosofi alla moda. Lo fa con uno stile oscuro e autocompiaciuto. Realizza però disegni straordinari e un’opera, il teatro di Danzica (2014) che lascia tutti, sperimentatori e Accademia, a bocca aperta.

Beniamino Servino di opere di architettura ne produce poche e, a mio parere, non particolarmente brillanti. Le quali, però, erano state apprezzate da Stefano Boeri che le aveva pubblicate. Notevoli i disegni che alludono a spazialità affascinanti e non prive di riferimenti ai giochi dei bambini. Il suo immaginario, messo insieme a quello di Pujatti e di Peluffo, nel concorso per il Grande Maxxi (2022) ha prodotto uno dei progetti più importanti di questo ultimo decennio: un museo incantato e gioioso pensato come un circo.

Urban Future Organization (UFO), è un gruppo transnazionale che ha la sua base italiana a Pace del Mela (Messina). Composto da architetti che si sono formati alla AA a Londra, non esita a utilizzare geometrie parametriche che, nel contesto siciliano, producono sorprendenti risultati. Simone Subissati ha realizzato l’abitazione più affascinante, intrigante e inconsueta del nuovo millennio, la Casa di Confine (2018) nelle Marche.

5+1 AA. Bnl/Bnp Paribas Headquarters. Roma Tiburtina

THIS IS A NEW POINT OF VIEW.

POINTS è il nuovo sistema indipendente e modulare di Bene che consente di ridisegnare lo spazio interno e riconfigurarlo senza l’utilizzo di pareti fisse. La sua flessibilitá permette ad architetti di immaginare ambienti sempre differenti e alle aziende di fruire di spazi dinamici e in continua evoluzione. WORK. ON POINT.

BENE SHOWROOM: Foro Buonaparte 53, Piano Primo, 20121 Milano

19 Questioni di genere

Settembre 2023. Una lettera aperta pubblicata dal quotidiano La Repubblica protesta contro la mostra Roma nuovissima, direzioni contemporanee del progetto a Roma inaugurata all’ex Mattatoio. La prima sezione della mostra è esclusivamente maschile. Nella seconda sono esposti lavori di quattro gruppi di cui tre formati solo da uomini. E, infine, la terza, che presenta studi romani emergenti, è composta da 11 studi a grande maggioranza maschile. La mostra, accusa la lettera, è interamente promossa, organizzata e ospitata da istituzioni pubbliche che dovrebbero invece avere a cuore la diversità di genere. La risposta dei curatori non tarda a venire: i numeri, sostengono, sono diversi. Il problema tuttavia è ancora più grave di quello evidenziato dalla mostra: mentre la percentuale delle donne che si immatricolano alla facoltà di architettura sta superando il 60 per cento e aumenta anno dopo anno, quella delle donne che esercitano effettivamente la professione è di molto, molto inferiore. I motivi sono molteplici ma ve ne è uno, inquietante, che investe anche gli uomini. In Italia, con gli anni, si è determinata una netta separazione tra mondo accademico e mondo professionale. Le università si sono moltiplicate e, tolte due o tre, sono diventate quasi delle scuole secondarie con insegnanti di scarso prestigio. L’attività professionale, invece, è diventata sempre più elitaria. Se non hai risorse non puoi affrontare le università migliori, andare all’estero, avere uno studio professionale in grado di affrontare concorsi e progetti di una certa consistenza. Risorse che non sono solo economiche ma anche di tempo e di continuità lavorativa. Che vengono a mancare o sono ridotte drasticamente una

volta che l’architetto donna decida di avere figli.

Occorre quindi rinvigorire il lavoro delle vecchie commissioni per la parità di genere, presenti negli Ordini professionali, e attivare nuove iniziative. Francesca Perani, ispirata dalle proteste per la parità in altri Paesi europei e negli Stati Uniti, organizza il collettivo RebelArchitette e interviene alla Biennale del 2018 presentando una pubblicazione digitale dal titolo Architette = Women Architects/Here we are. Sono 755 pagine in cui sono raccolti i profili di 365 studi di progettiste, appartenenti a tutte le nazionalità, dalle pluripremiate alle emergenti, dal 1800 ad oggi.

E, poi, interviene alla Biennale del 2021 con una installazione dal titolo Detox. Disintossicare l’architettura dalle diseguaglianze: un atto plurale. La presenta all’interno del Padiglione Italia, la cui mostra, curata da Alessandro Melis, ha per titolo Comunità Resilienti

Perani pone inoltre una questione linguistica: perché chiamare architetto le architette? La differenza di genere la si combatte impedendo che il nostro cervello segua cliché linguistici maschilisti. A questo punto c’è chi propone il termine Architettrice ricordando Plautilla Bricci (1616-1705), la prima donna architetto della storia, che con tale appellativo si firmava, e la cui vita è raccontata in un libro di Melania G. Mazzucco tempestivamente uscito nel 2019. La discussione si sposta sui social: architetto, architetta o architettrice? Non si raggiunge un accordo, però si registra un aumento di sensibilità per la questione, e lo si vede con l’uscita di libri dedicati a personaggi femminili quali i numerosi su Lina Bo Bardi e quello su Maria Teresa Parpagliolo, scritto da Lucia KrasovecLucas, nonché dal clamore che susciterà

la lettera di protesta per la mostra romana di cui parlavamo prima. Vi è, infine, a cavallo tra il 2021 e il 2022 la mostra al Maxxi dal titolo Buone Nuove. È presentata come “una grande mostra sulle donne in architettura, un viaggio nell’evoluzione al femminile della professione di architetto, dall’inizio del Novecento a oggi”. Una esposizione deludente per la qualità e quantità dei progetti esposti e per gli approssimativi criteri di scelta.

Se vogliamo adesso qualche nome, alle architette del capitolo 18 occorre aggiungerne altre che gestiscono i loro studi, producendo opere di rilevante qualità. Sono:

Guendalina Salimei, che realizza opere pubbliche anche di dimensione gigantesca, soprattutto waterfront urbani, e ha acquisito recentemente incarichi quali l’ampliamento e la risistemazione degli spazi del Museo Egizio a Torino (in collaborazione con lo studio olandese Oma). È la prima donna architetto ad essere nominata curatrice del Padiglione Italia alla Biennale del 2025.

Teresa Sapey è una brillante architetta piemontese emigrata a Madrid.

Soprannominata ‘Miss Parking’ per la sua bravura di recuperare parcheggi pericolosi e degradati, umanizzandoli e colorandoli. Nessuno sa usare il colore come lei.

Sonia Calzoni ha al suo attivo una notevole produzione di interventi edilizi di alta qualità, in particolare di housing.

Anita Sardellini ha costruito nelle Marche raffinati edifici quali l’Istituto Zooprofilattico (2012-2019) di Ancona.

Paola Viganò è una architetta urbanista internazionalmente apprezzata che si occupa della “transizione verso città e territori intelligenti, ecologici e equi”.

Susanna Nobili lavora con grande

sensibilità al restauro di edifici di valore storico e artistico quali Palazzo Baldassini a Roma e realizza allestimenti coinvolgenti per mostre di nicchia.

Susanna Ferrini, dopo aver realizzato calibrati e raffinati spazi museali con n!studio di cui era socia, si mette in proprio puntando sulla richiesta di edifici di qualità proveniente dal mercato cinese.

Paola Rossi ha progettato, insieme allo psicanalista Massimo Fagioli, il Palazzetto Bianco (1991-2006) a Roma che è visto dai numerosi architetti seguaci di Fagioli come “il manifesto costruito di una ricerca collettiva sull’origine del processo creativo in architettura”.

Laura Rocca a Monza e Luisa Fontana a Schio condividono, sulla base di considerazioni ergonomiche e prossemiche, la volontà di evitare la logica ortogonale cartesiana. Lo fanno una in

edifici industriali e sportivi, l’altra nell’edilizia ospedaliera.

Vi sono poi numerose figure femminili che collaborano pariteticamente con partner uomini: quali Patricia Viel che lavora con Antonio Citterio, Doriana Mandrelli con Massimiliano Fuksas, Claudia Clemente con Francesco Isidori (Labics), Alessandra Segantini con Carlo Cappai ( C+S), Junko Kirimoto con Massimo Alvisi. Insomma, architette che progettano architetture eccellenti ce ne sono, basta cercarle. Ma, del resto, questo è un problema anche per gli uomini. In Italia ci sono molti architetti bravi, a volte giovani a volte meno, che non sono sufficientemente conosciuti e apprezzati. Da qui l’idea, nel 2022, di organizzare una mostra che fosse curiosa rispetto al contributo femminile e che si muovesse nelle varie regioni d’Italia alla ricerca di talenti senza preclusioni di

genere. Titolo: Supermostra, per indicare che più che a un evento, l’iniziativa puntava a organizzarne molti in tempi e spazi diversi. Supermostra, curata da Ilaria Olivieri e da chi scrive queste note, infatti è diventata itinerante per ampliarsi e rinnovarsi ogni due anni. Tra le progettiste selezionate: Cristina Bellini, Laura Bissi, Silvia Brocchini, Valentina Dallaturca, Giulia de Appolonia, Michela Ekstrom, Martina Ferrini, Renata Fiamma, Lorella Fulgenzi, Filomena Fusco, Maria Cristina Garavelli, Egizia Gasparini, Ulla Hell, Laura Lampugnale, Maria Maccaglia, Alessia Maggio, Antonella Mari, Anna Merci, Marzia Messina, Silvia Minutolo, Paola Odone, Cristina Pacchiarotti, Francesca Perani, Giulia Perri, Chiara e Laura Pirro, Laura Rocca, Laura Sanna, Laura Sappa, Eleonora Secco, Ivana Laura Sorge, Marina Tornatore.

Calzoni Architetti. The Hub Centro di Comunità Nuova Don Gino Rigoldi Milano. Foto Michele Nastasi
Teresa Sapey. Allestimento per la mostra Arco 2020. Madrid. Foto Asier Rua

20 Prossimo futuro

Il dato più rilevante che emerge da questa veloce ricognizione dell’architettura italiana degli ultimi venti anni è la perdita di centralità dell’Accademia e l’importanza crescente del contributo di chi opera sul campo, cioè dei professionisti. Il postmodernismo e la così detta Tendenza negli anni Settanta e Ottanta avevano come epicentri le facoltà universitarie, i cui custodi erano i professori. Sono loro che in quegli anni realizzano la maggior parte degli edifici importanti: grandi complessi residenziali e opere pubbliche. Con la crisi del postmodernismo e la scomparsa della Tendenza le facoltà di architettura diventano sempre più marginali se non irrilevanti. Faticano a metabolizzare la nuova architettura. La lettera dei trentacinque professori del settembre 2005 contro gli incarichi agli architetti stranieri, di cui abbiamo parlato in apertura, è la spia di questo disagio e della perdita di centralità. Che precipita quando entra in vigore la legge 40 del 2010 che impedisce ai docenti di esercitare l’attività professionale se optano per l’insegnamento a tempo pieno. Pochi però hanno scelto il tempo determinato, per non rinunciare a buona parte dello stipendio che l’attività professionale non compenserebbe.

L’architettura, sia pure con limiti e problemi, è tornata in mano ai professionisti. Con reti ed epicentri diversi da quelli dell’università, che oltre tutto controllava le riviste attraverso cui si diffondeva larga parte della cultura architettonica.

In questa opera di smantellamento dei vecchi poteri, il digitale gioca un ruolo importante; fornendo a prezzi accessibili spazi di conoscenza – i siti – e di auto promozione – i social – e

Philip Yuan e Bin He. Co-Poiesis. Installazione nella sezione Artificial della Biennale di Architettura di Venezia. Foto Luca Capuano, courtesy La Biennale di Venezia

anche costringendo i media tradizionali a rinnovarsi abbandonando il loro carattere elitario.

Per capire quali saranno le scommesse per il prossimo futuro, credo che occorra andare proprio sui siti e sui social e guardare cosa dicono.

Troverete che (quasi) tutti gli architetti italiani promettono le stesse cose: - Artigianalità: “siamo cresciuti negli anni ma continuiamo a considerarci un atelier di architettura”.

- Coscienza ecologica: “crediamo nell’ambiente e realizziamo progetti per migliorarlo”.

- Rapporto con la tradizione : “Il nostro approccio all’architettura è forte della tradizione e al tempo stesso sperimentale”.

- Cura del dettaglio: “puntiamo alla perfetta esecuzione di opere su misura che soddisfino le esigenze del committente”. Promettono cioè una sempre maggiore attenzione alle questioni ambientali e un approccio sempre più sartoriale, cioè High Touch. La qualità artigianale, insomma, non è messa in discussione, e ben pochi sono disposti a rischiare con sperimentazioni azzardate.

È quindi molto poco probabile che negli anni a venire esplodano le ricerche parametriche, ci sia spazio per più complessi giochi formali o si punti su una maggiore autorialità. Lo abbiamo visto nelle pagine precedenti: negli ultimi venti anni gli sperimentatori sono stati una sparuta minoranza e le poetiche della complessità da noi non hanno mai pienamente attecchito.

È prevedibile, invece, che aumenterà la libertà di linguaggio, che ci traghetterà verso una condizione sempre più eclettica. Del resto, l’acquisizione principale della fine degli anni Novanta è stata che si può

fare buona architettura con tutto, che non ci sono regole che garantiscono i risultati, che la condizione manierista che ci aveva preceduti ( progettare alla maniera di Le Corbusier, Mies, Kahn) è finita.

Vi è però un’altra novità che da un paio di anni si profila all’orizzonte e che entrerà con sempre maggiore prepotenza negli studi professionali: la AI (intelligenza artificiale). La AI già riesce in pochi secondi a scrivere testi ben costruiti logicamente e di senso compiuto, compresi i documenti tecnici, e a realizzare immagini di spazi architettonici, anche molto complessi, che presto potranno essere tradotti, sempre dalla AI, in disegni tecnici ed eseguiti da robot appositamente istruiti.

Non è difficile quindi prevedere che cambierà il ruolo dell’architetto: a progettare non sarà più lui anche se si riserverà un ruolo di indirizzo e di controllo. Si può ipotizzare che si sperimenteranno forme inconsuete, forse complesse, che poi le macchine a controllo numerico realizzeranno con relativa facilità.

L’altra certezza che abbiamo è che la AI, tempo pochi anni, svolgerà molti dei lavori, soprattutto i più pericolosi e noiosi, che abitualmente fanno gli umani. Il fatto che le incombenze saranno svolte da robot dotati di AI ci cambierà la vita, liberandocela e dandoci il tempo di fare altre cose. Cambieremo, conseguentemente, il modo in cui viviamo e quindi il modo in cui sono organizzate le abitazioni, i luoghi di lavoro e, in genere, la città. Immagino, per esempio, che palestre, saune e spa avranno il pienone. Oppure, forse più probabilmente, che troveremo altri modi per stressarci. Certo è che i prossimi venti anni saranno diversi da questi venti che li hanno preceduti.

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Roger Boltshauser & Martin Rauch. Casa Rauch, Schlins 2005-2008. Dettaglio dell’interno. Foto Beat Buhler, Albrecht Schnabel.

2005 / 2025

Venti anni di Architettura nel mondo

di CARLO EZECHIELI

IL MONDO INTORNO A NOI

2005

Paolo Bürgi

Osservatorio geologico di Cimetta

Cardada. Svizzera

Cerco l’estate tutto l’anno, ma per ironica fatalità, il giorno che avevo scelto per visitare l’Osservatorio di Cimetta mi ritrovai immerso nella nebbia. Non era precisamente ciò che avrei desiderato. Come tutti gli osservatori, anche quello di Cardada sorge infatti in un punto panoramico straordinario, con una vista che si estende a Sud su quasi tutto il Lago Maggiore. Eppure quelle condizioni, tutt’altro che ideali, finirono per offrirmi una prospettiva inattesa su un’opera che ammiravo da tempo. Credo infatti che quest’ultima sia una buona rappresentazione di un principio che si presenta raramente: quello di cercare l’infinito non tanto guardandosi intorno, ma guardando all’interno. Situato a 1.671 metri di quota, l’Osservatorio si presenta come un disco di cemento di 15 metri di diametro leggermente inclinato, conficcato nelle rocce della Linea Insubrica: una faglia formatasi circa 35-30 milioni di anni fa che corrisponde al margine di connessione tra la placca continentale africana e quella europea. Una traccia rossa divide la superficie del disco in due settori e indica l’esatto segmento di convergenza tra i due versanti, geologicamente ben distinti, con rocce di origine magmatica a Nord e calcaree a Sud. Questa struttura soggiacente e invisibile è ciò che in realtà ha plasmato la struttura del paesaggio: dividendo i versanti, definendo le specie di piante, caratterizzando la topografia e, in ultima istanza, condizionando le attività dell’uomo. In breve, l’osservatorio traduce in architettura il concetto di ‘Tempo Profondo’, formulato alla fine del Settecento dal geologo

scozzese James Hutton, considerato il padre della geologia moderna, secondo il quale l’età della Terra è il risultato di mutamenti così vasti e lenti che la loro origine si perde negli abissi del tempo. In un’epoca in cui si viveva nella convinzione che la Terra fosse stata creata in sette giorni e non fosse più antica di 5.000 anni, il pensiero di Hutton aveva segnato una svolta decisiva, cambiando radicalmente il modo di vedere le cose. Questa prospettiva sul tempo ci porta inevitabilmente a riflettere su quanto poco sappiamo del nostro rapporto con i processi naturali. Solo recentemente, infatti, sulla base di conoscenze che fino a 20-30 anni fa erano del tutto inesistenti, abbiamo iniziato a comprendere che condividiamo il pianeta con milioni di altre specie e siamo intimamente intrecciati a processi naturali complessi. Basti pensare alla simbiosi tra piante e micorrize, che crea una rete di comunicazione sotterranea, o al ruolo dell’alterazione chimica delle rocce nel ciclo del carbonio, e quindi nella composizione dell’aria stessa che respiriamo. Concepito secondo l’autore in netta contrapposizione all’idea della montagna come bene di consumo, l’osservatorio geologico è un’opera che pur avendo origine da un presupposto scientifico, trova forma architettonica compiuta sulla base di un principio profondo di contemplazione, di connessione emotiva, di rispetto per il luogo… e di percepire qualcosa che assomiglia all’infinito nella paradossale esperienza di visitare un osservatorio panoramico in un giorno di nebbia.

Paolo Bürgi

Situato a 1.671 metri di quota, l’Osservatorio si presenta come un disco di cemento di 15 m di diametro incastonato nelle rocce della Linea Insubrica: una faglia formatasi circa 35-30 milioni di anni fa.

Una traccia rossa divide la superficie del disco in due settori, indicando l’esatto segmento di convergenza tra la placca continentale africana e quella europea geologicamente ben distinte, con rocce di origine magmatica a Nord e calcaree a Sud. Foto Studio Bürgi. Stephan Bürgi.

Sulla Linea Insubrica dove la placca europea e quella africana si incontrano l’osservatorio di Paolo Bürgi traduce in architettura il concetto di tempo profondo e la consapevolezza del nostro essere intimamente intrecciati a processi naturali e complessi

L’INVASIONE DEI LANDFORM

2006

Snøhetta

Teatro dell’opera di Oslo

Oslo. Norvegia

Un indicatore utile per comprendere quanto un’opera recente possa diventare influente e, almeno in parte, segnare un cambiamento, è l’emulazione, non priva di pericolosi deragliamenti stilistici, da parte degli studenti di architettura: un fenomeno che mi sono spesso trovato a osservare negli anni di docenza al Politecnico di Milano. Tra i progetti più imitati spicca il Teatro dell’Opera di Oslo, un edificio concepito come un vero e proprio paesaggio. Alla base del progetto c’è un’usanza profondamente radicata nella cultura norvegese: l’allemannsretten (letteralmente ‘pubblico diritto di accesso’), che garantisce per legge la possibilità di muoversi liberamente in campagna. Trasposto in architettura, questo principio ha dato vita a un edificio la cui copertura, vera e propria estensione dello spazio pubblico, è liberamente accessibile. Rivestito da 36.000 pannelli di marmo bianco di Carrara, il progetto ha coinvolto 17 artisti, le cui opere sono state integrate nell’edificio, compresa la copertura stessa: di fatto una monumentale installazione di 20.000 metri quadrati. Mentre l’architettura Moderna, in particolare Le Corbusier, sollevava gli edifici su pilotis per separarli dal suolo, l’Opera di Oslo –come altri edifici landform – il suolo lo crea, diventando essa stessa paesaggio. Questo recente tipo di ibridazione non è inedito: lo si intravede già in opere come Casa Malaparte a Capri, intorno al 1940, ma incomincia ad emergere come tendenza negli anni Novanta in progetti come il Yokohama International Passenger Terminal di Foreign Office Architects (1995), per arrivare a compimento

in esempi come, per l’appunto, l’Opera di Oslo, realizzata un decennio più tardi. E non poteva essere altrimenti: lo studio Snøhetta, autore del progetto, è stato infatti fondato da architetti e paesaggisti sulla base di una filosofia profondamente radicata nel paesaggio al punto da prendere il nome, non da una via cittadina, come le Grafton Architects, ma da una montagna. Fulcro del vasto intervento di trasformazione urbana che, negli ultimi vent’anni, ha spostato il centro di Oslo verso il waterfront, il Teatro dell’Opera è diventato in breve tempo un luogo di riferimento, paragonabile – per centralità e forza simbolica – al Duomo di Milano o a Piazza di Spagna a Roma. Se le città vengono rappresentate per i loro edifici principali, come il teatro di Sydney, il Golden Gate di San Francisco, la Porta di Brandeburgo per Berlino, anche il teatro dell’Opera è diventato il simbolo di Oslo. Il fatto che sia oggetto di emulazione ne è sicuramente indicativo del valore, e di un principio, per molti versi rivoluzionario, che ha contribuito a lanciare la tendenza, e forse anche la moda, degli edifici landform

Rivestito da 36mila pannelli di marmo bianco di Carrara, il progetto ha coinvolto 17 artisti, le cui opere sono state integrate nell’edificio, compresa la copertura stessa: di fatto una monumentale installazione di 20mila mq. Foto Jiri Havran.

Kjetil Trædal Thorsen di Snøhetta

Che l’Opera di Oslo sia oggetto di emulazione è indicativo del suo valore e del principio per molti versi rivoluzionario che ha contribuito a lanciare: la tendenza e forse anche la moda degli edifici landform

Il progetto si basa su un’usanza norvegese l’allemannsretten che trasposto in architettura ha dato vita a un edificio la cui copertura è liberamente accessibile.

L’EPOCA DEL TURBOCAPITALISMO

Coop Himmelb(l)au

BWM Welt

Monaco di Baviera. Germania

Alla vigilia della grande recessione del 2008, il panorama economico mondiale era dominato dal turbocapitalismo: un termine reso celebre dall’economista e politologo Edward Luttwak, che indicava una forma di capitalismo sfrenato, all’origine della crisi stessa. Pur con le distorsioni che ne sarebbero emerse, questa fase di accelerazione economica generò un notevole surplus finanziario che, considerando i costi inevitabilmente elevati del fare architettura, non solo rese possibili molti progetti di grande qualità, ma anche lo sviluppo di tecniche di modellazione, analisi strutturale, progettazione parametrica e fabbricazione, oggi di uso comune ma allora ancora poco conosciute, se non del tutto inedite. Solo qualche anno dopo mi resi conto di quanto questo scenario economico e sociale fosse determinante, osservando in retrospettiva un mondo ormai profondamente segnato dalla crisi finanziaria. Ripensai allora al contesto in cui prese forma il BMW Welt di Monaco di Baviera, un’opera che avevo visitato poco dopo il completamento e che trovai notevole. Situato accanto all’Olympia Park e costato circa 200 milioni di euro, il progetto prese avvio nel 2003 e fu inaugurato nell’ottobre del 2007, diventando nel tempo l’attrazione turistica più visitata della Baviera. L’edificio è caratterizzato da un’enorme copertura concepita come una topografia inversa, con un ingresso definito da un doppio cono dalle pareti tortili. Le rampe pedonali e la grande sala centrale, articolata su più livelli e attraversata da rampe carrabili, definiscono uno spazio che, pur rientrando nel linguaggio

del decostruttivismo, dal punto di vista della fluidità, della tensione, del senso di instabilità e dell’impatto teatrale rivela sorprendenti affinità con l’architettura barocca: propria di un’epoca che, invece dell’equilibrio rinascimentale, esaltava l’irregolarità e l’eccesso. Non è un caso che Wolf Prix, fondatore di Coop Himmelb(l)au e autore del progetto, abbia curato nel 2010 il volume Let’s Rock over Barock, in cui esplora la persistenza del barocco nell’architettura contemporanea. Un tema peraltro ripreso nella monografia Studio Prix: University of Applied Arts Vienna 1990–2011, che analizza come l’eredità barocca continui a influenzare il panorama architettonico austriaco. Se nel Seicento il barocco dichiarava con nuove invenzioni architettoniche il potere della Chiesa, confermato dopo la Controriforma, nel XXI secolo le forme inclinate e in tensione di Coop Himmeb(l)au sembrano affermare un definitivo superamento del Moderno per proporre qualcosa di nuovo, forse di instabile, ma infine di meno effimero delle spinte economiche che contribuirono alle sue origini.

La grande sala centrale articolata su più livelli e attraversata da rampe carrabili definisce uno spazio che, pur rientrando nel linguaggio del decostruttivismo, per la sua fluidità, tensione, senso di instabilità e impatto teatrale rivela sorprendenti affinità con l’architettura barocca. Foto Duccio Malagamba.

Wolf Prix, Coop Himmelb(l)au
Foto
Christian Richers
Foto BMW

Il successo della finanza globale generò un surplus economico che rese possibili progetti ambiziosi e l’evoluzione di tecniche oggi comuni ma allora quasi sconosciute segnando un punto di svolta per l’architettura contemporanea

Caratterizzato da un’enorme copertura concepita come una topografia inversa, con un ingresso definito da un doppio cono dalle pareti tortili, il Bmw Welt è oggi l’attrazione turistica più visitata della Baviera.

IL RITORNO DEL PRINCIPIO INSEDIATIVO

RCR Arquitectes

Casa Horizonte

La Vall de Bianya. Spagna

Il termine maniero è immediatamente riferito a una residenza fortificata o una dimora nobiliare di grandi dimensioni, spesso costruita in epoca medievale. È uno dei pochi casi in cui un singolo edificio non solo instaura un rapporto con il paesaggio ma, grazie alle sue dimensioni, arriva a determinarne la forma. In epoca contemporanea l’opportunità di progettare un maniero diventa ancora più rara. Ebbe questa fortuna Marco Zanuso, con il progetto di Villa Coromandel a Mpumalanga, in Sudafrica, realizzando un’opera magistrale. Oltre a lui, in epoca ancor più recente, la Casa Horizonte, capolavoro dello studio catalano RCR Arquitectes, Premio Pritzker nel 2017, preparatorio alla successiva realizzazione del più noto Museo Soulages, completato nel 2014, rappresenta un caso in cui una singola abitazione assume una connotazione non solo paesaggistica, ma anche geografica. Situata poco distante da Olot, la cittadina dove si trova lo studio degli architetti, Casa Horizonte, attestata sul bordo di una ripida scarpata e per buona parte interrata, rappresenta un elemento che definisce i contorni di un paesaggio e, propriamente, un orizzonte. L’ingresso avviene attraverso il garage, quasi fosse una caverna, e l’abitazione si sviluppa per circa 60 metri, lungo un corridoio semiinterrato, sul quale si innestano undici identici volumi in acciaio corten, chiaro riferimento al principio minimalista di iterazione, che emergono dal terreno come le torri di un bastione. L’apparente incompatibilità tra questi volumi isolati, sempre identici e con una sezione di soli 2,60 metri al

RCR Arquitectes

lordo delle pareti perimetrali, rispetto a ragionevoli condizioni di abitabilità, viene superata attraverso il loro accorpamento. In corrispondenza del soggiorno, la spina centrale del corridoio diventa una rampa che porta a un piano ribassato di calpestio e pertanto ad una maggiore altezza degli spazi interni. Questo secondo un principio di contrasto tra compressione e dilatazione degli spazi che viene spinto talmente all’estremo da rinunciare, nei tratti di corridoio puramente connettivi, a qualsiasi forma di illuminazione. Ma il punto più interessante di quest’opera è l’approccio di impronta territoriale e megastrutturale molto presente nell’architettura degli anni Settanta e Ottanta. È una riproposizione in forma tascabile dello stesso principio insediativo che è possibile rintracciare in opere come l’Università della Calabria di Vittorio Gregotti o in alcuni progetti della scuola di architettura ticinese. Che nel XXI secolo la stessa filosofia di rapporto con il luogo venga applicata alla residenza è un fatto sicuramente singolare, ma forse, con un opportuno downsizing, rappresenta un esempio di come da uno stesso principio possano avere origine architetture meravigliose.

In corrispondenza del soggiorno, la spina centrale del corridoio diventa una rampa che porta a un piano ribassato di calpestio e pertanto a una maggiore altezza degli spazi interni. Foto Hisao Suzuki, Rcr Bunka Collection, Pep Sau.

L’abitazione si sviluppa per circa 60 metri, lungo un corridoio semi-interrato sul quale si innestano undici identici volumi in acciaio corten, che emergono dal terreno come le torri di un bastione.

Preparatorio al successivo e più noto Museo Soulages, del 2014, Casa Horizonte rappresenta un caso in cui una singola abitazione assume una connotazione non solo paesaggistica ma anche geografica. Schizzo concettuale Rcr Arquitectes.

Casa Horizonte ripropone su scala ridotta lo stesso principio insediativo presente in opere come l’Università della Calabria di Gregotti e in alcuni progetti della scuola di architettura ticinese

Sul bordo di una scarpata e per buona parte interrata l’abitazione definisce i contorni di un paesaggio e propriamente un orizzonte.

ARCHITETTURE RICOMBINANTI

Bjarke Ingels

The Mountain

Copenhagen. Danimarca

In biotecnologia, la tecnica del Dna ricombinante consiste nell’alterare il materiale genetico al di fuori di un organismo per ottenere caratteristiche migliorate e desiderate. Il paragone non è casuale, dato che in architettura e in urbanistica le metafore organiche con binomi concettuali come organismo edilizio, arterie viabilistiche, polmoni verdi, ricorrono da secoli. La stessa dialettica tra matrice, o cellula, tipologica e tessuto urbano, è ascrivibile nell’ambito di questa concezione di architettura quale sistema integrato di parti funzionali che nemmeno Le Corbusier, paragonando una casa a una machine à habiter, riuscì a scardinare. Sempre sulla lunghezza d’onda della ripetizione e ricombinazione di matrici, la cosiddetta architettura parametrica trova nei progetti di autori come Arthur Mamou Mani o Chris Precht forme architettoniche generate in base a regole matematiche che determinano in modo quasi autonomo la geometria dell’opera.

L’edificio residenziale nel distretto di Ørestad, periferia sud di Copenhagen, noto come The Mountain (2008), probabilmente l’opera che rese famoso Bjarke Ingels, rimane tuttavia un esempio interessante di come un criterio di ibridazione tipologica e funzionale e, sempre con una metafora organica, di ricombinazione cellulare, corrisponda ad esigenze abitative in parte inedite. In parte, dato che concettualmente The Mountain non è una novità. Il complesso delle Terrazze Fiorite a Bergamo di Giuseppe Gambirasio del 1979 lo anticipava di trent’anni. Come pure la logica di A garden for everyone e di

combinazione di cellule abitative di Habitat ’67 di Moshe Safdie. La particolarità di The Mountain è tuttavia quella di proporre un principio di ibridazione totale, unita alla formazione di un vero e proprio segno geografico di cui ci si rende conto solo visitandolo. Trovandosi in periferia, all’epoca una campagna completamente pianeggiante, questa costruzione infatti non può far altro che svettare, non come un edificio, ma come una collina verde e abitata.

