Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Artisti della pizza”. Settembre è stato dedicato al nostro caro pizzaiolo Luigi Parisi, che esalta il gusto dei nostri pelati con la sua “La Scarpona”. l’intenso gusto dei pomodori pelati schiacciati a mano e sbirciati di tonno si unisce alla morbidezza delle melanzane a funghetto per tuffarsi nei sapori mediterranei delle alici di Menaica, delle olive di Gaeta e dei capperi di Pantelleria. Prepara la scarpona e lasciati conquistare dalla sua irresistibile bontà.
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Afinox
Avanzini Bruciatori
Cuppone
Demetra
Dr. Zanolli
Fiera Host Milano
Gimetal
Le 5 Stagioni
Scuola Italiana Pizzaioli
Molino Bruno
Molino Naldoni
Molino Pasini
Rinaldi Superforni
Sacar
Sanfelici
Sirman
Sitta
Industria Alimentare Tanagrina
Valledoro
Waico
— Sommario —
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mondo veg
Fanno bene …anche sulla pizza
di Marisa Cammarano
mondo veg
Pizzerie green e pizze veg chiamatela etica, non tendenze!
di Giusy Ferraina
storie di pizza
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Eugenio Iannella e il "Civico 25"
di Noemi Caracciolo
storie di pasta
Il Gigante Buono
Lorenzo Econimo, cuoco social popolare
di Antonio Puzzi 66
storie di pizza
Alexandra Horghidan la “zia pizza” del cambiamento
di Noemi Caracciolo
72
storie di pizza A Milano Dry riparte dalle radici
prodotti
Il basilico aeroponico di Caterina Vianello
di Caterina Orlandi 92
birra Birrifici & sostenibilità
Alfonso Del Forno
La recensione del mese di NC 96 un libro al mese
Food in Italy. Il settore industriale ed enogastronomico a cura di Simonetta
Pattuglia di DMJ
COLOPHON
Editoriale
Antonio Puzzi
Sapete una cosa?
Preferivo quando d’estate si parlava (solo) di scontrini “pazzi”. Per carità, non che quest’anno non ci sia stata la solita pubblicazione sui social dei prezzi tutt’altro che calmierati nei luoghi tradizionali della villeggiatura all’italiana. E, di certo, essa è stata altresì combinata con la nuova e, allo stesso tempo, antichissima polemica per scovare la colpa del presunto (in quanto solo i dati a fine anno potranno dircelo) calo delle presenze.
Nonostante questo, però, l’estate del mondo pizza ha avuto ben altri gossip di cui nutrirsi, in quanto – per dovere di cronaca e pruriginosa curiosità – siamo stati “costretti” a passare da una pagina Facebook all’altra per leggere accuse reciproche di ingratitudine, minacce di azioni legali, screenshot di messaggi (che, al cospetto, la storia di Raoul Bova è un romanzo Harmony), bullismo digitale e pareri tecnici su regolamenti e normative. Insomma, per qualche istante ho sperato che questa storia arrivasse alle orecchie di Bruno Vespa per vedere uno speciale in prima serata di “Porta a Porta” sulla “saga della Pizza di Mezzo”, come qualcuno prima di me l’ha soprannominata.
Se non sapete di cosa sto parlando (ma ne dubito), tanto meglio per voi: saltate pure il mio editoriale e andate alla pagina successiva.
Il discorso è che questo dissing, nato per un dichiarato “errore di battitura” di una celebre Guida, ha sollevato un polverone, divenendo l’occasione per far tornare la più inutile delle domande: “Che senso hanno le guide e le classifiche gastronomiche?”. Credo sia inutile ripetere a voi, professionisti del settore, che una Guida non è la Bibbia e che, quindi, può fare errori ma soprattutto può avere dei risultati che non condividiamo. E, allora, perché si realizzano le Guide? Per intercettare chi la pensa come noi, per creare una comunità che si riconosce intorno a dei principi e, nel contempo, tenere fuori tutti gli altri. È giusto? È sbagliato? Chi può dirlo? Solo il mercato. Quello delle guide, certo, ma anche quello degli operatori. Personalmente, resto convinto che non esiste la pizza (o la pizzeria) migliore del mondo ma esistono (uno, nessuno, centomila) artigiani e imprenditori che hanno scelto di vivere felicemente questo mestiere che si porta sulle spalle secoli di storia. Vi rigiro, allora, la domanda: “Che senso ha criticare le Guide? Che senso ha sparare sulla critica gastronomica?”. Ogni volta che vedo qualche bravo artigiano o imprenditore farlo, puntualmente, qualche ora dopo o qualche giorno dopo, leggo suoi post o commenti che inneggiano a qualche guida, a qualche giornalista o a qualche rivista diversa da quella appena criticata. E, allora, lasciate fare a ognuno il proprio lavoro. Noi, ad esempio, questo mese parliamo di qualcosa di straordinariamente ordinario: la sostenibilità. Scoprite con noi quanta bellezza c’è in questo “mondo green”. Buona lettura!
PIZZA E PASTA ITALIANA
Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura
Edito da PIZZA NEW S.p.A.
Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990
Anno XXXVI - n.8 settembre 2025 - Repertorio ROC n. 5768
Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi — Mediagraf lab
DIGITAL PUBLISHING
Maura Trolese — Mediagraf lab
IN COPERTINA illustrazione di Chiara Palandri
STAMPA MEDIAGRAF S.p.A.
Noventa Padovana (Pd)
COMITATO TECNICO E REDAZIONALE
Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.
AFFILIAZIONI INTERNAZIONALI
Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).
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a cura della redazione
MOLINI PIVETTI CELEBRA
Renazzo (FE), 16 luglio 2025 – Nel suo 150° anniversario, Molini Pivetti ha celebrato la campagna grano 2025 con una festa speciale: un momento di condivisione che ha riunito presso la sede di Renazzo, in provincia di Ferrara, dipendenti, tecnici agronomi, agricoltori, conferitori e vari operatori del settore, oltre alla famiglia Pivetti.
L’appuntamento simbolicamente ha reso omaggio al ciclo di produzione che, dalla semina alla raccolta, fino al conferimento in molino, scandisce il ritmo della vita emiliana in questa area particolarmente rinomata per la coltivazione del grano tenero di qualità.
Per l’occasione, la sede aziendale si è trasformata in una piazzetta vivacemente animata in un clima di convivialità, allietato da assaggi di pizze, focacce e dolci sfornati direttamente dai tecnici interni del Pivetti Lab, il laboratorio dedicato alla formazione dei professionisti dell’arte bianca. Un modo concreto per festeggiare i valori della terra, del lavoro e della filiera, che da sempre guidano la visione di Molini Pivetti.
MOLINI PIVETTI --- https://www.molinipivetti.it
MULINO PADANO RINNOVA GAMMA E PACK:
FARINE SEMPRE
Restyling del catalogo e dei formati, veste grafica rivisitata e nuovi pack con sistema di sigillatura evoluto: Mulino Padano, storica azienda molitoria rodigiana da sempre punto di riferimento per i professionisti dell’impasto, riorganizza la propria offerta per rispondere in modo ancora più immediato alle esigenze dei propri clienti. Ogni farina della gamma, testata nel forno sperimentale insieme a maestri panificatori, pizzaioli, pasticceri e pastai, garantisce performance costanti e affidabilità in ogni preparazione. Con questo rebranding, Mulino Padano rafforza il suo ruolo di “Consulente di farine” e ribadisce la sua mission: accompagnare i professionisti nella crescita tecnica e creativa, unendo tradizione, qualità e innovazione.
Dopo una breve pausa estiva,
ripartono a metà settembre gli eventi in tutta Italia ma già nelle settimane precedenti alcuni appuntamenti importanti nel mondo sono degni di nota. Ecco la nostra selezione.
3–7 settembre
BUFALA FEST
Napoli, piazza Municipio
bufalafest.com
5–8 settembre
Paris (France)
mer-et-vigne.fr
8–11 settembre
Sidney (Australia)
finefoodaustralia.com.au
14–17 settembre
CHEESE 2025
Bra (Cuneo)
cheese.slowfood.it
19–21 settembre
BUFALA VILLAGE
San Marco Evangelista (Caserta) bufalavillage.it
29 sett. 1 ottobre –
CAFFÈ CULTURE 2025
London (Inghilterra) caffecultureshow.com
Per segnalare fiere ed eventi, scrivi a redazione@pizzaepastaitaliana.it
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Pizzerie
di Giusy Ferraina
ORTO UNO STIVALE
SEMPRE PIÙ GREEN
C’è il chilometro zero e quello giusto. c’è la filiera corta e quella cortissima e poi c’è chi in pizzeria si fa l’orto, così da poter offrire una pizza sana, buona e rispettosa dell’ambiente. Una buona pratica che sta prendendo sempre più piede in questo settore.
In origine, abbiamo osservato chef e osti approcciarsi direttamente alla terra: aziende agricole di fiducia, raccolta diretta degli ortaggi da utilizzare in cucina, orti in affitto per poi arrivare all’orto direttamente nel ristorante. Ora tutto questo discorso spostiamolo sui pizzaioli, sempre più attenti all’ambiente e sempre più sostenibili.
Primizie di stagione, erbe aromatiche, germogli, sono alcune delle cose che l’orto regala alle pizze che si colorano di novità e guadagnano in gusto. E quando l’orto non basta ci sono sempre fornitori di fiducia che coltivano ciò che serve. Ma non pensate che l’orto in pizzeria sia una storia così recente: se andiamo indietro nel tempo, a prima ancora che si parlasse come oggi di sostenibilità ed economia circolare, ci sono stati dei casi di orti coltivati da qualche pizzaiolo, che con questa sua stravaganza, hanno lanciato un seme importante (ed è proprio il caso di dirlo!).
con l'orto
Alberto Morello, antesignano dell’orto in pizzeria
Pioniere dell’orto in pizzeria è Alberto Morello, che nel 2015, all’età di 26 anni, a Este, in provincia di Padova, decide durante i lavori di ristrutturazione del suo Gigi Pipa, a pochi passi dall’antico castello medievale, di metterci qualcosa che (probabilmente) nessun altro aveva: un orto. Il concetto di orto è univoco, non pensate a una sfilza di piante aromatiche sul da-
vanzale o a dei pomodori piantati in vaso ma qui si parla di un vero e proprio orto produttivo, coltivato a pochi metri dal forno a legna. L’idea nasce da una domanda semplice che trova risposta in modo altrettanto immediato: “E se le verdure me le coltivassi da solo?”. Da allora sono trascorsi 10 anni e Gigi Pipa ha sempre il suo orto a spreco zero, seppure oramai - e per fortuna - non sia in Italia l’unico caso. È qui che vengono coltivati i prodotti di stagione utilizzati per farcire le pizze e offrire al commensale un’esperienza gastronomica che diventa un piccolo viaggio nella filiera cortissima.
L’Orto di Ciccio
Ciccio Vitiello, che fa parte di quella comunità di pizzaioli per il cambiamento, nel 2022 dà forma al suo Cambia-Menti e qui ogni anno introduce qualche novità green e ovviamente anche l’orto. La valorizzazione del territorio e una maggiore attenzione al vegetale, sempre più centrale nei suoi topping, lo portano verso la scelta virtuosa di avere un suo campo dove coltivare direttamente ciò che andrà sulle sue pizze. L’Orto di Ciccio si trova ai piedi del sito storico di San Leucio, patrimonio Unesco in provincia di Caserta, in un terreno riportato alla vita dopo oltre dieci anni di abbandono. Un ritorno alle origini ad appena 300 metri dalla sua pizzeria, mentre nel giardino interno di recente ha installato una vertical farm con im-
pianto idroponico che permette di coltivare ortaggi ed erbe aromatiche fuori suolo: qui le radici delle piante sono immerse in una soluzione nutritiva e questo implica un minor consumo di acqua e un raccolto sempre disponibile.