L’ibridazione avviene, non senza un’importante perdita di efficienza nell’utilizzo degli spazi, tra un edificio residenziale e un parcheggio. Le singole cellule abitative con pianta a L che includono un piccolo patio, sono riprese e ricomposte, secondo una logica ricombinante per l’appunto, dalle Kingo Houses di Jørn Utzon a nord di Copenhagen. Lo stesso enorme parcheggio ai cui piani si accede con una funicolare, diventa uno spazio urbano occasionalmente utilizzato per eventi, come la festa di chiusura di Copenhagen Distortion nel 2008. Nel XXI secolo le cose si complicano, le funzioni si sovrappongono e si alternano all’interno dei medesimi spazi che, ormai tipologicamente alterati, rimangono orfani dei contenuti simbolici e rappresentativi un tempo incorporati nel tipo stesso. Convertire un ibrido tra residenza e parcheggio in un elemento del paesaggio, tanto spettacolare quanto inaspettato, finisce per imporsi come una forma contemporanea di rappresentazione.

Bjarke Ingles

In alto. The Mountain nel distretto di Ørestad, Copenhagen. Danimarca 2006-2008. Foto Iwan Baan.

Ricombinando tipologie e programmi, The Mountain si fa landmark territoriale e paradigma di ibridazione tra spazio pubblico e ambienti privati di un’epoca, la nostra, in cui le funzioni si sovrappongono

Sotto. Le singole cellule abitative con pianta a L che includono un piccolo patio sono ricomposte secondo
una logica ricombinante ripresa dalle Kingo Houses di Jørn Utzon. Foto Jakob Boserup.

AVANGUARDIA VERNACOLARE

2010

Roger Boltshauser & Martin Rauch

Casa Martin Rauch

Schlins. Vorarlberg

Parlare di cultura architettonica in relazione all’architettura vernacolare, per definizione illetterata, sembra un ossimoro. Eppure, nonostante l’indifferenza – se non l’insofferenza – con cui nel 1964 fu accolto Architecture Without Architects di Bernard Rudofsky, oggi si assiste a un crescente interesse per l’architettura spontanea. Ciò che affascina di più è forse l’equilibrio, ormai perduto, che questa forma di architettura senza architetti, basata su un adattamento secolare al clima e ai luoghi, sapeva mantenere con l’ambiente e con le risorse disponibili. Ed è una tendenza che si manifesta in numerosi esempi di architettura contemporanea, dal lavoro di Wang Shu e Lu Wenyua a quello di Bijoy Jain e di Wespi De Meuron Romeo, tutti profondamente ispirati alla tradizione costruttiva locale. In questo panorama, una delle opere a mio avviso più rappresentative è la Haus Rauch, a Schlins in Austria, progettata da Roger Boltshauser con e per Martin Rauch, maestro e pioniere di tecniche moderne di costruzione in terra cruda, nonché colui che ha illuminato i primi passi di architetti straordinari come Anna Heringer, Obel Award 2020. Ebbi l’occasione di visitare quest’opera nel 2009, appena completata, per un intero pomeriggio: fu un’esperienza che mi rimase impressa per un buon decennio. Un blocco monolitico costruito con la stessa terra di scavo dell’abitazione, con un volume articolato, o meglio, a sua volta scavato, in modo da permettere alla luce diretta del sole, così rara e preziosa nelle Alpi, di entrare in ogni angolo all’interno. Spazi di concezione moderna

articolati magistralmente, in verità niente di più lontano dalla tradizione. Ma ciò che mi colpì di più era la coerenza della costruzione e dei dettagli, adattati a una tecnica costruttiva antica e oggi quasi dimenticata, il tutto secondo una logica ferrea. Gli inserti in pietra in facciata, un motivo decorativo derivato dalla fondamentale funzione di prevenire il dilavamento delle superfici. Gli impianti senza tracce a parete, riducendo notevolmente lo sviluppo dei passacavi, con interruttori posizionati a soffitto, azionati tramite eleganti cordicelle con un pomo in terracotta. I lavandini in ceramica raku, una tecnica giapponese antica di 1.500 anni, sempre ricavata dagli stessi materiali di scavo. Come mi fece notare anni prima lo stesso Rauch, la terra è il risultato dall’erosione, che è una forza capace di scavare vallate e plasmare il paesaggio di intere regioni: un muro in terra cruda non fa altro che rendere questa forza tangibile. E la casa di Martin Rauch è un vero e proprio manifesto della sua ricerca unica, posta all’intersezione tra artigianato, scienza e arte. Ed è la dimostrazione di come sia possibile realizzare soluzioni innovative partendo dalla riscoperta di tecniche che, dalla rivoluzione industriale in poi, sono finite dimenticate se non screditate, ma con le quali un tempo si costruivano palazzi, quando non intere città. Casa Rauch è un edificio moderno che rappresenta nel modo più efficace la ripresa di un passato di equilibrio virtuoso con le risorse ambientali nonchè, ricordando una definizione di Gilles Perraudin, un perfetto esempio di avanguardia vernacolare

Roger Boltshauser

In virtuoso equilibrio con le risorse locali, Casa Rauch è un modello di adattamento al clima e ai luoghi e uno dei primi esempi di una tendenza oggi sempre più diffusa di progetti profondamente ispirati alle tradizioni costruttive del passato

Casa Rauch è quasi interamente costruita in terra cruda o derivati dalla terra cruda, un materiale che risulta dall’erosione, capace di scavare vallate e plasmare il paesaggio di intere regioni. Foto Beat Buhler, Albrecht Schnabel.

Gli impianti senza tracce a parete riducono notevolmente lo sviluppo dei passacavi. Gli

interruttori sono posizionati a soffitto e azionati tramite eleganti cordicelle con pomi in terracotta.

Gli inserti in pietra sulla facciata esterna sono un motivo decorativo derivato

dalla fondamentale funzione di prevenire il dilavamento delle superfici.

IL NUOVO CHE AVANZA

2011

Amateur Architecture Studio

Ningbo Historic Museum

Ningbo. Cina

Nel 2018, in epoca pre-Covid, mi ritrovai inaspettatamente vincitore di un concorso internazionale per un parco a Chengdu, in Cina. Una volta ricevuto il premio, dell’opera non si seppe più nulla, ma quell’esperienza mi diede l’opportunità, sia per lavoro che per curiosità personale, di visitare la Cina ripetutamente. Ciò che mi colpì di più di quella nazione fu non solo la portata delle trasformazioni ma soprattutto la loro velocità. Il trentennio dal 1990 al 2020 è stato per la Cina un periodo di cambiamenti vertiginosi. In poco più di trent’anni sono sorte innumerevoli nuove città o dalla pura campagna, o demolendo quanto già esisteva. Le risaie di Shanghai Pudong sono state convertite nell’odierna Manhattan asiatica. Intere foreste sono state spianate per far posto a megalopoli sempre più grandi. Inutile dire che in questo processo le demolizioni sono state imponenti e hanno inevitabilmente finito per cancellare, con un’edilizia copiata da modelli di importazione, non solo i luoghi ma anche la loro memoria storica.

Il Ningbo Historic Museum (2010), progetto di Wang Shu e Lu Wengyua, i primi architetti cinesi a ricevere il Pritzker Prize nel 2012, ha origine da una presa di posizione critica nei confronti della furia rottamatrice degli anni che la precedettero ed è indicativa di una svolta nell’approccio alla cultura di progetto e verso il passato. È infatti un’opera realizzata tramite un ampio riutilizzo di materiali, principalmente pietre e mattoni, provenienti da strutture storiche demolite nell’area circostante. Questi ultimi sono

stati riassemblati con una tecnica chiamata wapan, antica di secoli, che consiste nell’unire con sottili strati di calce frammenti di pietre o piastrelle di diverse dimensioni, generando trame di facciata multiple e stratificate. Il suo aspetto è simile a quello di una fortezza, dove una piazza interna sopraelevata connette i volumi scultorei dei blocchi destinati agli uffici amministrativi. Dopo le esperienze indubbiamente interessanti, ma ancora legate alla fase sviluppista, di Ma Yansong (MAD Architects), a partire dal Ningbo Historic Museum l’architettura cinese sembra aver trovato una propria dimensione e originalità. Quest’ultima, oltre a Wang Shu si esprime in una New Wave – rappresentata da autori come Xu Tiantian, Neri&Hu, Zhang Ke, solo per citarne alcuni – ed è accomunata da opere direttamente riferite alla tradizione e generalmente, contrariamente al passato recente, di piccola dimensione.

Se è vero che il futuro ha radici antiche, Wang Shu ha il merito di essere stato tra i primi a comprendere che, nonostante un oggettivo aumento del benessere spinto da uno sviluppo senza freni, la Cina stava rischiando di perdere la memoria stessa su cui costruire il proprio futuro.

Il Ningbo Historic Museum è un’opera realizzata tramite un ampio riutilizzo di materiali, principalmente pietre e mattoni, provenienti da strutture storiche demolite nell’area circostante. Foto Siyuwj.

Wang Shu, Amateur Architecture Studio

I materiali sono stati riassemblati con una tecnica chiamata wapan, antica di secoli, che consiste nell’unire con sottili strati

di calce frammenti di pietra o piastrelle di diverse dimensioni, generando trame multiple e stratificate. Foto Siyuwj.

Con il Ningbo Historic Museum Wang Shu è stato tra i primi a comprendere che, nonostante un oggettivo aumento del benessere spinto da uno sviluppo senza freni la Cina stava rischiando di perdere la memoria stessa su cui costruire il proprio futuro

L’aspetto dell’edificio è simile a quello di una fortezza dove una piazza interna sopraelevata connette i volumi scultorei dei blocchi destinati agli uffici amministrativi. Foto Siyuwj.

LA RISCOPERTA DEI TERRITORI INTERNI

2012

Armando Ruinelli

Casa RM

Soglio. Svizzera

Strano paese la Svizzera. Mentre il resto del mondo sembra polarizzarsi economicamente e culturalmente sulle città, sempre più grandi, sempre più affollate, lasciando deserte campagne e province, la Confederazione – neanche 9 milioni di abitanti, meno della metà di quelli di Londra e un Pil pro-capite più che doppio rispetto a quello dell’Italia – conserva il proprio paesaggio come un giardino condominiale e insieme a questo l’identità, se non addirittura l’influenza culturale ed economica, dei territori interni, rappresentati nel caso specifico da piccoli centri e vallate. É questo il contesto in cui si sviluppa il lavoro di Armando Ruinelli. Il suo studio a Soglio, quota 1.000 metri, in Val Bregaglia, è in una posizione favolosa, con una grande finestra rivolta al panorama del gruppo Badile-Cengalo. Un contesto naturale così importante, e l’effettivo isolamento, sembrerebbero soverchiare qualsiasi influenza o spinta verso l’esterno. Ma, appeso alle pareti dello studio, un ritratto della casa di Barragán a firma della celebre fotografa Evelyn Hofer – residente per buona parte della sua vita a Soglio – rivela l’esatto contrario.

Non solo Ruinelli, con suoi progetti pubblicati ormai in tutto il mondo, ma artisti – dai Giacometti, a Segantini a Bruno Ritter, a Miriam Cahn, solo per citarne alcuni – sono legati alla Val Bregaglia. Il lavoro di Ruinelli si sviluppa pertanto in un territorio interno caratterizzato da una solida identità locale, ma non per questo incapace di cogliere sapientemente le influenze

esterne. E il risultato é un mix incredibile tra tradizione – dove la ricerca sulle qualità strutturali ed espressive dei materiali rappresenta un aspetto fondamentale – e una contemporaneità rielaborata in modo del tutto originale.

Il recupero di un rustico a Soglio, nel caso specifico la casa e atelier di Raymond Meier, fotografo per testate come il New York Times e Vogue, diventa una straordinaria occasione di confronto con l’identità del luogo e con la sua storia. È una ricerca indirizzata alle qualità di uno spazio architettonico, un tempo adibito a stalla, che si sviluppa attraverso la riscoperta, in forma attualizzata, dei materiali, delle trame, di tecniche di fabbricazione rigorosamente artigianali. Secondo le parole dello stesso Ruinelli il tema principale di questo progetto è quello della ‘continuità’, esplorato a partire dalla comprensione del luogo, delle caratteristiche dei materiali, e in parte del passato. L’elemento unificante è il cemento pisé, la stessa tecnica utilizzata un tempo, con pochi mezzi, poche risorse ma molto ingegno, che qui viene sublimata. Come in molti altri esempi recenti di architettura identificata nell’ambito dei cosiddetti territori interni, Casa RM è un’opera carica di contemporaneità che, andando in controtendenza rispetto all’egemonia delle grandi città, rivela un potenziale nascosto e sempre più rilevante.

Armando Ruinelli

Casa RM recupera gli spazi di una vecchia stalla attraverso la riscoperta in forma attualizzata, dei materiali, delle trame, di tecniche di fabbricazione rigorosamente artigianali. Foto Ralph Feiner.

La trasformazione di un rustico in Val Bregaglia con l’impiego di materiali trame e tecniche di fabbricazione artigianali in continuità con la cultura del luogo dimostra che la contemporaneità non è appannaggio delle grandi metropoli

Elemento unificante dell’opera è il cemento pisé, la stessa tecnica utilizzata un tempo, con pochi soldi, poche risorse ma molto ingegno, che qui viene sublimata. Foto Ruineli Associati.

Secondo le parole dello stesso Ruinelli il tema principale di questo progetto è quello della ‘continuità’

esplorata a partire dalla comprensione del luogo delle caratteristiche dei materiali e del passato. Foto Ralph Feiner.

LUOGHI CHE SCOPRONO L’ARCHITETTURA

2013

Barozzi Veiga

Consejo Regulador Ribera del Duero

Roa. Spagna

Calda d’estate e fredda d’inverno, l’Alta Valle del Duero, in Spagna, è una terra che deve la sua fama alla produzione dei pregiati vini Ribera del Duero. Nel tempo le vigne ne hanno modellato il paesaggio rendendo le cantine dei veri e propri poli produttivi. Alcune di queste si distinguono come opere architettoniche di rilievo, seppur ancora sporadiche. È il caso delle Bodegas Protos a Peñafiel, progettate nel 2008 da Richard Rogers, immediatamente successive al suo progetto per i nuovi terminal dell’aeroporto Madrid Barajas. Poco distante, a Roa del Duero, si trova un altro esempio emblematico di architettura legata alla cultura del vino: la sede del Consejo Regulador, l’ente preposto al controllo della denominazione di origine Ribera del Duero.

La realizzazione di quest’opera per un paese come Roa – poco più di 2mila abitanti – è tutt’altro che scontata. Scegliere di investire in architettura da parte di un ente di interesse pubblico in un piccolo centro richiede infatti una visione coraggiosa, indipendente dalle logiche di consenso immediato, e spesso ostacolata da un’innata diffidenza nei confronti delle novità. Eppure questo intervento, che ho avuto la fortuna di visitare in ogni suo angolo grazie alla cordialissima accoglienza del Segretario del Consejo Alfonso J. Sánchez González, è un’opera eccezionale. Risultato di un concorso internazionale vinto dal duo italo-spagnolo Barozzi-Veiga – ai tempi due giovani e sconosciuti architetti – nonostante i problemi tecnici e costruttivi seguiti alla realizzazione, il progetto si distingue per

una notevole capacità di interpretare il luogo. L’elemento chiave dell’intervento è la sua collocazione: al confine tra il tessuto urbano e il paesaggio aperto, accanto alle antiche mura di Roa, sul margine nord del paese. La relazione con il paesaggio è affidata a un cambio di scala e di linguaggio architettonico, rappresentato dalla torre che si sviluppa su sei piani che richiama la memoria storica locale e stabilisce un dialogo con l’altopiano castigliano. La scelta dei blocchi di pietra locale rafforza l’idea di un’architettura decisamente contemporanea ma che interviene in totale continuità con il passato, capace di trasformarsi e maturare con il passare degli anni.

Per questi motivi, la sede del Consejo Regulador è molto più di un edificio: è la testimonianza di un impegno condiviso tra committente e progettisti e un atto di fiducia nell’architettura come valore capace di definire un’identità.

L’elemento chiave dell’intervento è la sua collocazione: al confine tra il tessuto urbano e il paesaggio aperto, accanto alle antiche mura di Roa sul margine nord del paese. Foto Simon Menges.

Barozzi Veiga

Scegliere di investire in architettura da parte di un ente di interesse pubblico in un piccolo centro richiede una visione coraggiosa indipendente dalle logiche di consenso immediato e spesso ostacolata da un’innata diffidenza nei confronti delle novità

La relazione con il paesaggio è affidata a un cambio di scala e di linguaggio architettonico rappresentato dalla torre.

Quest’ultima richiama la memoria storica locale e stabilisce un dialogo con l’altopiano castigliano. Foto Simon Menges.

La scelta dei blocchi di pietra locale rafforza l’idea di un’architettura contemporanea che interviene, però, in totale continuità con il passato, capace di trasformarsi e maturare con il passare degli anni. Foto Simon Menges.

IL SEGNO DEI TEMPI

2014

SANAA

Louvre

Lens

Lens. Francia

Meno abbiamo esperienza diretta delle cose, più le immagini finiscono per creare miti e smuovere soldi … a palate. Una tendenza forse contrastata dalle spinte verso la ricomposizione di comunità locali, ma che nel nostro sempre più internettizzato orizzonte, ha un peso ormai determinante. Alcune opere si prestano più di altre ad essere convertite in immagini, a circolare su scala mondiale e per questo, al pari di una vera e propria rappresentazione sacra, vengono definite ‘iconiche’. Il pur sempre eccezionale museo Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry di venticinque anni fa, ad esempio, è un’opera iconica, molto fotografabile, e pertanto tra le più conosciute del mondo. Meno iconico e meno conosciuto è il Louvre Lens, nel profondo Nord della Francia, che pur avendo fallito nel suo tentativo di inseguimento del cosiddetto ‘effetto Bilbao’, rimane un’opera notevole. E, come per qualsiasi architettura, del suo valore è possibile rendersi conto solo attraverso l’esperienza diretta: fatto che, ovviamente, preclude la possibilità di catturare l’attenzione di un pubblico globale. Il Louvre Lens, realizzato nel 2012 su disegno del duo giapponese Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, Premio Pritzker nel 2010, è un museo d’arte costruito sul sito di una miniera dismessa nel 1960 e, pur caratterizzato da un impianto di impronta vagamente razionalista, sembra detestare gli angoli retti. I padiglioni, uniti tra loro da delicate connessioni sugli spigoli, sono letteralmente attraversati dal paesaggio: altro progetto interessante, e molto criticato,

della francese Catherine Mosbach. I volumi si deformano e – oltraggiosamente per gli standard razionalisti dei quali l’impianto sembra lontanamente erede – vagano alla ricerca di corrispondenze con ciò che li circonda. Sembra che la rigidezza, tipicamente occidentale, propria della sfida eroica dell’artificio, geometrico, contro la natura, organica, vada a farsi benedire per essere rimpiazzata da una più elastica attitudine – comune a tutta la tradizione asiatica – dove perfino la forma dei tetti asseconda le deformazioni naturali dei materiali con cui sono costruiti. E non solo. Questo museo lungo 360 metri per una superficie complessiva di 12.500 metri quadrati (poco più della metà di Piazza del Duomo di Milano), rivestito da pannelli in alluminio satinati, è evanescente. Si perde nel paesaggio. Ed al suo interno è un parallelepipedo alterato, incurvato, aperto, neutrale, potenzialmente adattabile a qualsiasi utilizzo, chiuso in copertura da un’autentica prodezza statica fatta da sottilissime lame in acciaio e di pura luce. Uno specchio che moltiplica ciò che gli sta intorno e si modifica continuamente riflettendo il continuo passaggio delle nuvole. Il Guggenheim di Bilbao, edificio iconico, tutti lo conoscono, pochi l’hanno visto. Il Louvre Lens, infotografabile fantasma, è troppo etereo per diventare un’icona. Un contenitore semi-amorfo, neutrale come lo schermo di un computer e forse una buona interpretazione dello spirito del nostro tempo.

Ryue Nishizawa e Kazuyo Sejima

All’interno il museo è un parallelepipedo alterato, incurvato aperto, neutrale potenzialmente adattabile a qualsiasi utilizzo. Chiuso in copertura da un’autentica prodezza statica fatta da sottilissime lame in acciaio e di pura luce. Foto Carlo Ezechieli.

ll Louvre Lens è un museo lungo 360 metri per una superficie complessiva di 12.500 mq rivestito da pannelli in alluminio satinati. Un progetto evanescente che si perde nel paesaggio.

Etereo, il Louvre Lens è un contenitore semiamorfo neutrale come lo schermo di un computer e forse una buona interpretazione dello spirito del nostro tempo

LA PROTO MEGA ARCHITETTURA

2015

Steven Holl

Sliced Porosity Block

Chengdu. Cina

Le città cinesi con più di 15 milioni di abitanti sono almeno sette. Oltre 100 sono quelle con più di un milione. Se la nostra idea di metropoli del XX secolo aveva come riferimento gli Stati Uniti, forse nel XXI ciò che rappresenta più fedelmente lo stesso concetto sono proprio queste città, non semplicemente enormi dal punto di vista dimensionale e quantitativo, ma anche impressionanti per lo sfavillio, per le infrastrutture e per la scala delle opere realizzate. In Cina, nel corso degli ultimi trent’anni sono stati realizzati decine di migliaia di condomini con appartamenti al ventiduesimo piano, in perfetto stile Brave New World. Questo applicando su scala industriale schemi di ispirazione modernista con edifici/scatola ripetuti in batteria alla Hilberseimer, intercalati da Retail Center e Business District copiati dagli americani. In modo simile al salto di scala, termine con il quale Carlo Aymonino identificava una delle caratteristiche della città moderna in rapporto alla città tradizionale, si è manifestato un nuovo, esponenziale salto di scala. L’arguto dibattito sulle protomegastrutture raccolto nel 1978 nel volume Megastructure: Urban Futures of the Recent Past, di Reyner Banham, nel XXI secolo sembra infatti aver trovato in Cina la sua più evidente forma di espressione aprendo la questione delle Mega Architetture.

Tra queste, il Raffles Center di Chengdu, detto anche Sliced Porosity Block, rappresenta un esempio interessante. Partendo dal rifiuto della logica di

edilizia aperta modernista, al posto di una convenzionale torre isolata e di una piastra alla base per ricreare una strada altrimenti inesistente, l’autore Steven Holl – statunitense, attivo in Cina fin dai primi anni Duemila e misteriosamente non ancora insignito del Pritzker – propone un blocco capace di definire una forma urbana coerente. Questo enorme complesso di 300mila metri quadrati di superficie – quasi l’equivalente per estensione del Parco Sempione di Milano (386mila mq) – comprende cinque torri con uffici, appartamenti, serviced apartments, negozi, un hotel, caffè, ristoranti, un grande centro commerciale. Visitandolo si ha l’impressione di entrare in una cittadella, con ponti che connettono gli edifici e giardini pensili articolati su tre livelli che, con esplicito riferimento alla mitologia cinese, corrispondono ad altrettante vallate. Ma allo stesso tempo la scala è impressionante. A differenza delle torri di una cittadella medievale ci si ritrova in uno spazio che, per quanto ben misurato, è delimitato da edifici dell’altezza media di 30 piani, vale a dire l’equivalente, ma in forma ben più massiccia, di quello che fino a trent’anni fa era ancora chiamato il grattacielo Pirelli. Viviamo in una società ingorda, dove, come le automobili sempre più inutilmente grandi, anche gli edifici tendono al gigantismo, seppur per ragioni meno futili. Ed è così che il salto di scala, oggi amplificato in forma esponenziale, resta un tema attuale anche nel XXI secolo.

Steven Holl
Foto
Hisao Suzuki

Cittadella nella città

il Raffles Center di Steven Holl a Chengdu amplifica e rappresenta plasticamente quel

‘salto di scala’ teorizzato sessant’anni fa da Carlo Aymonino

Raffles City, chiamato dall’autore Sliced Porosity Block, è un complesso di 300mila mq di superficie – quasi quanto il Parco Sempione di Milano – e comprende 5 torri con uffici appartamenti negozi, un hotel, caffè, ristoranti un grande centro commerciale. Foto Iwan Baan.

Visitando il complesso, si ha l’impressione di entrare in una cittadella, con ponti che connettono gli edifici e giardini pensili articolati su tre livelli che con esplicito riferimento alla mitologia cinese, corrispondono ad altrettante vallate. Foto Iwan Baan.

Foto
Shu He

L’ULTIMA FRONTIERA DEL LUSSO

Aires Mateus

Cabanas no Rio

Comporta. Portogallo

Secondo la definizione di Cristina Mittermeier, biologa e star internazionale della fotografia naturalistica: « Enoughness [dall’inglese enough: abbastanza] è una condizione di completezza che deriva dal nostro rapporto con l’ambiente naturale anziché dai beni materiali: un senso di connessione alle nostre amicizie e alla nostra famiglia, alla nostra spiritualità e alla nostra cultura». Racconta Mittermeier che l’ispirazione per questo concetto, difficile da tradurre in italiano e vagamente corrispondente al termine ‘essenzialità’, le venne durante i suoi innumerevoli viaggi, incontrando popolazioni che nonostante fossero prive di ricchezza materiale, vivevano serenamente e felicemente, consapevoli di avere a disposizione tutto ciò che serve. Pensando alla società post-industriale odierna – immersa nel mito della moltiplicazione tecnologica, esponenziale e all’infinito, salvo poi simulare orientamenti ambientalisti – è difficile immaginarsi una condizione più distante da questi principi. Ed è un contesto dove nominare la parola ‘abbastanza’, se da un lato equivale a una blasfemia, dall’altro ha un certo potenziale sovversivo. Il tema, oggi rivoluzionario, non è infatti solamente rivalutare la razionalità rispetto a schemi dati per scontati, ma soprattutto riscoprire il valore dell’esperienza rispetto all’accumulo. Quest’ultimo è un atteggiamento che si manifesta con sempre maggiore evidenza in moltissimi campi. Trova espressione in cose che vanno dalla possibilità di disporre liberamente del proprio tempo alla capacità

di soddisfare perfettamente ogni esigenza con i mezzi più appropriati. Coincide con una compiutezza che deriva da equilibrati criteri di ottimizzazione. L’esperienza, che torna ad essere un tema centrale, corrisponde a concetti che trovano traduzione in vari ambiti disciplinari e cosa, più dell’architettura, permette di proporre e di costruire non solo atmosfere, ma soprattutto un’esperienza diversa dei luoghi e dell’abitare?

In linea con queste considerazioni l’opera chiamata Cabanas no Rio, progetto del 2015 dei fratelli Manuel e Francisco Aires Mateus, è un’architettura di notevole qualità ed è il risultato di un fondamentale percorso di riduzione. Il tutto prende avvio dal proposito degli autori di sostituire due capanne in precedenza utilizzate come deposito per le attrezzature da pesca con due nuove cabanas abitabili, costruite interamente in legno riciclato: dalla struttura fino ad ogni dettaglio, secondo il medesimo processo, spontaneo e antico, di sostituzione di edifici preesistenti. Evitando di limitarsi all’opera edificata, le Cabanas coinvolgono il modo di abitarla e di viverla, arrivando a un livello di essenzialità tale da costringere al confronto con un nuovo concetto di spazialità e con il paesaggio.

Ed è un buon esempio di architettura che raggiunge la perfezione quando si arriva al punto in cui non c’è più niente da aggiungere né niente da togliere, e forse è anche un esempio di ciò che oggi si sta affermando come ultima frontiera del lusso.

Manuel Aires Mateus

L’essenzialità delle Cabanas valorizza l’esperienza dello spazio e del paesaggio creando quella percezione di completezza che deriva dal nostro rapporto con l’ambiente naturale anziché con i beni materiali

Il progetto prende avvio dalla volontà di sostituire due capanne in precedenza utilizzate come deposito per le attrezzature da pesca con due nuove cabanas abitabili, costruite interamente in legno riciclato: dalla struttura fino a ogni dettaglio, secondo il medesimo processo spontaneo e antico, di sostituzione di edifici preesistenti. Foto Nelson Garrido.

L’ARCHITETTURA NEUTRALE

Ensamble Studio

Cyclopean House

Brookline. USA

Circa l’indubbio ingegno tecnologico e strutturale che distingue l’ormai pubblicatissima casa conosciuta come Cyclopean House, si è detto già molto. Forse meno sul concetto di abitare e sulla sua traduzione in architettura di quest’opera. La Cyclopean House è un manifesto, ma è anche ed innanzitutto la casa che Anton Garcia-Abril e Debora Mesa, fondatori di Ensamble Studio, hanno deciso di costruire per sé e per i loro quattro figli, a Brookline, nei pressi di Boston, dopo che nel 2012 furono incaricati come docenti e ricercatori dal MIT di Cambridge, Massachusetts (dove entrambi dirigono il Prototypes of Prefabrication LaboratoryPopLab). Il nucleo originario dell’abitazione, un preesistente garage in cemento di poco più di 100 mq, fu individuato e acquistato da Garcia Abril e Mesa al loro arrivo negli Stati Uniti, con l’espresso proposito di sopralzarlo utilizzando le tecniche di prefabbricazione leggera da loro messe a punto fin dal 2011. Riaccatastato come abitazione, il garage fu inizialmente convertito, con una spesa relativamente modesta, in un’abitazione di 3 camere da letto. L’intervento si basa sull’utilizzo di elementi ‘ciclopici’ in Eps con telaio strutturale in acciaio zincato, leggeri al punto di poter essere realizzati in Spagna, facilmente trasportati oltreoceano, e assemblati nel giro di poco più di una settimana. Il risultato: una casa il cui peso è del 30 per cento inferiore e il cui costo è meno della metà di quello di una convenzionale casa in legno del New England. Un aspetto tuttavia non secondario, e forse sottovalutato di quest’opera, è che

si tratta anche di un caso rappresentativo di una cultura dell’abitare emergente, caratterizzata da ambienti spazialmente fluidi, funzionalmente ibridi ed esteticamente neutrali. È un’abitazione privata, ma anche uno spazio di gioco per i bambini, un salone per ricevimenti da 50 invitati, una camera da letto e un ufficio. Un’intrinseca e incredibile molteplicità di utilizzo, che viene espressa e condensata nel cuore dell’edificio: il grande salone centrale di 110 mq, tanto quanto la sua impronta al suolo. Tipologicamente questo spazio non è, come in passato, una ‘sala’ – ovvero un ambiente domestico deputato ad una specifica funzione di rappresentanza – ma uno ‘spazio ibrido’ che restituisce, all’interno di un’abitazione di dimensioni relativamente modeste, qualità abitative proprie di un piccolo palazzo. Oggi nell’era degli smartphone e della sharing economy – in cui, con la massima facilità, case private (peraltro abitate all’insegna della temporaneità) si trasformano in alberghi o i soggiorni in uffici – consiste nella capacità di estendere la propria capacità ed esperienza creativa, indipendentemente da zone spazialmente e temporalmente connotate, attraverso spazi polivalenti che, in quanto infinitamente adattabili, non sono rappresentativi né di livelli di appropriazione, né di una funzionalità specifica. Finiremo per rimpiangere il vecchio ‘zoning’ domestico? Forse si ... ma intanto, questo è il nuovo che avanza.

Anton Garcia-Abril e Debora Mesa

Leggerezza e ambienti esteticamente neutrali e funzionalmente ibridi che interpretano una cultura emergente dell’abitare, nomade e digitale

Il nucleo originario dell’abitazione un preesistente garage in cemento di poco più di 100 mq fu acquistato da Garcia Abril e Debora Mesa al loro arrivo negli

Stati Uniti, con il proposito di sopralzarlo utilizzando le tecniche di prefabbricazione leggera da loro messe a punto fin dal 2011. Foto Roland Halbe.

L’intervento si basa sull’utilizzo di elementi ‘ciclopici’ in Eps con telaio strutturale in acciaio zincato, leggeri al punto di poter essere realizzati in Spagna, facilmente trasportati oltreoceano e assemblati nel giro di poco più di una settimana. Il risultato: una casa il cui peso è del 30% inferiore e il cui costo è meno della metà di quello di una convenzionale casa in legno del New England.

Un’intrinseca e incredibile molteplicità di utilizzo viene espressa e condensata nel cuore dell’edificio: il grande salone centrale di 110 mq è uno spazio polivalente. Foto Roland Halbe.

L’ATTRAZIONE PER IL LOW-TECH

2018

Anna Heringer

Anandaloy Building

Rudrapur. Bangladesh

Nel mondo dei premi di architettura, il recente Obel Award sembra distinguersi per una rara capacità di equilibrio tra attenzione assoluta verso il valore architettonico e la ricerca del ruolo di trasformazione culturale dell’opera. Un rapporto che, nella storia recente dell’architettura, non è sempre stato facile, e che, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, era stato segnato dal deragliamento verso posizioni decisamente ideologiche. L’insieme dei concetti che ispira l’Obel Award non potrebbe essere descritto meglio che dalla frase di Anna Heringer, meritatissima vincitrice dell’Obel nel 2020: « siamo circondati da belle architetture, ma penso che una bella architettura non sia sufficiente. Deve essere portatrice di significato». Heringer è da sempre raffinata interprete di tradizioni costruttive lowtech, senza industria e, virtuosamente, senza soldi: assolutamente valide ma in via di estinzione, cancellate dal cosiddetto progresso. Heringer non è certo alla sua prima opera significativa. Tuttavia, nel progetto premiato, Anandaloy – un centro per persone con disabilità e artigianato tessile, realizzato nell’ambito di una comunità rurale del Bangladesh – e grazie all’Obel, ha trovato la risonanza che meritava.

I magnifici disegni indicano non solo il cammino temporale dell’opera, ma anche la sua relazione con il territorio, con la comunità, con le fonti di approvvigionamento dei materiali. È un’opera costruita dalle persone del luogo, utilizzando materiali, quasi esclusivamente terra cruda e legno, rigorosamente estratti dal luogo.

Un’opera collettiva, che contribuisce a conservare l’integrità del paesaggio, le tradizioni e il senso di comunità, assicura uno stile di vita decoroso, inclusivo delle minoranze. E soprattutto frena lo spopolamento delle campagne, l’inurbamento e le infami condizioni abitative e lavorative che, nei paesi in via di sviluppo, inesorabilmente lo caratterizzano. Uno degli aspetti più interessanti dell’architettura di Anandaloy è che, pur sviluppandosi nel solco della tradizione, sembra proporre una sorta di contaminazione dei caratteri vernacolari con le forme di continuità tipiche del design parametrico. Forme curve, continue, assenza di angoli retti, la sfida costante della scatola muraria. ‘Tane’ per i più piccoli, ricavate nello spessore delle murature e una rampa – fondamentale motivo di accessibilità e di inclusione – che accompagna l’ingresso e il movimento al suo interno.

Se Michael De Klerk aveva guidato l’incredibile realizzazione del quartiere Het Schip di Amsterdam, un’opera collettiva e una specie di manifesto per gli operai olandesi di inizio XX secolo, anche Anandaloy sembra muoversi in una direzione simile, accendendo la fiamma del significato in comunità rurali sempre più marginalizzate.

Pur sviluppandosi nel solco della tradizione, l’opera propone una sorta di contaminazione dei caratteri vernacolari con le forme curve, continue, con l’assenza di angoli retti e la sfida costante della ‘scatola’ muraria. Foto Kurt Hoerbst.

Anna Heringer

I disegni della Heringer indicano non solo il cammino temporale dell’opera, ma anche la sua relazione

con il territorio, con la comunità e con le fonti di approvvigionamento dei materiali.

Architettura a bassa intensità tecnologica e elevato valore sociale per una comunità rurale marginalizzata

Anandaloy è un laboratorio artigianale e un asilo per i bambini delle donne che vi lavorano

LA NUOVA FRONTIERA DEL RIUSO

2019

Xu Tiantian

Jinyun Quarries

Songyang. Cina

Ad eccezione dell’Africa, dove la popolazione è in costante crescita, il trend demografico nei restanti continenti mostra una tendenza al rallentamento e, in alcuni casi, al declino, soprattutto nei paesi più industrializzati e post-industriali. In situazioni particolari come l’Italia, uno dei paesi interessati da uno dei più rilevanti fenomeni di invecchiamento della popolazione, entro i prossimi 25 anni (dati Istat) si prevede un calo demografico di almeno 4 milioni di persone, aprendo gravi interrogativi sul destino di un patrimonio edilizio immenso, pari complessivamente ad almeno il doppio della città di Roma, che si ritroverà inutilizzato e disabitato. Tutto questo si inserisce in un quadro in cui l’evoluzione in campo tecnologico e produttivo ha lasciato senza utilizzo un’ulteriore, infinita quantità di edifici e di spazi. Perfino in Cina, paese che dopo decenni di sviluppo edilizio smodato sta conoscendo solo ora una fase di rallentamento, se non di crisi, il tema del riuso adattivo sta emergendo con alcuni esempi di rilievo. Tra questi, i programmi di recupero delle cave di Jinyun, progetto di Xu Tiantian (DnA), sono una dimostrazione di come un progetto di riutilizzo di luoghi dismessi si sia rivelato capace di generare un vero e proprio effetto Bilbao. La contea di Jinyun si trova a circa 4 ore di automobile a sud di Shanghai. È una regione coperta da foreste, caratterizzata da un clima monsonico subtropicale caldo e umido, dove sono presenti più di tremila piccole cave di tufo. Molte di queste, oggi abbandonate, sono state per oltre mille anni la fonte di approvvigionamento di materiale di costruzione e con poche eccezioni venivano

sfruttate a mano senza l’ausilio di macchine. Il programma era inizialmente rivolto a nove cave a nord del villaggio di Dinghu, lungo un percorso di circa un chilometro in una valle che divide diagonalmente due catene montuose. Nuove piattaforme e percorsi, indispensabili per garantire l’accessibilità e la sicurezza dei visitatori, permettono di scoprire spazi indubbiamente suggestivi, enfatizzati da un lighting design che contribuisce in modo determinante a definirne i caratteri. Ma in generale, ciò che accomuna e contraddistingue i progetti è l’estrema riduzione dell’apporto trasformativo, il togliere più che l’aggiungere, nell’ottica della totale valorizzazione di ciò che già era presente, convertendo delle aree estrattive in abbandono in un’architettura di grande impatto e in paesaggi densi di significato. Si tratta di un caso in cui il vero valore non deriva tanto dal progetto di architettura quanto dalla capacità dell’architetto e del committente di scoprire tesori ignorati o nascosti che, opportunamente valorizzati, hanno portato una nuova prospettiva alle comunità dei villaggi della regione, sia dal punto di vista culturale che economico. Se in passato le aree di estrazione delle materie prime hanno segnato fasi di prosperità e sviluppo, oggi sono il segno tangibile di paesaggi compromessi, edificato ridondante e luoghi in abbandono. In un contesto in cui esigenze e risorse sono profondamente mutate, proprio i temi del recupero, del riuso e della rigenerazione si delineano oggi come una delle sfide progettuali più rilevanti per i prossimi anni.

Molte delle cave oggetto di intervento, oggi abbandonate sono state per oltre mille anni la fonte di approvvigionamento di materiale di costruzione con poche eccezioni, venivano sfruttate a mano senza l’ausilio di macchine. Foto Wang Ziling.

Xu Tiantian

In un contesto in cui esigenze e risorse sono profondamente mutate, i temi del recupero, del riuso e della rigenerazione si delineano oggi come una delle sfide progettuali più rilevanti per i prossimi anni

THINK DIFFERENT!

2020

Junya Ishigami

Serpentine Pavilion 2019

Londra. Regno Unito

Ci sono eventi che segnano un prima e un dopo. Negli ultimi vent’anni uno di questi è stato il Covid-19, esploso in Italia nel marzo di ormai cinque anni fa. Questo breve scritto è ripreso da una serie di storie di architettura principalmente rivolte ai non addetti ai lavori, una al giorno, scritte e pubblicate sul sito ioarch.it e sui principali social network nel pieno del periodo di quarantena. Nonostante l’incipit, tutt’altro che aulico, il testo contiene alcune riflessioni di ordine critico e filosofico riferite al Serpentine Pavilion del 2019 di Junya Ishigami.

Se il Ragionier Fantozzi era perseguitato dalla famigerata nuvoletta dell’impiegato, i milanesi e i padani tutti, ragionieri e non, sono perennemente avvolti da una cortina fumogena che, con crudele indifferenza, staziona sulla pianura. Tranne che, per ironia della sorte, nei giorni di pioggia. La cosa strana è che, come per magia, dall’inizio della quarantena sembra essere sparita: ed è un mixed feeling. Da un lato la meraviglia, a cui mi è difficile resistere, per questa nuova, sconosciuta situazione. Dall’altro lo sgomento nel constatare che, se l’umanità intera è a casa in malattia, tutto il resto guarisce. Abbiamo strizzato questo mondo fino all’impossibile, siamo dei pazzi alla guida di un bolide e, pur avendo appena fatto un incidente, piuttosto che rallentare non vediamo l’ora di tornare alla nostra normalità suicida. Per evitare un collasso ambientale molti cercano da tempo di cambiare il modo di fare le cose. Credo invece che ciò che conta di più sia cambiare il nostro

modo di intenderle. Rispetto a questi temi il Serpentine Pavilion – un’opera temporanea realizzata a Londra nel 2019 dell’architetto giapponese Junya Ishigami – è secondo me una delle opere più significative degli ultimi tempi. Non sembra per niente un edificio, ma piuttosto un’ala con piume di pietra che, appoggiandosi a puntelli sottili e fitti come pioggia battente, si stende delicatamente sul terreno. Ishigami realizza una struttura di grande raffinatezza statica e concettuale, ma pensata come potrebbe esserlo un nido, una tana o un alveare. Richiama pertanto strutture costruite sapientemente ad arte, e pertanto ‘artificiali’, ma che paradossalmente, non essendo opera dell’uomo, vengono comunemente definite ‘naturali’. Ed è proprio questo il punto. Per millenni noi esseri umani abbiamo dato per scontata la nostra estraneità, se non la superiorità, rispetto a tutto il resto, che noi chiamiamo ‘natura’. È un modo di vedere le cose che per un po’ ha funzionato benissimo, ma che pure ci ha portato a perdere qualsiasi comprensione della nostra appartenenza ad un sistema vivente molto più esteso, con il quale abbiamo voluto tagliare ogni legame. E a riprova che i problemi di oggi derivano dalle grandi idee di ieri, a questa mancanza di consapevolezza corrispondono azioni che, ripetute sistematicamente, portano a conseguenze come, per l’appunto, il disastro ambientale in corso. Con il Serpentine Pavilion, Ishigami propone qualcosa di nuovo, o meglio, di molto antico, ma in forma moderna. Nel padiglione lo scopo dell’architettura non è semplicemente quello

di costruire spazi abitati da persone, ma di creare una struttura che vede gli esseri umani, non come qualcosa di diverso o di superiore, ma come parte integrante della, così chiamata, natura. Ishigami realizza non solo un’architettura, ma anche dà forma, in modo poetico, a un nuovo racconto collettivo. E questo, io credo, è proprio quello di cui la nostra società ha bisogno per costruire un futuro, forse un po’ più assennato di quello che abbiamo conosciuto finora, per tutti, anche per i ragionieri e, aggiungo, gli architetti.

Junya Ishigami

Sembra un’ala con piume di pietra il Serpentine Pavilion del 2019 che Ishigami costruisce come se fosse un nido o una tana dando forma in modo poetico a un nuovo racconto collettivo che ci ricongiunge al tutto delle origini

L’opera è concepita come un’ala con piume di pietra che appoggiandosi a puntelli sottili e

fitti come pioggia battente, si stende delicatamente sul terreno. Foto Iwan Baan.

Nel Serpentine Pavilion del 2019 Ishigami realizza una struttura di grande raffinatezza statica e concettuale, ma pensata come fosse un nido, una tana o un alveare.

IL TURBOREGIONALISMO

2021

Mauricio

Rocha

Ampliamento Museo Anahuacalli

Città del Messico

Negli anni ‘40, il famoso muralista messicano Diego Rivera diede inizio, insieme alla figlia Ruth e all’architetto Juan O’Gorman, al suo sogno di creare la Città delle Arti a sud di Città del Messico, in un incredibile paesaggio di pietra vulcanica ormai avvolto da una lussureggiante vegetazione. Il primo edificio realizzato, il centro focale del progetto, era un pomposo omaggio all’architettura azteca o maya ed era concepito per diventare sia lo studio sia la collezione dei pezzi più importanti dell’arte preispanica di Diego Rivera. Nel 1957, a metà dell’opera e giunti al secondo piano, Rivera morì. Juan O’Gorman e Ruth Rivera decisero di continuare il progetto e negli anni ‘60 furono completati altri quattro edifici che si sviluppavano attorno a un grande patio hundido, un patio ribassato di circa 45 cm rispetto al piano principale di calpestio di ispirazione preispanica. Più di recente, il concorso per l’ampliamento del Museo Anahuacalli, vinto da Mauricio Rocha, è nato con l’idea di offrire alla comunità nuovi laboratori artistici e spazi espositivi. Nel progetto di Rocha, due nuovi edifici si integrano con quelli esistenti e si sviluppano attorno a una nuova piazza che si estende per circa un quarto del grande patio preesistente. A sud si trova un piano seminterrato che ospita 60.000 opere della collezione privata di Rivera, mai esposte in precedenza e ora visitabili. A ovest si trova l’edificio del laboratorio con una grande sala polivalente per convegni e concerti, portici aperti su un patio interno e due sale per le arti plastiche. A nord l’edificio degli uffici, mentre a est gli edifici esistenti, ampliando

lo spazio della biblioteca. Nei nuovi edifici, rispettando i livelli della piazza centrale, l’aspra topografia del paesaggio vulcanico viene preservata, permettendo anche la realizzazione di spazi coperti per due nuovi laboratori. La cortina in pietra continua, che forma un diaframma permeabile all’aria e alla luce e contiene i portici di distribuzione, rappresenta il tratto distintivo di questa architettura. Tuttavia la caratteristica principale, che può essere apprezzata solo attraverso un’esperienza diretta, è la notevole sequenza di spazi accompagnata da un’originalità straordinaria nella cura dei dettagli. Il percorso lungo i portici è segnato da fessure di luce che penetrano attraverso la cortina di pietra e mettono in contatto il cielo e il piano calpestabile con il suolo vulcanico primordiale. Regionalismo critico: era il binomio con cui Kenneth Frampton identificava una tendenza in architettura che, per quanto erede del Moderno, incorporava il luogo e la tradizione locale. Nel solco di questa corrente il Messico, ben rappresentato da autori come Luis Barragán o Ricardo Legorreta, è stato uno degli ambiti culturali e geografici in assoluto più fertili. L’intervento di Rocha opera nel solco di questa tradizione, amplificandola silenziosamente e rendendo possibile un’esperienza dei luoghi che è propria solo dei capolavori.

La percezione dell’incredibile paesaggio originario viene enfatizzata attraverso ampi affacci aperti sulle testate. Foto Onnis Luque.

I percorsi lungo i portici sono segnati da fessure di luce che penetrano attraverso la cortina di pietra e mettono in contatto il cielo e il piano calpestabile con il suolo vulcanico primordiale. Foto Onnis Luque.

Mauricio Rocha
Foto
Rodrigo Navarro

Il progetto di Rocha non si limita a raccogliere l’eredità del regionalismo critico, ma la rilancia in una versione attuale e amplificata capace di intrecciare memoria, materia e paesaggio con un’intensità propria del nostro tempo

Due nuovi edifici si integrano con quelli esistenti. A sud un nuovo piano seminterrato ospita 60mila opere della collezione privata di Diego Rivera, mai esposte in precedenza e ora visitabili. Foto Rafael Gamo.

LE CATTEDRALI DEL XXI SECOLO

2022

Kengo Kuma Haus Balma

Vals. Grigioni

Da quando, negli anni Ottanta, dopo il fallimento della società con cui l’imprenditore tedesco Karl Kurt Vorlop si era imbarcato nella costruzione di un enorme complesso termale, Vals non era altro che un paesino di neanche mille abitanti in una valle dei Grigioni, dotato di una stazione sciistica di medie/piccole dimensioni e noto per la fabbrica di acque minerali Valser. Nel 1993 il Comune di Vals, che nel frattempo aveva rilevato le terme, decise di intraprendere un importante progetto rivolto alla loro ristrutturazione affidandolo a Peter Zumthor. Completata nel 1996, oltre a recuperare la piena funzionalità delle terme, l’opera diventò un’architettura tra le più acclamate degli ultimi decenni. Ma non solo. Come per la costruzione di una cattedrale del Medioevo, a dimostrazione che la buona architettura porta ad un innalzamento di livello, le nuove terme hanno dato inizio a un incredibile processo di riqualificazione e rinnovamento. Per incominciare, l’attività delle cave di Valserstein, la quarzite locale, con la quale le terme sono interamente rivestite, ha avuto un impulso formidabile, tanto che nel 2009 è stato completato un ponte, anche questo in quarzite, progetto dell’ingegnere grigionese Jürg Conzett e dello stesso Zumthor. Quest’ultimo, nel frattempo diventato ricco e famoso, ha costruito per sé un magnifico complesso di quattro case che oggi affitta ai villeggianti. Tadao Ando, Morphosis ed altri hanno firmato le camere dell’Hotel “House of Architects”. E infine, Truffer AG, una delle principali cave di quarzite locali, ormai consapevole che la buona architettura

talvolta paga, nel 2012 incaricò Kengo Kuma del progetto di un edificio per i propri uffici e due appartamenti chiamato Haus Balma, completato 10 anni dopo, nel 2022. Anche se in foto questo edificio ha l’apparenza di un padiglione di modeste dimensioni, si tratta di un fabbricato di quasi 1.400 mq e quattro piani fuori terra, con un impianto trapezoidale e un corpo scala in linea che, illuminato dall’alto, vuole ricreare all’interno la sensazione di una fessura in una roccia, come all’interno di una cava.

Ma la cosa più incredibile è che l’impianto dell’edificio, di fatto un volume piuttosto semplice, è avvolto da un involucro la cui architettura è ciò che definisce la sua totale corrispondenza al contesto. Nonostante le falde multiple di ispirazione chiaramente orientale, il motivo di ‘dematerializzazione’ tipico dell’architettura di Kuma e i tratti chiaramente contemporanei dell’opera, l’autore si muove, senza mai cadere, su un sottilissimo crinale che divide l’osservanza della tradizione dalla sua aperta violazione. Sembra aver trovato il segreto della continuità con il passato, che non risiede in un riferimento acritico alla cultura architettonica locale, né nella semplice riproposizione dei caratteri tipici e tipologici che spesso accompagnano una sterile riproposizione stilistica. Sono piuttosto il risultato di una comprensione profonda, di origine a-tipologica, dei tratti caratteristici del luogo: delle superfici in pietra, dei materiali che, anche se dematerializzati e combinati in modo imprevedibile, riprendono i tratti dell’edificato tradizionale.

Parafrasando la famosa citazione di Gustav Mahler, Haus Balma dimostra che se la tradizione non è adorare le ceneri, forse non è neanche custodire il fuoco, ma è semmai saper cogliere in profondità i tratti del luogo per proporre, a partire da ciò che è sempre esistito, qualcosa di radicalmente nuovo.

Kengo Kuma

Un corpo scala in linea che, illuminato dall’alto, vuole ricreare all’interno la sensazione di una fessura in una roccia come all’interno di una cava.

Anche se nelle immagini questo edificio ha l’apparenza di un padiglione di modeste dimensioni, si tratta di un fabbricato di quasi 1.400 mq e quattro piani fuori terra.

Nonostante i tratti contemporanei dell’opera l’autore si muove, senza mai cadere, su un sottilissimo crinale che divide il rispetto della tradizione dalla sua aperta violazione. Foto naaro.

Il processo virtuoso di trasformazione avviato dalle nuove terme di Vals di Zumthor è culminato nella Haus Balma: un’opera che pur radicalmente contemporanea reinterpreta in chiave poetica la memoria costruttiva del luogo

IL TEMA DEI PROSSIMI CINQUANT’ANNI

Studio Gang e Reed Hilderbrand

Richard Gilder Center

New York. USA

Martha Schwartz, caposcuola dell’architettura del paesaggio, con la quale ebbi la fortuna di lavorare per alcuni anni, mi disse: « il paesaggio è il tema dell’architettura dei prossimi cinquant’anni». Da allora di anni ne sono passati quasi quindici e anche se nel frattempo, almeno in Italia, la pur chiacchieratissima attività del paesaggismo emerge ancora a stento, Martha aveva ragione. Il tema del paesaggio sta avendo sulla pratica teorica e operativa dell’architettura un’influenza enorme e i motivi sono diversi. Innanzitutto, nei paesi postindustriali la fase di sviluppo si è arrestata da tempo, costruire non è una priorità, mentre lo è occuparsi di tutto lo spazio sconfinato, e spesso disastrato, che si trova tra un edificio e l’altro. In secondo luogo, le questioni riferite all’ambiente rappresentano un tema caldo. Il paesaggio non solo contribuisce a migliorare la qualità dei luoghi ma, integrando frequentemente elementi vegetali, deve anche tener conto, oltre che delle esigenze degli utenti, dei temi ambientali che derivano dalla complessità e dalle esigenze di un’ampia varietà di forme di vita. E infine, di fronte a situazioni urbane sempre più grandi è proprio nell’assenza di edificazione che è possibile trovare quei ‘polmoni’, al centro della concezione urbana di F. L. Olmsted, capaci di compensare situazioni compresse ed ambientalmente compromesse. Ed è così che oggi un inedito interesse per il paesaggio si manifesta in ogni campo dell’architettura. Negli edifici una sorta di ibridazione tra paesaggio ed edificato trova esempi tangibili in progetti che vanno dal Teatro dell’Opera di

Oslo o The Mountain di Big, a tutto il lavoro di Junya Ishigami e in parte a quello di Sanaa. Un’opera molto recente dove tutto questo emerge in modo lampante è il Richard Gilder Center di Jeanne Gang: un risultato, per ammissione degli stessi autori, dai caratteri inaspettatamente steineriani, e un’architettura certamente significativa dal punto di vista dell’ibridazione con caratteri paesaggistici e tendenzialmente a-tipologici nel progetto di un edificio.

Questa nuova ala del Museo di Storia Naturale di New York, di 21.300 metri quadrati di superficie, sei piani fuori terra più uno interrato e dal costo di 465 milioni di dollari, permette nuove connessioni tra i dieci edifici del museo, formando un intero campus. Ma l’aspetto più importante è che l’edificio definisce un nuovo ingresso dal Theodore Roosevelt Park. Parco che, riprogettato dallo studio Reed Hilderbrand, letteralmente fluisce all’interno. Ed è precisamente un’allusione al paesaggio che ha portato a concepire il Gilder Center come una formazione geologica modellata dal flusso del vento e dell’acqua, al punto che il primo modello concettuale del progetto si basava sulle deformazioni e modificazioni di un blocco di ghiaccio scavato dall’acqua allo scopo di simulare la fusione del verde e dei percorsi esterni con gli spazi interni. La realizzazione delle forme, indubbiamente complesse, è stata resa possibile non solo dai sistemi di progettazione parametrica, ma anche dall’impiego di strutture in cemento realizzate senza casseforme. Questa tecnica, simile al ferrocemento di Pier Luigi Nervi, sembra

avere un precedente chiamato sprayed concrete: un metodo sviluppato agli inizi del Novecento da Carl Akeley, inventore dello stesso Museo di Storia Naturale di New York. A pensarci bene non è la prima volta che il paesaggio rivoluziona l’architettura. Una delle opere più belle e incredibili di tutti i tempi, spesso identificata come anticipatrice del Moderno, fu infatti il Crystal Palace di Londra del 1851, ideato da Joseph Paxton. Guarda caso, un giardiniere.

Jeanne Gang

“Il paesaggio è il tema dell’architettura dei prossimi cinquant’anni” un’intuizione di Martha Schwartz che trova espressione concreta nel Richard Gilder Center

La nuova ala del Museo di Storia Naturale di New York di 21.300 mq, connette i dieci edifici del complesso formando un intero campus. Le strutture in cemento sono realizzate senza casseforme con la tecnica ‘sprayed concrete’ sviluppata agli inizi del 1900 da Carl Akeley tassidermista dello stesso Museo di Storia Naturale. Foto Iwan Baan.

L’architettura definisce un nuovo ingresso dal parco che ridisegnato dallo studio Reed Hilderbrand, letteralmente fluisce all’interno dell’edificio. Planimetria Reed Hilderbrand.

NON SI VEDE PIÙ NEANCHE UNA GRU

2024

Colectivo C733

Bacalar Eco Park

Laguna del Bacalar. Messico

Visitai per la prima volta la penisola dello Yucatan nel 2000. A parte alcuni episodi isolati era un mondo intero da esplorare, ed è con questo intento che ci tornai a più riprese. La prima, dieci anni dopo, nel 2010, quando trovai Playa del Carmen convertita da tranquillo paesino, dove si poteva uscire di casa scalzi e trovare tutto in pochi passi, a caotica città di 150.000 abitanti. La seconda, nel 2014, quando realizzai che dei luoghi che amavo era rimasto poco o nulla, cancellati da un’industria turistica che, con la stessa delicatezza di un bombardamento a tappeto, aveva livellato tutto. E mentre coventrizzata, o per meglio dire, rapallizzata, era finita anche una località come Tulum, in origine poco più di un sito archeologico, iniziava la realizzazione del Tren Maya: una linea ferroviaria pensata per collegare le principali destinazioni turistiche che, pur sedicente sostenibile, è di fatto un taglio di 1.500 chilometri che frammenta in modo irreversibile l’integrità dell’incredibile estensione forestale della penisola. In cima a tutto questo non potevano certo mancare i progetti per nuove città smart, estese su oltre 500 ettari che, pur camuffate dalle inesorabili piante sul tetto, altro non sono che immense colate di cemento nel bel mezzo di aree vergini. Evidentemente ciò che si è perso, non solo nel ritmo forsennato di urbanizzazione ma pure nelle più recenti proposte architettoniche, per così dire, ‘sostenibili’, è la consapevolezza che, come per qualsiasi processo di produzione industriale, anche un intervento di trasformazione di un luogo implica una

certa quantità di danno che, amplificato dai moderni mezzi tecnologici, richiederebbe una pari amplificazione, purtroppo assente, del senno con cui vengono proposti. L’ultima frontiera di questi pericolosi sviluppi immobiliari è la laguna del Bacalar, luogo incantevole e delicato ecosistema che si sviluppa circa 250 chilometri più a sud di Playa del Carmen. Il Bacalar è la più grande barriera corallina d’acqua dolce del mondo e uno dei pochi luoghi in cui sono ancora presenti stromatoliti viventi, colonie di cianobatteri che risalgono al precambriano. In questo contesto l’Ecoparque Bacalar, progetto del Colectivo C733, Obel Award del 2024, interviene sull’unico residuo di palude di mangrovie, fortemente esposto alla crescita dell’espansione urbana, che rimane sulla riva della laguna nella città di Bacalar. La strategia principale del progetto è stata quella di ridurre al minimo il programma richiesto rinunciando a contrastare il suo inserimento, del resto inevitabile, come estensione del contesto urbano, ma lavorando su un piano totalmente staccato dal suolo. Un segno dichiaratamente artificiale, un quadrato di 200 metri di lato, ovvero la dimensione di un paio di cuadras urbane, che si sviluppa con altezze variabili in modo da evitare qualsiasi contatto con le mangrovie o gli alberi. Costruito con legno di chicozapote locale, cercando la giusta sezione per essere allo stesso tempo pilastro, trave e fondazione. È un’opera che, per quanto inizialmente criticata dalla comunità locale, invita il visitatore a immergersi nel luogo. Quest’ultimo viene

incluso in una sorta di recinto sacro unitario che lo protegge mettendolo in salvo dalla proliferazione di piccoli moli lungo la riva lagunare. Nell’epoca in cui l’edilizia e l’industria automobilistica erano i pilastri dell’economia, «non si vede più neanche una gru» era la frase con cui noi architetti, tradizionalmente il braccio armato della speculazione edilizia, esprimevamo con tono sconsolato la percezione di uno stato di stasi e stagnazione. Chissà che oggi, visto e considerato tutto quanto, non si incominci a pronunciare la stessa frase con un’intonazione un po’ diversa.

Colectivo C733

Un ‘recinto sacro’ a protezione di un delicato ecosistema che non tocca il suolo e lascia intatta la vegetazione limitando i danni che qualsiasi intervento di trasformazione inevitabilmente arreca

L’opera invita il visitatore a immergersi nel luogo. Quest’ultimo viene incluso in una sorta di recinto sacro unitario che lo protegge mettendolo in salvo dalla proliferazione di piccoli moli lungo la riva lagunare. Foto Rafael Gamo.

Il percorso si sviluppa su un quadrato di 200 metri di lato, ovvero la dimensione di un paio di cuadras urbane, con altezze variabili in modo da evitare qualsiasi contatto con le mangrovie o gli alberi. Foto Rafael Gamo.

Abbiamo chiesto ad architetti, critici e lettori quali siano a loro avviso, le due opere di architettura una in Italia e una all’estero, più rappresentative di questi ultimi vent’anni. Queste le risposte che abbiamo raccolto

Lorenzo Albai

Settanta7

La sede di Bnl-Bnp Paribas a Roma Tiburtina (5+1 AA, Alfonso Femia e Gianluca Peluffo, 2017) vive in simbiosi con la luce naturale, mutando con le ore del giorno e le stagioni. La sua forza risiede nel dualismo tra forma e funzione: è scultura architettonica, riconoscibile e monumentale, ma anche spazio dinamico, aperto al cambiamento. Un esempio emblematico di architettura contemporanea capace di fondere estetica e vivibilità, dove la luce diventa parte integrante del progetto.

L’Opera Park di Copenhagen (Cobe, 2023) è un esempio virtuoso di come anche una copertura per parcheggi possa diventare parte integrante del paesaggio. Non un semplice spazio funzionale, ma una pausa verde, quasi sacra, nel cuore della città. Camminando attorno al padiglione, si ha la sensazione di trovarsi ai margini di un estuario: un ambiente autentico, naturale, dove architettura e paesaggio si fondono con armonia e intenzione.