Cosa ha messo in produzione Ciccio Vitiello? Una serie di prodotti utili per tutto l’anno come scarola riccia, lattuga rossa e verde, bietola multicolor, pak-choi, cicoria ed erbe aromatiche come il basilico napoletano, quello greco e la sua variante limonata, a cui ha affiancato melanzane, zucchine e pomodori d’estate, friarielli e broccoli d’inverno. Un vero e proprio orto-vivente che cambia al ritmo della natura. E, come conferma lo stesso Vitiello: “Vedere crescere gli ingredienti che finiranno sulle mie pizze è per me un segnale concreto di trasparenza e attenzione per il futuro del cibo.”
Gianni Di Lella e l’orto di montagna
Di questa rivoluzione green fa parte anche Gianni Di Lella, pizzaiolo e patron del brand La Bufala di Maranello che ha aderito fin da subito al manifesto e movimento del Pizzaiolo per il Cambiamento, riadattando completamente la sua filosofia e il suo approccio imprenditoriale in un’ottica di no waste e sostenibilità. Tra le sue rivoluzioni applicate, da un paio di anni, c’è anche l’orto che rappresenta uno degli ultimi capitoli della sua pizzeria sostenibile. Eh sì, Gianni Di Lella vuole diventare un pizzaiolo-contadino, desidera avere la sua terra e produrre ciò che gli serve per la sua pizzeria: “ho comprato dei pezzi di terra in montagna – ci dice - e ho piantato i miei alberi e le mie verdure. Insomma, attraverso quella che è la mia pizza sostenibile punto dritto al futuro e investo in suo nome, affinché sia veramente migliore, come tutti ci auguriamo”.
Michele Croccia
il pizzaiolo contadino
La Pietra Azzurra è la pizzeria contadina del Cilento, fondata dal pizzaiolo Michele Croccia nel 1997 che dichiara: “Seguiamo i dettami della Dieta Mediterranea e utilizziamo solo ingredienti stagionali, preferibilmente prodotti nel Cilento dalla rete dei nostri partner storici”. La sua filosofia è semplice ma potente: unire l’amore per la pizza a quello per la terra e per il territorio che lo circonda. Michele, pizzaiolo con l’anima da agricoltore, è un vero appassionato di natura. Coltiva personalmente un orto stagionale e porta in tavola — anzi, sulla pizza — i frutti del suo raccolto, trasformando ogni piatto in un racconto autentico di stagionalità e radici. Non a caso lo chiamano il “Pizzaiolo Contadino”: perché, oltre a impastare ogni giorno per il suo locale, a studiare o insegnare con passione, trova anche il tempo (e la dedizione) per curare i suoi terreni. Il risultato? Ingredienti freschissimi, filiera cortissima e un livello di qualità che si sente al primo morso.
L’orto di famiglia a servizio della pizzeria
Tra Frosinone e Roma, c’è Luca Mastracci con il suo nuovo progetto Luca! dove la pizza diventa espressione di autenticità territoriale. Nuovo progetto, porta la firma del giovane pizzaiolo premiato che si propone di portare alta la bandiera dell’Agro Pontino e della Ciociaria, trasferendo sul disco di pasta tonda tutte le eccellenze che questo territorio offre. Per farlo, Mastracci utilizza solamente pro-
dotti a km0 e provenienti dall’orto di famiglia insieme a materie prime di realtà agricole limitrofe o di produttori artigianali locali. La sua filosofia si basa sull’autenticità, sulla stagionalità e sulla sostenibilità: ogni pizza è il risultato di un legame profondo con la terra, di una selezione attenta delle migliori materie prime e di una riscoperta delle tradizioni.
Anche Impasto Pizzeria Contemporanea a San Lorenzo del Vallo (Cs) ha ben chiara la strada da percorrere, ovvero quella del forte legame con il territorio, della stagionalità e della sostenibilità. Un approccio alla pizza che mette al centro della sua proposta il rispetto per l’ambiente e la valorizzazione dell’agroalimentare calabrese, oltre alla scelta di applicare una cucina senza sprechi e che mette insieme solo piccole produzioni locali, creando una serie di lievitati a filiera corta e cortissima. Quella di Francesco Viceconte, titolare e pizzaiolo di Impasto, è una scelta consapevole e sostenibile: solo prodotti calabresi e di zona sulla pizza, con una produzione autonoma dei vegetali. Grazie all’azienda agricola di famiglia, si può avere sempre prodotto fresco e ovviamente a km0.
Farina e prodotti da forno
RICERCARE
L ECCELLENZA.
di Giampiero Rorato
abbiamo scritto giusto qualche mese fa che le tre piante fondamentali della civiltà occidentale sono il frumento, l’olivo e la vite e, in questo mese, ci soffermiamo sul frumento. Oggi, infatti, la nostra alimentazione senza il frumento non sarebbe “pensabile”: basti fare riferimento al pane, alla pasta, ai biscotti, ai dolci che sono parte importantissima del cibo, sia in casa che nei ristoranti. Attualmente, nel mondo ci sono molte varietà di frumento, sia per quanto riguarda il grano duro che il grano tenero. Restando in Italia, è possibile ripercorrere sia pur brevemente le tante storie che riguardano questo cereale ormai indispensabile nella nostra alimentazione. Ma da quanto esiste il frumento in Italia? Ad introdurlo nel nostro Paese sono stati nell’VIII-VII secolo prima di Cristo i coloni greci che giunsero sia in Sicilia che nell’Italia meridionale: Calabria, Puglia, Basilicata, Campania. I Greci conoscevano già il frumento fin dai tempi più antichi, come ce lo ricordano il mito degli Argonauti e la guerra di Troia.
Argo e i suoi compagni - racconta il mito - partirono dalla Grecia per andare a conquistare il “vello d’oro”, cioè il mantello dorato di un montone che viveva nelle terre ad est del Mar Nero (nell’attuale Georgia); in verità, la storia dice che navi greche andavano in quei territori lontani ad acquistare frumento che lì cresceva in abbondanza. La guerra di Troia- circa XII sec. a.C.- scoppiò perché i Greci s’erano stancati di lasciare buona parte del frumento ai Troiani, la cui città era ai bordi dello Stretto dei Dardanelli. I Greci acquistavano grano anche in Egitto, che era allora il “granaio del Mediterraneo”.
In Egitto, il primo frumento era arrivato dalla “Mezzaluna fertile” e dall’altipiano del Khorasan, una vasta area tra Iran, Afghanistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Quando i coloni arrivarono nell’Italia meridionale - la ben nota “Magna Grecia” - portarono ciascun gruppo le varietà di frumento che conoscevano, fra cui il Khorasan, il Timilia, il Perciasacchi e il Russello, frumenti che da allora pur tra alterne vicende continuano ad essere coltivati.
LE IBRIDAZIONI SPONTANEE
Nel corso dei secoli, quei vari tipi di frumento si mescolarono fra loro ottenendo quindi degli incroci spontanei che diedero vita a nuove varietà e così avvenne per secoli fino all’inizio del Novecento. A salvarsi, pare siano stati solo il Khorasan e il Timilia oggi rispettivamente presenti tra Puglia e Basilicata e in Sicilia. È certo che ci furono incroci spontanei che migliorarono la specie e che perciò furono conservate dai produttori seminandole per la successiva annata agraria. Altre specie non risultarono soddisfacenti e perciò vennero abbandonate. Questo tipo di rapporto degli agricoltori italiani con il frumento superò indenne le mille avversità che sconvolsero nei secoli la penisola italiana. Guerre, carestie, alluvioni, grandinate, modificarono le stesse aree di coltivazione del frumento, mentre nel Medioevo andò differenziandosi la coltivazione fra il cosiddetto “grano duro” e il “grano tenero”. Il grano duro aveva trovato il suo habitat ideale nelle regioni del centro-sud Italia, soprattutto per questioni di clima caldo e assolato. Nelle regioni del centronord, si trovò più conveniente coltivare il grano tenero. In entrambi i casi, le vecchie produzioni si aggiravano sui 20 quintali di frumento per ettaro.
NAZARENO STRAMPELLI
All’inizio dello scorso secolo, un serio genetista marchigiano, Nazareno Strampelli (1866-1942) s’innamorò del frumento coltivato nel territorio di Rieti ma era un frumento di enorme altezza, circa 170-180 cm, per cui allettava facilmente, pregiudicandone la quantità produttiva. Strampelli, partendo dal “Rieti” ed operando una serie di incroci con altri frumenti, fra cui nordafricani e perfino giapponesi, diede vita a tutta una serie di nuove varietà dallo stelo molto più corto e con una produzione per ettaro doppia o addirittura tripla.
Il grano duro più famoso ottenuto da Strampelli è stato il “Senatore Cappelli”. Fra i grani teneri, ricordiamo “Balilla”, “Mentana”, “San Pastore”. Nazareno Strampelli fu l’anima della cosiddetta “battaglia del grano”, voluta da Mussolini tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso per tentare di essere autonomi nella produzione del grano necessario agli Italiani. Dagli anni ’50 del secolo scorso, altri genetisti lavorarono intorno a nuovi incroci, anche modificando quelli dello Strampelli e il risultato è che attualmente in Italia abbiamo due grandi tipologie di frumento.
Innanzitutto, i grani tradizionali di casa nostra, pur geneticamente modificati attraverso incroci che possono essere riseminati di anno in anno senza ricorrere a grani esterni; ci sono, poi, i frumenti cosiddetti “sterili”, il cui seme deve essere annualmente acquistato se lo si vuole riprodurre. Probabilmente, hanno una resa in Q/ha superiori agli altri ma non hanno nulla a che vedere con la storia della nostra civiltà alimentare.
PANE PASTA DOLCI
Credo che cuochi, pizzaioli, pasticceri, industrie del settore debbano oggi riflettere seriamente sulla scelta delle farine necessarie per la propria attività. I lettori più anziani certamente ricordano il profumo di pane che si sentiva attorno ai vecchi forni paesani e cittadini, un profumo oggi in tante parti scomparso. Il nostro racconto sulla storia del frumento è dunque un invito innanzitutto ai docenti degli Istituti e delle scuole alberghiere affinché nella loro attività didattica non s’accontentino delle farine generosamente offerte da tanti mulini ma sappiano scegliere con intelligenza e competenza le farine migliori qualitativamente per le caratteristiche nutrizionali, il rispetto della salute e la loro bontà. Oggi tutti desideriamo mangiare bene, cibi sani e salutiferi ed è possibile. In Italia abbiamo un’ottima tradizione, specie in tante parti del centro-sud dove si conservano i grani antichi, dove le tecniche di lavorazione, l’impiego della pasta acida (lievito madre), le caratteristiche dei forni e l’amore per il pane -caratteristica questa di tutti i fornai artigiani italiani - assicurano del pane di alta e altissima qualità che il mondo intero ci invidia.
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Cheese: c’è un mondo intorno
I formaggi a latte crudo protagonisti della manifestazione a Bra dal 19 al 22 settembre
a cura di Slow Food Italia www.slowfood.it
Torna la più amata delle manifestazioni di Slow Food, quella che ogni due anni rende Bra - cittadina inserita nel contesto patrimoniale del turismo di Alba, Langhe e Roero che ha dato i natali a Slow Foodla capitale mondiale del formaggio. Nelle sue diverse edizioni, Cheese ha tracciato un percorso che pone in risalto le diverse componenti di un grande formaggio.
Che per Slow Food è quello fatto con il latte crudo, ricco di fermenti naturali, realizzato nel rispetto del benessere animale e privilegiando le razze locali, il cui latte trae origine da prati e pascoli ricchi di essenze foraggere e di biodiversità. Ora siamo alla 15esima edizione di Cheeseche si svolgerà a Bra dal 19 al 22 settembre - e Slow Food è di nuovo in prima linea per difendere i formaggi artigianali a latte crudo, insieme a tutta la sua rete e a tante altre associazioni e organizzazioni.