Per quanto riguarda l’Italia scelgo la Torre della Fondazione Prada di Oma, che è un monolite bianco dove il cemento sogna di diventare arte. Minimalismo da passerella, per intellettuali in posa.

All’estero, con l’Aqua Tower di Studio Gang a Chicago sembra che il brutalismo abbia assunto dell’Lsd: la torre che ondeggia come se l’architettura potesse ballare. Forse può.

Architettura un sondaggio critico

Paolo Asti

Credo che sia interessante tracciare un parallelo tra il recupero della Tate Modern di Herzog & de Meuron a Londra e quello della Torre Velasca a Milano. In particolare, l’edificio della Switch House, riconvertito nel 2016, collega il quartiere di Southwark con il Tamigi e offre nuovi spazi pubblici aperti al quartiere con una nuova piazza. Anche la nuova piazza della Velasca reinterpreta e ricuce i rapporti con l’immediato intorno, prevedendo un forte impulso alla pedonalizzazione e al miglioramento della qualità ambientale.

Marilena Baggio

Greencure Landscaping

L’Art Biotop Water Garden di Junya Ishigami a Tochigi in Giappone rappresenta un’interessante sistemazione esterna del Resort Art Biotop Nasu. È un lavoro poetico che incarna nel progetto architettonico elementi naturali, quali nuvole e foreste, secondo una visione intima e paritetica tra alberi, animali e persone, pensati alla stessa scala. Nel progetto La Piscina del Roccolo, in Alta Brianza, (2015), a cura dello studio act Romegialli, architettura e paesaggio si fondono in modo armonioso, elegante e discreto. È la testimonianza della ricerca dei caratteri essenziali e profondi del sito, interpretati e resi contemporanei attingendo alla storia, all’identità e alla cultura di un territorio.

Paolo Baldessari

Baldessari e Baldessari

Anche se ha più di vent’anni, il Padiglione del Portogallo per l’Expo di Lisbona di Álvaro Siza è un gesto poetico, di grande e indiscutibile comprovata eleganza, una prova che tiene il tempo e un felicissimo esempio di scienza e tecnica e rigore progettuale. È una costruzione pragmatica, il cui risultato estetico è generato nella pianta, nei prospetti e nella sezione, unito a un sapiente controllo della luce naturale che scolpisce lo spazio portandolo a una teatralità chiaroscurale magnetico plastica.

La Fondazione Feltrinelli di Herzog & de Meuron a Milano manifesta una straordinaria nuova trama urbana contemporanea che reinterpreta ed esalta un modulo compositivo tutto milanese. Una nuova quinta architettonica, che si insinua, si incastona e si rapporta come grande dispositivo regolatore e registro identitario nel tessuto architettonico della città. Una esemplare prova di sapienza ‘formale sartoriale’ che ‘orla’ una frangia urbana ora magistralmente connotata.

Renato Rizzi. Gdansk Shakespearean Theatre Danzica. 2008-2014

Gianandrea Barreca e Giovanni La Varra Barreca & La Varra

Insieme ai collaboratori dello studio, attraverso un sondaggio e un dibattito, abbiamo individuato due architetture di studi italiani: in Italia le Cantine Antinori nel Chianti (Bargino) di Archea (2013), una macchina per guardare il paesaggio che trasmette una sorta di spiritualità interna, con grande cura nella scelta dei materiali e dei colori, naturali e artificiali. All’estero il Gdansk Shakespearean Theatre a Danzica (Polonia) di Renato Rizzi (2014), per il suo magistrale inserimento nel contesto, la complessa tecnologia delle movimentazioni e il controllo al limite dell’ossessione di tutti gli elementi architettonici.

Stefano Boninsegna

Gla-Genius Loci Architettura

Difficile in Italia trovare un lavoro di architettura degli ultimi 20 anni che mi abbia folgorato, ma sicuramente vorrei avere progettato la Sede Smeg a San Gerolamo di Guastalla. Guido Canali è un progettista fuori dalle mode con un talento e una poetica straordinarie in tutte le sue realizzazioni. Personalmente adoro il lavoro di restauro del complesso di Santa Maria della Scala a Siena, uno dei primi suoi lavori che ho avuto modo di visitare. La sede Smeg ricorda tutta la poetica dell’architettura di Mies Van der Rohe con i piani sfalsati, l’uso delicato dei diversi materiali e l’impianto planimetrico che rimanda a quello delle cascine emiliane con una forte osmosi con il territorio. Considerando che per lo studio che rappresento lo spirito del luogo (il Genius Loci) è una componente fondamentale del progetto, trovo questo lavoro davvero bellissimo. Passando all’estero, tra i molti lavori che avrei

potuto selezionare trovo interessante la Casa della Musica a Porto dello studio Oma. Innanzitutto, perché salvo miei errori credo sia stato inaugurato nel 2005 e, quindi, compie 20 anni esattamente come voi, ma soprattutto perché il progetto di Oma ha rivoluzionato in modo radicale il concetto di edificio pubblico, catapultando una scultura, un monolite sulla Terra. Una scatola sfaccettata che è poi diventata ispirazione per tanti altri edifici a venire e ancora oggi rappresenta un punto di riferimento dell’architettura contemporanea.

Alex Braggion

B+D+M Architetti

Per l’estero, segnalo il Rolex Center di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa a Losanna (2010), che comprende diversi programmi. L’edificio è essenzialmente una struttura continua che si sviluppa su un’ampia superficie e si presenta come una forma organica. Il tetto e il pavimento ondeggiano con leggerezza e sempre in parallelo, con pochi appoggi visibili. Queste onde creano una grande apertura sotto l’edificio, invitando le persone a camminare e avvicinarsi all’atrio d’ingresso al centro. Un esempio riuscito di architettura territoriale grazie al suo rapporto con lo spazio che lo circonda.

In Italia, il Sassuolo Training Center (2019) di Onsite studio è un raro esempio di come l’architettura riesca a sintetizzare funzione e forma nella sua dimensione territoriale, legandola al paesaggio di un ambito suburbano, in un edificio che regola la natura astratta dei campi d’allenamento di una squadra di calcio e svolge diverse funzioni. La forma, arricchita dal rivestimento in mattoni che gli conferisce un’immagine senza tempo, ambisce, con un solo gesto, a ordinare il rapporto con il contesto.

Paolo Brescia

Obr-Open Building Research

All’estero sicuramente il Serpentine Pavilion del 2011 a Londra progettato da Peter Zumthor: un’opera temporanea che raggiunge l’assoluto permanente. Altrettanto importante, a Bologna il Memoriale della Shoah di Set Architects, realizzato nel 2016: un’opera pubblica permanente che continua a far riflettere su una lezione che l’uomo non ha ancora imparato abbastanza.

Margherita Brianza Parcnouveau

Da paesaggista nutro particolare ammirazione per il Riemer Park di Monaco realizzato nel 2005 in occasione della Buga (mostra di giardinaggio e paesaggio). Costruito sulla sede dell’ex aeroporto, è un modello di rigenerazione urbana a tutto tondo che ha portato natura e comunità gestendo un processo virtuoso di costruzione dei due elementi per dar vita a una nuova parte di città. Il processo di rigenerazione è la cosa interessante e Latitude Nord ha saputo sapientemente interpretarne lo spirito.

Herzog & de Meuron. Feltrinelli Porta Volta Milano. 2008-2016
Il Riemer Park di Monaco di Baviera
Oma. Casa do Música di Porto. 1999-2005
Sanaa (Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa) Rolex Center. Losanna. 2004-2010

Francesco Felice Buonfantino Gnosis Progetti

In Italia la Fondazione Feltrinelli rappresenta un ponte tra passato e futuro, un omaggio alle radici anche agricole di Milano e di tutta la Lombardia, ma proiettato verso una cultura internazionale e innovativa. Nonostante la sua imponenza, l’edificio si fonde con il contesto urbano e diventa parte integrante della rigenerazione di Porta Volta. È una presenza forte, ma non ingombrante. Potremmo dire che la Fondazione Feltrinelli è un esempio di come l’architettura possa essere cultura essa stessa, non solo contenitore di cultura.

Ad Atene, lo Stavros Niarchos Foundation Cultural Center progettato da Renzo Piano Building Workshop rappresenta un raro esempio di armonia tra natura, funzione pubblica e forma architettonica. L’opera non si apprezza solo per la sua bellezza architettonica, ma soprattutto per il suo significato: questo centro culturale è un dono alla città, una ‘restituzione’. In un periodo di profonda crisi economica e identitaria per la Grecia, l’Snfcc è rinascita, un luogo che restituisce dignità e futuro all’idea stessa di cultura condivisa.

La Cantina Antinori di Archea Associati, considerata la più bella del mondo, secondo me rappresenta il progetto più riuscito degli ultimi vent’anni in Italia. La capacità di un edificio industriale con una massa imponente di scomparire, mimetizzandosi nelle splendide colline del Chianti, è una trovata perfetta che mette tutti d’accordo. La scala scultorea si srotola attraversando l’edificio dal tetto giardino – che accoglie i vigneti – al grande portico, fino ai parcheggi interrati. Una sapiente scelta dei materiali lega in modo armonico il costruito al paesaggio naturale. È la dimostrazione di come l’architettura possa diventare anche un potente messaggio del brand.

All’estero, il visionario progetto Gardens by the Bay (2012, WilkinsonEyre e Grant Associates per il paesaggio) riporta alla città la sua essenza tropicale. La vegetazione si trasforma in architettura e il progetto di riqualificazione della baia di Singapore si materializza attraverso la creazione di enormi alberi tecnologici, supporto di un parco straordinario di giorno e luminoso di notte. È un giardino delle meraviglie che assomiglia più a un mondo onirico di una cinematografia di fantascienza rubata ad Avatar che esprime il bisogno, proprio in una città-Stato, di spazi verdi capaci di accogliere i cittadini tutti nella natura.

La mia selezione si basa su due condizioni: gli edifici che ho visto di persona e quelli che mi sarebbe piaciuto disegnare. Tra questi, con grande fatica, ne ho selezionati due che mi hanno particolarmente colpito. Scendendo

dall’autostrada del Brennero, la sede di Salewa progettata da Cino Zucchi e Park Associati appare d’improvviso ma come se ci fosse sempre stata. Come una parte del territorio, come una scultura nelle montagne, come un gesto perentorio ma perfettamente integrato, una sede aziendale. La capacità di trasferire in architettura un mondo di operosità, di simboli, di territorio, di cultura d’impresa. Un incontro che emoziona.

Poi adoro New York, la sua capacità di essere iconica attraverso il carattere identitario dei suoi edifici. Alcuni storicizzati e, quindi, già nella mente di chi la visita. Altri con la grande capacità di essere nello stesso tempo contemporanei ma già nella storia. La Beekman Tower di Frank Gehry emoziona da lontano e da vicino. Unico nel suo genere di edificio per residenza nel raccontare il grattacielo con uno spirito libero e scultoreo. La mia incapacità di smettere di fotografarlo, ogni foto una cartolina diversa, una luce diversa, uno scorcio diverso, ne hanno fatto, ai miei occhi, uno degli edifici più attraenti, suggestivi e misteriosi.

Paolo Conrad-Bercah c-ba

In Italia scelgo il nuovo Campus Bocconi di Sanaa, che sono riusciti a costruire una insolita, quasi sconosciuta atmosfera di serenità accademica utilizzando forme sobrie. Forme elementari e insieme antiche capaci di rinnovare in modo contemporaneo (per via indiretta) elementi iconici della semiperiferia milanese come quello dei gasometri, raggruppati con grande leggerezza costruttiva che, grazie all’utilizzo di tre soli materiali, li rende, nelle ore di buio, presenze misteriose cariche di grande fascino urbano.

Nel resto del mondo segnalo lo Stadio Matmut

WilkinsonEyre e Grant Associates Gardens by the Bay. Singapore. 2012
Rpbw. Stavros Niarchos Foundation Cultural Center. Atene. 2008-2016
Cino Zucchi e Park Associati. Salewa Hq Bolzano. 2007-2011
Sanaa. Campus Sda Bocconi Milano. 2013-2019

Design senza limiti e geometrie che si combinano.

Lastra grecata dalla geometria completamente personalizzabile. Con Alubel FORMA dai vita a superfici uniche, grazie a greche variabili e fissaggi totalmente nascosti. Alluminio ad alte prestazioni e finiture “smooth” per un’estetica elegante e su misura.

Atlantique (Herzog & de Meuron): una vasta selva di colonne che sorreggono le gradinate e la copertura. Contrariamente alla maggior parte degli stadi, la scalinata di ingresso è uno spazio filtro vivibile anche nei momenti di inattività. Lo spazio aperto generato dalla ‘pioggia’ di colonne rende evanescente la presenza dell’edificio. Una traslazione estetica stupefacente del Tempio Greco che riflette il processo di secolarizzazione dell’evoluzione della cultura, i cui nuovi dei sono diventati gli strapagati ‘dei’ del calcio.

Francesco Conserva

Open Project

Il centro polifunzionale ed espositivo Mast (2013) di Labics a Bologna è un esempio di rigenerazione e riqualificazione urbana che ha inciso positivamente sulla riconfigurazione della città, rinnovando una porzione di edilizia industriale dismessa nella periferia ovest. Si tratta di un luogo che concentra funzioni e obiettivi, la cui poliedricità viene tradotta anche nel linguaggio architettonico, che si rivela a tratti contrastante. Infatti, la chiarezza funzionale e la leggerezza espressiva dell’involucro esterno si alternano alla maestosità volumetrica, creando un dialogo continuo e stimolante con l’ambiente circostante. Per quanto riguarda l’estero, il progetto di trasformazione residenziale Grand Parc di Lacaton & Vassal Architectes a Bordeaux (2017) è un progetto innovativo e sostenibile che ha dato nuova vita ai palazzoni del dopoguerra, da sempre considerati luoghi invivibili e privi di un futuro ‘architettonico sostenibile’. I progettisti sono intervenuti sull’intera struttura preservando ciò che meritava di essere tutelato e intervenendo su ciò che andava integrato. L’ampliamento delle unità abitative con giardini d’inverno ha migliorato l’isolamento termico e

creato un’area per i residenti dove rilassarsi e relazionarsi. Ciò ha portato a una nuova configurazione interna, intervenendo in maniera approfondita sui materiali e restituendo valore al concetto di edilizia sociale.

Scelgo la High Line di New York (Diller Scofidio+Renfro, con il paesaggista James Corner Field Operations e l’orticoltore Piet Oudolf) perché rappresenta uno dei più significativi esempi di rigenerazione urbana contemporanea. Questo parco lineare pubblico si estende per circa 2,5 chilometri lungo un tratto sopraelevato di binari ferroviari in disuso. La sua trasformazione ha avuto un impatto notevole sulla città. Il verde e la passeggiata pedonale vertebrano lo sviluppo economico e urbano. Si stima che abbia generato 5 miliardi di dollari in progetti di rigenerazione urbana, tra cui edifici residenziali e commerciali, hotel e spazi pubblici, con un successo di pubblico di 8 milioni di visitatori l’anno, inventando una tipologia replicabile nelle città di tutto il mondo. Per l’Italia, il Bosco Verticale di Boeri Studio a Milano (2014) è diventato un simbolo emblematico della sostenibilità urbana e della nuova filosofia green. È un edificio dal design innovativo, nonostante sia destinato a una élite e abbia elevati costi di manutenzione. Dopo l’esperienza del Covid tutti abbiamo sentito l’indispensabile bisogno di un angolo outdoor soleggiato e verde. L’edificio è caratterizzato non solo dalle ampie terrazze a sbalzo e dai parapetti capaci di accogliere il prezioso verde naturale, ma soprattutto dall’alternarsi asimmetrico degli sbalzi, lasciando al verde la possibilità di insinuarsi attraverso i vuoti che rendono unico il suo design.

Pier Nicola Currà

Pier Currà Architettura

In Italia, il Bosco Verticale di Stefano Boeri che ha acceso un dibattito: può l’architettura accogliere altre forme di vita? Le stagioni diventano visibili tra i terrazzi, la natura si arrampica sulla città.

All’estero, la Powerhouse Brattørkaia di Snøhetta a Trondheim dimostra che costruire può signifi care non inquinare: materiali scelti, emissioni calcolate, impatto ridotto. Un’architettura consapevole, senza retorica. Due approcci diversi, uniti da una stessa ambizione: trasformare l’edifi cio in un gesto responsabile, che lascia un segno oltre la sua forma.

Rosario e Simone Cusenza, Maria Salvo cusenza+salvo studio

La buona architettura dovrebbe avere lo scopo di migliorare la vita delle persone. Quindi, segnaliamo come opera più rappresentativa in Italia l’ Hospice Pediatrico di Renzo Piano a Bologna e per l’estero il Forest Kindergarten di Junya Ishigami a Bailuwan, in Cina. Piano progetta un edifi co sospeso e avvolto dalla natura che trasmette ai bambini l’esperienza di vivere in una casa sull’albero. Ishigami progetta un edifi cio che ricorda una foresta e mette in relazione i bambini con l’ambiente naturale che li circonda.

Snøhetta. Powerhouse Brattørkaia Trondheim. 2012-2019
Boeri Studio. Il Bosco Verticale Milano. 2007-2014
Renzo Piano. Hospice pediatrico L’arca sull’albero. Bologna. 2014-2024

Marco De Donno

Acpv - Antonio Citterio Patricia Viel

Il Teshima Art Museum di Ryūe Nishizawa è un involucro fluido che annulla i confini e sospende la percezione, un volume poroso che incornicia il cielo e dissolve lo spazio in esperienza corporea. In Italia, l’installazione di Tresoldi per i resti della Basilica di Siponto ricostruisce il passato con una materia evanescente, capace di restituire la memoria attraverso l’assenza. Due opere che trasfigurano il vuoto in materia e la leggerezza in presenza scenica, trasmettendo il silenzio con potente espressività.

Paolo Didonè e Devvy Comacchio

Didonè Comacchio Architects

A nostro giudizio l’intervento di restauro di Punta della Dogana eseguito da Tadao Ando a Venezia, oltre a essere un manuale costruttivo tridimensionale del modo di lavorare il calcestruzzo, denota la maestria nell’intervenire in perfetto equilibrio con una preesistenza delicata come quella degli edifici storici veneziani. Punta della Dogana è un progetto che dà nuova vita nel migliore dei modi, con una nuova funzione, al patrimonio edilizio esistente, tema che in Italia dovrebbe essere di primaria importanza. In Germania, la Cappella votiva di San Nicolao (2007) realizzata da Peter Zumthor è un’opera a noi molto cara. I materiali utilizzati, l’interazione che hanno tra loro e il processo di costruzione sono semplicemente unici. Il modo in cui l’architetto ha valorizzato gli elementi naturali (fuoco, aria, terra e acqua) attraverso il suo progetto è quasi metafisico. Il processo di generazione formale e materica dello spazio interno, con la rimozione della cassaforma attraverso il fuoco, è unico.

Ammiro la sintesi attraverso il dialogo tra differenze e complessità. Da qui la maestria di Guido Canali che, con la Sede Smeg, unisce e custodisce, con assoluto rigore e sobrietà, un territorio e una cultura proiettata nel futuro. Un luogo per la cura del saper fare, delle persone e della natura. Con la stessa capacità di ascolto e sguardo integrale, ritrovo nel genio dello studio Neri&Hu la manualità, quasi artigiana, che armonizza luoghi, gesti e risorse in forme di senso compiuto ma senza tempo. Amo tutta la loro architettura e per questo non riesco a indicare una sola opera.

Francesca Federzoni Politecnica

Per l’estero scelgo la Rajkumari Ratnavati Girl’s School di Diana Kellogg Architects a Jaisalmer, India (2021), per l’armonia tra contenuto e contenitore, ossia tra l’alto profilo della missione dell’edificio – accogliere oltre 400 ragazze al di sotto della soglia di povertà per aiutarle a formarsi e raggiungere l’indipendenza economica per sé e le loro famiglie – e la delicatezza della forma, la bellezza dei materiali, la sostenibilità energetica, il rispetto delle tecniche di costruzione locali. In Italia segnalo la riqualificazione, tuttora in corso, dell’ExManifattura Tabacchi di Firenze, per aver rispettato le strutture esistenti, minimizzando le demolizioni, ma senza paura di accostare nuove funzioni e nuovi edifici, in un mix efficace di riuso e rigenerazione, senza violare l’identità storica del luogo e riuscendo a progettare in modo attuale e sostenibile, anche dal punto di vista energetico, l’intero complesso.

Simone Gheduzzi diverserighestudio

All’estero scelgo il Teshima Art Museum, progettato da Ry ūe Nishizawa, che unisce natura e architettura in un dialogo silente e potente. La luce naturale che filtra attraverso la copertura permea gli spazi, creando un’atmosfera contemplativa. L’assenza di confini tra interno ed esterno favorisce la percezione di continuità tra arte e natura, amplificando la potenza concettuale del progetto, che esplora la sacralità, in un inno alla fragilità e all’intensità dell’esperienza umana. In Italia la Fondazione Prada, progettata da Rem Koolhaas e Oma, è un esempio eminente di rigenerazione urbana, dove passato e futuro si intrecciano continuamente. L’ex stabilimento industriale, trasformato in spazio museale, conserva la memoria storica pur proiettandosi verso l’innovazione. L’intervento architettonico gioca con contrastanti linguaggi e materiali, tra la materia grezza delle strutture industriali e la raffinatezza degli spazi contemporanei.

Vincenzo Diele e Eljor Kerciku diele kerciku architetture

L’Asilo di Guastalla di Mca - Mario Cucinella Architects e il Centre pour le Bien-être des Femmes di FareStudio in Burkina Faso mostrano come l’architettura possa unire innovazione e sensibilità. Pur operando in contesti diversi, entrambi i progetti trasformano esigenze funzionali in spazi poetici, radicati nel territorio e nelle comunità. Attraverso soluzioni tecnologiche avanzate e un profondo senso di accoglienza, questi edifici diventano luoghi di incontro, espressione di un’architettura empatica e al servizio del benessere collettivo.

Tadao Ando. Museo e centro d’arte di Punta della Dogana. Venezia. 2007-2009
Ryue Nishizawa. Teshima Art Museum. 2010
Diana Kellogg Architects. Rajkumari Ratnavati Girl’s School. Jaisalmer India

L’obliquità del Rolex Learning Centre di Sanaa a Losanna è cifra di un’ambizione contemporanea. Come in un triangolo, di cui l’ipotenusa contiene in sé le caratteristiche della verticalità e dell’orizzontalità e anche qualcosa in più, la fluidità del piano inclinato ridefinisce anche il dialogo tra interni ed esterni, rintracciando nuove regole spaziali, conferendo all’intera opera una nuova leggerezza, significante di un bisogno di libertà, una ribellione alla staticità della verticalità e dell’orizzontalità.

In Italia le Cantine Antinori, di Casamonti e Archea Associati, andrebbero inquadrate in una prospettiva che trascende la mera costruzione di un luogo produttivo. Le forme e i materiali propongono un reciproco avanzare della campagna nell’architettura, dimensione attentamente ricavata dai progettisti che ricercano nei tagli del terreno e della materia costruttiva la penetrazione del paesaggio all’interno dell’opera come la penetrazione dei fruitori dell’architettura nell’intorno del contesto agreste, alla stregua della terza dimensione ricercata dai fendenti di Lucio Fontana nelle sue tele.

Emiliano Leoni Leoni & Leoni

Anche l’università pubblica rinnova i propri spazi con ambizione internazionale, valorizzando l’architettura dei maestri – come Gio Ponti – senza cancellarla. Nel Campus Leonardo del Politecnico di Milano nuovi innesti dialogano con la storia, generando ambienti interni ed esterni innovativi, inclusivi e sostenibili. Un segno di speranza per le opere pubbliche italiane.

A Londra, L’Elizabeth Line è un’infrastruttu-

ra diffusa che si fa architettura: total design, orientamento e accessibilità si integrano in spazi pubblici coerenti, eleganti e democratici. Precisione costruttiva e cura del dettaglio rendono il trasporto urbano un’esperienza qualitativa. Un messaggio chiaro: il bene comune può essere bello e soprattutto per tutti.

Alberto Lessan Balance Architettura

L’Epfl Rolex Learning Center di Kazuyo Sejima e Ry ūe Nishizawa a Losanna è l’opera architettonica che a mio avviso più influenza l’architettura internazionale degli anni successivi al 2010. Incarna in sé il rapporto contemporaneo concettuale tra funzione, struttura e forma. Si sviluppa su un sistema articolato di geometrie elementari, formali. Sono queste geometrie che determinano la fluidità degli spazi, un andirivieni tra forma e funzione, con l’intento però di essere rigidamente tesi all’esigenza espressiva.

L’architettura urbana torinese 25 Verde di Luciano Pia (2007-2012) è precedente al Bosco Verticale. È un reticolo metallico ordinato in cui si inseriscono unità immobiliari autonome ai diversi piani. Il verde non è solo un’aggiunta formale esterna ma la facciata si scava e compone funzionalmente di vasche verdi, alberature, vegetazione pensile nelle tre dimensioni. L’interno cortile è trattato come un’oasi verde selvaggia, la natura si percepisce davvero. È anche un edificio che manifesta un’energia umana estrema, sia creativa che costruttiva e ingegneristica. Con il tempo, con tutta probabilità e nostro augurio, assumerà maggior valore nel panorama della storia dell’Architettura Italiana.

Paolo Lettieri

Upa Italia

La Cantina Antinori rappresenta secondo me uno dei rari e più riusciti esempi di architettura integrata nel paesaggio in Italia, costruita con un approccio organico e minimale. Il progetto si distingue per il rispetto del contesto e la capacità di valorizzarlo, evitando l’impatto volumetrico che ci si aspetterebbe. L’architettura si manifesta soprattutto negli spazi interni, lasciando all’esterno alcuni elementi architettonici selezionati, come la scenografica rampa elicoidale e le vigorose coperture a sbalzo, linee iconiche nel paesaggio. All’estero, il Louvre Abu Dhabi di Jean Nouvel è tra i progetti più emblematici e meglio riusciti nel dialogo tra cultura locale e architettura internazionale. L’iconica cupola, ispirata alle musciarabia locali, crea uno spazio esterno-interno metafisico ma non retorico. I volumi bianchi del museo, essenziali e proporzionati, si dispongono secondo una pianta che richiama i villaggi tradizionali, generando internamente un percorso museale efficace e misurato ed esternamente, all’ombra della cupola, spazi minimali concatenati.

Luciano Pia. 25 Verde Torino. 2007-2012
Jean Nouvel Louvre Abu Dhabi
Mario Cucinella Architects. Nido d’infanzia Guastalla. 2015
Rem Koolhaas con Oma. Fondazione Prada. Milano. 2008-2015

Danilo Lisi

Dirò, in breve, le ragioni che mi portano ad apprezzare la ristrutturazione e ampliamento della Bibliotheca Hertziana a Roma, di Juan Navarro Baldeweg, e il recupero del Convento das Bernardas di Eduardo Souto De Moura a Tavira. Baldeweg lascia intatto lo scenografico ingresso su via Gregoriana, caratterizzato dal portale antropomorfo del Mascherone, intervenendo in maniera totale, ma con delicatezza, all’interno. Qui ricava un pozzo, con ampie superfici vetrate, che dà luminosità e piacere ai tanti studiosi delle Arti. Souto De Moura riconverte un monastero del Cinquecento, in Algarve, in un complesso residenziale e alberghiero. Fa ruotare tutto intorno allo splendido spazio centrale ricavato esaltando il ruolo degli alti muri perimetrali, originariamente a ‘protezione’ delle suore di clausura. Entrambi i maestri puntano alla discreta e raffinata integrazione del nuovo con l’antico.

Piero Lissoni Lissoni&Partners

Scelgo la Beyeler Foundation di Renzo Piano a Riehen come esempio virtuoso di architettura museale, di rigore progettuale e di bellezza. Un luogo illuminato dalla luce naturale e che usa la luce quasi come scala architettonica. E poi per il suo rigore nell’essere un contenitore per le opere d’arte e non il contrario. In Italia, invece, propongo la Cantina Antinori di Archea Associati/Marco Casamonti, che con un gesto molto atletico rovescia il punto di vista. Casamonti lavora all’interno di una collina disegnandola, ma mantenendo la potenza astratta dell’architettura. Quindi, non è semplicemente un progetto ipogeo, ma un

vero progetto di architettura che usa l’idea di diventare ipogeo come modello specifico e preciso. E poi ha un linguaggio architettonico straordinario.

Massimo Locci

Delle opere realizzate in questo ventennio che mi sembrano rilevanti segnalo il Tempio Duomo del Rione Terra a Pozzuoli, di Marco Dezzi Bardeschi e Gnosis Progetti, che affronta il tema del restauro in termini sensibili e contemporanei. La compresenza dei resti del Tempio augusteo, della fabbrica del Duomo barocco e degli interventi moderni di anastilosi sono tutti leggibili all’interno di un linguaggio a ‘palinsesto’ e di una metodologia complessa e raffinata. Nel processo di reinterpretazione delle stratificazioni storiche, il layer legato alle nuove funzioni si caratterizza sempre per indipendenza sintattica con la preesistenza e per una forte adesione ai valori poetici, tecnologici e tettonici moderni.

A Marsiglia Il MuCEM - Museo delle Civiltà d’Europa e del Mediterraneo realizzato da Rudy Ricciotti e da Roland Carta, è centrale nel processo di rigenerazione urbana della città, che ha scelto di utilizzare l’architettura contemporanea come veicolo di promozione della sua nuova immagine. Un cambiamento complessivo a partire delle reti infrastrutturali fino alla delocalizzazione delle attrezzature portuali, alla sistemazione del Porto Vecchio e dell’intero waterfront urbano. L’edificio, collegandosi con due ardite passerelle al centro storico e al forte di Saint-Jean, tra trasparenza e plasticità fluida degli elementi strutturali interpreta il tema della natura e dell’acqua.

Claudio Lucchesi

Urban Future Organization

L’opera realizzata in Italia che amo di più rimane ancora il Maxxi di Hadid. Zaha ha progettato delle aree e degli spazi che attraverso i loro morbidi flussi si inseriscono in modo armonico, senza violenza, nel tessuto urbano storico della città di Roma, stimolando i movimenti in forma dinamica.

All’estero scelgo il Wyly Theatre di Oma a Dallas, per la capacità di compattare in verticale, visto il poco suolo disponibile, un teatro, le cui funzioni sono rappresentate come sempre magnificamente nei diagrammi di Rem.

Roberto Malfatti

Politecnica

Per celebrare i vent’anni di IoArch ho scelto due architetti italiani, Renzo Piano con il Centro Culturale Tjibaou a Noumea (anche se è stato completato nel 1998, più di vent’anni fa) e Casamonti/Archea Associati con la Cantinea Antinori nel Chianti.

Entrambe raccontano il luogo e la sua cultura, si mimetizzano ed esprimono un contrasto intelligente con la natura circostante, hanno leggerezza visiva e impatto minimo, rispondono alle esigenze climatiche e sono realizzate con una tecnologia consapevole; non sono solo inserite nel paesaggio ma diventano il paesaggio. In poche parole e dal mio punto di vista sono opere etiche, poetiche e responsabili.

Eduardo Souto De Moura. Convento das Bernardas. Tavira. 2012
Oma, Dee and Charles Wyly Theatre. Dallas. 2001-2009
Archea Associati. Cantina Antinori Chianti Classico. Bargino. 2004-2013

Attraverso il tempo, efficace sempre.