A fine luglio, Slow Food Italia – l’associazione che ha appena rieletto Presidente Barbara Nappini per i prossimi quattro anni – ha inviato un documento alle Istituzioni per porre attenzione su quanto sta accadendo.All’indomani della pubblicazione delle linee guida da parte del Ministero della Salute per il controllo del rischio STEC nel latte crudo e nelle produzioni casearie, Slow Food Italia ha inteso esprimere preoccupazione per il futuro di molte aziende casearie italiane che producono formaggi a latte crudo. Le soluzioni individuate e consigliate dal Ministero prevedono controlli gravosi che vanno al di là delle possibilità economiche di molti produttori e sono spesso inattuabili per chi produce, in particolare, in alpeggio.
Slow Food Italia ha messo a punto un documento che prende posizione sul tema, consapevole della ricchezza incommensurabile che le produzioni a latte crudo rappresentano in termini di biodiversità, ecosistemi, razze animali, conoscenze e tradizioni, oltre che la loro importanza nella gestione ambientale delle aree interne già a rischio spopolamento. Il documento invita i decisori politici a valutare con attenzione e sensibilità le ragioni dei produttori artigianali a latte crudo che si sono sentiti chiamati in causa complessivamente, laddove le responsabilità sono da ricondurre a singole responsabilità.
Questo documento chiede che sia difesa la dignità e il futuro dei formaggi a latte crudo e di tante economie montane, legate indissolubilmente alla conservazione dei territori, garantita dagli allevatori e dai produttori caseari. “Siamo coscienti –si legge nel documento – che l’Escherichia coli STEC può generare, in casi rarissimi, problemi gravi ad alcune categorie di consumatori fragili ma questo batterio si trova anche nelle carni crude, nei salumi, negli ortaggi, nelle farine, perfino nell’acqua che beviamo, eppure l’iniziativa del Ministero si concentra solo sui formaggi a latte crudo. Gli stessi dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità al Centro Europeo di Controllo delle Malattie (ECDC) mostrano come il numero dei casi di infezione da STEC riportato in Italia sia molto inferiore rispetto a quello di numerosi altri Paesi europei”.
Nel 2023, i casi di contaminazione da STEC accertati in Italia sono stati 96, pari a un’incidenza sulla popolazione dello 0,0001%, nessun decesso fortunatamente in quell’anno in Italia. In Europa i casi sono stati 10.217, in 31 casi fatali. La Listeria - che si ritrova anche nei formaggi a latte pastorizzato e la cui letalità è di gran lunga maggiore, superiore al 20%, nello stesso anno ha visto 231 casi in Italia e 2952 in Europa (fatali per 335 persone).
Secondo Slow Food, riguardo al tema degli STEC, anziché costruire un’impalcatura di controlli complessi e costosissimi, in un Paese che già prevede controlli sanitari attentissimi e veterinari solerti, sarebbe opportuno prevedere un piano di formazione per produttori e allevatori e una corretta e attenta comunicazione per i consumatori, che preveda anche l’indicazione delle dovute precauzioni per le categorie fragili.
Forse non è troppo tardi per ristabilire un’informazione equilibrata che non generi allarmismi inutili e dannosi, che tenga in considerazione il valore delle produzioni a latte crudo, non solo dal punto di vista organolettico, ma anche sotto il profilo nutrizionale, aspetto a cui in questi mesi non si è mai fatto cenno. Anche volendo lasciare da parte il danno qualitativo e culturale causato dalla perdita di formaggi tradizionali a latte crudo, la pastorizzazione implicherebbe la diminuzione dei prezzi di mercato dei prodotti (un formaggio a latte pastorizzato può subire un calo del prezzo anche del 30%), i costi dell’energia necessaria per far funzionare i pastorizzatori triplicherebbero, servirebbe il doppio di acqua per raffreddare il latte, e di acqua ce n’è sempre meno.
I produttori stanno traendo le ovvie deduzioni e moltissimi lasciano, o lasceranno a breve, questo mestiere.
Di questo e di molto altro si parlerà a Cheese 2025, organizzato da Slow Food e Città di Bra, con il supporto di Regione Piemonte, il patrocinio del Ministero dell'Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste e del Ministero del Turismo, il contributo di Ente Turismo Langhe Monferrato Roero, della Camera di Commercio di Cuneo e del progetto LIFE della Commissione Europa e di numerose realtà che credono nell'evento. Partner culturale è l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale.
LE AZIENDE
COSTRUIRE IL FUTURO SOSTENIBILE DELLA PIZZERIA, INSIEME
AGUGIARO & FIGNA MOLINI
Via Monte Nero 111, 35010
Curtarolo (Pd), Italy
Nel mondo della pizza, il cambiamento non è più una scelta opzionale, ma una risposta necessaria a sfide ambientali, sociali ed economiche sempre più urgenti. La figura del pizzaiolo, da sempre custode di una tradizione gastronomica profondamente radicata, si sta oggi trasformando in protagonista di una nuova narrazione: quella della sostenibilità.
Oggi, il pizzaiolo è chiamato a essere non solo artigiano del gusto, ma imprenditore consapevole, innovatore culturale, attivatore di cambiamenti concreti nella filiera agroalimentare. Questo ruolo evolutivo è stato al centro del workshop “Pizzeria del Cambiamento”, promosso da Agugiaro & Figna Molini in collaborazione con l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. L’evento, tenutosi il 24 giugno 2025, ha coinvolto 23 professionisti del settore in un esercizio collettivo di analisi, confronto e progettazione.
PENSARE
IL CAMBIAMENTO: METODO E VISIONE
Il workshop ha adottato un impianto metodologico avanzato, fondato su tre strumenti: la Teoria del Cambiamento, l’Arco del Cambiamento (secondo il modello di John Kotter) e il pensiero sistemico. Questi approcci hanno permesso di disegnare una mappa degli ostacoli alla transizione ecologica e sociale delle pizzerie, ma soprattutto di individuare azioni concrete, verificabili e condivise.
I partecipanti sono stati guidati nella costruzione di un piano logico di intervento: dalla definizione degli obiettivi di lungo periodo, alla ricostruzione delle precondizioni necessarie per raggiungerli, fino alla formulazione delle azioni. L’approccio ha valorizzato le competenze tecniche e relazionali degli operatori coinvolti, con un’attenzione specifica alla dimensione collettiva del cambiamento.
SEI AMBITI CHIAVE PER UNA TRASFORMAZIONE REALE
Nel corso dei lavori sono stati individuati sei abiti prioritari:
1. Spreco alimentare: razionalizzazione dei menù, porzioni equilibrate, gestione delle eccedenze;
2. Qualità della filiera e coesione della rete: scelta di fornitori locali, etici, tracciabili;
3. Qualità della vita lavorativa: miglioramento dell’equilibrio tra tempi di lavoro e vita privata, valorizzazione delle competenze;
4. Materiali ecocompatibili: packaging sostenibile, riduzione del monouso;
5. Consumo energetico e risorse: ottimizzazione dei processi, fonti rinnovabili;
6. Comunicazione: costruzione di narrazioni credibili e coinvolgenti.
Le proposte sono emerse da un confronto autentico tra colleghi con modelli di gestione diversi, ma accomunati da una volontà di cambiamento condivisa.
DALLA DIAGNOSI ALLE SOLUZIONI
Grazie agli strumenti del pensiero sistemico, la pizzeria è stata letta come un ecosistema complesso, in cui ogni decisione influenza il tutto. Il pizzaiolo diventa così un gestore di flussi materiali, relazionali e simbolici, e la sostenibilità si configura come un orientamento progettuale permanente.
Ogni gruppo ha proposto interventi mirati:
• ridisegno dei menù in ottica anti-spreco;
• formazione interna continua;
• reazione di centrali d’acquisto per materiali e attrezzature sostenibili;
• attivazione di comunità energetiche;
• comunicazione integrata con i clienti.
Le azioni sono state valutate in base a fattibilità, impatto e replicabilità, e corredate da indicatori come: percentuale di riduzione dello spreco, ore di formazione, numero di fornitori etici, risparmio energetico per kg di prodotto, livello di ingaggio del cliente.
AGUGIARO
& FIGNA:
UNA FILIERA
CHE CAMBIA
A sostenere questo processo è Agugiaro & Figna, che da anni investe in una transizione concreta verso modelli produttivi più etici, resilienti e a basso impatto. L’impegno aziendale si articola su più fronti:
• Filiere agricole tracciabili e selezionate, costruite in collaborazione con fornitori che condividono standard qualitativi e ambientali elevati.
• Relazioni di filiera strategiche, fondate sulla condivisione di valori con partner e aziende impegnate nella stessa visione.
• Progetti infrastrutturali per la decarbonizzazione, in particolare il recente accordo con Edison per un impianto fotovoltaico off-site da 3,2 MWp.
Questo progetto, basato su un Power Purchase Agreement (PPA), permetterà di coprire fino al 20% del fabbisogno energetico dei siti produttivi di Collecchio (PR), Curtarolo (PD) e Magione (PG), con una produzione attesa di oltre 5 GWh annui e una riduzione stimata di circa 1.300 tonnellate di CO₂ all’anno. Un intervento che si inserisce in una strategia più ampia, che comprende anche:
• l’acquisto di energia elettrica 100% da fonti rinnovabili;
• l’installazione di impianti fotovoltaici presso gli stabilimenti;
• l’utilizzo esclusivo di carta certificata FSC per il packaging;
• l’adozione di modelli gestionali orientati alla circolazione e all’efficienza delle risorse.
Questo approccio olistico e progressivo mira a trasformare ogni nodo della filiera in un elemento virtuoso, coerente con i principi dell’economia circolare.
CULTURA E VISIONE
CONDIVISA
Ciò che rende autentico questo percorso è la coerenza tra parole e azioni. Sostenibilità, in questo contesto, non è uno slogan né un obiettivo da raggiungere una tantum: è un processo continuo, che richiede ascolto, formazione, adattamento. È una postura culturale, prima ancora che tecnica.
Il pizzaiolo del cambiamento, in questa visione, è colui che osserva le conseguenze dei propri gesti sul sistema complesso in cui opera. È un imprenditore che sceglie consapevolmente, ogni giorno, quali valori portare in pizzeria insieme agli impasti e agli ingredienti.
CONCLUSIONE: UN CANTIERE APERTO
Il workshop di Pollenzo ha dimostrato che una nuova generazione di pizzaioli è pronta a raccogliere la sfida. Condividere strumenti, valori, esperienze e responsabilità è la chiave per costruire una rete capace di generare trasformazioni concrete e durature.
Agugiaro & Figna continuerà a farsi promotrice di questo cambiamento, mettendo a sistema saperi, alleanze e risorse per favorire un'evoluzione collettiva e sistemica. Perché il futuro della pizza italiana non è soltanto nel gusto, ma nella coscienza di chi la fa. E in quella di chi la sceglie.
C'È DEL TECNOLOGICO IN QUESTO GREEN ?
di Domenico Maria Jacobone
Innovazione e sostenibilità dal campo alla tavola
Un’alba rosata illumina le campagne emiliane. Ai piedi di un antico casale, tra filari di pomodori maturi, non si sente solo il rumore di trattori: un container rosso brillante è al lavoro, trasformando sul posto quei frutti in passata appena colta. Non è fantascienza, ma la realtà dell’InstaFactory di Mutti, una mini-fabbrica mobile che segue i raccolti per ridurre tempi, trasporti e sprechi. Scene come questa raccontano un cambia-
mento in atto: tradizione agricola e tecnologie d’avanguardia iniziano a camminare insieme, nella ristorazione e nell’alimentare, per un futuro più green. Ma c’è del tecnologico in questo green? Le storie che seguono – tra campi verticali, robot pizzaioli e ingredienti nati in laboratorio –mostrano come l’innovazione, se ben indirizzata, possa dare linfa nuova alla sostenibilità ambientale, economica e qualitativa.
Nei campi e negli stabilimenti: innovazione sostenibile in produzione
L’InstaFactory mobile di Mutti processa i pomodori direttamente in campo, riducendo trasporti e preservando la qualità della passata (Fonte: Mutti/LifeGate). Nel mondo agricolo italiano, culla di materie prime d’eccellenza, l’innovazione tecnologica sta germogliando accanto alle piante. Mutti – storico nome del pomodoro – ne è un esempio concreto. Da sempre attenta alla qualità, l’azienda parmense ha investito in soluzioni hi-tech per rendere più sostenibile la filiera. L’InstaFactory citata poc’anzi ne è la prova più evocativa: un impianto mobile e autonomo che scende nei campi durante il raccolto e trasforma immediatamente i pomodori in conserve, evitando il trasporto in stabilimento. Così si accorciano le distanze tra terra e fabbrica, si preservano meglio le qualità organolettiche (la passata “Sul Campo” prodotta così è di fre-
schezza eccezionale) e si tagliano emissioni dovute ai camion. Ma l’approccio high-tech di Mutti non finisce qui.
Già dal 2010 l’azienda, in collaborazione con il WWF, ha iniziato a misurare l’impronta idrica della propria produzione e ad aiutare gli agricoltori a irrigare in modo più efficiente. Attraverso sensori e servizi di gestione innovativi, le aziende agricole fornitrici hanno ridotto in media del 14% l’acqua utilizzata per coltivare i pomodori. È la conferma che persino in un settore di tradizione come l’agricoltura, tecnologie mirate (dall’irrigazione smart alla fabbrica itinerante) possono portare benefici misurabili all’ambiente senza sacrificare la qualità – anzi, migliorandola.
Se Mutti porta la fabbrica sul campo, altri portano il campo in fabbrica. A Cavenago, alle
porte di Milano, sorge la più grande vertical farm d’Europa: uno stabilimento futuristico di agricoltura indoor creato dalla giovane azienda “Planet Farms”. Qui insalate, basilico e rucola crescono non sotto il sole, ma sotto LED calibrati e su scaffali a più piani, in un ambiente controllato e sterile. Il risultato? Foglie croccanti e profumate disponibili tutto l’anno, senza uso di pesticidi, con un consumo di suolo ed acqua drasticamente ridotto. I numeri parlano chiaro: il sistema di coltivazione verticale messo a punto da “Planet Farms” permette di risparmiare oltre il 95% di acqua rispetto all’agricoltura tradizionale e di utilizzare più del 90% in meno di suolo, il tutto garantendo una produzione costante e locale. In pratica, si avvicina la fattoria alla città, eliminando lunghi trasporti e restituendo terreno all’ambiente. Persino i prodotti della terra più
iconici trovano una nuova vita hi-tech: “Planet Farms” ha lanciato un pesto (“PestOOH”) ottenuto con basilico coltivato indoor, dal sapore intenso come quello del basilico ligure ma coltivato a pochi chilometri dal consumatore. Questa integrazione fra tecnologia e agricoltura sta trasformando il lavoro nei campi: non più solo trattori e zappe, ma sensori, algoritmi e camere bianche che collaborano per un cibo “buono due volte” – per chi lo gusta e per l’ambiente.
Anche nelle grandi industrie alimentari la sostenibilità viaggia sul binario dell’innovazione. Barilla, colosso della pasta, sta integrando strumenti digitali e soluzioni green in ogni fase della filiera, con approccio molto concreto. Nel nuovo Rapporto di Sostenibilità del gruppo spiccano iniziative che vanno dal packaging all’energia rinnovabile: ad esempio l’uso di vasetti di vetro riciclato per il pesto e l’adozione di un sistema blockchain per tracciare il basilico dal campo al vasetto. Inquadrando un QR-code sul barattolo, il consumatore può scoprire l’origine e il percorso delle foglie di basilico, garantito da una tracciabilità digitale
sicura. Questo non è solo marketing, ma costruzione di fiducia e qualità: sapere da dove viene un ingrediente, incentiva pratiche agricole più responsabili (se un lotto non rispetta gli standard, la “catena di blocchi” lo evidenzia).
Sul fronte agricolo, Barilla ha coinvolto oltre 7.000 agricoltori italiani in programmi di filiera sostenibile per grano duro e tenero, fornendo linee guida e strumenti digitali per ridurre impatti ambientali. In collaborazione con la startup “x-Farm”, ha sviluppato una piattaforma gestionale che aiuta a monitorare le coltivazioni in tempo reale: sensori IoT nei campi e dati satellitari segnalano all’agricoltore quando intervenire, ottimizzando l’uso di acqua, fertilizzanti e fitofarmaci. Il sistema calcola anche quattro indicatori chiave (impronta di carbonio, idrica, eutrofizzazione e acidificazione) per valutare la sostenibilità di ogni raccolto. Questi dati, visibili nell’app “Barilla Farming”, permettono sia al contadino sia all’azienda di prendere decisioni informate per migliorare processi e impatti. I vantaggi non sono
solo ambientali: agricoltura di precisione significa meno sprechi e spesso rese migliori, dunque beneficio economico lungo la filiera. Parallelamente, Barilla investe sulle energie rinnovabili per alimentare i propri stabilimenti – già oggi circa il 50% dell’energia elettrica usata dal gruppo proviene da fonti rinnovabili e l’obiettivo al 2030 è installare impianti fotovoltaici per 24 MW di potenza. Dalla terra al pastificio, insomma, la via della sostenibilità passa per innovazioni tangibili: agricoltura digitale, energia pulita, tracciabilità trasparente. Anche un prodotto antico come la pasta può beneficiare di queste tecnologie “invisibili”, mantenendo però intatta la propria anima fatta di grano, sole e lavoro dell’uomo.
Dalla cucina alla tavola: ristorazione 4.0 tra efficienza e minor spreco
Se nei campi l’innovazione sta rivoluzionando produzione e ingredienti, nelle cucine e nelle sale dei ristoranti non è da meno. Dal forno al tavolo, la tecnologia offre strumenti per ridurre impatti e migliorare servizi, pur mantenendo – quando ben applicata – il cuore dell’ospitalità e del saper fare artigianale. Pensiamo alla pizzeria contemporanea: un luogo dove il calore del forno a legna e la manualità
del pizzaiolo convivono, talvolta, con algoritmi e automazione invisibili al cliente ma preziosi per il pianeta (e per il portafoglio del gestore).
Anche ristoranti di altro genere, magari meno “industriali” nell’immaginario, stanno traendo vantaggio dalla tecnologia. La catena statunitense “Sweetgreen”, specializzata in insalate e bowl gourmet, è diventata un caso di studio per come unire digitale, sostenibilità e customer experience. Nata con la missione di connettere le persone a cibo sano, “Sweetgreen” ha investito molto in una piattaforma digitale efficiente: l’80% dei clienti ordina tramite app o kiosk self-service, permettendo al ristorante di prevedere con precisione la domanda e preparare le porzioni giuste, riducendo scarti di produzione. Ma dietro le quinte c’è di più. Nel 2023, l’azienda ha inaugurato la sua prima cucina
completamente automatizzata, denominata “Infinite Kitchen”: un nastro trasportatore scorre lungo una fila di dispenser che dosano ingredienti freschi in modo calibrato dentro le insalate, mentre bracci robotici mescolano e porzionano il tutto. Questa tecnologia, acquisita rilevando una startup del MIT, permette di dimezzare il lavoro umano necessario alla preparazione delle ciotole (circa metà delle mansioni in un locale “Sweetgreen” riguardavano l’assemblaggio del piatto, ora svolto in gran parte dalla macchina). I vantaggi sono molteplici: maggiore velocità e precisione nell’evasione degli ordini, porzioni sempre bilanciate al grammo (quindi nessuno spreco di ingrediente per errori di dosaggio), e personale umano che può dedicarsi di più all’accoglienza e al servizio al cliente invece di rimanere incollato al bancone a far insalate. Importante, l’azienda sottolinea come l’automazione
non avvenga a scapito del tocco umano: ogni piatto inizia comunque “con mani umane” – quelle dei contadini locali che forniscono gli ingredienti freschi e quelle dello staff che interviene a personalizzare l’esperienza in sala. La tecnologia è vista come uno strumento integrativo, non sostitutivo: il robot fa il lavoro ripetitivo e pesante, l’uomo ci mette creatività e calore. Sul fronte della sostenibilità, “Sweetgreen” abbina a queste innovazioni operative un impegno serio: ha calcolato e pubblicato l’impronta di carbonio di ogni voce di menù, offrendo anche piatti a basso impatto (la nuova Hummus Crunch Salad “pesa” solo 0,3 kg CO₂e, la portata più leggera in menu). Inoltre, alimenta il 100% dei propri ristoranti con elettricità da fonti rinnovabili (fotovoltaico) grazie ad acquisti certificati, e ha raggiunto un tasso di 79% di rifiuti compostati o riciclati nei locali dove ha attivato un programma avanzato di gestione rifiuti. L’obiettivo dichiarato è diventare carbon neutral entro il 2027. Questi risultati mostrano come digitale e sostenibilità possano andare a braccetto: monitorando i dati e innovando, “Sweetgreen” è riuscita a crescere riducendo al contempo del 12% l’intensità delle proprie emissioni (dal 2019 ad oggi). Il messaggio per i ristoratori tradizionali? Anche in una trattoria o in pizzeria si può iniziare con piccoli passi tech – sensori nei frigoriferi per controllare le temperature, software anti-spreco per prevedere l’affluenza – e ottenere risparmi energetici e meno avanzi, senza snaturare la cucina.
Tecnologia e Green: un equilibrio necessario
Alla luce di questi esempi, possiamo tornare alla domanda iniziale – “c’è del tecnologico in questo green?” – con una risposta articolata ma ottimista. Sì, nel percorso verso una ristorazione e una produzione alimentare più sostenibili c’è (e ci dev’essere) tanta tecnologia, ma non fine a sé stessa. Gli strumenti digitali, l’automazione, l’intelligenza artificiale, quando sono orientati dai giusti valori, diventano leve potenti per risolvere problemi concreti: ridurre l’impatto ambientale, migliorare l’efficienza, elevare la qualità costante e persino creare nuovi spazi di creatività. Importante è l’approccio: la tecnologia non come gadget o slogan, bensì come
mezzo integrato con la visione dell’imprenditore e del maestro artigiano. Dalle storie italiane (Barilla, Mutti, Planet Farms, Aeroporti di Roma) e quelle internazionali (Sweetgreen, Domino’s, Upside Food) emerge una lezione comune. Innovare non significa tradire la tradizione, ma può anzi voler dire proteggerla e valorizzarla in chiave moderna. Un mulino digitale aiuta a continuare a coltivare grano di qualità in un clima che cambia; un braccio robotico può sollevare il pizzaiolo da mansioni usuranti, permettendogli di concentrarsi sull’impasto perfetto; un’app antispreco ridà dignità al cibo, che torna ad essere nutrimento e non rifiuto.
Nel settore della pizza e della ristorazione, cuore del Made in Italy gastronomico, queste considerazioni sono particolarmente
rilevanti. Chi lavora con impasti, sughi e forni spesso lo fa con passione artigianale e ritmo frenetico. La sfida dei prossimi anni sarà mantenere quell’anima artigiana, quel calore umano e quella qualità sensoriale eccelsa, sfruttando però le opportunità che scienza e tecnologia offrono per essere più sostenibili e resilienti. Significa, per esempio, adottare sistemi di tracciabilità che garantiscano al pizzaiolo l’origine pulita della farina o del pomodoro che usa sul suo banco; oppure formare i giovani pizzaioli anche all’uso di strumenti digitali per il controllo delle lievitazioni e dei forni, cosicché ogni pizza napoletana sia perfetta con meno spreco di legna ed energia. Significa ripensare le consegne a domicilio – che sono diventate parte integrante del business – in chiave ecologica, coordinando magari più ordini in un unico viaggio o scegliendo mezzi a emissioni zero.
L’innovazione, quando ben calibrata, non toglie lavoro né toglie sapore: piuttosto elimina inefficienze, riduce l’impronta ecologica e apre possibilità creative. In questo, il professionista del settore – che sia pizzaiolo, ristoratore o formatore – ha un ruolo centrale: capire quali tecnologie adottare e come integrarle nel proprio modello, senza farsi travolgere dalle mode passeggere né restare chiuso al cambiamento.