Nel quartiere Vigentino di Milano, mix di residenziale, botteghe e magazzini, molti degli edifici furono nel tempo abbandonati, scivolando verso un destino di architetture inutili. La sede della Fondazione Prada (Oma, 2018) è un’operazione sociale e di valorizzazione di un luogo destinato all’oblio. Ha ricucito un tessuto urbano fatto da edifici e persone, portando una nuova visione intellettuale a un complesso architettonico che necessitava solo di una spolverata. L’inserimento di elementi teatrali e l’uso dell’oro per rendere astratto il volume di una delle due torri trasforma l’intervento di recupero architettonico in un’opera d’arte. All’estero scelgo il Maat di Lisbona (Amanda Levete, 2016). Un lembo di terra, stretto fra una via percorsa da automobili – ultimo confine del tessuto urbano – e le dolci onde del Tago che si appoggia a questa esile striscia, incornicia un’area da cui fuoriesce una morbida architettura. La sua forma sembra tracciata dal pennello di un pittore che ha depositato su tela la propria immaginazione. La pennellata disegna una duna modellata dal vento e dal solletico delle fresche onde del fiume, che ne scavano la superficie, penetrando al suo interno e ricavando grotte per l’arte.

Little Island a Manhattan, New York (2021, Heatherwick Studio con Mnla e Arup) è un’opera architettonica significativa perché rompe a mio avviso la visione convenzionale del limite tra acqua e terra, costruendo uno spazio di transizione. Un luogo di connessione, come ponte urbano tra natura e città. In Italia, il pro -

getto della Chiesa di Santa Maria Goretti a Mormanno (2021, Mario Cucinella Architects) intreccia modernità e tradizione, diventando una presenza organica che evoca spiritualità e coinvolge emotivamente, al di là del credo, interpretando il sacro attraverso un segno architettonico di forte intensità.

Susanna Nobili

Vedo l’intervento di Tadao Ando per la Bourse de Commerce di Parigi come la centralità salvaguardata di un Pantheon o un Colosseo: la ritmica scansione concettuale del chiostro. L’affresco nel tamburo interno viene tutelato da quanto vi è sottoposto e anteposto attraverso materiali e forme dodecafoniche. La perfetta sintesi di un eclettismo similar Baalbek: un cerimoniale del più Funzionale e Meditativo. Salvare un territorio dal degrado, conservarne l’identità, è gesto simmetrico al recupero di un brano di edilizia. È questo il caso della Città del Sole che Labics ha rivitalizzato in qualità sulla precarietà urbana del Tiburtino. Dunque restauro di una fetta di territorio, di uno skyline ottenuto attraverso un’architettura consapevole ed emotiva: poggiata in altezza su uno spazio sul quale vigila come una centrale energetica. Restauro quindi di un brano sottovalutato di periferia. Come dire una discesa di qualità dall’alto verso il basso e viceversa. Una forma nutrita da inaspettate energie territoriali.

Rispondo al sondaggio individuando due opere, soprattutto per i forti significati che incarnano. In Italia il Teatro Naturale della Cava a Lampedusa di Vincenzo Latina: pochi sapienti

segni capaci di stimolare il ricordo e aprire a un diverso futuro. Diversamente interpretabili nelle varie occasioni: intrecci di segni, memorie e preesistenze di alto valore simbolico. In Norvegia il Vennesla Cultural Center (2011, architetti Helen & Hard). Una costruzione accogliente, altamente sostenibile, diversificata nei rapporti con il contesto, tesa ad accogliere con intrecci molteplici di funzioni collettive. Punto di incontro per una piccola comunità, spazialità continue e mutevoli al tempo stesso.

Mario Pisani

In Italia l’Hotel 1301 Inn di Stefano Pujatti, architetto in terra di frontiera, sperimenta con ironia un mix di arte e scienza. A Piancavallo recupera i detriti dell’edificio preesistente parzialmente demolito per zavorrare l’interrato. Riutilizza l’ingresso a tripla altezza per i servizi dell’albergo e su una pianta a V insedia 37 nuove camere. Il tetto a geometria studiata per lo scivolo della neve non intralcia percorsi e accessi. I materiali evidenziano un’architettura alpina: listelli grezzi in legno, tegole in ardesia, cotto per il pavimento per fare con poco il meglio.

In Cina, ad Hangzhou, Wang Shu (Pritzker Prize 2012, fondatore con la moglie Lu Wenyu di Amateur Architecture Studio) realizza il Campus di Xiangshan, l’ampliamento della più antica Accademia di Belle Arti della Cina. Si distingue la guesthouse, per la grande forza espressiva delle coperture, la cura particolare per gli interstizi, gli spazi tra i volumi, luoghi raccolti dove parlare seduti su un divano. Sulle scale scorre la vita universitaria e sembra di essere all’aperto. Ampie bucature irregolari nel prospetto laterale accolgono i venti e favoriscono il ricambio dell’aria, evitando il condizionamento. Il suono del vento che viene dalle colline porta all’interno la musica della natura.

Mario Cucinella Architects. Chiesa di Santa Maria Goretti. Mormanno. 2021
Labics. Città del Sole. Roma. 2007-2016
Vincenzo Latina. Teatro Naturale della Cava. Lampedusa. 2022

A mio parere, le due opere di architettura più significative degli ultimi 20 anni sono due torri. L’architettura verticale è per me molto attrattiva perché prospetta soluzioni efficaci nell’utilizzo del suolo liberando le aree a terra per la realizzazione di parchi, giardini e spazi per uso collettivo come piazze e scenografie urbane aperte alla socializzazione. All’estero ho scelto il Burj Khalifa a Dubai, progettato da Som - Skidmore, Owings & Merrill, una vera sfida contro i limiti tecnologici e costruttivi che ho visto crescere sin dalle sue fondamenta poiché il cantiere era posto proprio davanti ai nostri uffici di Dubai. Trovo che il disegno del Burj Khalifa abbia caratteristiche di eleganza e leggerezza uniche, basate in pianta, su geometrie organiche che richiamano le forme di un fiore. In Italia ho particolarmente apprezzato il Progetto della Torre Generali a City Life disegnata da Zaha Hadid, che interpreta l’architettura verticale in modo dinamico e al contempo elegante nella sua essenzialità di forme e materiali. Poi, concedetemi, il mio progetto, Syre, che sarà concluso quest’anno a Milano e che racchiude tutto quello che conta: rigenerazione urbana, masterplanning, architettura, parco, aree di socializzazione.

Alessia Ravaldi CerebrAle

Segnalo la Cantina Antinori di Archea Associati a San Casciano Val di Pesa e The Shed di Diller Scofidio + Renfro a New York. La mia scelta non nasce da criteri etici o funzionali, ma dall’emozione pura che queste due opere mi hanno trasmesso.

Le Cantine Antinori mi hanno affascinato per la loro armonia con il paesaggio, una fusione perfetta tra natura e architettura. The Shed, invece, mi ha stupito per la sua trasformabilità, un’architettura viva che respira con la città. Due esperienze uniche, dove lo spazio diventa sentimento, vibrazione, meraviglia.

Stefan Rier e Lukas Rungger

Noa

Per l’Italia scegliamo la Badhaus di BergmeisterWolf a Bressanone. È un edificio destinato all’ospitalità che però si imposta sul tessuto urbano aprendo nuovi spazi per la collettività. È un lavoro di facciata estremante innovativo e sensibile, con mattoni di argilla e con vetro e rame, che modula la luce con eleganza. Si tratta di una commistione di arte e architettura in un’ottica di contaminazione di discipline molto cara anche a Noa. E il tutto nel centro storico di Bressanone.

Per l’estero proponiamo invece la Copenhills di Big a Copenhagen, un’opera ben nota che non ha bisogno di presentazioni, ma che riteniamo la più significativa per aver regalato a un inceneritore un valore architettonico e culturale altissimo, un vero e proprio cambio di paradigma nel fare architettura.

Massimo Roj Progetto Cmr

In Italia il nuovo Campus Bocconi di Milano, firmato dallo studio giapponese Sanaa e di cui Progetto Cmr è stato local architect con la progettazione esecutiva e la direzione lavori, si configura come un intervento che sovverte le consolidate logiche dell’assetto urbano milanese. In un contesto caratterizzato dalla radiocentricità romana e dalla rigorosa razionalità architettonica, si è imposto un linguaggio fatto di morbide sinuosità, di volumi fluidi che dialogano per contrasto con il tessuto preesistente. L’esperienza diretta del progetto rivela un livello ulteriore di lettura: se di giorno il campus si presenta come un’entità introversa, quasi chiusa verso l’esterno, la pelle dell’edificio si trasforma al calar della sera. La luce, irradiandosi dall’interno, rende la facciata trasparente, svelando la vita pulsante che anima gli spazi interni e aprendo il campus alla città in un gesto di inaspettata permeabilità.

A livello internazionale l’Heydar Aliyev Center di Baku, opera di Zaha Hadid Architects, rappresenta una sfida radicale ai canoni tradizionali dell’architettura. In un contesto dove simmetria e razionalità sono spesso considerate principi fondanti, i progettisti propongono una struttura che si presenta come un foglio o una tela plasmata dal vento, una forma organica e sinuosa che sembra sfidare le leggi della gravità. La morbidezza delle linee, la fluidità delle superfici, contrastano con la durezza dei materiali utilizzati, creando un’interessante tensione tra forma e sostanza. L’opera, che potremmo definire ‘organica’, si configura come una reinterpretazione dei parametri architettonici, per abbracciare un linguaggio più libero, più vicino alle forme della natura. Un’icona che segna il paesaggio urbano con la sua presenza scultorea e dinamica.

Marco Piva Smp
Amateur Architecture Studio. Campus di Xiangshan
Som - Skidmore, Owings and Merrill. Burj Khalifa. Dubai. 2006-2010
Diller Scofidio + Renfro. The Shed, Hudson Yards. NY
Zaha Hadid Architects Heydar Aliyev Center. Baku

Nel mondo, l’architettura che ho visitato e che mi ha più colpito per la gestione dello spazio, che attorno era inesistente, è la Walt Disney Concert Hall di Frank Gehry a Los Angeles, una scacchiera anonima in cui Gehry porta l’anima europea dello spazio aperto e sociale che lì si sprigiona attorno e dentro creando ‘piazze’ e spiazzi di incontro veri.

In Italia le architetture che ritengo più significative sono quelle di Marcello Guido come il Museum of Horse a Bisignano che esplode di spazi aperti e chiusi. Marcello ci ricorda che dalla storia dobbiamo imparare ma non imitare. Dobbiamo crescere e rivitalizzare quello che ci circonda rendendolo unico. Ha saputo risolvere problemi di interconnessione e ricucitura creando un luogo unico ed energeticamente efficiente.

A mio avviso le due architetture più signifi cative degli ultimi vent’anni sono la Cantina Antinori di Archea Associati in Italia e, a livello internazionale, il Louvre Abu Dhabi di Jean Nouvel. Due progetti in cui una grande complessità costruttiva è stata risolta con grande maestria.

Due edifi ci-paesaggio capaci di relazionarsi e interpretare la natura dei luoghi: Le Cantine Antinori riescono ad aggiungere bellezza a un luogo già straordinario; il Louvre di Nouvel trasforma un museo in uno spazio emozionante che fa dialogare luce e acqua.

Tra le architetture italiane scelgo The Cube di Park Associati: un’architettura temporanea, nomade, cosmopolita e flessibile che raccoglie pienamente il senso e la sfida della contemporaneità, in dialogo con la tradizione. Un’opera il cui minimalismo sottende una ricerca progettuale importante, capace di governare e risolvere esigenze spaziali e comunicative, tecnica, estetica, rispetto per le preesistenze, nonché necessità costruttive e di trasporto, in una sintesi di grande potenza espressiva. All’estero non una singola opera di architettura ma un quartiere, Nordhavn di Copenhagen, concepito – a partire dal masterplan di Cobe – nel segno della sostenibilità e del riuso. Dal suo skyline emergono architetture significative. Un luogo denso di vita e di energia che esprime in modo straordinario la capacità delle città scandinave di essere punto di equilibrio perfetto tra la dimensione pubblica e quella privata

Il progetto dell’High Line (NY, 2009, Diller Scofidio + Renfro e James Corner Field Operations con Piet Oudolf) ha aperto prospettive inedite sulle potenzialità delle infrastrutture dismesse, ponendo l’accento sulla metamorfosi urbana e sul valore della reinterpretazione. Il design del Campus Bocconi (Milano, 2019, Sanaa) è un esempio molto interessante di compenetrazione tra città e architettura. Gli spazi sono distinti ma connessi mediante percorsi continui, che valorizzano relazioni fisiche e visive tra le diverse parti, promuovendo apertura e integrazione urbana.

Pasqualino Solomita

Cotta Solomita architetti pianificatori

In Cina lo Stadio olimpico di Pechino (2008) dello studio Herzog & De Meuron ha scardinato letteralmente l’immagine prefi gurata degli stadi concepiti fi no a quel momento. La ‘macchina-teatro’ degli eventi sportivi ha assunto un nuovo ruolo e valenza fi gurativa e gli stadi che si sono susseguiti hanno poi intrapreso questa via.

Analogamente il Bosco Verticale di Milano (2014) dello studio Stefano Boeri Architetti ha sovvertito le regole del connubio edifi cio/verde, divenendo una icona conosciuta anche dai non addetti ai lavori per la singolarità della sua conformazione, suscitando al contempo stupore e aspre critiche.

Benedetta Tagliabue

Miralles Tagliabue - Embt Architects

Trovo la Fondazione Prada di Rem Koolhaas con Oma a Milano affascinante per il modo in cui tiene insieme storia e innovazione – non cancella il passato ma ci costruisce sopra con materiali e contrasti spaziali sorprendenti. Ugualmente di ispirazione a Taiwan la Taichung Opera House di Toyo Ito; le sue forme fl uide e organiche fondono perfettamente struttura e spazio, trasformando l’architettura in qualcosa di emozionale, intuitivo e meravigliosamente complesso.

Park Associati. The Cube, padiglione itinerante per il ristorante Electrolux
Herzog & de Meuron. Stadio olimpico di Pechino. 2003-2008
Toyo Ito, National Taichung Theater. Taiwan. 2006-2016

Matteo Thun

Matteo Thun & Partners

Sono un grande fan dell’architettura di Kazuyo Sejima e Ry ūe Nishizawa e per l’Italia propongo il nuovo Campus Bocconi a Milano. La fluidità dell’architettura, la trasparenza delle strutture curve quasi galleggianti e la rete metallica ondulata delle facciate – tutte circondate dal parco – creano una continuità tra interno ed esterno. È tutta una questione di apertura e luce. Gli edifici innovativi di Sanaa completano perfettamente il campus e sono una vera risorsa per l’Università Bocconi, gli studenti e la città. All’estero trovo che il Louvre Abu Dhabi di Jean Nouvel sia una sintesi della cultura araba e occidentale, un’integrazione tra l’architettura tradizionale arcaica e la moderna tecnologia costruttiva. È un ‘hub culturale’ dove si può assistere a un rapporto in continua evoluzione tra il sole e la cupola e tra il mare, gli edifici e la terra.

Filippo Tisselli tissellistudioarchitetti

Non per snobismo ma anziché due architetture preferirei segnalare due libri, pubblicati entrambi da Feltrinelli. Forse chi non li ha letti li apprezzerà. Per l’Italia I barbari di Alessandro Baricco (2006). Un libro scritto prima dell’esplosione dei social media e degli smartphone, ma che ha anticipato molti dei cambiamenti generazionali che sarebbero diventati evidenti negli anni successivi. Per l’estero consiglierei Homo deus di Yuval Noha Harari (2016) che indaga il futuro dell’umanità, ipotizzando la ricerca dell’immortalità e del potere divino attraverso la tecnologia.

Patricia Viel

Acpv - Antonio Citterio Patricia Viel

Secondo me, due opere che hanno ridefinito il rapporto tra l’uomo, l’ambiente e la tecnica negli ultimi vent’anni, sono senza dubbio la High Line di New York e il Mose di Venezia.

La prima è un gesto poetico di rigenerazione urbana che ha trasformato un’infrastruttura dimenticata in uno spazio pubblico vitale, elevando l’idea stessa di paesaggio urbano.

Il Mose, al contrario, agisce in silenzio con una forza sovrumana, un capolavoro di ingegno umano a difesa della fragilità di Venezia.

Pierluigi Turco

A-fact

A mio parere l’Opera House di Snøhetta a Oslo incarna le ambizioni della cultura europea contemporanea: accessibilità, sostenibilità e dialogo tra architettura e paesaggio. Le sue superfici inclinate sono un invito aperto a tutti, trasformando le coperture in spazio pubblico dove la cultura incontra la vita cittadina.

Il Maxxi di Roma, progettato da Zaha Hadid, è invece una forza dirompente nella città eterna. La sua architettura dinamica e audace stimola nuove interpretazioni del contesto, dimostrando il potere dell’architettura contemporanea di rivitalizzare luoghi che sembrano fermi nel tempo.

Cino Zucchi

Cza

Da almeno cento anni assistiamo a una contrapposizione forzata tra tradizione e modernità, dove la prima avrebbe il consenso di tutti e la seconda solo pretese individualiste. Due progetti degli ultimi venti anni mostrano una via alternativa: quello di Alessandro Scandurra per i padiglioni temporanei dell’Expo 2015 di fronte al Castello di Milano, e lo Stadio di calcio di Bordeaux progettato da Herzog & de Meuron.

Come la Nationalgalerie di Mies a Berlino, ambedue si confrontano con il tema della classicità senza alcun ammiccamento figurativo, in una nuova condizione culturale dove ‘tutto è contemporaneo’.

Filippo Weber

Weber Architects

Sono convinto che l’architettura debba coniugare estetica, sostenibilità e cura, trasformando la tecnica in benessere.

La Council House 2 di DesignInc a Melbourne integra soluzioni avanzate per il clima e il risparmio idrico, rendendo la sostenibilità un elemento visibile e identitario.

Allo stesso modo, il progetto di Alvisi Kirimoto

Maria Manetti Shrem Educational Center, centro educativo per i pazienti dell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze commissionato dall’Andrea Bocelli Foundation, crea spazi luminosi e accoglienti, dove la qualità ambientale favorisce la guarigione. Due esempi in cui bellezza e attenzione alle persone diventano principi guida del progetto.

Herzog & de Meuron, nuovo Stadio Bordeaux. 2011-2015
Consorzio Venezia Nuova, Mose. Modulo Sperimentale Elettromeccanico. 2003-2020
Alvisi Kirimoto. Maria Manetti Shrem Educational Centre. Firenze. 2024
YOU IMAGINE IT, WE BUILD IT

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PREMI INTERNAZIONALI DEDALO MINOSSE

2005-2006

GALLERY IN KIYOSATO

Committente Joji Aonuma

Progetto Satoshi Okada architects

2007-2008

JESOLO LIDO VILLAGE

Committente Hobag (Peter Reichegger)

Progetto Richard Meier and Partners Architects

2010-2011

BMW WELT

Committente BMW

Progetto Coop Himmelb(l)au, Wolf D. Prix

W. Dreibholz & Partners

2013-2014

VILLA KOGELHOF

Committente Ton Zwijnenburg

Progetto Paul de Ruiter

2016-2017

THE RING OF REMEMBRANCE

Committente Région Hauts-de-France

Progetto Philippe Prost Atelier d’Architecture

2018-2019

MOUNT HERZL NATIONAL MEMORIAL

Committente Department of Families and Commemoration, Branch of the Ministry of Defense of Israel

Progetto Kimmel Eshkolot Architects

2021-2022

SWALES - J.S.T. HARRISBURG PRODUCTION ENGINEERING CENTER

Committente J.S.T. Connector (Atsuhiro Nishimoto)

Progetto Ryuichi Ashizawa

PREMI ALA ASSOARCHITETTI

2005-2006

DITTA NARDINI

Committente Giuseppe Nardini

Progetto Massimiliano Fuksas

2007-2008

NUOVI UFFICI SMEG

Committente Smeg (Roberto Bertazzoni)

Progetto Guido Canali, Canali Associati

2010-2011

MUSEUM OF CONTEMPORARY ART KRAKOW

Committente Gmina Miejska Krakow, Zarzad Budynkow Komunalnych

Progetto Claudio Nardi (capogruppo) e Leonardo Maria Proli

2013-2014

SALEWA HEADQUARTERS

Committente Salewa Oberalp

Progetto Park Associati, Cino Zucchi Architetti

PREMI ALA FONDAZIONE INARCASSA

2016-2017

THE ‘BLUFF’ VILLA IN THE CHILTERNS

Committente Alastair Holberton

Progetto Lazzarini Pickering

2018-2019

WORKSHOP RICOSTRUZIONE

Committente Trust Nuova Polis

Progetto Mario Cucinella Architects

2021-2022

RIQUALIFICAZIONE ARCHITETTONICA E FUNZIONALE

DEL CAPANNONE 18 NELL’AREA EX-OFFICINE REGGIANE

Committente STU Reggiane

Progetto Andrea Oliva

Il Premio Dedalo Minosse alla committenza di architettura verso i trent’anni di storia

Talento e responsabilità sono le due parole attorno alle quali ruota la costruzione del Dedalo Minosse, l’unico premio internazionalmente riconosciuto interamente dedicato ai committenti di architettura.

Il riconoscimento nasce nel 1997, per iniziativa di Ala Assoarchitetti & Ingegneri, e si svolge ogni due anni a Vicenza. Alla base del Premio l’idea che ogni opera di qualità è resa possibile non solo dall’ingegno dell’architetto ma anche dall’apporto del committente, figura necessaria e fondamentale nell’individuazione di obiettivi, ricadute sociali e ambientali, oltre che nel raggiungimento della necessaria sostenibilità economica.

Scriveva il Filarete nel XV secolo: “Lo edificio si rasomiglia a l’uomo: sì come niuno per sé solo non può generare senza la donna un altro, così colui che vuole edificare bisogna che abbia l’architetto, e insieme con lui ingenerarlo, e poi l’architetto partorirlo e poi, partorito che l’ha, l’architetto viene a essere la madre d’esso edificio”.

Accanto a queste due figure essenziali

aggiungiamo i costruttori, i produttori di componenti, i decisori, senza l’apporto dei quali ogni sforzo è vano, e infine gli utenti, destinatari diretti o indiretti che siano dell’opera. Con queste premesse il Premio Dedalo Minosse racconta storie di relazioni proficue, nelle quali si è compiuto un processo virtuoso, e di opere realizzate, che sono state consegnate alla comunità per iniziare la loro vita. Sarà il tempo poi a decretare il successo di ogni intervento, destinato a invecchiare bene o male, ad essere amato, odiato o sopportato, ad integrarsi o ad essere rigettato … proprio come un essere vivente che viene al mondo.

Il nome del Premio richiama alla mente, in Occidente almeno dove nasce, il primo architetto, Dedalo, e il primo committente, Minosse, re di Creta. Un mito, quello su di loro, in cui conflitto, ingegno, creatività, potere sono la rappresentazione simbolica dell’attività umana di trasformazione della natura e della cultura come contenitore del vivere sociale, in cui si combatte e si fa la pace. Il nome evoca scherzosamente, ma con grande consapevolezza e realismo, la

natura di una relazione di per se stessa portatrice di grandi risultati, compromessi necessari, lotte e ricomposizioni delle stesse. Ogni realizzazione non è un processo lineare ma è il frutto di una ricerca continua, di passi avanti e indietro, di percorsi difficili, di sentieri imboccati e poi abbandonati, in cui il Premio snoda un filo che, come quello di Arianna, conduce ad una soluzione. In tale ottica i componenti del comitato scientifico e della giuria del Premio sono scelti non solo tra progettisti, ma anche tra imprenditori, amministratori, giornalisti, scrittori, critici, artisti che siano particolarmente sensibili al ruolo che l’architettura può avere nella vita delle persone e che ci aiutino a gardare oltre la contingenza, in un futuro che sia però radicato nelle comunità. Tra i membri della giuria ricordiamo negli anni Stanislao Nievo, Oliviero Toscani, Veronica Marzotto, Paolo Caoduro, Rodrigo Rodriquez, Michelangelo Pistoletto, Cesare Maria Casati, e tra gli architetti Odile Decq, Boris Podrecca, Piero Sartogo, Peter Eisenman, Mario Botta, Toyo Ito, Kengo Kuma. Il comitato scientifico interdisciplinare di

volta in volta individua i criteri di selezione e le linee guida del Premio, che cambiano con il mutare della società, degli equilibri economici e sociali, delle aree geografiche che si affacciano alll’orizzonte, cercando di individuare le urgenze in corso, ma soprattuto le anticipazioni di soluzioni di problemi futuri. Sono pertanto valutati con grande attenzione i temi della sostenibilità economica e ambientale, l’uso di energie e risorse rinnovabili, la sostenibilità sociale, l’inclusione e la visione intergenerazionale, l’applicazione del Design for All, l’uso innovativo di tecnologie, sistemi e materiali, la valorizzazione e la conservazione del paesaggio, del patrimonio architettonico, delle tradizioni e dei linguaggi locali, l’approccio multidisciplinare, l’integrazione tra arte e architettura, l’individuazione di nuovi modi del convivere.

Gli oggetti candidati possono essere di grandi o piccole dimensioni, dal progetto di interni sino alla scala urbana, territoriale, paessaggistica o infrastrutturale, dall’abitazione privata al luogo per il lavoro, la cultura, il benessere, alla salute. Quello che conta è il processo.

Nell’edizione 2007/2008 del Dedalo Minosse è la nuova sede di Smeg a Guastalla che il presidente della società Roberto Bertazzoni commissiona allo studio di Guido Canali, a ricevere il premio Ala Assoarchitetti.

I premi

La giuria attribuisce cinque Premi e circa venti riconoscimenti a committenti di qualsiasi Paese che abbiano contribuito, in sintonia con il proprio progettista, a determinare la realizzazione di opere di particolare valore architettonico negli ultimi cinque anni: il Premio Internazionale Dedalo Minosse; il Premio Internazionale Dedalo Minosse - Occam Under 40 a un committente che abbia incaricato un giovane progettista; il Premio AlaFondazione Inarcassa ad un committente che abbia incaricato un progettista italiano; e il Premio Ala Under 40 a un Committente che abbia incaricato un giovane progettista italiano.

Dal 2025 è previsto anche un quinto Premio assegnato da Fondazione Inarcassa, per l’integrazione tra architettura e ingegneria,

con l’idea che diviene sempre più urgente di integrare gli aspetti compositivi con quelli tecnologici. Infine, il ‘Premio Internazionale Andrea Palladio’ che viene attribuito, su invito del comitato promotore, a un committente che si sia distinto negli ultimi vent’anni per un’attività particolarmente illuminata.

Perché Vicenza

Vicenza è la città nella quale un gruppo ristretto di architetti di Ala, che è associazione nazionale, ha inventato questo premio. Vicenza è la città di Andrea Palladio, uno dei maggiori architetti di tutti i tempi, che con Giangiorgio Trissino, suo committente, ha avuto un legame esemplare, fatto non soltanto di capolavori, investimenti economici e visioni di architettura, ma anche di investimento culturale: senza Trissino non avremmo avuto Palladio. Un committente colto e illuminato ha trasformato un giovane talentuoso, Andrea della Gondola appunto, in Andrea Palladio, insigne architetto e trattatista, imitato e letto in tutto il mondo da secoli. Vicenza poi è anche una città adatta a un premio come questo perché sposa in maniera esemplare cultura e impresa sin dal ’400 ed è contraddistinta sin da allora da un tessuto economico e produttivo diffuso, che ha generato un’intensa attitvità internazionale di esportazione.

La reincarnazione tra XX e XXI secolo di Dedalo e di Minosse nel Premio a loro dedicato si compie ancora una volta quindi,

ed è nel 2025 la tredicesima edizione.

Come si svolge il Premio

Venendo alla tredicesima edizione, nel corso dell’anno 2025 si concentrano il bando, la seduta della giuria e la grande manifestazione a Vicenza: l’11 ottobre al Teatro Olimpico ha luogo la premiazione, che vede avvicendarsi sul palco committenti da tutto il mondo in una grande festa, definita da alcuni ‘la notte degli Oscar della Committenza’. Sino al 2 novembre è poi allestita, in Basilica Palladiana, la mostra multimediale dei progetti selezionati, una rassegna di circa 70 opere raccontate con disegni, fotografie, plastici e video. Sempre in Basilica in tale periodo e proprio nel cuore della Mostra si svolge il “Forum della Committenza” giunto alla terza edizione, una serie di eventi dedicati agli addetti ai lavori e al grande pubblico. L’anno successivo agli eventi vicentini, e quindi in questo caso nel 2026, è il turno del roadshow che porta il Premio in diverse tappe italiane e nel mondo a raccontare storie e mostrare i progetti premiati. Il roadshow è una imperdibile opportunità di raccogliere nuovi spunti e contributi di idee in luoghi, culture e contesti sociali molto diversi gli uni dagli altri. La pandemia aveva fatto temere che la riviviscenza dei nostri due eroi nel mondo contemporaneo fosse giunta al traguardo. E invece nel 2022 si è svolta un’edizione con risultati inaspettati. Dopo tre anni di duro lavoro, il Premio prosegue e Ala-

A sinistra, la sede Salewa di Bolzano, progetto di Park Associati e Cino Zucchi Architetti, premio Ala Assoarchitetti nell’edizione 2013/2014.

Sotto, The Ring of Remembrance, monumento alla Grande Guerra a nord di Arras, commissionato allo studio di Philippe Prost dalla Région Hauts-de-France, Premio Internazionale Dedalo Minosse edizione 2016/2017.

Assoarchitetti nutre la speranza di vederlo proseguire ancora. Accanto ai sostenitori italiani pubblici e privati, rimasti a fianco della manifestazione, altri se ne sono aggiunti di nuovi. Il numero dei committenti iscritti è rimasto sostanzialmente pari a quello delle passate edizioni e, come sempre, è difficile, talvolta doloroso, provvedere alla pur necessaria selezione. I progettisti, architetti e ingegneri, non hanno cessato di promuovere la partecipazione dei loro migliori committenti al Premio. Anche se quest’ultimo è stato un complicato quinquennio. Nell’edizione 2022 non erano mancati progetti meditati e interessanti, ma forse si era osato poco e innovato ancor meno. Ci si è forse soffermati a riflettere? Il tema della sostenibilità ha accomunato tutti, con risultati più o meno concreti, con approcci più o meno coerenti. Alcuni cambiamenti poi si osservano con qualche chiarezza già dalla tipologia della partecipazione al Premio. Il più evidente è di carattere, per così dire, geografico. Senza voler trarre indicazioni decisive, per la prima volta da

2021/2022. Il Premio

Internazionale viene assegnato a Swale, la sede statunitense della Jst Connector disegnata dall’architetto Ryuichi Ashizawa.

quando esiste la manifestazione si nota una forte participazione dall’Asia, con una crescita – oltre che dal Giappone, già ben presente – di India, Pakistan, Thailandia, mentre è in calo quella di una parte dell’Est europeo, per la quale avranno in qualche misura influito forse i noti, terribili eventi in Ucraina. È possibile che la congiuntura economica e politica abbia determinato, in tali quadranti geopolitici, particolari priorità strategiche e obiettivi finanziari. Preponderanti in questo quinquennio le Americhe, il Medio e l’Estremo Oriente. Vivace e qualificata la partecipazione dell’Italia.