In conclusione, “tecnologico” e “green” non solo possono coesistere ma, nel campo dell’alimentazione, devono procedere insieme per affrontare le sfide future. C’è tecnologia nel verde quando un’idea innovativa rende più sostenibile qualcosa di antico e prezioso come fare il pane o la pizza. E c’è del verde nelle migliori innovazioni tecnologiche quando sono guidate dalla volontà di preservare risorse, ridurre l’impatto e lasciare alle nuove generazioni un mondo – e un cibo –migliore. Come in un buon piatto di pasta, serve il giusto equilibrio di ingredienti: creatività umana, conoscenza della tradizione e strumenti moderni. L’Italia, con la sua cultura gastronomica millenaria e il suo ingegno, ha tutte le carte in regola per guidare questa integrazione virtuosa. Del resto, innovare in cucina è nella nostra natura da secoli (basti
pensare a quante tecniche – dalla conservazione sott’olio alla lievitazione – sono state “tecnologie” rivoluzionarie nelle epoche passate). Oggi le tecnologie sono digitali e veloci ma l’obiettivo non è cambiato: nutrire le persone. E, se per farlo dobbiamo abbracciare sensori, dati e robot, senza paura di mescolarli con mattarelli e forni a legna, ben venga.
L’importante è che al centro restino sempre la qualità e l’umanità: quell’attenzione amorevole al cibo e al territorio che fa la differenza tra un progetto sterile e uno realmente generativo.
La “Pizzeria Virtuosa” illumina Napoli
UN PROGETTO NATO A PARMA
CHE METTE AL CENTRO INCLUSIONE, FILIERA E SOSTENIBILITÀ
di Alfonso Del Forno
Martedì 20 maggio, nella cornice della Mostra d’Oltremare di Napoli, l’evento TuttoPizza ha ospitato la cerimonia di consegna dei premi “La Pizzeria Virtuosa”. L’iniziativa, ideata dal Centro Studi Food e Sostenibilità di Sef Consulting insieme alla rivista Pizza e Pasta Italiana, ha dato voce a un’idea semplice e rivoluzionaria: la pizzeria contemporanea non è soltanto il luogo in cui si impasta e si serve una pizza eccellente, ma un presidio culturale capace di incidere sul territorio, sulle persone e sull’ambiente.
Il progetto Pizzeria Virtuosa era stato presentato ufficialmente lo scorso aprile a Parma, durante i lavori del Campionato Mondiale della Pizza e nel contesto del World Pizza Forum. In quell’occasione si erano definiti i principi guida e i filoni d’indagine; a Napoli, di fronte a un pubblico internazionale di addetti ai lavori, il percorso ha trovato compimento con la prima consegna dei riconoscimenti. Un passaggio ideale dalla teoria alla pratica, dalla visione al racconto concreto di chi, ogni giorno, traduce quei valori in scelte misurabili.
TRE PREMI, TRE TRAIETTORIE DI VIRTUOSITÀ
Sul palco napoletano era presente Errico Formichella, CEO di Sef Consulting, che ha introdotto la filosofia dell’iniziativa, sottolineando come “la competitività oggi passi anche dalla capacità di essere responsabili, inclusivi, trasparenti” e, riprendendo il filo del dibattito, ha evidenziato che la Pizzeria Virtuosa non è un caso isolato ma un modello replicabile, una sintesi tra made in Italy gastronomico e innovazione responsabile. Caterina Orlandi, in rappresentanza di Pizza e Pasta Italiana, ha rimarcato l’impegno della storica testata nel valorizzare non solo i risultati in cucina, ma anche le buone pratiche che stanno dietro a ogni impasto e a ogni topping.
Il premio “La Pizzeria Virtuosa” si articola in tre categorie che corrispondono ad altrettanti pilastri del progetto: Sostenibilità – ESG, Filiera e Carta Rosa. Tre prospettive che, insieme, compongono l’identikit della pizzeria del futuro.
PAGINA
PREMIO SOSTENIBILITÀ –
ESG
PREMIO
SOSTENIBILITÀ – ESG
GIUSEPPE MAGLIONE
(DANIELE GOURMET, AVELLINO)
Giuseppe Maglione è stato premiato per aver costruito un modello imprenditoriale capace di tenere insieme gusto ed etica. Nelle sue pizzerie il concetto di sostenibilità non è uno slogan, ma un sistema: ingredienti stagionali scelti con rigore, riduzione degli sprechi alimentari, utilizzo di energie rinnovabili, packaging a basso impatto, formazione continua del personale e una governance basata su trasparenza e condivisione. La sua pizza “gourmet sostenibile” dimostra che la ricerca gastronomica può crescere di pari passo con la responsabilità ambientale e sociale. Maglione ha ricordato come “educare il cliente a un consumo consapevole sia parte integrante del nostro lavoro: la pizza può essere un ponte tra piacere e consapevolezza”.
PREMIO FILIERA
MICHELE CROCCIA
(LA
PIETRA AZZURRA,
CASELLE IN PITTARI)
Per Michele Croccia la parola chiave è radicamento. La sua pizzeria nel Cilento è il centro di un microcosmo agricolo che lui stesso cura: coltiva ortaggi e grani, seleziona piccoli produttori, riscopre varietà dimenticate. La filiera corta non è solo una strategia di approvvigionamento, ma una scelta identitaria che racconta un territorio attraverso il cibo. Ogni ingrediente ha un volto e una storia; ogni pizza diventa un atto di restituzione alla comunità. Croccia incarna l’idea di economia circolare applicata alla ristorazione: il ciclo della materia prima è trasparente, gli scarti tornano alla terra, il cliente viene coinvolto e informato. Il suo approccio dimostra che valorizzare il locale significa generare valore globale, economico e culturale.
Giulia Zanni rappresenta la forza dell’inclusione e della parità di genere in un settore storicamente maschile. Prima donna a vincere la categoria Pizza Classica al Campionato Mondiale della Pizza 2024, è il simbolo di un cambiamento reale: la competenza non ha genere, la leadership femminile porta visioni nuove e una sensibilità diversa nel modo di intendere il lavoro. La sua pizza è laboratorio e manifesto: farine integrali, ortaggi bio, autoproduzione, filiera corta e creatività sostenibile. Il premio “Carta Rosa” è il riconoscimento di un percorso personale e collettivo, un esempio che incoraggia altre professioniste a prendersi lo spazio che meritano. Zanni, impossibilitata a partecipare alla cerimonia, ha inviato un messaggio di saluto in cui ha ringraziato per l’attenzione “verso un tema che non è moda, ma diritto: dare a tutte e a tutti le stesse opportunità”.
PREMIO CARTA ROSA
PREMIO CARTA ROSA
GIULIA ZANNI
LA VOCE DEI
PROTAGONISTI
E IL MESSAGGIO
DI SISTEMA
UN MODELLO APERTO
Nel corso della cerimonia tutti i partecipanti hanno portato un contributo che ha ampliato la prospettiva oltre la singola premiazione. Formichella ha parlato di “casi studio replicabili”, enfatizzando l’intento del Centro Studi di definire linee guida, strumenti e indicatori con cui misurare la virtuosità; ha inoltre ribadito che “qualità del prodotto e qualità delle scelte” sono dimensioni inseparabili per l’impresa contemporanea. Orlandi ha ricordato come Pizza e Pasta Italiana stia investendo da tempo su formazione e cultura professionale, perché “non c’è innovazione senza conoscenza condivisa”.
L’atmosfera a TuttoPizza ha reso evidente quanto questi temi siano ormai centrali per l’intero comparto: dalla gestione della sala al rapporto con i produttori, dall’energia utilizzata in laboratorio alla narrazione al cliente, ogni dettaglio contribuisce a definire l’identità di una pizzeria virtuosa. Napoli, con il suo carico simbolico, ha amplificato il messaggio: la tradizione non basta più, serve una nuova coscienza professionale.
DA
PARMA A NAPOLI: DUE TAPPE, UN’UNICA DIREZIONE
Il percorso che parte da Parma ad aprile e approda a Napoli a maggio non è casuale. Al World Pizza Forum, durante il Campionato Mondiale della Pizza, il progetto è stato raccontato per la prima volta al mondo della pizza. A TuttoPizza, quel racconto è diventato azione, riconoscimento, impegno pubblico. Questa doppia tappa sottolinea che la Pizzeria Virtuosa non è una parentesi, ma un cammino lungo, fatto di confronto costante e di miglioramento continuo.
Il Centro Studi Food e Sostenibilità di Sef Consulting intende infatti proseguire monitorando esperienze, elaborando strumenti di valutazione e creando occasioni di confronto professionale. L’obiettivo è trasformare il premio in un osservatorio permanente, capace di far emergere ogni anno nuove storie e nuove buone pratiche.
“La Pizzeria Virtuosa” non vuole essere un marchio esclusivo, ma un modello aperto: chiunque può intraprendere la strada dell’inclusione, della filiera trasparente e della sostenibilità integrata. I tre premiati di questa edizione sono il punto di partenza: tre esempi che dimostrano che si può fare impresa alimentare con coscienza, redditività e bellezza.
Il pubblico di TuttoPizza ha salutato la cerimonia con un lungo applauso, segno che il settore è pronto a discutere, mettersi in gioco, cambiare. Perché la pizza, patrimonio popolare e culturale, può diventare anche un laboratorio di etica applicata. E perché, come è stato sottolineato sul palco, una pizzeria virtuosa impasta valori prima ancora che ingredienti
Con questa prima edizione dei premi, Napoli lancia un messaggio forte: il futuro della pizza italiana passa dalla responsabilità. E chi saprà raccogliere questa sfida, trasformandola in progetto quotidiano, contribuirà non solo a migliorare il proprio locale, ma a rendere più sano e giusto l’intero ecosistema della ristorazione.
di Giampiero Rorato
In passato - e fin dai tempi più antichi - ci sono sempre state nei luoghi anche solo un po’ civilizzati taverne e luoghi di ristoro per viandanti e persone provvisoriamente lontane dalla propria dimora.
Venendo a tempi più recenti, sappiamo che le taverne dove mangiare e sostare per la notte si sono trasformate in “alberghi”, vagamente organizzati, presenti per esempio a Venezia fin dal tempo delle Crociate. Se, dunque, gli alberghi hanno una storia del Medioevo, i ristoranti, come oggi li conosciamo, iniziano solo alla fine del ‘700, a Parigi, al tempo della grande rivoluzione. Una vera evoluzione di alberghi e ristoranti si ha però alla fine del ‘800 per opera di due illustri personaggi: César Ritz (1850-1918) ed Auguste Escoffier (1846-1935).
IN ITALIA
L’influenza di César Ritz, il cui primo albergo è ancor oggi in Place Vendome a Parigi, si è estesa anche in Italia, tanto che a cavallo fra ‘800 e ‘900, Ritz venne chiamato nel nostro Paese per collaborare all’organizzazione di alcuni alberghi presto imitati da molti altri da Milano a Palermo. Anche Escoffier influenzò la cucina italiana dei grandi alberghi, avendo preparato nel corso della sua vita professionale numerosi allievi che operarono anche in Italia, diffondendo le sue moderne tecniche operative e le sue ricette pubblicate in “Guida alla grande cucina”, edito ultimamente in Italia da Franco Muzzio Editore nel 1990.
Va ricordato che Ritz ed Escoffier lavorarono a livello di alta ospitalità e alta ristorazione, mentre attorno c’erano alberghi più o meno moderni e una ristorazione per lo più di tipo casalingo.
TRATTORIE DI PAESE
Fatta eccezione per gli hotel più importanti e la ristorazione operata da cuochi professionisti, la gran parte dei luoghi di ristorazione in Italia erano, di fatto, sia in città che in campagna, delle trattorie casalinghe, nelle quali la cuoca era quasi sempre la moglie del titolare che ripeteva per i clienti i medesimi piatti che fino a quel momento aveva realizzato nella cucina di casa. In questi locali, i clienti trovavano i piatti della tradizione locale generalmente molto buoni, perché confezionati con materia prima sana prodotta attorno a casa, così come le carni erano quelle allevate nell’aia di casa. In genere, si trattava di “osterie con cucina”, diffusissime in tutta la penisola: sane, buone, con prezzi alla portata di tutti.
Una loro interessante evoluzione si è avuta nella seconda metà del secolo scorso quando, alle mamme ormai anziane, si sostituivano i figli, che avevano spesso compiuto un utile apprendistato presso le migliori cucine della zona. Poi, sono comparse le prime guide gastronomiche; sono state aperte delle apposite scuole, molto frequentate per chi amava imparare a lavorare in modo professionale ai fornelli e ci sono stati dei cuochi e dei gastronomi importanti, come Luigi Carnacina, Ada Boni, Gualtiero Marchesi che hanno contribuito a rinnovare e affidare la cucina italiana, conservandone le radici e le caratteristiche territoriali.
Pian piano, le vecchie “osterie con cucina” con i loro ambienti rustici e ben curati, arricchite dal calore della famiglia titolare, sono quasi scomparse per una serie di motivazioni che gli addetti ai lavori ben conoscono, sostituite spesso da bar dove si può mangiare qualche piatto freddo, tramezzini, affettati, insalate.
GLI AGRITURISMI
All’inizio del ‘900, i territori montani dolomitici, ove vive una popolazione di lingua ladina, cominciarono ad ospitare per il periodo estivo famiglie di turisti provenienti per lo più dall’Europa Centrale. Generalmente, queste famiglie venivano ospitate nei masi dell’alto Adige e delle zone di confine dell’alto bellunese dagli agricoltori locali, con i quali - per il periodo di sosta - condividevano quasi tutto, in particolare il cibo e il lavoro. Mangiavano, dunque, alla stessa tavola della famiglia ospitante: gli uomini lavoravano tutti assieme nei campi, nella fienagione, nei pascoli con le mucche, nella coltivazione di prodotti agroalimentari mentre le donne lavoravano in casa aiutando le ospitanti nei lavori di pulizia, lavaggio della biancheria e nel preparare il cibo.
Questa tradizione molto gradita ai turisti d’oltralpe ne fece aumentare l’affluenza e alcune località come Cortina d’Ampezzo, Merano, Madonna di Campiglio si organizzarono per offrire un’ospitalità più tranquilla, mettendo a disposizione delle camere e le stesse cucine, naturalmente a pagamento. In questi territori, come nel nord della Lombardia, attorno ai grandi laghi, in Valle d’Aosta e in diverse aree del Piemonte, ebbe inizio un movimento turistico sempre più intenso, che continua.
E i primi locali che ospitarono nei loro “masi” i turisti che fine hanno fatto? Non erano né alberghi né ristoranti ma hanno dato vita ad una nuova forma di turismo, anche solo locale, che si è andato anch’esso sviluppando in modo del tutto autonomo a quello degli alberghi e dei ristoranti ufficiali. A capire per primi il valore anche economico dell’esperienza altoatesina sono stati i toscani. Ed è infatti in Toscana che sono sorti in modo diffuso i primi moderni “agriturismi”.
“Agriturismo” significa, come era nei masi altoatesini, turismo in campagna; quindi, questi primi agriturismi toscani ospitavano i turisti che arrivavano anche da molto lontano offrendo camere ben arredate, servizi igienici in genere eccellenti, ottime cucine, permettendo a questi ospiti di girare per il territorio, visitare paesi, rocche medioevali, musei, famose cantine.
Va riconosciuto che non ci volle molto per veder spuntare agriturismi un po’ ovunque in Italia, sia nel rispetto della vera tradizione ma anche con significative varianti, a dimostrazione della fantasia e della capacità creativa del mondo contadino. Ci sono infatti agriturismi dove si può prendere il cavallo e compiere dei bei percorsi tra i campi, nei boschi, in collina, lungo i fiumi e in riva al mare; altri dove è possibile vedere in casa un vero e proprio museo del territorio con gli attrezzi agricoli e di casa che ricordano il lavoro dei secoli passati; altri ancora dove si possono acquistare i prodotti della campagna e degli orti, come vino, olio d’oliva, ortaggi, insaccati di maiale, formaggi ed altro ancora.
IL FUTURO
Ci sono in tutta Italia ottimi esempi di agriturismi ricchi di una qualificata e matura identità, avendo i proprietari curato con grande amore l’ambiente, arricchendolo di fiori, alberi da frutto, giochi per i bambini; modificando la vecchia
attività contadina, specializzandosi nella produzione di ciò che qualifica la propria cucina e le aspettative anche d’acquisto dei clienti. Per il futuro non ci sono regole precise ma alcuni punti fermi: il luogo deve essere bello e attrattivo, igienicamente sano e ben pulito, con in dispensa i prodotti tipici del territorio preparati e confezionati con professionalità; non deve mancare una intelligente ospitalità a tutto campo. Per questi agriturismi, il futuro riserverà molte soddisfazioni, purché ci sia presenza della famiglia, elevata qualità, continuità e quel calore umano tanto gradito dagli ospiti.
LE AZIENDE INFORMANO
MOLINO GRASSI SPA
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Carmine Manzo:
“La mia pizza nasce dal cuore, ma cresce con le farine
Molino Grassi”
Intervista al fondatore di Pizzeria Positano, la catena che ha fatto della semplicità un’arte – con un alleato d’eccellenza: Molino Grassi
molinograssi.it
Carmine Manzo, pizzaiolo salernitano e fondatore della catena Pizzeria Positano, ha dato vita a un progetto che oggi conta nove locali in Italia, portando avanti una visione chiara: offrire una pizza per tutti, buona sempre.
“La pizza è sempre stata un piatto popolare. E deve continuare ad esserlo — racconta Manzo — voglio che chiunque entri in una delle nostre pizzerie si senta a casa. Che possa chiedere una cottura diversa, una pizza metà e metà, senza sentirsi fuori posto. L’accoglienza è la nostra forza”. Nel 2009 decide di proporre anche la pizza senza glutine – che diventa il suo marchio di fabbrica – trattandola non come un’alternativa di ripiego, ma come un’esperienza completa. “Chi ha intolleranze merita la stessa attenzione. Non bastava evitare contaminazioni, serviva lavorare su gusto, consistenza, equilibrio”.
Nel 2016 arriva un’ulteriore svolta con l’incontro con Molino Grassi, azienda che diventa per Manzo un alleato strategico e formativo. Le sue farine — dalla 00 Midi H12 per impasti napoletani alla Tipo Uno, ricca di sapore, fino alla Multicereali, con note rustiche — rappresentano oggi la base su cui costruisce ogni sua pizza.
Ma è la Farina del Miracolo®, ottenuta da varietà antiche di grani locali, a emozionarlo davvero: “La uso in piccola parte, ma fa la differenza. Dona profumo, colore, struttura. È una farina che comunica, che arricchisce senza coprire”.
Per Manzo il futuro della pizza sta nel trovare l’equilibrio perfetto tra semplicità e autenticità: “Non amo gli eccessi. La sfida vera è restare semplici senza essere banali. Un solo morso deve raccontare tutta la pizza. E con le farine giuste, si può”.
Scopri di più: molinograssi.it
I vegetali che fanno bene …anche sulla pizza
a cura della Dott.ssa Marisa Cammarano, biologa nutrizionista
Lapizza è uno dei piatti della cucina italiana maggiormente diffusi nel mondo. Preparata con gli ingredienti giusti, può essere consumata una volta a settimana anche se si ha necessità di perdere peso. Preparata con ingredienti di qualità, la pizza può essere considerata a tutti gli effetti un piatto unico completo perché fornisce carboidrati complessi, grassi e proteine. Per migliorarne il profilo nutrizionale l’ideale è aggiungere le verdure al posto di ingredienti ricchi di grassi saturi come il salame e/o il prosciutto ed altri alimenti.
Grazie alla ricchezza di fibre, i vegetali permettono di ridurre l’impatto di questo piatto sulla salute e sulla linea. I vantaggi si moltiplicano se le verdure sono di stagione, crude o cotte al vapore. Rispetto a quelle grigliate, conservano meglio vitamine e antiossidanti, preziosi per l’organismo. In alternativa, vanno bene anche quelle surgelate. Rispetto a quelle fresche che spesso rimangono in frigorifero per molti giorni, assicurano un maggiore contenuto di vitamina C, che è coinvolta in diverse funzioni dell’organismo, perché vengono conge late appena raccolte.
Le verdure aumentano la sazietà, la pizza con le verdure è un’ottima strategia per sentirsi sazi prima e mangiarne di meno. I vegetali forniscono fibre solubili che, una volta ingerite, nello stomaco assorbono molta acqua e formano una sorta di gel che rallenta l’assorbimento dei carboidrati dell’impasto e dei lipidi della farcitura. Le fibre, inoltre, dando sazietà, modulano l’innalzamento della glicemia dopo il pasto e contrastano la produzione eccessiva dell’ insulina, l’ormone che stimola la voglia di altro cibo. Le verdure riducono gli effetti del sodio.
Gli ingredienti usati per farcire la pizza come la mozzarella, ma anche il prosciutto, le acciughe, il salame, i formaggi, sono ricchi di sodio, che, essendo, in eccesso, stimola la sete ed aumenta il rischio di pressione alta, ritenzione e gonfiore. Aggiungere le verdure sulla pizza consente di assicurarsi potassio e magnesio, due minerali che favoriscono l’eliminazione del sodio in eccesso, riducendone, così, gli effetti negativi sulla linea e sulla salute. I vegetali forniscono, inoltre, tanta acqua, utile per il corretto funzionamento del metabolismo e l’eliminazione delle sostanze di scarto prodotte durante i processi metabolici. I vegetali, ancora, sono una delle fonti principali di fibre e antiossidanti, sostanze che hanno un’azione ipocolesterolemizzante.
Sono, infatti, in grado di ridurre l’assorbimento del colesterolo, compreso quello presente nella mozzarella e nei formaggi. Grazie, poi, alla ricchezza di niacina, una vitamina del gruppo B, favoriscono il metabolismo dei grassi, proteggendo la salute cardiovascolare. L’impasto della pizza, soprattutto se non è stato fatto seguendo tutte le procedure a regola d’arte, può essere di difficile “digestione”. L’aggiunta delle verdure arricchisce il piatto di molecole antiossidanti, che hanno doppio vantaggio: stimolano la produzione e il flusso della bile, migliorando il lavoro epatico e facilitano i processi digestivi, contrastando gonfiore e senso di pesantezza.
Inoltre, le verdure aggiunte alla farcitura possono essere delle ottime alleate per contrastare il problema dell’insonnia. I vegetali forniscono tutta una serie di sostanze che agevolano il rilassamento. Tra queste spiccano le vitamine del gruppo B, che favoriscono la produzione di serotonina e melatonina, gli ormoni che regolano il ritmo sonno-veglia e minerali rilassanti come il potassio, il magnesio ed il calcio. Per fare il pieno di vitamine e nutrienti, è importante consumare vegetali di diverso tipo.
Per semplicità, le verdure si possono classificare per colore. Via libera, quindi, ad un vero e proprio arcobaleno nel piatto: se le verdure rosse sono ricche di licopene e vitamina C, quelle giallo-arancio apportano carotene e antocianine; le verdure bianche vantano un buon contenuto di quercetina, mentre gli ortaggi a foglia verde sono un'ottima fonte di magnesio, acido folico e folati. EFSA raccomanda una porzione di 80 g di verdure, che è all'incirca una manciata. L'EAT-Lancet consiglia 3 x 100 g di porzioni di verdura di diverso colore al giorno. Tuttavia, potrebbe essere più facile pensare ad un quotidiano 300 g di verdure composte da 4 porzioni colorate più piccole e diversificate. Fatta eccezione per i semi ed i tuberi, le verdure vantano un basso apporto energetico (in media, circa 20-30 kcal ogni 100 g di prodotto). Il loro contenuto calorico è quasi interamente rappresentato dai carboidrati semplici, mentre proteine e grassi svolgono soltanto un ruolo marginale. Le verdure sono inoltre ricche d'acqua (fino al 95% del loro peso).