Un altro possibile segnale di cambiamento la minore incidenza di progetti firmati da grandi nomi internazionali, sempre presenti in passato. Segno del passaggio a una nuova stagione del rapporto fra

architettura e committenza? È presto per dirlo. Quel che possiamo vedere è che alla grandiosità delle opere è subentrata una calibrata risposta alle esigenze di qualità della città e della vita dei suoi abitanti, con un particolare focus sulla rigenerazione dei quartieri e degli spazi pubblici, sui servizi e sulle attrezzature per la cultura. Quanto ai luoghi di lavoro, è evidente l’aspirazione verso un maggiore comfort: maggiore luminosità, ariosità e personalizzazione dell’ambiente attorno alle persone, ma anche ricerca di un’integrazione con l’ambiente esterno e con il paesaggio.

Il dato più evidente è certo la nuova grande attenzione per la qualità dell’abitare privato e collettivo, con particolare considerazione per la varietà delle esperienze che riguardano gli individui, le famiglie, le categorie deboli che, con il generale allungamento della speranza di vita, sono destinate a costituire una parte crescente delle società. È questa una visione che ha raggiunto risultati particolarmente interessanti nei progetti che intervengono nella densità di quartieri metropolitani di città come Hanoi, Città del Messico, Buenos Aires, Delhi, Tokio, rispetto ai quali i committenti hanno espresso motivazioni legate alla convivenza intergenerazionale, al rapporto tra solidarietà sociale e salvaguardia delle tradizioni e delle identità delle comunità, specie in presenza di rapidi cambiamenti economici e sociali. Cosa accade invece in Europa e in Italia? La densità è anche qui il problema ma il segno è opposto: la decrescita

Il centro socio-sanitario

Nuovo Picchio di San Felice sul Panaro, una delle opere commissionate dal Trust Nuova Polis Onlus a Mario Cucinella nell’ambito del Workshop Ricostruzione, premio Ala Assoarchitetti Fondazione Inarcassa 2018/2019.

demografica. La smaterializzazione delle attività, il nuovo rapporto tra abitare e lavoro e tra vita privata e pubblica, le nuove abitudini negli spostamenti, elementi già presenti nell’ultimo decennio e accelerati dalla pandemia, richiedono nuovi modi di convivenza.

Segni, questi, forse di una rivoluzione, di cui vedremo gli eventuali sviluppi nelle future edizioni del Premio. Ci auguriamo che il prossimo tassello sarà da un lato la graduale sostituzione dei quartieri periferici, frettolosamente e spesso brutalmente costruiti o trasformati negli ultimi settant’anni, e dall’altro la valorizzazione dei centri urbani, spesso di grande qualità, che hanno via via perso il loro carattere e ruolo. Argomenti, questi, di cui tratta il già citato ‘Forum della Committenza’, nel quale intervergono committenti, amministrazioni, progettisti ed esperti di diverse discipline, assieme a coloro che, senza essere architetti, comprendono l’incidenza dell’architettura sulla vita delle persone e delle comuinità, facendosi destinatari dell’appello all’incremento della qualità che è la missione profonda di Ala Assoarchitetti e del Premio.

Solo attraverso il dialogo interdisciplinare tra i diversi attori del processo si possono mettere in moto progetti tanto complessi e ad ampio orizzonte per i quali servono non solo le competenze, ma anche la visione politica che tracci un destino per la nostra socialità. Dal nostro piccolo ma ben posizionato osservatorio proviamo a dare un contributo ■

Poltrona Narì, design Andrea Pedrali, Pedrali. Foto Andrea Garuti. Styling Studio Salaris. Art direction Studio FM.

Venti anni di Design in Italia

/ 2025

20 anni di Design Economia sostenibilità progetto

In queste pagine, la libreria Nepi disegnata da Giulio Iacchetti e il tavolino Orio progettato da Dario Gaudio in due collage realizzati da Leonardo Sonnoli e Irene Bacchi per Internoitaliano, il brand fondato da Giulio Iacchetti e Silvia Cortese. Foto Massimo Gardone.

di Pierluigi Molteni
Un testo critico sulle tendenze le specificità e i prodotti che hanno segnato l’evoluzione del settore nell’ultimo ventennio

Ripercorrere gli ultimi 20 anni del progetto di design richiede prima di tutto un modello adeguato di rappresentazione per restituirne nella maniera più interessante possibile la crescente complessità e interconnessione. Una semplice timeline darebbe sicuramente conto dell’accelerazione che hanno subito gli accadimenti più significativi, testimoniandone il susseguirsi sempre più sincopato. Ma la linearità del modello non renderebbe giustizia dei numerosi cambi di traiettorie e direzioni che il mutare dell’economia, della società, dei comportamenti, delle tecnologie, della cultura (lascio a voi l’ordine di importanza e di interdipendenza con cui mettere in sequenza queste categorie secondo causa ed effetto) hanno introdotto in quel campo sempre più allargato che la parola design ha assunto nel corso del tempo.

Forse il medium più adatto sarebbe quello cartografico, per individuare macroaree, territori, regioni e provincie, capoluoghi, piccoli centri e la rete di strade e autostrade che mette tutto in connessione. Una mappa su più livelli che restituisca l’intenso intrecciarsi tridimensionale di un mondo del progetto sempre più pervasivo, che ha progressivamente abbattuto molte delle barriere tra chi progetta e chi utilizza, tra alto e basso, tra grande, piccola e piccolissima serie e tanto altro ancora.

Possiedo dunque sono?

Se dovessimo trovare un inizio a un primo importante mutamento di ruolo e prospettiva del design, e quindi un primo territorio da esplorare per iniziare a tracciare la nostra mappa, credo potremmo datarlo al 2007, anno di presentazione del primo iPhone. È il momento in cui si fondano le premesse perché lo smartphone cessi di essere semplice attrezzo e diventi touch point di un intero ecosistema, vera e propria ‘protesi abilitante’. Quello che fino ad allora era un mondo chiuso di oggetti con chiare e semplici funzioni

precostituite, la cui gestione più sofisticata era demandata solo a una stretta cerchia di specialisti, si apre all’interazione dell’utente comune. È a partire da qui che si innesca un profondo e significativo mutamento del concetto stesso di design, allargandone il campo di applicazione al mondo dei sistemi e dei processi e spostando il focus dell’utente dal possesso all’utilizzo. Questo cambio di prospettiva rende finalmente agibili comportamenti nuovi, che iniziano ad affacciarsi in quegli anni. È grazie al design dei servizi che Airbnb nel 2007 inizia a mettere in contatto giovani viaggiatori, curiosi di immergersi nei contesti, e locals accoglienti con case troppo grandi da mantenere; è grazie allo stesso approccio che Uber nel 2009 mette a sistema la necessità di utenti metropolitani di percorrere in maniera efficiente e rapida città sempre più grandi e la disponibilità di persone automunite interessate a integrare le proprie economie interpretando la flessibilità d’uso e di servizio richieste. Ciò ha prodotto, insieme a storture spesso importanti rispetto al concept iniziale e ai suoi propositi, anche un profondo ripensamento del campo di applicazione del mindset e delle competenze dei designer.

Economia, sostenibilità e progetto Il passare dal possesso all’esperienza deriva anche da un progressivo diverso sentire di una società in profonda trasformazione, specie a partire da crisi economiche di portata globale, come ad esempio quella fortemente traumatizzante del 2008. Queste crisi mettono in discussione la fiducia in un modello di sviluppo senza limiti, basato sulla rassicurante ineluttabilità delle ‘magnifiche sorti e progressive’. Ciò induce a un diverso approccio al consumo che fa i conti non solo con risorse economiche improvvisamente ridotte, ma anche con l’affermarsi di altri valori e consapevolezze. Mi riferisco a un montante interesse per

la sostenibilità ambientale che, divenuta necessità, riesce a intercettare in maniera sempre più laica utenti diversi. Se prima infatti la sensibilità ecologica era una sorta di tutto o niente, un approccio che escludeva chi non era in grado di fare una scelta di campo netta e radicale, inizia ora a farsi strada un concetto più inclusivo e pragmatico. Si sviluppa una cultura, sia da parte degli utenti che dei progettisti, seriamente interessata a una concreta sostenibilità di prodotti e processi. Antesignano di questo approccio è Gabriele Centazzo con i suoi progetti per Valcucine, in cui utilizza un rigoroso ragionamento progettuale rispetto al corretto uso di materiali sostenibili e riciclabili, senza derogare però rispetto a stile e desiderabilità.

La contrazione economica porta a ragionare non più per grandi numeri ma per piccole serie, introducendo pratiche di autoproduzione che ripropongono un nuovo interesse per il ‘fatto a mano’. Richard Sennett ne scrive diffusamente nel 2008 in L’uomo artigiano e su quell’onda anche Stefano Micelli riprende concetti simili nel 2011 in Futuro Artigiano con particolare riguardo alla situazione italiana e alle sue prospettive e potenzialità. Questi testi ridonano al ‘saper fare’ un senso di necessità contemporaneo, senza nessun tipo di nostalgico revival. Un’esperienza che mi sembra significativa di questa nuova attenzione che contempera visione progettuale e competenza artigianale è Internoitaliano, iniziativa ideata e promossa da Giulio Iacchetti nel 2013 e tuttora in essere, basata su una logica di artigianalità diffusa. Simile per approccio ma più focalizzata sulla possibilità di far viaggiare le idee prima ancora dei prodotti è SlowD, una start up che puntava a promuovere presso gli utenti il progetto che, una volta acquistato dal cliente finale, veniva fatto realizzare dall’artigiano più vicino al suo luogo di destinazione finale: una sorta di Km 0 ante litteram del prodotto di design.

In alto. Le lampade SuperWire disegnate da Formafantasma per Flos nell’allestimento per lo showroom di Corso Monforte curato dagli stessi designer, in occasione della Milano Design Week 2025.

Sopra. Estetica industriale, ergonomia, sensibilità moderna e un lieve cenno nostalgico di memoria nella collezione di rubinetti Flora disegnata da Vincent Van Duysen per Fantini Rubinetti.

Quella dell’autoproduzione come luogo di sperimentazione più libera è stata un campo praticato da diversi progettisti, tra i quali occorre citare, per qualità e coerenza di pensiero, Odo Fioravanti. Nel suo caso l’autoproduzione è intesa, oltre che come modo per riappropriarsi del processo creativo al di fuori di logiche commerciali troppo pressanti, anche come riflessione più generale sulla sostenibilità nel design contemporaneo. Uno dei casi più interessanti dell’evoluzione di questo pensiero critico più generale su approcci e contesti è senz’altro il lavoro di Formafantasma. Lo studio, fondato nel 2009 da Andrea Trimarchi e Simone Farresin, è quello che con più coerenza e convinzione ha condotto negli anni un’indagine sistemica, scientificamente approfondita e ideologicamente laica sul tema della sostenibilità, spostando l’attenzione dalla forma (che come denuncia il nome dello studio diventa meno necessaria e quasi in secondo piano rispetto al processo di ricerca e pensiero) al senso del nostro agire progettuale.

Nuovi interni per nuovi usi Il tema del senso è diventato con il passare degli anni sempre più centrale. Anche l’evento pandemico ha contribuito ad aprirci gli occhi su come avessimo inconsapevolmente trasformato una porzione sempre più ampia di territorio nella nostra casa necessaria. Questa situazione ci obbligava però a dormire in abitazioni sempre più piccole e monofunzionali, a lavorare in luoghi spesso non troppo accoglienti e quasi sempre inutilmente distanti, a mangiare nei dintorni di questi per pura necessità, a fare la spesa con un ulteriore inutile spostamento in funzione della disponibilità di parcheggio e, infine, a rientrare nella nostra piccola abitazione per riposare ed essere in grado di ripetere la stessa sequenza all’infinito. L’essere obbligatoriamente reclusi in casa ci

ha fatto ripensare il nostro rapporto con gli spazi inadeguati a cui eravamo ormai abituati. Il non potersi allontanare ci ha fatto scoprire quanto povere di qualità e servizi fossero le immediate vicinanze, o come l’abitazione, a causa delle web call a cui siamo stati costretti, fosse spesso inadatta a essere esposta. Queste letture dell’esistente ci hanno spinto a riconsiderare esigenze e, quindi, comportamenti e prodotti. L’ambito domestico ha richiesto e conquistato, ad esempio, un maggior grado di flessibilità, potendo essere allo stesso tempo luogo di vita, di studio e di lavoro. Questo ha provocato una serie di interessanti ‘meticciamenti’ in alcuni campi estremamente specialistici. Penso, ad esempio, al mondo dell’arredo per l’ufficio, da tempo autoconfinatosi in una propria bolla di oziosa ripetività, che ha colto nei casi migliori la palla al balzo per conquistare nuovi pubblici. Cito per semplicità un solo caso esemplare: Manerba è un’azienda nata e nota in quell’ambito che ha cercato, con convinzione e sensibilità, un nuovo approccio e linguaggio ‘umanizzando’ e ‘addomesticando’ la tecnicità specialistica. Sembra banale dirlo oggi, ma che vita professionale e vita personale meritino ambiti e luoghi con uguale dignità e qualità è una consapevolezza abbastanza recente e purtroppo non ancora così comune e diffusa. Un’altra eredità post pandemica è la sempre più sentita necessità di spazi all’aperto, comuni o privati, che ha fatto esplodere una diffusa richiesta di maggiore qualità di tali spazi, vere e proprie estensioni dell’indoor. Questo ha portato le aziende specializzate a qualificare, innovare e ampliare velocemente la loro tradizionale proposta di prodotti e quelle tradizionalmente vocate agli interni a studiare e produrre linee di arredi per outdoor aventi la stessa filosofia stilistica in un’ottica di continuità in&out.

La casa tecnologica

La necessità di sviluppare prodotti economicamente sostenibili anche per volumi più ridotti di vendita deriva anche dal fatto che le case diventano sempre più costose e sempre più piccole. Cessano di essere il primo obiettivo dei più giovani, a cui sacrificare molta parte del proprio reddito, sia perché questo è sempre più scarso e intermittente, sia perché non averla in proprietà favorisce la tendenza al ‘nomadismo’ contemporaneo che induce a spostarsi prima per studio e poi per inseguire le opportunità di lavoro. Il mercato dei prodotti per gli interni diventa sempre meno trasversale, suddividendosi entro categorie ben determinate. I grandi numeri di una produzione a scala più industriale sembrano negli anni restringersi ad alcuni specifici settori. Tra questi, c’è ad esempio quello dei prodotti dedicati agli ambienti domestici più tecnologici come il bagno e la cucina. La loro fortuna è anche esito di un sempre più diffuso interesse per un generale wellbeing domestico per cui attrezzature nate per un uso professionale diventano interessanti per la fascia medio-alta di utenti residenziali. Un esempio è quello di Starpool, un’azienda che ha lavorato su un’accurata ottimizzazione di dimensioni e componenti delle sue saune e bagni turchi, permettendone così un’applicabilità non come inutile esibizione di lusso ma come vera e propria routine salutistica. Sanitari e miscelatori, essendo generalmente prodotti long-lasting più resistenti al passare delle mode, permettono alle aziende di ragionare su quantitativi importanti e, quindi, in grado di sopportare investimenti consistenti. Alcune aziende di questo settore hanno creduto, e coerentemente investito, in una loro precisa riconoscibilità stilistica, coinvolgendo anche progettisti non ‘specialisti’, abituati ai palcoscenici più tradizionali del prodotto di interior. Penso, ad esempio, al lavoro molto importante fatto da Fantini Rubinetti con progettisti come Piero Lissoni, Elisa Ossino, Vincent Van Duysen.

In alto. La Hemispheres Collection firmata da Dimorestudio per Hosoo presentata all’interno dell’Atelier Osanna Visconti, durante la Milano Design Week 2025. Foto Silvia Rivoltella.
A sinistra. Il sistema Stem progettato da Philippe Nigro per Manerba.

Contract e progetto

Questi nomi ci aprono all’esplorazione di un ulteriore territorio del progetto che ha avuto un’interessante evoluzione e sviluppo negli ultimi 20 anni. I progettisti citati sono divenuti con il tempo efficaci testimonial di un approccio globale che spazia in maniera trasversale tra tutti gli ambiti e le diverse scale del progetto: architettura, interior e prodotto. Si tratta, in altre forme e dimensioni, di una sorta di riproposizione di quel professionismo colto che è stato insieme complice e artefice del successo dell’industria italiana del mobile dell’immediato dopoguerra. Questi nuovi protagonisti sono sempre più organizzati, con strutture professionali adeguate alla mole e alla complessità degli incarichi, spesso di rilievo internazionale, ma sono anche molto efficacemente spendibili dal punto di vista comunicativo. All’elenco dei nomi già citati potremmo aggiungere Michele De Lucchi, Patricia Urquiola, ACPV Architects di Antonio Citterio e Patricia Viel, solo per citare i più noti ed esemplificativi.

La complessità dei temi di progetto richiede una filiera realizzativa efficientissima che trova nel contract la sua formula più adatta. I volumi che si riescono a sviluppare in questi ambiti permettono ai designer e alle aziende di concepire prodotti ad hoc che diventano spesso parte delle loro proposte a catalogo, in una sorta di circolo virtuoso tra occasioni di progetto e di prodotto. La specifica occasione progettuale sembra anzi essere il vero motore della produzione, per cui per molte aziende diventa più interessante utilizzare il catalogo per dimostrare il loro saper fare, giocando poi le proprie fiches nella customizzazione ad hoc. Naturalmente questo è un mercato destinato a una specifica fascia alto-spendente, dove qualità, velocità realizzativa, riconoscibilità e comunicabilità sono elementi fondamentali dell’intero processo.

Sartorialità e progetto

Il tema del custom made fa parte però anche di quella tensione all’esclusività che è la cifra distintiva dell’extralusso: il pezzo unico, più simile all’altissimo artigianato o al multiplo d’arte, è l’altro estremo del mondo del design. Prodotti sempre più espressione di arte applicata sono venduti a prezzi elevatissimi anche attraverso canali diversi dai tradizionali circuiti degli showroom e più vicini alle gallerie d’arte. Negli esempi più interessanti questo insieme di pezzi realizzati sartorialmente fa parte, però, di un linguaggio espressivo frutto di un coerente percorso di ricerca. Penso, ad esempio, ad alcuni interni di Vincenzo De Cotiis dove elementi di arredo realizzati in fusione di bronzo, superfici trattate con patine preziose concorrono, insieme a una spazialità quasi teatrale degli ambienti interni, all’espressione di una forte autorialità, una totalizzante visione unitaria di forte caratterizzazione artistica. All’interno di questo stesso territorio del lusso e dell’esclusività, ma sul confine opposto, sta il fenomeno del recupero vintage. Un recupero che da scelta affettiva, etico-politica o di necessità economica, è diventato in anni più recenti vero e proprio selezionatissimo ‘antiquariato’ di un design colto ed esclusivo. I singoli elementi, originali o frutto di riedizioni curate con rigore filologico, vengono riutilizzati secondo declinazioni stilistiche più contemporanee, aperte anche alla contaminazione e all’accostamento dissonante, come nel caso dei progetti di Dimorestudio.

Gli anni della luce

Un territorio che ha attraversato una vera e propria radicale rivoluzione negli ultimi 20 anni è il mondo dell’illuminazione. La sempre più massiva diffusione del led ha comportato una profonda ridefinizione dell’architettura del corpo illuminante. La miniaturizzazione dei componenti ha spinto i progettisti a occuparsi in maniera

sempre più accurata dell’effetto luminoso. Ridotti i rischi di un appiattimento stilistico ed espressivo dell’oggetto-lampada durante i primi anni di passaggio tra le diverse tecnologie, si è assistito invece al fiorire di una rinnovata ‘poetica della luce’, una sua nuova centralità rispetto al progetto degli interni sia perché più duttile rispetto alle esigenze dei progettisti, sia perché più libera rispetto ai suoi precedenti vincoli. Due dei massimi interpreti di questa evoluzione del ruolo della luce e delle sue nuove potenzialità espressive rispetto alle nuove tecnologie sono stati sicuramente Mario Nanni, con la sua Viabizzuno, e Davide Groppi. Sono progettisti-imprenditori (anche se la definizione è parecchio riduttiva rispetto al loro ruolo di innovatori) che hanno saputo interpretare le opportunità date dal passaggio tecnologico, reinventando completamente il rapporto tra luce e progetto e tra azienda e progettista, pur all’interno di una propria coerente libertà di ricerca sul prodotto e di pensiero poetico.

Come detto in apertura, ognuna delle aree che ho cercato di individuare, e delimitare per esigenza di sintesi, potrebbe condurre a ulteriori interessantissimi territori, meno esplorati o più periferici, di ricerca, pensiero e prodotto. Il mutare costante e accelerato dei contesti, culturali, economici, sociali, e delle tecnologie a disposizione suggerisce continuamente nuovi approcci e, quindi, nuovi potenziali prodotti e servizi. In un mondo già sovraccarico di oggetti e apparati si sente soprattutto un impellente bisogno di nuove domande di necessità e senso. Ma anche di un’attenzione più allenata e di una sensibilità più acuta per cogliere le traiettorie più promettenti e gli obiettivi più utili a questo nostro sempre più ingombrante abitare il mondo.

I campioni del Design

Abbiamo chiesto a 24 designer qual è l’oggetto più significativo degli ultimi 20 anni. Quello che avrebbero voluto progettare loro

1 Marco Acerbis

Negli ultimi 20 anni il design si è concentrato su proposte tecnico-commerciali, facendo venire meno quell’istinto creativo, talvolta un po’ folle, che fa nascere delle icone. Le innovazioni oggi avvengono in situazioni poco tangibili come la parte software, ad esempio. Ma questo difficilmente si traduce in oggetti il cui design rimane nel tempo. In questi casi prevale, infatti, una logica di aggiornamento costante della parte intangibile che mette in secondo piano la forma dell’oggetto. Se proprio dovessi indicare qualcosa, però, direi l’ombrello. Un prodotto così iconico che il semplice disegno di un bambino riesce a richiamarne il senso di protezione.

2 Felicia Arvid

Alcove di Ronan ed Erwan

Bouroullec per Vitra è, secondo me, uno dei progetti di design più significativi degli ultimi vent’anni. È stato un progetto all’avanguardia per il suo tempo, perché ha saputo interpretare con semplicità ed eleganza le future esigenze degli ambienti di lavoro. Per me rappresenta una soluzione progettuale molto intelligente e un precursore dei divani con schienale alto e dei sistemi modulari di arredo, pensati per gli spazi di lavoro digitali e flessibili che conosciamo oggi.

3 Basaglia+Rota Nodari

Uno degli oggetti più significativi degli ultimi 20 anni secondo noi è la lampada Poldina di Zafferano. È un oggetto che avremmo voluto disegnare noi perché rappresenta un archetipo nelle forme, che è stato interpretato coniugando esigenze e tecnologie contemporanee. Un oggetto senza tempo e democratico. La lampada racchiude tutti i valori che ci guidano nel nostro lavoro di architetti e designer. Progettiamo per creare oggetti e architetture senza tempo che siano funzionali alla vita dei loro fruitori e che rappresentino un valore aggiunto per le aziende che li realizzano.

4 Federica Biasi

Non è certo degli ultimi 20 anni, ma scelgo la Chaise Longue LC4 di Le Corbusier, Pierre Jeanneret e Charlotte Perriand prodotta da Cassina: un archetipo del design moderno dove forma e funzione raggiungono una sintesi assoluta. Se i primi ne definiscono il linguaggio strutturale, è Perriand a ridefinire il rapporto tra oggetto e corpo, superando il rigore razionalista con una concezione dinamica dell’ergonomia. Non si limita a progettare un oggetto, ma concepisce una nuova relazione tra tecnica e sensibilità corporea, anticipando una visione del design in cui l’ergonomia non è un vincolo, ma una possibilità espressiva.

Foto
Filippo
Gastel

5. Calvi Brambilla

La televisione Serif disegnata dai fratelli Bouroullec per Samsung è un instant classic del 2015 che ha ribaltato i luoghi comuni dell’elettronica di largo consumo. Anziché concentrarsi sulla performance, i designer hanno guardato alla TV con uno sguardo a metà tra il nostalgico e il decorativo: un approccio umanistico che si inserisce nel filone esplorato in passato da Mario Bellini con Brionvega e da Philippe Starck con Saba. La dimostrazione della bontà di questo approccio è che Serif è in produzione invariata da più di dieci anni, mentre tutti gli altri prodotti simili vanno incontro a una rapidissima obsolescenza.

6. Fabrizio Crisà

È difficile identificare un solo oggetto di design per questi ultimi 20 anni. La vita di ognuno di noi è così mutevole che la risposta potrebbe cambiare continuamente. Dunque, segnalo l’ultimo prodotto che ho inserito nel mio elenco infinito: la nuova Fiat Grande Panda. Penso che questa macchina rappresenti un segnale di cambiamento, un ritorno alle origini con una visione al futuro. Oggi le automobili sono disegnate in modo magistrale, ma con la Grande Panda la Fiat ha segnato un punto. Un ritorno all’essenza, con un’estetica piacevole che racchiude molti elementi innovativi e di discontinuità. Sono convinto che diventerà un cult.

7. Dario De Meo

Non è facile rispondere perché sono tanti gli oggetti interessanti che sono stati progettati negli ultimi 20 anni ma, dovendo proprio indicare qualcosa, direi il cucchiaio per i tremori Gyenno. Un prodotto semplicissimo, in cui la tecnologia integrata permette di rilevare l’entità del tremore e adattare automaticamente la posata, bilanciando così il movimento involontario dell’utente. Questo permette a persone con disabilità di poter mangiare da sole. Si tratta, dunque, di un oggetto che dà una nuova libertà, con un impatto positivo sulla quotidianità

8. Luca De Bona

Io scelgo Coordinates, la lampada disegnata da Michael Anastassiades per Flos. Un prodotto che è al contempo minimale e decorativo, razionale e poetico. Una lampada adatta a diverse situazioni d’uso e a qualsiasi tipo di spazio, che starebbe bene in un edificio barocco così come in un’architettura minimale. Tutta la produzione di Anastassiades è affascinante proprio per questo, perché rende poetico quello che è tecnico. Ma questa lampada, in particolare, è stata uno spartiacque tra ciò che si è fatto finora con l’illuminazione e ciò che sarà il futuro grazie alle nuove tecnologie.

Scegliere non è semplice, ma il divano Costume di Stefan Diez per Magis è un progetto notevole. La struttura in polietilene riciclato e riciclabile e la sua composizione di materiali completamente separabili, dimostra come sostenibilità e bellezza possano coesistere, mentre la modularità permette una personalizzazione senza limiti. Ci piace l’idea di un divano che non sia rigido nelle sue forme, ma che si trasformi con noi, adattandosi ai cambiamenti. Il fatto che ogni componente sia sostituibile prolunga la sua esistenza e lo rende una vera risposta al tema della sostenibilità. Costume non è solo un esempio di design bello; è un manifesto di intelligenza progettuale.

Il Modular Artificial Reef Structure (Mars) di Alex Goad rappresenta un esempio virtuoso di sincronizzazione del progettista con i temi urgenti della nostra epoca. Il design deve continuamente aggiornarsi per rispondere a nuove necessità generando quindi nuove forme cariche di significato. Le emergenze climatiche (Timothy Morton le chiama Iperoggetti) sono troppo grandi per essere percepite e per questo diventano spettri generatori di ansia e senso di impotenza. Il progetto di Goad è invece una risposta concreta che prova a risolvere e dall’altro rende visibile un tema astratto e per questo è un oggetto indiscutibilmente contemporaneo e necessario.

11 Francesco Favaretto

Ci sono molti oggetti che avrei voluto disegnare, e tanti che spero di poter disegnare in futuro. Non è stato facile allora, e non lo sarà nemmeno arrivare per primi domani. Ma ci proveremo, sempre. A parte l’iPhone e tutto ciò che ha rivoluzionato il mondo dal punto di vista della tecnologia, un oggetto che mi ha sempre affascinato è Algue, il divisorio dei fratelli Bouroullec disegnato per Vitra ormai 20 anni fa. Apparentemente è un oggetto “in più” ma se pensiamo quando venne realizzato, ovvero quando gli open space iniziavano a prendere piede, fu veramente un pezzo molto intelligente che si può rendere più o meno fitto a seconda della privacy della quale si ha bisogno.

12. Diego Grandi

Dipende dal punto di vista: se dovessi dare una risposta legata alla mia esperienza professionale con il mondo delle superfici, individuerei nella lastra sottile di ceramica e nella tecnologia che l’ha consentita uno dei prodotti significativi che ha cambiato radicalmente la percezione del materiale e del suo utilizzo per la sua leggerezza, resistenza e versatilità, ma anche per il basso impatto ecologico che il materiale richiede in tutte le sue fasi. Se poi dovessi rispondere sulla base delle mie passioni, andando oltre il limite temporale dei 20 anni, avrei voluto inventare e disegnare il Minipimer. Geniale!

Foto Alberto Manca
Foto Marco Rossetto
9 DWA De Wachter Artesani

13. Giulio Iacchetti

È difficile indicare quali saranno gli oggetti ‘memorabili’ tra quelli disegnati negli ultimi 20 anni. Noi possiamo generare solo dei pronostici, poi sarà il rastrello della storia a stabilire cosa trattenere tra i suoi denti e cosa lasciare finire nell’oblio. Comunque, la mia scelta cade sulla piccola Ami della Citroën, in cui vedo l’autentica continuità con lo spirito della 2CV, ovvero cercare di ottenere tutto con poco. A differenza di altre microcar elettriche uscite in questi anni, l’Ami non strizza l’occhio al rétro, non si impigrisce su linee di vetture classiche, ma azzarda nuovi percorsi stilistici. È grigia perché grigia è la plastica con cui è fatta. E anche per questo fare a meno del colore, l’adoro. L’avessi disegnata io!

Uno degli oggetti più significativi degli ultimi 20 anni, che avrei voluto disegnare, è il

Dyson Pure. Più di un semplice accessorio domestico, è diventato un’icona di design e innovazione.

Non nasconde la tecnologia, ma la esibisce con eleganza, integrandosi inaspettatamente nei nostri spazi. Non è stato lui ad adattarsi a noi, ma il contrario.

Pur distante dalla mia poetica personale, trovo straordinario come ingegneria e design abbiano trasformato il vuoto in funzione, rendendolo un simbolo di leggerezza, armonia e necessità nel vivere contemporaneo.

15. Ilaria Marelli

Il Tablet penso sia l’oggetto recente che più ci ha cambiato la vita. È un hub di funzioni e servizi, con un appeal meno lavorativo di un laptop, e viceversa più usabile di uno smartphone per tutte le attività dove qualche pollice di schermo in più fa la differenza. Vorrei averlo disegnato? Qui sono combattuta perché sperimento quotidianamente i pro ma anche i contro della rivoluzione digitale (e relativi tools). Me la cavo dicendo che in fondo non potrei averlo disegnato perché è il risultato di un team, non del pensiero di un singolo designer.

16. Elisa Ossino

La Paper House di Shigeru Ban: un progetto straordinariamente anticipatore. Vorrei averla disegnata io per l’uso innovativo del cartone come materiale nobile, la forza estetica della ripetizione modulare e la capacità di creare un dialogo tra interno ed esterno. Un’architettura minimale ma espressiva e significativa, attenta all’economia circolare, che successivamente è stata sviluppata per affrontare l’emergenza nei contesti di crisi, restituendo al progetto anche una funzione etica e di utilità sociale.