Le caratteristiche nutrizionali delle verdure
Hanno poi un ottimo quantitativo di fibra, che, pur non avendo di per sé valore nutritivo, è essenziale per la regolazione di molteplici funzioni fisiologiche. Consumare verdura ai pasti principali significa, inoltre, fare il pieno di vitamine e minerali. Tra le vitamine più comunemente presenti nelle verdure, ricordiamo quelle del gruppo A, C, E e K, ma anche i folati, di cui sono ricche le verdure a foglia. Per quanto riguarda il contenuto salino, spiccano soprattutto minerali come magnesio, potassio, zinco e selenio. Nelle verdure sono spesso presenti anche ferro e calcio, tuttavia in forma poco biodisponibile.
PIZZERIE GREEN E PIZZE VEG
CHIAMATELA ETICA, NON TENDENZE!
SAPEVATE CHE ESISTE IL DESIGN SOSTENIBILE?
Non saprei dire esattamente da quando ma, per comodità, prendiamo come data di riferimento il 1987, quando si introdusse il concetto di sviluppo sostenibile legato all’ambiente e all’ecologia. Da questo momento, la parola sostenibilità viene ufficializzata, con il conseguente sviluppo di molteplici campi d’applicazione e anche il design si è saputo adeguare. In questo settore si è vissuto negli anni - e ultimamente ancora di più - l’esigenza di creare ambienti di benessere. Ambienti pubblici o privati, lavorativi o di intrattenimento da vivere con
l’obiettivo di creare un’esperienza positiva, in cui sentirsi a proprio agio e attraverso cui riflettere un’identità e un messaggio, che è proprio quello della salvaguardia del pianeta e della circolarità, anche attraverso il cibo. Più di tanti altri, il design ha saputo raccontare e fare tanto sulle diverse fasi del ciclo di vita di un oggetto, su riuso e riciclo, l’adozione di energie pulite e rinnovabili, la riduzione delle emissioni nocive, la scelta dei materiali, o ancora un’illuminazione naturale, la qualità dell’aria, il comfort termico e così via. Azioni che partono dalla carta
di Giusy Ferraina
per trovare concretezza anche attraverso tecnologie innovative applicate.
Ora pensate che quanto finora elencato può trovare spazio anche in pizzeria, in quanto locale pubblico dove il benessere del cliente e la sua esperienza fanno parte di un format. Oggi, molto più di ieri, si vedono spesso pizzerie e ristoranti che nel loro voler essere attuali e moderni scelgono la strada “green” e non è solo una questione di tendenza ma una risposta precisa sia a quanto il contesto storicosociale ci chiede come contributo al benessere e al rispetto dell’ambiente, sia un’offerta mirata ai consumatori sempre più eco-friendly. Adottare un approccio sostenibile nella progettazione di
un locale, in particolare di una pizzeria, porta con sé, dunque, numerosi vantaggi: si riducono i consumi di risorse, la produzione di rifiuti e i costi grazie all’impiego di materiali durevoli ed efficienti dal punto di vista energetico. Senza sottovalutare la maggiore attrattività per la clientela e una valorizzazione della propria immagine: un design sostenibile racconta meglio i valori della vostra pizzeria.
GREEN?
Da quanto detto finora, è abbastanza evidente che pensare un locale green non significa solo arredarlo con delle piante o usare in menu più vegetali. Sono anche questi fattori utili ma non sono i soli: il concetto è più complesso di quanto possa sembrare, visto che serve un’attenzione costante all’ambiente. La qualità delle materie prime è centrale ma l’impegno va oltre il piatto: si riducono al minimo l’uso di plastica e polistirolo, sia nella fase di approvvigionamento che nella consegna, si fa attenzione agli sprechi e si promuovono scelte consapevoli. Si elimina il superfluo o ciò che spreca energia, si scelgono fornitori locali e sostenibili, si privilegiano ingredienti stagionali, a chilometro zero e provenienti da filiere che rispettano la natura, certificati, biologici, si evitano gli allevamenti intensivi e si punta tutto sulle piccole eccellenze artigianali, fino alla costruzione di un proprio orto o di un’azienda agricola che sappia alimentare le cucine. Anche il packaging fa la sua parte: via
COSA SIGNIFICA ALLORA ESSERE UNA PIZZERIA
libera a contenitori biodegradabili, compostabili o riciclati, per una pizza buona in tutti i sensi. E poi essere green significa anche fare cultura: le pizzerie sostenibili raccontano il proprio impegno ai clienti, sensibilizzano la comunità e diventano veri e propri esempi di buona pratica. Non a caso, l’attenzione all’ambiente diventa un riferimento e un metro di misura anche per guide e classifiche, con premi pensati ad hoc, con l’intento anche di stimolare ancora di più la scelta “verde”. Green è anche Vegetale 100%! E, in questo discorso green e sostenibile, si inserisce a pieno titolo l’argomento veg, dove mi piace pensare il termine veg come diminutivo di vegetale senza creare differenze o discriminazioni alimentari. Il mondo vegetale è per tutti, sa essere inclusivo e originale e sono molti i pizzaioli, così come gli chef, che vi prestano attenzione anche con grande sperimentazione.
E, se parliamo di pizza veg, non dobbiamo assolutamente pensare alla solita e onnipresente ortolana: in questo caso possiamo immaginare pizze creative con abbinamenti audaci e giochi di consistenze. Se ci riflettiamo bene, le pizze vegane sono sempre esistite: un esempio è la pizza marinara, icona di classicità assoluta e pizza che conquista al primo morso grazie alla bontà del pomodoro e al profumo dell’origano. Partendo da qui, gli esperti del settore ne hanno fatto un campo di sperimentazione a tutto tondo e, a fare la differenza, è sempre la lavorazione delle materie prime, ovviamente di qualità. “La Marinara Ritrovata” (con o senza acciughe, a seconda delle esigenze dei clienti) di FRANCO PEPE, che gioca sull’estrazione dei sapori per regalare al palato sensazioni familiari o “La Pomodoro” di DANIELE CAMPANA che nella sua essenzialità, diventa complesso emblema del territorio, potrebbero definirsi due capi-
saldi del genere. Scendendo poi nel campo della cucina, un lavoro interessante è quello che PIER DANIELE SEU sta svolgendo da qualche anno con la sua “Linea di Assoluti”, con cui ha aperto un capitolo nuovo con tanto di seguaci e repliche. L’ispirazione arriva da Niko Romito che, da una singola verdura, usata in purezza, si crea un piatto dal gusto prismatico. Seu replica con tecnica accurata lo stesso concetto sulla pizza, trasformando un solo ingrediente in un topping complesso e sorprendente, sperimentando nel tempo Assoluti di Melanzane, di Peperone, di Pomodoro fino ad arrivare all’inconsueta Assoluto di Sedano Rapa. A dettare le regole sono le stagioni; per il resto, l’unico ingrediente riesce a moltiplicarsi per sé stesso, diventando crema, gel, salsa, croccante, arrosto, cotto o crudo.
FRANCESCO MARTUCCI de “I Masanielli” si è lanciato, invece, in un Assoluto (riuscitissimo) di cipolla, lavorata in sette consistenze o la sua “vegan” con pomodori pelati in zucchero di canna, misticanza di campo, menta, crema di rapa rossa, crema di cavolfiore, pomodorini secchi del piennolo, capperi croccanti, olio evo. Annoveriamo in questa carrellata anche il lavoro di AMALIA COSTANTINI, sempre più legata nella sua filosofia alla natura e alle sue espressioni vitali, come lei stessa racconta: “Credo nella potenza dei vegetali, che siano estivi o invernali, hanno dentro un’energia che parla di terra, stagioni e verità”. Come succede per la sua “Elisir” a base di pomodori gialli e rossi, emulsione di aglio nero fermentato, polvere di capperi, origano o la “SmartFood” con una vellutata di barbabietola, crema di ceci, cavolo, chips di zucca e crumble di pane, che lei definisce un’idea di cucina più consapevole. Ma c’è anche
la più recente “Parmigiana”, anche questa 100% vegetale, dove ogni morso risveglia i ricordi di casa e racconta storie di tradizione e amore, rivisitate con leggerezza.
Creatività a parte, c’è anche l’aspetto nutrizionale che sta a cuore a molti pizzaioli che, per compensare l’assenza di cibi di origine animale, cercano di utilizzare frutta secca, semi, germogli, erbe spontanee ricche di nutrienti e legumi per l’apporto proteico, oppure alterare la struttura degli ortaggi freschi attraverso lunghe macerazioni dando vita a prodotti “fake” capaci di ingannare vista e palato. L’elenco di pizze vegetali potrebbe continuare all’infinito, considerando la richiesta rinnovata, che non segue una tendenza ma un approccio alimentare e una riscoperta di gusto oltre al fatto che il mondo “veg” è una vera scommessa da un punto di vista della tecnica e dell’estrazione di sapore. Per citarne qualcu-
no tra i tanti, ci sono i fratelli Aloe che, nelle loro varie sedi di “Berberè”, presentano la loro “Mediterranea” o la “Hummus” con hummus di ceci, melanzane al forno, pomodorini freschi, coriandolo, semi di sesamo, scorza di limone, olio extravergine di oliva; c’è Gennaro Battiloro con la sua “Pomodoro Ribelle” o la “Rita”, con crema di cipolla rossa agrodolce, mousse di ceci, chips di alga wakame, scarola riccia a crudo; e poi I FRATELLI SALVO a Napoli, SAMI EL SABAWI a Roma con la sua pizza romana che dedica sempre una special del mese alla terra e alla stagione e lo stesso LUCA PEZZETTA che, nella sua “Clementina” si è inventato addirittura la pizza “Minestrone”. La cosa più importante è che se non da per tutto in qualsiasi pizzeria si trova sempre un’opzione veg, che non è un ripiego ma anzi diventa una nuova esperienza di gusto, necessaria da offrire e da vivere.
NON CONFONDETE
PIZZERIA GREEN CON ARREDO VERDE.
Decorazioni floreali e vegetali sono un vero valore aggiunto nei progetti di interior designer e architetti ma non fatene solo una questione di estetica, annullando ogni logica. Un esempio?
Seguire la tendenza del green non vuol dire usare in modo poco credibile le piante e ogni tipo di componente verde, quindi: non trascurate le piante pre-
senti, ma curatele; non tappezzate la vostra pizzeria di piante finte, destinate a impolverarsi: non sarà la loro presenza a farvi diventare sostenibili, anzi tutt’altro! Rischiate di distorcere il messaggio comunicato con una realtà stonata e svuotare il concetto di sostenibilità di ogni valore reale. 13-17
storie di pizza
EUGENIO IANNELLA E IL
"CIVICO 25"
di Noemi Caracciolo
Non molto tempo fa, in un angolo di Castel Bolognese, è nato “Civico 25”, un luogo magico, molto più di una pizzeria. Qui si impastano inclusione, sogni e dignità.
Eugenio Ianella, pizzaiolo e “fratello”, ha dato forma a un progetto che nasce dall’amore e cresce ogni giorno nel sorriso e nella determinazione dei ragazzi disabili che lo affiancano, a cui dedica se stesso.
In questo locale, ogni pizza racconta una storia fatta di cura, autonomia e orgoglio condiviso. Potrebbe sembrare un’utopia e invece è una bellissima realtà. E, come se non bastasse, le pizze sono anche buone!
Eugenio, racconti spesso che tuo fratello è stato la scintilla di questo progetto. Com’è nata davvero l’idea di “Civico 25” e cosa significa per te “inclusione”?