14 Francesca Lanzavecchia
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Guido Stazzoni
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Daniel Farò
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Diego Alto

17 Lorenzo Palmeri

Scegliere un solo oggetto per rappresentare gli ultimi 20 anni è un compito per me quasi impossibile. Piuttosto, vedo un intreccio di trasformazioni silenziose che diventano parte della nostra quotidianità quasi senza che ce ne accorgiamo. Ci sono stati, certo, oggetti che hanno segnato un passaggio, ma più che da un singolo artefatto mi sembra che questi 20 anni siano stati caratterizzati da un movimento di fenomeni diversi: il telefono/ecosistema, le interfacce come ambienti, aziende/filosofia. Oggetti che sono materia, simbolo, servizio, esperienza, relazione.

La mia attenzione va a ciò che lega questi oggetti, quello spazio fluido in cui il design è connessione, infrastruttura, racconto.

18 Meneghello Paolelli

Restringendo il campo a un settore che amiamo molto –l’illuminazione – pensiamo che un’innovazione significativa sia stata quella delle portatili ricaricabili Led, una categoria nuova, resa possibile da uno step di tecnologia, che permette di usare la luce in modo nomade e in alcuni casi in-outdoor. Se dovessimo dire quale avremmo voluto firmare, portiamo due esempi. Il primo è TeTaTeT di Davide Groppi, un marchio colto che apprezziamo particolarmente. Il secondo è Poldina, un outsider del design, che ha avuto un incredibile successo, ricordandoci quello che dovrebbe fare un prodotto industriale: non rivolgersi a una nicchia ma essere accessibile a tutti.

19. Robin Rizzini

La mia scelta cade su Alcove, il progetto di Vitra firmato dai fratelli Bouroullec nel 2006. Un elemento di arredo che considero significativo perché ha aperto una nuova strada e un nuovo pensiero nel design per l’ufficio. All’epoca c’erano il soft seating e le partizioni. Condensare queste due tipologie in un solo prodotto ha rivelato una visione che ho visto poche volte. Avrei voluto progettarlo io perché è un evergreen. Un punto di riferimento per le decine di prodotti che hanno tentato di replicarne l’essenza, senza però riuscire a ottenere lo stesso livello di eleganza, leggerezza e semplicità.

20 Alessandro Stabile

Ci sono prodotti che cambiano le carte in tavola, che sanciscono un prima e un dopo. Sono pionieri che aprono nuove strade, individuando possibilità progettuali, estetiche e tecniche che fino a quel momento non erano prevedibili. E ci sono prodotti che ti fanno viaggiare nel tempo in un preciso momento, che ti riportano alla mente emozioni passate e creano un legame affettivo. Unica, il progetto firmato da Denis Guidone per Nava, rappresenta per me entrambe queste tipologie di prodotto. È al contempo un paradigma di innovazione e un tuffo nei ricordi, in quel 2008 nel quale cercavo di capire cosa fosse il design.

21 Gio Tirotto

Ho pochi dubbi: String Lights di Michael Anastassiades per Flos. È una grafica? È un’architettura? È una luce? Sì, è tutto questo, sintetizzato in un oggetto comprensibile a tutti e da tutti interpretabile. Quando ho visto String Lights credo di aver sentito gli stessi brividi che ho sentito la prima volta che mi hanno raccontato la lampada Arco, un prodotto che disegna soluzioni attraverso la sua forma, aumentando la bellezza del progetto, qualsiasi esso sia. Ci vuole coraggio per intraprendere una strada industriale simile, lo stesso che mi piacerebbe avere sempre in tutti i miei progetti.

22 Marc Sadler

Scelgo la Ami della Citroën. È come se fosse stata progettata da uno studente con una creatività ancora libera dalle logiche del marketing. Un prodotto che sembra nascere da una reale collaborazione tra designer e ingegneri, in cui è superato ciò che nel mondo dell’auto è dato per scontato. L’opportunità tecnica è stata colta con intelligenza, grazie all’impiego del termoplastico a iniezione – già usato per alcuni componenti – esteso però, in questo caso, all’intera carrozzeria. Un oggetto tecnico, essenziale e nel contempo fortemente espressivo, che traccia una netta linea di confine nel mondo affollato del car design: un prima e un dopo Ami.

23. Paolo Ulian

Ho scelto la Plastic Chair

In Wood di Maarten Baas del 2008 per il concetto che trasmette in modo immediato e diretto. La riproduzione fedele di una sedia in plastica, realizzata in un materiale naturale e duraturo come il legno, diventa un vero e proprio manifesto contro la produzione massificata di questo tipo di sedie, progettate per durare non più di una stagione prima di essere abbandonate senza gambe e per ogni dove.

24 Victor Vasilev

Il progetto che scelgo è il tavolo Clay disegnato da Marc Krusin per Desalto nel 2015. Proporre una soluzione nuova nel campo dei tavoli oggi è veramente difficile. Spesso si finisce per complicarsi la vita con cose eccessive. Invece, questo tavolo incarna un design senza tempo, grazie alla purezza formale che lo rende un’icona di eleganza. Le proporzioni sono perfettamente bilanciate, con il piano rastremato che sembra quasi sospeso sopra la base conica. Una composizione di forme primarie che gli permette di adattarsi a diversi contesti. Credo che sarà ancora attuale fra 20 anni, indipendentemente dalle tendenze del momento.

Foto Omar
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Matilde
Bettati

Il magazzino automatico disegnato dallo studio di Cino Zucchi, che emerge tra i campi di Mornico al Serio è il segno del sistema Pedrali dove soluzioni industriali evolute convivono con la cura artigianale del dettaglio. Intervista a Monica Pedrali

ARTIGIANATO E INDUSTRIA 4.0 INTEGRATI DALLA PASSIONE

Quando ci incontriamo, Monica Pedrali è reduce dal Salone del Mobile, dove l’allestimento #PedraliShiftingPerspectives presentava nove collezioni indoor e outdoor tra cui la nuova lampada Kawara disegnata da Yusuke Kawai. Ma dieci giorni prima era a Workspace Expo di Parigi, e prima ancora a Londra, Colonia, Zurigo, Chicago.

Non vi fermate mai?

Per noi le fiere internazionali, e in particolare il Salone del Mobile, sono acceleratori di innovazione: la volontà, ogni volta, di partecipare con nuove collezioni imprime energia nello sviluppo e infonde entusiasmo in tutti, dal product design alla produzione al marketing. Dall’altra parte le fiere sono momenti di verifica perché dal gradimento delle collezioni dipende il nostro futuro come azienda. Va detto che fin dagli inizi Pedrali ha sempre avuto una forte vocazione all’export. Oggi lavoriamo in 90 Paesi ed esportiamo l’85 per cento della produzione. Partecipare ai principali appuntamenti internazionali è indispensabile.

Sviluppare collezioni sempre nuove è entusiasmante ma può essere rischioso. Nel mondo dell’arredo la passione per il prodotto conta molto di più del conto economico. Se si lavora per la qualità poi i risultati arrivano. Ma questo approccio può essere portato avanti solo da un’impresa familiare che ragiona sul lungo termine.

Cosa è cambiato negli ultimi vent’anni? Tutto. È crollata la distinzione tra outdoor e indoor; è cambiata la comunicazione, con una quantità di proposte e immagini inversamente proporzionale alla chiarezza dell’informazione sulla reale qualità dei prodotti. Soprattutto,

In alto. Poltrona Opale di Patrick Jouin con la lampada Kawara di Yusuke Kawai. Foto Omar Sartor. A destra. Collezione Nolita di CMP Design. Foto Andrea Garuti.
Monica e Giuseppe Pedrali
di Antonio Morlacchi

per noi è cambiato il processo del prodotto. Vent’anni fa in Pedrali abbiamo introdotto la lean production, un processo just-in-time che ci ha consentito di ridurre gli sprechi e le scorte e di produrre tutto in maniera personalizzata su singola commessa. Poi abbiamo fatto un grande passo avanti con il magazzino automatico ‘Fili d’erba’ realizzato nel 2016. Un edificio alto 29 metri su una superficie totale di 7mila metri quadrati collegato agli spazi industriali preesistenti tramite uno Skytrain e dieci navette autosterzanti. Tutto governato da un software ‘made in Pedrali’, come tutta la nostra produzione. Una produzione che impiega materiali con caratteristiche molto differenti.

Conosciamo il metallo dal 1963, Pedrali nasce producendo mobili da giardino in ferro battuto. La lavorazione della plastica è iniziata negli anni Novanta, quindi abbiamo avuto il tempo di imparare. L’impiego del legno risale al 2005, quando con una scelta controcorrente decidiamo di aprire lo stabilimento di Manzano, che quest’anno compie 20 anni: in un momento in cui la crisi stava compromettendo le attività, abbiamo trovato disponibilità di manodopera altamente specializzata. Il nostro modello di industria integrata 4.0 ha fatto il resto. Così abbiamo anche riattivato una rete artigianale che rischiava di scomparire.

Come nascono le vostre collaborazioni con i designer?

Siamo sempre pronti a valutare nuove proposte. Per esempio, la collaborazione con Odo Fioravanti, nata nel 2008 grazie alla presentazione di due sedute: Snow e Frida. Quest’ultima ha poi vinto, nel 2011, il Compasso d’Oro ‘per la semplice bellezza scultorea’. Poi cerchiamo di conservare le relazioni perché questo significa anche confermare lo stile delle collezioni e la riconoscibilità del brand. Ma è necessaria una stretta collaborazione tra il designer e il nostro ufficio R&D: applichiamo la lean production anche alla modellazione software riducendo il ricorso alla prototipazione e di conseguenza il time-to-market. Ad esempio nel caso di Nolita, che quest’anno festeggia il decimo anniversario, tra l’idea e la produzione sono passati solo pochi mesi. Quello che conta è la qualità del progetto, che fin dall’inizio deve saper pensare anche al ‘fine vita’, alla disassemblabilità e al riciclo dei materiali. Questo introduce il tema della sostenibilità. A giugno presenteremo il nostro primo bilancio di sostenibilità, un’occasione per fare chiarezza e per mettere in fila i passi di un percorso in atto da molti anni. I passaggi principali riguardano la riduzione dell’impronta di carbonio, la sicurezza sul lavoro, la multigenerazionalità del persona-

le, la parità di genere, le iniziative rivolte alla comunità che pratichiamo già da trent’anni con un approccio ‘olivettiano’ perseguito già da nostro padre quando fondò l’azienda.

Parliamo di mercati. Spesso Pedrali viene identificata con l’arredo outdoor.

Dopo la pandemia indoor e outdoor si sono fusi e questo ha reso fluide anche le classiche distinzioni tra residenziale, ospitalità e uffici. Negli uffici si fanno riunioni all’aperto con prodotti pensati per il mondo hospitality, gli alberghi a loro volta scelgono arredi pensati per gli uffici. Quello che conta è la qualità. Gli arredi per luoghi pubblici devono avere doti di robustezza e rispettare standard di sicurezza e ambientali ben diversi dal residenziale. Per quanto ci riguarda, negli ultimi vent’anni siamo cresciuti soprattutto nell’ospitalità di lusso e negli uffici e stiamo affrontando con un certo successo il mondo delle caffetterie, dei bistrot museali e delle scuole.

Perché un architetto dovrebbe scegliere Pedrali?

Perché non ha bisogno di disegnare la sedia, ma può sceglierla tra quelle in produzione con tutte le garanzie e le certificazioni di un prodotto industriale ma con un grado di personalizzazione molto elevato, sia nelle finiture sia nelle dimensioni e riceverla in 10 giorni dall’ordine ■

ECOLOGIA, ESTETICA E COLORE

Dare forma ai nuovi stili di vita e ridefinire l’idea di bellezza guardando all’imperfezione della natura. Una

conversazione con Claudio Feltrin presidente di Arper

PER UN MONDO CHE CAMBIA

di Antonio Morlacchi

Arper (contrazione di ‘arredamento per’) nasce nel 1989. La sede è in provincia di Treviso, fin dagli esordi il mercato è l’Europa e oggi anche gli Stati Uniti, che valgono il 20 per cento del giro d’affari, con tre showroom nelle principali città e un sito produttivo che provvede anche al rivestimento dei prodotti, così da ridurre la distanza tra gli ordini e la consegna. Perché il valore aggiunto, in un mondo inondato di proposte e di immagini, è nel servizio, che fa la differenza quando ti presenti in uno studio di architettura come un partner che può facilitare il tuo lavoro di progettazione.

In alto, sedute Leaf di Lievore Altherr Molina e tavolo

Onemm di Peter Kunz. Foto Stefania Zanetti.

Nella pagina di destra, la collezione

Ralik di Ichiro

Iwasaki. Foto Marco Cappelletti.

La sedia Cila di Lievore Altherr. Foto Alberto Sinigaglia.

‘Arredamento per’ che cosa, Claudio Feltrin? Per dare forma ai nuovi stili di vita reinterpretando i luoghi in cui si abita. Negli ultimi vent’anni la velocità del cambiamento è stata sorprendente: eravamo abituati a separare il lavoro dalla vita privata e oggi possiamo lavorare ovunque: in treno, da casa, nella lounge di un aeroporto; dovevamo possedere un’automobile mentre oggi con una app troviamo quella più vicina quando ci serve. E arredamento per rendere piacevoli i luoghi che abitiamo, dalla casa all’ufficio agli ambienti pubblici.

Ha ancora senso la tradizionale suddivisione per tipologie – residenziale, lavoro, ospitalità? Non più. Infatti preferiamo organizzare le no -

stre proposte in maniera trasversale: outdoor, spazi pubblici, aree di attesa. Abbiamo cominciato cercando di concepire il mondo dell’ufficio in maniera meno rigida. Abbiamo individuato zone – le aree d’attesa, le sale per incontri e riunioni – che non richiedevano caratteristiche tecniche stringenti per trasformarle in luoghi dove è bello stare, con un’estetica più vicina agli ambienti domestici, piacevole e colorata. Un approccio che ha preceduto una tendenza emersa con forza dopo l’esperienza post-pandemia, quando dopo avere lavorato da casa le persone volevano ritrovare lo stesso calore anche in ufficio.

In effetti in passato, quando c’erano, arredi eleganti erano prerogativa degli uffici direzionali e svolgevano solo funzioni di rappresentanza.

Sì, anche se tecnicamente cambiare schema non è una passeggiata. Prima di tutto arredi pensati per il contract devono possedere doti di robustezza superiori a quelle richieste per un uso residenziale. In secondo luogo, gli arredi degli spazi pubblici devono rispondere a requisiti precisi e certificati in termini di sicurezza. E poi c’è il grande capitolo delle istanze ambientali. Partita dal basso e dai giovani, la domanda di sostenibilità si è trasformata in

Claudio Feltrin

standard da rispettare. Come nel mondo delle costruzioni, dove gli edifici per uffici valgono di più se sono certificati, anche per gli spazi interni la qualità ambientale degli arredi rappresenta un forte valore aggiunto. Contribuisce addirittura ad attrarre e trattenere con sé le competenze professionali migliori, i giovani meglio formati.

Grande tema quello dell’ambiente, ma a volte l’impressione è che le parole non corrispondano ai fatti.

Non nel caso di Arper. Abbiamo dato vita al nostro dipartimento ambientale nel 2005, cioè in tempi non sospetti. La strategia delle tre erre – recycle, reuse, repair – orienta da sempre la nostra produzione. Prima con prodotti disassemblabili e adesso anche con Catifa Carta: forti di un brevetto svedese siamo riusciti a trasformare la nostra seduta best-seller nel primo prodotto industriale carbon negative: la scocca è formata da 29 fogli di carta kraft, quella da imballaggio, imbevuti di resina naturale e compattati a 180°C da una pressa da 750 tonnellate. Giunta a fine vita, con un processo pirolitico la scocca si trasforma in ammendante del suolo e porta con sé nel terreno la CO 2 incorporata.

Dalla culla alla culla.

Secondo me la sostenibilità si accompagna alla naturalità e in questo modo diventa anche un fatto estetico. La bellezza della natura consiste nella sua imperfezione: l’irregolarità dei nodi del legno, le imperfezioni di una pelle. La tradizione manifatturiera italiana discende dall’artigianato; i prodotti erano per forza diversi uno dall’altro e caso mai si tentava di farli sembrare uguali, il che poi è avvenuto con la produzione seriale industriale. Oggi per contro si ricerca proprio l’unicità e in questo l’imperfezione della natura ci aiuta a definire un diverso canone di bellezza.

A proposito di estetica qual è il vostro rapporto con i designer?

Prima di tutto ci dev’essere un sentire comune, una condivisione di gusti e di principi etici. Quasi una questione di ‘affinità elettive’, come mi è capitato con Alberto Lievore, il nostro primo designer (studio Altherr Lievore Molina, oggi Lievore + Altherr Désile Park), con cui c’è sempre stata una stretta collaborazione. Non cerchiamo la firma ma chi è capace di collaborare con noi per sviluppare tutte le verifiche di fattibilità tecnica e economica, perché non produciamo pezzi da collezione ma oggetti che devono stare sul mercato a un prezzo corretto ■

Design sartoriale visione globale e responsabilità sociale. Maria Porro racconta come innovare senza tradire l’identità di un marchio simbolo del progetto italiano

PORRO

UN SECOLO DI DESIGN

CON

LO SGUARDO RIVOLTO

AL FUTURO

Porro celebra 100 anni di storia ponendo al centro una nuova fase di ricerca progettuale, sostenibilità e visione internazionale. Ne parliamo con Maria Porro, direttrice marketing e comunicazione del brand dell’azienda di famiglia e presidente del Salone del Mobile. Milano, in un dialogo tra impresa e cultura del progetto.

Porro è un nome che risuona da un secolo nel design italiano. Che cosa significa per lei, come erede e professionista, portare avanti questa storia imprenditoriale e famigliare? È un’eredità che sento come una grande responsabilità, ma anche come un privilegio. Far parte della quarta generazione significa avere uno sguardo radicato ma non nostalgico. Porro è nata da due fratelli ebanisti e ha attraversato cento anni evolvendosi senza mai tradire l’idea di un design essenziale, onesto e duraturo. Il compito mio e di tutta la quarta generazione è portare avanti questo dna aprendolo al dialogo con il mondo contemporaneo.

Come si bilancia il rispetto per l’identità del marchio con la necessità di innovazione e cam -

La terza e quarta generazione della famiglia Porro. Foto sfelab.

biamento? Dal 2014 guida la comunicazione e il marketing di Porro: quali sono stati i cambiamenti più significativi che ha introdotto?

La coerenza è un valore, ma non significa ripetere se stessi. Il nostro linguaggio si è evoluto nel tempo: oggi non parliamo solo di prodotto, ma raccontiamo visioni abitative, culture del progetto, valori condivisi. Abbiamo rafforzato la dimensione internazionale, rivisitato l’identità visiva e lavorato molto mettendo in evidenza i dettagli costruttivi. E poi, negli ultimi anni, abbiamo investito su un dialogo trasversale tra design, architettura e arte, aprendoci a nuove collaborazioni e nuovi codici narrativi.

Uno degli obiettivi è stato rafforzare la rete commerciale internazionale. Quali sono i mercati oggi più strategici per Porro?

Oltre all’Europa, guardiamo con attenzione al Medio Oriente e a mercati come Corea e India, dove il nostro approccio sartoriale al progetto è molto apprezzato, anche grazie alla cura nella realizzazione dei nostri spazi e alla qualità dei progetti residenziali e contract che stiamo realizzando. Negli Stati Uniti, dove abbiamo inaugurato il nuovo monobrand di New York a novembre, stiamo costruendo legami solidi anche attraverso eventi collaterali come la mostra sul design di Bruno Munari in occasione di

Maria Porro, head of marketing and communication Porro.
di Luisa Castiglioni
In alto. Il modulo contenitore Modern di Piero Lissoni + CRS Porro, 1996. A destra. Il sistema Storage design Piero Lissoni + CRS Porro, 2000.
Foto Alberto Strada

Frieze a Los Angeles, dove il design incontra altri mondi espressivi.

Come cambia la percezione del design italiano fuori dall’Italia, e in che modo si adatta la comunicazione del marchio nei diversi contesti culturali?

Il design italiano all’estero è sinonimo di eccellenza e qualità, ma è importante comunicare anche il valore del progetto, non solo del prodotto. Cerchiamo di instaurare dialoghi, interpretando lo stile di vita e le proporzioni degli spazi dei diversi luoghi, senza però snaturarci. Per esempio, in Giappone è molto importante l’idea di vuoto e modularità, in Canada la selezione delle diverse essenze lignee, negli Stati Uniti l’unicità delle superfici. La forza di Porro sta nel fatto che la sartorialità è intrinseca al progetto stesso del prodotto; allo stesso tempo la selezione delle finiture e la ricerca sulle proporzioni garantiscono sempre coerenza con i valori del marchio.

La sostenibilità è oggi una priorità per l’azienda. In quali ambiti – materiali, produzione, distribuzione – si sta evolvendo Porro in questo senso?

Per noi sostenibilità significa agire sul processo prima che sul risultato. Produciamo su disegno, just-in-time, evitando sprechi. Usia-

mo vernici a base d’acqua, legni certificati, tessuti riciclati. Ed è un impegno che fa parte da sempre della nostra cultura aziendale, basti pensare che da 25 anni in fabbrica da noi si lavora solo con luce naturale. Ma è anche una questione di approccio al design: disegnare oggetti che durano nel tempo è forse il gesto più sostenibile che possiamo fare.

Guardando al futuro, qual è la sua visione per Porro nei prossimi 10 anni? Quali valori devono restare centrali?

Continueremo a lavorare su tre direttrici: personalizzazione, sostenibilità e ricerca. Porro è un brand che parla con architetti, interior designer, clienti finali. Il nostro compito è ascoltare, interpretare e offrire soluzioni su misura. Vogliamo restare un laboratorio di idee, capace di crescere senza mai perdere la propria essenza fatta di rigore, eleganza, essenzialità.

Guidare sia un’azienda familiare sia un’istituzione come il Salone implica due tipi di leadership molto diversi. C’è un principio o un valore che porta da un contesto all’altro? In che modo queste esperienze si nutrono reciprocamente? Il valore comune è la visione collettiva. Né un’azienda né un’istituzione possono funzionare senza il contributo delle persone. In entrambi i ruoli cerco di ascoltare, di valorizzare

le competenze, di costruire ponti. E poi c’è una cosa che ho imparato: i processi culturali e industriali devono andare di pari passo. Il design è un atto sociale, e chi lo guida ha il compito di renderlo accessibile, significativo, responsabile.

Il Salone del Mobile.Milano è oggi una piattaforma globale per il design, ma anche un luogo simbolico della cultura italiana del progetto. Quali responsabilità sente in questo ruolo e quali sono le sfide che sta affrontando per innovarlo senza snaturarne l’identità?

La sfida è evolvere restando fedeli al nostro dna. In questi anni abbiamo lavorato molto per rendere il Salone più aperto, più inclusivo, più attento ai temi del nostro tempo: sostenibilità, parità di genere, tecnologia, cultura del progetto. Abbiamo portato mostre, contenuti, nuovi linguaggi. Il prossimo passo è consolidare tutto questo, trasformando il Salone non solo in una fiera di riferimento ma in un vero hub di pensiero sul design del presente e del futuro ■

CAIMI

Dalla seduta per ospedali alla lampada che purifica l’aria, dalle tecnologie acustiche alle sperimentazioni con Università e scienziati. Franco

Caimi ci racconta un’azienda che ha fatto della ricerca e della responsabilità progettuale il proprio motore e della sostenibilità una scelta di buon senso

DESIGN CHE ASCOLTA RICERCA CHE VIVE

« La nostra logica non è mai cambiata: rendere belle le cose utili e utili le cose belle». Franco Caimi, amministratore delegato di Caimi Brevetti, sintetizza così il cuore del lavoro dell’azienda fondata nel 1949 e oggi riconosciuta a livello internazionale per la sua capacità di coniugare design, tecnologia e benessere. Una coerenza che non ha mai significato staticità, ma continua evoluzione. « Facciamo cose che servono, anche se non hanno valenza commerciale immediata. E spesso questa linea che abbiamo tracciato, poi è stata seguita da altri». È accaduto nel 2012 con l’intuizione di affrontare il tema del comfort acustico in collaborazione con Michele De Lucchi. Una scelta pionieristica, quando ancora pochi parlavano di inquinamento sonoro. Da quell’idea è nato un intero universo: Snowsound, Snowsound Fiber, Snowsound-Lux. Tecnologie brevettate che hanno trasformato pannelli, lampade e arredi in strumenti attivi per migliorare la qualità dello spazio, con materiali leggeri, performanti e invisibili. Il prodotto, per Caimi, è il punto di arrivo di un percorso che parte sempre da un bisogno reale. Come nel caso della Ghost, una chaise longue progettata nel 1997 per l’ambito medicale, pensata per offrire ai pazienti la possibilità di stare comodamente reclinati e di alzarsi facilmente grazie

alla forma della seduta: un piccolo grande gesto di cura. « Spesso sono oggetti che sembrano semplici, ma rispondono a esigenze fondamentali» spiega Franco Caimi. « Il design deve fare questo: migliorare concretamente la vita delle persone».

Questa filosofia attraversa ogni aspetto dell’attività aziendale. Lo dimostrano i nuovi prodotti come il CB Sofa di Claudio Bellini, divano acustico che crea una zona di silenzio e concentrazione all’interno di ambienti dinamici; Cusi, elemento fonoassorbente di Felicia Arvid ispirato alle dune danesi; o ancora Clover di King & Miranda, che prende forma da un trifoglio sospeso, capace di assorbire i rumori anche a soffitto.

Caimi è anche sinonimo di ricerca applicata. Il progetto Snowsound-Lux integra l’assorbimento acustico con l’illuminazione Led, risolvendo tre esigenze in un solo elemento: luce, silenzio e design. Oppure Teleta, lampada in ceramica smaltata progettata da Alessandro Zambelli, che purifica l’aria sfruttando un filtro realizzato in maglia di alluminio, galvanizzato e trattato con ioni d’argento, attivato dal calore generato dalla sorgente luminosa.

A Nova Milanese, l’azienda ha creato Open Lab, un polo con sette laboratori dove si sperimentano materiali, tecnologie e relazioni. Il

Franco Caimi
di Luisa Castiglioni

A sinistra. CB Sofa di Claudio Bellini. In questa pagina da sinistra in senso orario. Lampada a sospensione Teleta di Alessandro Zambelli. La sede dell’azienda. Rerecycled di Amdl Circle Michele De Lucchi.

centro di ricerca è volto a sperimentare il comportamento del suono, le capacità percettive dell’uomo e gli effetti del suono sull’essere umano. È un ecosistema aperto, una struttura no-profit messa a disposizione per università, neuroscienziati, enti di ricerca, musicisti. Per esempio, la camera anecoica, che assorbe completamente il suono, è stata utilizzata anche per studiare come il rumore ambientale influenzi lo sviluppo cognitivo dei bambini e la capacità di percezione uditiva delle persone. « Si stima che un livello sonoro troppo elevato a casa o a scuola possono alterare la qualità delle comunicazioni verbali con una conseguente difficoltà di apprendimento. Le ricerche che vengono condotte nei nostri laboratori ci impongono una responsabilità» sottolinea Caimi. Una responsabilità che l’azienda non ha mai interpretato in termini di marketing: « Quello che oggi chiamano sostenibilità, per noi è sempre stato buon senso. Già nel 2002 abbiamo ricevuto un premio per accessori da scrivania riciclabili. Oggi tutta la nostra produzione è disassemblabile, con materiali selezionati per la loro riciclabilità. Ma per noi questo è normale». Il 90% delle lavorazioni avviene entro 30 chilometri dalla sede, minimizzando l’impatto ambientale anche nella logistica. Nel 2025, l’azienda si è presentata al Salone

del Mobile di Milano con un allestimento denominato Into the box: un invito a superare l’apparenza per entrare nella sostanza. In un contenitore scuro, i prodotti si rivelano grazie alla luce, evidenziando la vera vocazione dell’azienda: esplorare, comprendere, anticipare. E il futuro? « È impossibile predirlo – ammette Franco Caimi – ma possiamo scegliere come affrontarlo. Con rigore, curiosità e buon senso». Intanto il domani in azienda è già iniziato, con il coinvolgimento della terza generazione

della famiglia e con la continua sperimentazione su nuovi materiali intelligenti, sull’interazione tra ambiente e individuo, tra oggetto e funzione. « Il nostro compito non è solo produrre. È migliorare il modo in cui le persone vivono». E se ogni prodotto è una risposta a un bisogno reale, allora il design – quello autentico – è ancora uno degli strumenti più potenti per immaginare un futuro più umano ■

HAWORTH

Presenza in più di 120 nazioni, un fatturato annuo di due miliardi di dollari 400 brevetti sviluppati dal 1948 a oggi. Una conversazione con Hennning Figge tedesco e cittadino del mondo, alla guida della divisione internazionale di Haworth, gli specialisti dell’ufficio che in questi anni hanno acquisito anche importanti brand italiani dell’arredo lifestyle

INTERNATIONAL CINQUE RISPOSTE PER UN MONDO IBRIDO

Dall’India a Singapore, dalla Francia alla Cina, il presidente di Haworth International Henning Figge è sempre in movimento. Approfittiamo della sua visita a Milano per incontrarlo nello showroom di Cassina, affollatissimo per la design week. Cassina è uno dei brand della Haworth Collection.

Quando avete deciso di estendere all’arredo lifestyle la vostra gamma?

La Collection nasce nel 2013, con le prime acquisizioni in Germania e poi in Italia con Castelli, Cappellini, Zanotta, Poltrona Frau. Si tratta di una scelta strategica sotto molti punti di vista: prima di tutto per il mondo dell’ufficio, che è da sempre il nostro mercato e nel quale la bellezza degli spazi e i progetti di interni capaci di riflettere la cultura di impresa dei nostri clienti sono sempre più importanti; dall’altro, i brand conservano autonomia e posizionamento e questo ci consente di accedere ad altri mercati, per esempio nei grandi auditorium come la Elb Philarmonie di Amburgo e nell’automotive di alta gamma con Poltrona Frau. Torniamo al mondo dell’ufficio: operando in tutto il mondo avete una posizione privilegiata per osservare i cambiamenti avvenuti negli ultimi vent’anni. Quali sono i principali e come rispondervi con un progetto dello spazio e degli arredi adeguato?

Le cose sono diverse da Paese a Paese e pur essendo un gruppo globale adattiamo localmente le nostre soluzioni, non solo alle diverse modalità del lavoro ma anche alle diverse culture. Ma ciò che accomuna tutti gli spazi del lavoro in ufficio è la digitalizzazione. Il fatto di lavorare da remoto comporta ad esempio le call molto frequenti ovunque e con esse nuove esigenze in termini di acustica. E l’acustica, vorrei ricordare, rientra nel più ampio dominio dell’ergonomia, la nostra specializzazione da sempre. L’ergonomia ha basi scientifiche, nasce dallo studio delle posture che influiscono sulla salute delle persone, e si è evoluta verso la più ampia direzione del benessere psico-fisico degli ambienti di lavoro. L’insonorizzazione e l’intelligibilità del parlato nei diversi ambienti oggi sono un elemento fondamentale di questo benessere.

Vi definite una knowledge company. Questo cosa significa nelle vostre relazioni con i progettisti degli interni?

Credo che per gli architetti e i progettisti l’esperienza che abbiamo maturato in 75 anni e il fatto di operare in tutto il mondo abbiano un valore notevole. Possiamo aiutarli a implementare di volta in volta le loro ipotesi di lavoro valutando a monte ciò che già sappiamo che funziona rispetto a quello che magari è su-

Henning Figge
di Antonio Morlacchi

perfluo. Diverse società di progettazione e di design&build apprezzano molto questa possibilità.

In questi anni si nota una crescente attenzione ai temi della sostenibilità. È così ovunque? E come opera Haworth in questa direzione? Prima ancora che economica, per Haworth limitare e ridurre l’impatto del nostro lavoro e delle nostre soluzioni sull’ambiente è una scelta etica condivisa da sempre più clienti e soprattutto dai loro collaboratori più talentuosi. I giovani laureati scelgono di lavorare in un’azienda anche per la cultura che esprime e l’attenzione all’ambiente fa parte di questa cultura, dunque un ambiente di lavoro attrattivo e produttivo non può prescindere da queste scelte. Che poi dal punto di vista economico valorizzano l’investimento negli spazi destinati al lavoro. Soprattutto, questo è vero in tutto il mondo. Potrà sembrarle strano ma ormai gli obblighi ambientali dei nostri stabilimenti in Cina sono gli stessi che abbiamo in Germania. Perciò sposare la causa dell’ambiente è sia una scelta etica sia un percorso obbligato che affrontiamo sotto ogni punto di vista: dell’organizzazione aziendale, producendo just-in-time e nel luogo più vicino alla commessa per ridurre l’impatto dei trasporti, all’impiego dei materiali e all’ingegnerizzazione dei prodotti in vista

del loro fine vita. Oggi ci stiamo orientando verso la terza ‘R’, il riuso, con la sostituzione di pezzi usurati e le riparazioni per allungare il ciclo di vita dei prodotti. Per inciso, nei prossimi anni questa strategia diventerà sempre più importante e a sua volta comporterà un cambiamento anche nelle modalità di vendita: finanziariamente, passare al leasing e al noleggio anziché acquistare avrà sempre più senso. Cosa significa, per una multinazionale con un fatturato di 2 miliardi di dollari, rimanere una family company?

Significa rimanere fedeli alla vocazione imprenditoriale di G.W. Haworth che nel 1948, da una piccola città del Michigan, voleva migliorare la qualità di vita delle persone con soluzioni design based nel senso più ampio di progetto e non semplicemente estetico. Significa reinvestire i profitti nell’azienda per farla crescere con una visione a lungo termine e non legata ai risultati trimestrali. Infine, significa conservare i valori di una compagnia dove chiamiamo ‘members’ e non dipendenti i nostri 7.500 collaboratori ■

In alto da sinistra. Cabine acustiche di Hushoffice, uno dei brand dell’azienda. The Uroboros, una collaborazione tra Haworth, Pantone e Patricia Urquiola per la mostra Alchemica alla Milano Design Week 2025.

Qui sopra. Esposizione di illuminazione nello showroom di Cassina, un altro brand di Haworth.

In Val di Fiemme Starpool rilegge in chiave contemporanea le antiche eredità culturali delle saune esplorandone i benefici in termini scientifici. Più di 4mila le spa realizzate in 83 Paesi nel mondo. Ne parliamo con Riccardo Turri dal 2002 alla guida dell’azienda

L’APPROCCIO OLISTICO

AL BENESSERE

Ricerca, tecnologia e sostenibilità: così Starpool, azienda della Val di Fiemme con 16 brevetti registrati, oltre 4.500 progetti realizzati tra spa, case private, centri sportivi, hotel e aziende in 86 Paesi, ridefinisce l’idea di Wellness. Ce lo racconta l’amministratore delegato Riccardo Turri.

Dalla sauna tradizionale al wellness scientifico. Com’è cambiata Starpool in 50 anni?

Tutto è partito da mio padre, che era idraulico. Abbiamo iniziato importando saune e piscine dalla Germania. Era una diversificazione

Recharge room

dell’attività e nasceva con l’idea di offrire un servizio in più alle strutture alberghiere che stavano nascendo. Siamo partiti nel 1975 con l’idea – geniale per l’epoca – di occuparci di tutto ciò che favorisse lo sviluppo armonico di mente e corpo. Nella nostra casa-bottega testavamo per esempio i letti con lampade a infrarossi. Da allora siamo cresciuti molto. Oggi operiamo in 86 Paesi, con 138 dipendenti solo nella sede italiana, e ci rivolgiamo non solo all’hospitality ma anche allo sport professionistico, alle aziende, al mondo clinico e al residenziale.

Oggi il benessere non è più solo relax. Ci stiamo spostando su un benessere preventivo, sempre più interconnesso al nostro stato di salute generale. Vuol dire evitare le infiammazioni, cercare di non ammalarsi. Per farlo, misuriamo gli effetti dei nostri prodotti sul corpo umano. Ogni applicazione ha un impatto diverso: se uso la sauna per rilassarmi, è un conto; se la uso per il recupero, cambia tutto. È un’evoluzione culturale, accelerata dalla ricerca scientifica e dalla consapevolezza di un mercato sempre più esigente e attento.

La
di Casa Starpool, uno spazio dedicato alla rigenerazione psico fisica dei dipendenti.
Riccardo Turri
di Elena Riolo
Casa Starpool nel cuore della Val di Fiemme ai piedi delle Dolomiti.

In alto. Zerobody Dry Float l’innovativo sistema di galleggiamento asciutto per la rigenerazione profonda di corpo e mente. @starpool.

A destra. Il Bagno di vapore della spa di Six Senses Ibiza firmata Starpool. @Six Senses Ibiza.

Un cambio di approccio che ha radici scientifiche.

Nel 2012 abbiamo iniziato a studiare scientificamente l’effetto dei nostri trattamenti sul corpo umano. Siamo stati i primi a farlo nel nostro settore. Abbiamo definito quattro aree su cui possiamo agire: stress, sonno, performance e longevità. Tutti i nostri prodotti, dal galleggiamento asciutto alla crioterapia, hanno un impatto misurabile in questi ambiti. Collaboriamo con università e istituti scientifici per costruire protocolli validati, specifici per ogni contesto.

Da dove nasce questo sviluppo?

Dal bisogno di uscire dalla comfort zone del wellness generico. Abbiamo capito che, per evolvere, serviva dare sostanza scientifica ai nostri prodotti. Il galleggiamento, per esempio, è stato un passo importante. L’abbiamo sviluppato nel 2016, quando un neuroscienziato mi disse: “Finché non coinvolgete la parte cognitiva, per me non siete completi”. Siamo stati per tre anni alla Float Conference di Portland, confrontandoci con medici e terapeuti. Da lì è nato Zerobody Dry Float, l’unico sistema al mondo in grado di replicare i benefici della micro-gravità; oggi è utilizzato nelle aziende, come strumento di corporate wellness, nel mondo sportivo per un efficace

recupero muscolare e in ambito privato, dove ritengo sia il prodotto più interessante per rigenerare corpo e mente senza limitazioni né controindicazioni.

Anche il design ha un ruolo importante nei vostri progetti.

Assolutamente. Per affrontare la sfida dell’industrializzazione senza perdere l’identità artigianale, abbiamo sviluppato soluzioni con il designer Cristiano Mino. Nel bagno di vapore, per esempio, uno dei problemi da sempre era l’igiene: abbiamo quindi ripensato tutto il sistema per ridurre al minimo i ristagni d’acqua e i raccordi tra panche e pareti utilizzando ceramiche di grandi dimensioni, vetri e materiali innovativi che mantengano lo stile del marchio Starpool, pur garantendo la massima igiene. E nel residenziale?

Oggi il benessere domestico è in una fase rivoluzionaria. Non è più solo status, è consapevolezza e quindi è molto soggettivo. L’utente vuole sapere come sta, come migliorarsi, e quali strumenti utilizzare. Il progettista spesso si ferma all’aspetto estetico; è il consumatore che ci spinge oltre chiedendo prodotti funzionali, non solo rilassanti. Per questo dico che il wellness non è un lusso: è un allenamento quotidiano.

Quali prospettive vede per il settore nei prossimi anni?

Il mercato si sta verticalizzando. Ogni segmento ha bisogno di un’offerta specifica. Noi da parte nostra resteremo fedeli allo statuto aziendale: prenderci cura del benessere delle persone, con ogni mezzo possibile ■

I MONDI PARALLELI DI RAFFAELLO GALIOTTO

L’eternità della pietra da un lato la trasformabilità del polipropilene dall’altro. Raffaello Galiotto si racconta. Tra rispetto per i materiali e attitudine alla sperimentazione

In alto, la poltrona Folio per Nardi. Sotto, Ripple, il propileo lapideo realizzato per lo stabilimento di Margraf.

Superare i limiti della materia. È questa la sfida che da sempre guida Raffaello Galiotto in ogni suo progetto. Profondo conoscitore dei materiali e delle tecnologie necessarie a trasformarli, il designer vicentino è infatti riuscito ad apportare importanti innovazioni, muovendosi con analoga disinvoltura in due mondi distanti come il settore lapideo e quello della plastica. Una naturale attitudine alla ricerca e alla sperimentazione che lo ha reso una delle figure più interessanti del design contemporaneo. Marmo e polipropilene: sono questi i materiali protagonisti nel suo lavoro. Come si muove tra questi due mondi?

Mi piace studiare i materiali e il modo in cui vengono trasformati, aspetti fondamentali per poter affrontare temi come quello dei costi e degli sfridi. E sono affascinato da questi opposti. Due mondi verso i quali provo lo stesso rispetto, ma valorizzando le differenze. Il polipropilene è un materiale artificiale che non ha un’origine locale, non ha una storia, non ha un colore. Un materiale che può cambiare carattere in base al suo utilizzo, diventando lucido o opaco, sottile o spesso, dalla forma organica o razionale. Invece, la pietra naturale ha una località di estrazione precisa e porta con sé una storia culturale, oltre che geologica. Perché queste rocce, quando vengono estratte e lavorate, diventano espressione

dell’uomo. Ed è un materiale duro e pesante, che bisogna conoscere per esaltarne le caratteristiche, senza però snaturarlo. Oggi il marmo è protagonista nel mondo del design. Come interpreta la riscoperta di questo materiale?

Raffaello Galiotto
di Alessia Forte

Rispetto ai materiali contemporanei, che non hanno una storia, la pietra ha una promessa di eternità che tocca l’animo e che contrasta con il mondo effimero in cui siamo immersi. D’altra parte, bisogna conoscere molto bene questo materiale per poterlo lavorare, perché ha un valore in sé che va rispettato e non è riciclabile. Nel senso che, quando la pietra è polverizzata, anche se la materia rimane la stessa, si perde la stratificazione geologica. E questo vuol dire perdere il tempo che è conservato dentro la pietra. Un valore irriproducibile, se pensiamo che questo materiale esiste da milioni di anni. Le nuove tecnologie per la lavorazione della pietra stanno aiutando a ridurre l’impatto sull’ambiente?

Dipende dal progetto. Se utilizziamo le tecnologie per abbattere costi e tempi, significa che lavoriamo più velocemente il materiale, e questo non porta a rispettarlo. Ad esempio, oggi molti sono affascinati dall’idea che si possa ridurre il marmo a spessori sottili, ma usare meno materiale rende l’approccio più leggero. Quindi, la tecnologia da una parte può essere irrispettosa, dall’altra può ridurre l’impatto ambientale, permettendoci di prevedere la forma dello scarto. In pratica, anziché modellare la pietra asportando l’eccesso secondo un’idea michelangiolesca, si può procedere per separazione, dividendola in parti. In questo modo,

si possono ottenere più elementi da rimontare uno sull’altro o uno accanto all’altro, come nell’Arcolitico di fronte allo stabilimento di Margraf. Un elemento scultoreo che ho realizzato tagliando la materia a strati con l’impiego di un telaio a filo controllato numericamente, in cui lo scarto è stato ridotto quasi allo zero. Invece, quali sono le tecnologie impiegate per lavorare il polipropilene? E qual è l’aspetto che trova più interessante di questo materiale? La tecnologia in questo settore è molto evoluta. Ci sono strumenti che riescono a controllare il processo in modo perfetto, verificando tutti i parametri di temperatura, pressione, velocità. Una capacità di controllo che permette di sfidare la materia.

L’aspetto che mi interessa di più di questo materiale è la sua elasticità, come racconta bene la poltrona Folio per Nardi. Composta da un foglio in polipropilene, questa seduta è reclinabile in due posizioni non mediante elementi di rotazione, ma sfruttando la flessibilità intrinseca della resina. A conferma della grande libertà con cui è possibile lavorare questo materiale ■

Dall’alto.

La collezione Velata per Margraf. Il tavolo Petalo per Lithos Design. L’Arcolitico per Margraf.

LA NARRATIVA DEL LUOGO

E DEL PRODOTTO

Una conversazione con Massimo Lissoni alla guida di Lissoni Graphx, lo studio di comunicazione indipendente che fa parte del gruppo Lissoni & Partners

Dalle merci alle esperienze, dalla pubblicità al racconto. La comunicazione è diventata parte stessa del progetto, che orienta ed entro il quale si manifesta e si esprime. A loro volta, la complessità delle relazioni sociali è regolata da un numero crescente di norme e codici che talvolta è bello violare, usando l’ironia per creare l’inaspettato.

Nella comunicazione, Lissoni Graphx adotta la medesima filosofia che caratterizza l’approccio del gruppo multidisciplinare di progettazione fondato da Piero Lissoni.

«La cifra stilistica del dipartimento di comunicazione è la stessa – conferma Massimo Lissoni – e del resto collaboriamo spesso con il gruppo, non solo per la segnaletica ma contribuendo a costruire dal naming alla narrativa del luogo che poi gli architetti e i designer trasformano, specie nel caso dell’hospitality e del retail, negli spazi e nel design capace di creare esperienze di visita memorabili».

clienti dello studio sono una parte importante del nostro lavoro, anche perché l’approccio di Lissoni & Partners è sempre a 360 gradi e la comunicazione è parte integrante dei progetti. La velocità dei cambiamenti avvenuti negli ultimi vent’anni ha coinvolto anche e forse soprattutto i mezzi di comunicazione. Come vi rapportate ad esempio con i canali social?

Siamo immersi in un flusso continuo di informazioni e di immagini, una bulimia che rende obsoleto in breve tempo qualsiasi messaggio, il che è preoccupante, soprattutto per chi fa il mio mestiere.

Quali strategie adottate per emergere da questo flusso indistinto in cui tutto si consuma e invecchia velocemente?

In alto, lavori di

A destra, Piero Lissoni con la latta per il panettone di Molino Pasini, 2020. Foto Danilo Scarpati.

Lavorate solo per Lissoni & Partners? Siamo una società indipendente e lavoriamo per tutti in diversi settori. Per esempio, abbiamo sviluppato la visual identity della mostra in corso all’Adi Design Museum Best of the Both Worlds: Italy. Arte e Design in Italia 1915-2025 declinando il concept iniziale in tutto il materiale di comunicazione. Lavoriamo anche per istituzioni culturali come Palazzo Te a Mantova e il Museo Poldi Pezzoli di Milano. Naturalmente i

Cercando di creare l’inaspettato, usando linguaggi che potrebbero apparire ‘inappropriati’ per quel messaggio e che riescano a fermare l’attenzione. Il che vale per tutti i materiali di comunicazione, non solo per i social. Per fare un esempio, per i 30 anni della poltrona Frog di Living Divani abbiamo prodotto un booklet dove non c’è nemmeno una fotografia della poltroncina ma solo illustrazioni di una professionista belga, Leonie Bos. Le illustrazioni sono il pretesto per raccontare 30 storie, una per anno, creando una sorta di racconto ‘sbagliato’.

Avete una rete di collaboratori esterni?

Certo, è fondamentale. Fotografi, copywriter, illustratori, visual designer. In studio siamo in

Lissoni Graphx per Living Divani e per il magazine di Molino Pasini.
Massimo Lissoni
di Antonio Morlacchi

17, ma ogni progetto richiede un taglio comunicativo differente, una ‘voce’ che può essere più o meno rigorosa, più o meno ironica, più o meno istituzionale e così via.

Per descrivere il lavoro di Lissoni Graphx è ancora corretto parlare di campagne pubblicitarie?

Quella che un tempo definivamo ‘la campagna’ è solo una parte del tutto, perché come dicevo prima Lissoni Graphx lavora per costruire narrative che si dispiegano in molteplici maniere. Più che campagne pubblicitarie, noi costruiamo identità attraverso progetti di comunicazione integrata che si sviluppano nel tempo. A volte, però, le aziende cambiano velocemente la strategia di comunicazione. Non è così, perlomeno non nel nostro caso. È chiaro anche ai nostri clienti che costruire un’identità definita e univoca richiede tempo, che in genere ci concedono con fiducia. Ma è altrettanto chiaro che il percorso si deve poter cogliere già dall’inizio, per poterlo condividere. Può farmi un esempio di un progetto di comunicazione integrata di lungo respiro?

Prenda per esempio Sanlorenzo. Piero [Lissoni, NdR ] è direttore creativo dell’azienda e per Sanlorenzo progettiamo tutto, dai materiali di comunicazione agli interni degli yacht, dagli allestimenti temporanei come le installazioni per la Design Week alla nuova Casa Sanlorenzo che aprirà in giugno a Venezia ■

La fotografia di design tra immagini artefatte e bisogno di verità. Una conversazione con Andrea Garuti

LA SEMPLICITÀ È UN SISTEMA COMPLESSO

Fotografo con un’importante carriera nel mondo del design, Andrea Garuti ha intuito presto quale sarebbe stato il suo percorso professionale. Avvicinatosi alla fotografia in giovane età grazie al padre, studia architettura, iniziando in parallelo a realizzare i primi scatti. Nel 1994 si trasferisce a Milano, dove firma campagne per diversi brand, e collabora con famose riviste di moda, lifestyle e design. Ad accomunare ogni suo progetto, la ricerca di verità e l’idea che le fotografie più belle siano quelle all’apparenza più semplici.

Come si è avvicinato alla fotografia di design e architettura?

Mi sono accostato alla fotografia di architettura molto presto. Anche mio padre era un fotografo e lavorava a Firenze per diversi architetti importanti come Michelucci, Spadolini e Porcinai, grande maestro dell’architettura dei giardini. Dunque sono cresciuto in questo mondo. Un mondo che ho continuato a esplorare all’università, studiando architettura e iniziando, in parallelo, a scattare le mie prime foto di palazzi ed edifici industriali. C’è stato anche un breve periodo in cui avrei voluto fare l’architetto, ma la passione non era la stessa che avevo per la fotografia.

Quali sono state le sue principali fonti di ispirazione?

Amo profondamente Louis Kahn e Aldo Rossi, ma col tempo ho trovato ispirazione anche nel cinema. Film come Il ventre dell’Architetto di Peter Greenaway e L’Eclisse di Michelangelo Antonioni mi hanno dato una visione di ciò che amo dei palazzi, ma soprattutto delle città. Come ripeto sempre, la città è un teatro e l’architettura è la sua scenografia.

Ha lavorato con tante aziende di design. Nonostante le differenti esigenze dei clienti, c’è un fil rouge che lega i suoi progetti?

Ho sempre cercato di dare alla luce una mia impronta e in alcuni lavori si può trovare questa linea di pensiero. La luce in fotografia è fondamentale e saperla plasmare offre molte possibilità. Nelle mie foto tendo a inserire delle ombre, un elemento che considero di grande importanza nel design e nell’architettura. La luce morbida, con basso contrasto, non è reale.

Nel mare magnum di immagini da cui siamo bombardati oggi sul web e sui social, cosa può attirare davvero l’attenzione?

Anche se digitale e smartphone hanno semplificato tutto il processo, l’autore si vede subito e non parlo di fotografie particolarmente costruite. Spesso le immagini più belle sono quelle all’apparenza più semplici. Ad esempio, ho una grande stima per Tommaso Sartori,

Andrea Garuti
di Alessia Forte
Foto Marco Craig

A destra, la lampada Madre disegnata da Andrea Anastasio per Foscarini, interpretata per il numero 16 di Inventario.

probabilmente il migliore in Europa nel mondo del design. Le sue immagini possono piacere o meno ma è un autore vero, con una linea chiara e molto, molto personale.

A suo parere Instagram ha influenzato il lavoro dei fotografi di design? E se sì, in quale modo?

Sicuramente. Anche se adesso Instagram tende ad appiattire tutto, se segui gli autori giusti hai una percezione di dove vada il mondo della fotografia di qualità. Vedo spesso fotografi giovani, anche bravi, che seguono delle tendenze direttamente connesse con i social network. Ciò li rende un po’ tutti uguali ma, ovviamente, sono percorsi personali, quindi, col tempo si distaccheranno da quei modelli. Ad esempio, mi piace il lavoro di Mattia Balsamini che con le sue architetture fatte di angoli, particolari e luci naturali ha creato un suo linguaggio. Secondo lei quale sarà l’impatto dell’Intelligenza Artificiale sulla fotografia di design?

La maggior parte dei cataloghi e del materiale divulgativo delle aziende sarà fatto presto con l’AI, è inutile far finta di niente. D’altra parte, le aziende veramente creative faranno scattare i fotografi su pellicola o li lasceranno finalmente liberi di esprimersi secondo il proprio linguaggio. A mio parere, ci sarà una grande necessità di verità, di immagini non artefatte ■

A sinistra e sotto. L’Arengario, oggi sede del Museo del Novecento, progettato da Italo Rota.

Elegia della luce come elemento compositivo dell’architettura

Ripensando all’evoluzione del progetto della luce negli ultimi vent’anni, è quasi inevitabile fare riferimento all’architetto Richard Kelly, un vero pioniere della progettazione illuminotecnica che ha aperto la strada a una nuova consapevolezza: la luce può raccontare e trasformare l’architettura, esaltandone le qualità e partecipando alla sua narrazione.

La luce non è mai stata solo uno strumento tecnico, ma un vero e proprio elemento compositivo, capace di definire e far percepire lo spazio architettonico in modo profondo, contribuendo a dare forma e significato all’architettura stessa. Riflettere sull’evoluzione del progetto luce significa, quindi, partire da questo legame originario. Anche oggi, nonostante il progresso tecnico e l’introduzione di nuovi materiali, sistemi costruttivi e, soprattutto, la rivoluzione della tecnologia Led, rimane centrale l’idea che progettare la luce non sia solo una questione tecnologica. Si tratta piuttosto di un processo culturale: un dialogo tra la conoscenza architettonica e quella, più ampia e trasversale, della luce stessa. Un dialogo che non può prescindere dalla relazione profonda tra spazio, visione e percezione, che proprio la luce rende possibile.

A partire da questo presupposto, è naturale riflettere anche sul rapporto che si instaura tra la figura dell’architetto e quella del lighting designer. Si tratta di una relazione fondata su uno scambio reciproco, che

mira a fondere la cultura architettonica con le competenze illuminotecniche, come nella collaborazione di Richard Kelly con Louis Kahn per il Kimbell Art Museum: si possono cogliere chiaramente i frutti di un dialogo sinergico tra due figure artistiche capaci di lavorare in armonia. Le soluzioni progettuali emerse da questa collaborazione evidenziano una profonda integrazione tra luce e architettura, tanto sul piano formale quanto su quello tecnico e prestazionale. Kelly, in particolare, ha saputo cogliere appieno il potenziale espressivo della luce: la sua capacità di modellare lo spazio e di generare una consapevolezza visiva in grado di suscitare emozioni autentiche nell’osservatore.

Un altro passaggio fondamentale è rappresentato dal progetto di illuminazione del Museo d’Orsay a Parigi, realizzato dall’architetto Piero Castiglioni. Questo intervento ha rappresentato una svolta significativa nella progettazione della luce con l’idea di nascondere la sorgente luminosa per integrarla pienamente nell’architettura. A segnare la svolta fu il confronto tra Piero Castiglioni e Gae Aulenti, incaricata dell’allestimento museale, la quale espresse chiaramente il desiderio di nascondere gli apparecchi di illuminazione nelle sale espositive. Castiglioni accolse la sfida trasformando ciò che inizialmente poteva sembrare un vincolo in un’opportunità progettuale: iniziò

a concepire l’architettura non solo come contenitore della luce, ma come parte integrante del sistema illuminante, facendo della luce un elemento invisibile ma fondamentale nella narrazione dello spazio.

Questo approccio progettuale ha aperto la strada a un’evoluzione che ha visto come protagonista la tecnologia Led. L’introduzione del Led ha rappresentato un cambiamento radicale nella gestione di numerosi parametri tecnici: la miniaturizzazione delle sorgenti luminose, l’aumento delle performance – sia in termini di efficienza che di qualità dell’emissione – e il costante sviluppo dell’elettronica applicata al controllo della luce hanno moltiplicato in modo esponenziale le possibilità progettuali.

La tecnologia Led ha introdotto nuove possibilità progettuali anche in un ambito di grande interesse: il colore. La gestione

A destra. Un interno del Kimbell Art Museum a Fort Worth, Tx (1972, Louis Kahn). Progetto della luce di Richard Kelly. Foto Jmabel, licenza CC 3.0. Sotto, il Museo d’Orsay a Parigi, progetto di Gae Aulenti e Italo Rota 1986. Progetto della luce di Piero Castiglioni.

In alto. Lo stadio di Pechino di Herzog & de Meuron illuminato da Consuline. Foto Muhammad Nauman Irshad, licenza CC 4.0.

A sinistra. Differenti configurazioni luminose nel progetto illuminotecnico del Burj Al-Arab di Dubai. Foto Speirs Major Light Architecture.

elettronica dei colori primari della luce RGB (Red, Green, Blue), unita alla possibilità di variare le tonalità del bianco (da 1800 gradi Kelvin a 5000K e oltre), ha dato origine a progetti suggestivi, in cui l’architettura prende vita anche attraverso la percezione cromatica, creando un nuovo linguaggio tra luce e spazio costruito.

Questo approccio all’uso del colore ha trovato nella cultura progettuale inglese una delle sue espressioni più audaci, con realizzazioni scenografiche e sperimentali. Ritengo, ad esempio, che il progetto illuminotecnico di Speirs Major per il Burj Al-Arab di Dubai sia uno dei primi esempi significativi di come la luce dinamica e il colore possano diventare un mezzo espressivo, capace di offrire una lettura

mutevole dell’edificio in base al momento e alla scenografia desiderata. Anche nei progetti dello studio Consuline si ritrova questa spinta verso l’uso della luce dinamica, con un approccio pionieristico in Italia nell’impiego del colore e della luce sensoriale. Fin dai primi anni Duemila, lo studio ha realizzato numerosi interventi in cui il colore e le scenografie luminose dinamiche giocano un ruolo centrale. Tra questi, mi piace ricordare il progetto di illuminazione architettonica dello Stadio Nazionale di Pechino.

La tecnologia Led ha dato un contributo fondamentale anche all’evoluzione della progettazione lighting dedicata al mondo office. Il passaggio dalle sorgenti fluorescenti a quelle Led è stato uno snodo

evolutivo decisivo sotto molteplici aspetti. Tra le innovazioni più rilevanti la possibilità di ottenere un elevato rendimento luminoso con apparecchi estremamente compatti: una caratteristica che ha rivoluzionato le performance degli strumenti illuminotecnici, permettendo di coniugare efficienza energetica e miniaturizzazione. Gli strumenti a disposizione del progettista per l’illuminazione degli spazi office sono diventati più compatti, più efficienti nel controllo dell’abbagliamento e dotati di sistemi di gestione della luce estremamente sofisticati. Un progetto particolarmente significativo in questo ambito è la sede Bnl/ Bnp Paribas di Roma Tiburtina sviluppato proprio nel periodo di transizione tra sorgenti fluorescenti e tecnologia Led. Il progetto degli interni, firmato dall’architetto

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Paolo Mantero e concepito per 3.000 postazioni di lavoro, è stato accompagnato da soluzioni illuminotecniche custom con performance di notevole livello sia in termini di efficienza energetica – contribuendo con 7 punti alla certificazione Leed dell’edificio – sia in termini di flessibilità d’uso. Gli apparecchi installati in prossimità delle postazioni di gruppo sono infatti dotati di componentistica elettronica che consente la regolazione diretta della luce da parte dei singoli utenti, adattandola alle proprie esigenze.

La tecnologia Led ha rappresentato una svolta fondamentale anche nell’ambito dell’illuminazione urbana. Se inizialmente l’attenzione era concentrata principalmente sul risparmio energetico, oggi l’interesse si è ampliato, includendo aspetti legati alla percezione, al rapporto tra luce e architettura e a prestazioni tecniche impensabili con le tecnologie precedenti. I progressi raggiunti, sia nella progettazione costruttiva, sia nel concept dei prodotti – in termini di prestazioni ottiche, efficienza, miniaturizzazione, integrazione architettonica e aspetti legati alla gestione e all’interaction design – consentono oggi di sviluppare interventi in grado di valorizzare spazi, volumi e architetture con una libertà espressiva quasi illimitata.

In questo contesto si inserisce un progetto recentemente realizzato dal nostro

studio per il Comune di Bergamo, che ha interessato l’illuminazione della Piazza della Cittadella Viscontea, nella Città Alta. Il progetto ha previsto l’illuminazione di tutti i monumenti che delimitano la piazza, con un focus marcato sulla restituzione percettiva delle volumetrie, dei materiali e delle architetture, garantendo al contempo il massimo comfort visivo – grazie a una quasi totale assenza della percezione diretta delle sorgenti luminose. Il risultato è un intervento che qualifica in maniera significativa lo spazio urbano, enfatizzando le gerarchie visive e mantenendo un equilibrio armonico tra la lettura delle superfici verticali e le aree di passaggio. Particolare attenzione è stata dedicata anche al controllo della luce dispersa, con l’obiettivo di assicurare non solo un’esperienza visiva confortevole e sicura, ma anche una concreta riduzione dell’inquinamento luminoso e, in una visione più ampia, un significativo risparmio energetico.

L’evoluzione che ha interessato il mondo della luce negli ultimi vent’anni ha coinvolto anche il prodotto da sempre più legato alla dimensione decorativa: l’oggetto di design luminoso. Questo elemento, ancora oggi centrale nella nostra cultura dell’abitare, si presenta con una nuova consapevolezza, un maggior equilibrio tra forme e contenuto tecnico, in un rapporto sempre più paritario tra funzionalità, qualità

della luce ed estetica. Assistiamo a una profonda integrazione tra la componente decorativa e quella tecnica. L’evoluzione dell’elettronica, della multimedialità e della componentistica ha spinto le aziende a ripensare il proprio approccio progettuale. La tecnologia è ormai parte integrante di ogni soluzione di lighting design: anche l’oggetto decorativo è diventato fortemente interattivo, trasformandosi rispetto al passato, quando la sua unica funzione era quella di essere acceso o spento. Oggi questi oggetti diventano veri e propri strumenti per vivere gli spazi con un livello di comfort, controllo e personalizzazione impensabile fino a pochi anni fa.

Da queste riflessioni sull’evoluzione del mondo della luce emerge con chiarezza l’esigenza di un approccio progettuale consapevole, fondato sulla condivisione reale delle problematiche da affrontare, oggi più numerose e complesse che mai: efficienza energetica, comfort, sostenibilità, innovazione tecnologica, riciclo, gestione del fine vita dell’oggetto. Il contesto attuale è articolato, con numerosi attori coinvolti, temi sempre più urgenti e costi difficili da gestire.

In uno scenario così sfidante, diventa fondamentale preservare competenze, visione e determinazione per alimentare e far evolvere la cultura della luce ■

Piazza della Cittadella Viscontea di Bergamo Alta dopo l’intervento di Voltaire Lighting Design. Foto Beppe Raso.

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