L’idea di Civico 25 nasce da un amore profondo. Quello per mio fratello, che ha la sindrome di Down. Crescere con lui mi ha insegnato cosa significhi davvero la parola “unicità”. Ho visto con i miei occhi quanto la società possa essere ingiusta o distratta verso chi è solo un po’ diverso. A un certo punto ho sentito che non potevo più restare fermo. Dovevo trasformare quell’amore in qualcosa di concreto. Così è nato “Civico 25”: un luogo dove le differenze non solo vengono accettate ma diventano la nostra forza. “Inclusione” per me significa creare uno spazio dove tutti possano sentirsi utili, rispettati, valorizzati. È smettere di chiedere alle persone di adattarsi al mondo, e cominciare a costruire un mondo che si adatti anche a loro.
E tu, invece, chi sei? E qual è la tua pizza preferita?
Sono un pizzaiolo ma soprattutto un fratello. Sono una persona che ha deciso di mettere la propria esperienza professionale al servizio di qualcosa di più grande: un sogno che sa di giustizia, dignità e calore umano. La mia pizza preferita? Forse la nostra versione di una “Margherita sbagliata”, una nostra creazione in cui cambiamo l’ordine degli ingredienti e otteniamo un sapore sorprendente. Mi piace perché è un po’ come la vita dei ragazzi che lavorano con noi; diversa da come te l’aspetti ma bellissima.
Aprire un locale con una missione così forte non dev’essere stato semplice.
C’è stato un momento in cui hai
pensato di mollare? E cosa, invece, ti ha impedito di farlo?
Sì, ci sono stati momenti durissimi. Le difficoltà burocratiche, i dubbi degli altri, la stanchezza… aprire un’attività è già complicato di per sé, farlo con una missione sociale lo è ancora di più.
Ma ogni volta che pensavo di mollare, bastava guardare mio fratello. Pensare a cosa significasse per lui questo progetto e per tutti i ragazzi come lui. Non potevo fermarmi, perché il mio “perché” era troppo grande. E perché sapevo che stavamo costruendo qualcosa che avrebbe lasciato il segno.
“Civico 25” è una pizzeria ma è anche un laboratorio umano e sociale. Com’è lavorare ogni giorno con ragazzi così speciali e vedere crescere il loro impegno e la loro autonomia? Immagino che ci siano anche tanti momenti pieni di sorrisi.
È un’esperienza che ti cambia. Vedere i ragazzi imparare, migliorare, superare piccoli ostacoli ogni giorno è qualcosa che non ha prezzo. Lavorare con loro significa vedere la bellezza nella lentezza, nella cura, nei gesti che altri darebbero per scontati. E sì, ci sono tantissimi sorrisi. Sinceri, contagiosi, profondi. Ci sono abbracci spontanei, risate inaspettate e una gioia che ti resta addosso anche quando esci dalla cucina.
C’è qualche pizza alla quale sei particolarmente legato e magari ritieni
rappresentativa di questa bella realtà? Raccontamene un paio.
La “Fratellanza” è una delle pizze simbolo: zucca, speck croccante e provola affumicata. Dolce e salato insieme, come le emozioni che viviamo qui dentro. È un abbraccio di sapori diversi, che insieme raccontano la nostra squadra.
Un’altra è la “Semplice Meraviglia”: una margherita rivisitata con pomodorini del piennolo, basilico fresco e mozzarella di bufala. La scegliamo spesso per rappresentarci, perché dietro la sua semplicità si nasconde una cura infinita. Come le cose fatte con amore.
Com’è stata accolta dal pubblico la tua idea di dare spazio ai ragazzi disabili?
All’inizio c’era un po’ di curiosità, in qualcuno forse anche un po’ di scetticismo. Ma poi sono arrivati i sorrisi, le strette di mano, gli occhi lucidi dei clienti. La risposta più bella è l’affetto che riceviamo ogni giorno. Le persone tornano, portano amici, parlano di noi. Perché capiscono che qui non si mangia solo una pizza buona ma si respira un’umanità vera. E, quando un cliente si ferma a ringraziare uno dei nostri ragazzi per il servizio o lo chiama per nome… ecco, in quel momento capisco che “Civico 25” sta davvero cambiando qualcosa.
corino o di Cacioricotta, l’olio extravergine messo alla fine, il croccante con il morbido. È sicuramente una delle mie preferite.
LA SUPERFIAMMA
SPITFIRE, il bruciatore a gas perfetto per esaltare il sapore della tua pizza mantenendo inalterato il gusto, l’aspetto e la fragranza di sempre. Ideale per tutti i tipi di pizza.
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storie di pasta
Cuoco, docente di cucina, consulente e formatore per la progettazione e la gestione di laboratori di potenziamento per alunni delle scuole alberghiere. Ma soprattutto un “gigante buono”. Ecco chi è Lorenzo Econimo.
«Mi occupo della progettazione e della gestione di laboratori per adulti (migranti, carcerati, disoccupati, persone fragili); organizzo e gestisco laboratori di educazione alimentare per minori delle scuole primarie, sono formatore Slow Food Italia per l’area educazione presso Eataly a Milano, membro dei Cuochi dell’ Alleanza Slow Food è uno dei promotori del progetto “Cuochi Erranti” con i quali sono impegnato nelle varie attività dell’associazione, che spaziano dall’organizzazione di serate a tema con l’utilizzo dei vari presidi Slow Food, alla gestione di laboratori del gusto e di educazione alimentare».
Lorenzo, tu sei definito il “cuoco social popolare”. Qual è il tuo percorso di studi e come arrivi alla cucina?
Dopo aver ottenuto la qualifica professionale di cuoco, ho continuato la mia formazione ottenendo la qualifica di operatore sociale.
In continua formazione, frequento numerosi corsi di cucina e Masterclass presso Cast Alimenti e Slow Food Italia, conseguo la qualifica di Primo livello di tecnico assaggiatore di mieli, salumi e formaggi. In passato, dopo varie esperienze nella ristorazione e nel sociale come operatore, ho progettato, avviato e gestito un risto-
rante, “Bistrò Popolare”, all’interno di una cooperativa sociale di Brescia, unendo il piacere di una buona cucina, con particolare attenzione ai piccoli produttori locali, all’inserimento lavorativo e alla formazione di persone fragili e svantaggiate.
Le scuole alberghiere sono la fucina dei giovani talenti della cucina: si può fare “qualcosa di diverso dal solito”?
Partendo dalla mia esperienza di insegnante di cucina, ho sentito il bisogno di andare oltre la semplice trasmissione di tecniche culinarie. Ho provato a costruire una programmazione formativa che fosse, prima di tutto, un percorso di consapevolezza. Ho scelto di mettere al centro i piccoli produttori, gli allevatori e i pescatori di prossimità, perché credo fermamente che la cucina debba raccontare storie vere, radicate nel territorio, fatte di rispetto per il lavoro, per la terra e per il mare.
Questo approccio significa insegnare a non sprecare, a scegliere ingredienti locali e stagionali, con un basso impatto ambientale, sia per come vengono prodotti che per come arrivano sulle nostre tavole. Ma significa anche molto di più: significa riscoprire il ruolo che il cibo ha nella nostra società. Educare alla cucina diventa così un modo per parlare di cultura, di rispetto, di socialità e di cura. Imparare buone pratiche alimentari – dalla coltivazione alla spesa, fino alla preparazione – è un passo concreto per costruire un futuro più sano e più consapevole.
Per questo, ho promosso anche percorsi specifici come In cucina con Slow Food, un esempio concreto di cucina etica e sostenibile: piatti preparati con farine e cereali integrali, legumi, miele, olio extravergine d’oliva e ingredienti prevalentemente vegetali. Una cucina che non rinuncia al gusto ma che sa essere buona, pulita e giusta. E, soprattutto, accessibile a tutti. Come gesto concreto, la Condotta Slow Food TerreAcque Bresciane, di cui sono Presidente, ha promosso l’ingresso di due scuole alberghiere del territorio nelle “scuole dell’Alleanza di Slow Food”.
Tu hai deciso di lavorare “con tutti”, anche e soprattutto con chi ha avuto trascorsi difficili: cosa vuol dire per te “cibo giusto”?
Per me, il cibo giusto è un cibo che deve essere davvero per tutti. Non solo dal punto di vista economico ma anche culturale e umano. È un cibo che nasce nel rispetto delle persone che lo producono, che garantisce condizioni di lavoro dignitose, che riconosce e valorizza le diversità culturali e alimentari. Un cibo che non esclude, ma accoglie.
Cos’è per te la cucina?
Cucinare, non è solo un atto tecnico da svolgere alla perfezione senza emotività ma è qualcosa di molto più profondo: è un gesto politico, educativo e poetico insieme. Politico, perché ogni nostra scelta
storie di pasta
alimentare può sostenere o contrastare sistemi ingiusti. Educativo, perché ci permette di trasmettere valori importanti, come il rispetto, la cura, la responsabilità. Poetico, perché cucinare è anche un atto d’amore, verso gli altri, verso l’ambiente, verso noi stessi. Quando pensiamo al cibo in questo modo, capiamo che ogni piatto può diventare un piccolo strumento di cambiamento. E allora cucinare non è più solo preparare da mangiare. È prendersi cura del mondo, un gesto alla volta.
Ma, di fronte a tutto questo impegno, qual è il tuo piatto preferito?
Le lasagne
Hai un ricordo del cuore che puoi condividere con noi?
Nonostante abbia vissuto tante esperienze in cucina – dalla scuola ai circoli culturali, passando per feste di paese e cucine improvvisate – il ricordo che porto più nel cuore è la prima volta che sono entrato nella cucina di Terra Madre. Ricordo perfettamente l’emozione: era come varcare la soglia di un luogo dove il mondo intero si ritrovava attorno ai fornelli. Lì ho avuto la fortuna di incontrare cuochi e persone provenienti da tantissimi Paesi, culture e storie diverse ma unite da una stessa visione: una cucina che rispetta la terra, le persone, i saperi. Non parlavamo sempre la stessa lingua ma bastava uno sguardo, un gesto, un assaggio per capirsi. In quella cucina, non ho solo scoperto ingredienti nuovi e sapori sorprendenti ma mi sono nutrito – nel senso più profondo del termi-
ne – di emozioni, racconti, connessioni. È lì che ho sentito, forse per la prima volta così forte, che cucinare può davvero essere un modo per costruire ponti tra mondi apparentemente lontani. Un’esperienza che mi ha lasciato dentro un senso di appartenenza e gratitudine difficile da spiegare ma impossibile da dimenticare.
I PARTNER DEL CAMPIONATO MONDIALE
PIZZA
DR. ZANOLLI SRL
Via Casa Quindici, 22 Caselle di Sommacampagna (VR)
IG-FB: @zanolliforni
ZANOLLI
1. Squadra che vince non si cambia: che cos’è per te il Campionato Mondiale della Pizza?
Il campionato del mondo è un appuntamento imperdibile per noi. Col passare degli anni abbiamo visto tanti professionisti progredire nel loro lavoro, scalando le classifiche anno dopo anno, fino a conquistare il podio. Partecipare al campionato ci dà la carica per sviluppare nuovi progetti e migliorare la nostra gamma di prodotto per mettere a disposizione dei concorrenti dei forni sempre più prestazionali e affidabili. In fondo è una sfida anche per noi.
2. Qual è la richiesta più strana che hai ricevuto nei giorni del Campionato?
Dopo tanti anni che faccio questo lavoro, nessuna richiesta mi sembra più strana! Il fatto che il campionato accolga concorrenti provenienti da ogni parte del mondo ci impone di partecipare con la mente aperta per assorbire quanta più cultura possibile, sul mondo della pizza e non solo. C’è sempre tanta curiosità intorno al nostro forno a tunnel Synthesis, che, anche se per ora non si utilizza nelle gare, noi portiamo sempre in uso nel nostro stand. Nonostante Zanolli lo abbia brevettato nel 1987 questo tipo di forno è avvolto ancora da un certo alone di mistero. Ci piace portarlo per mostrarne le infin ite potenzialità.
3. Quale ricordo ti è rimasto impresso di questa edizione? Sicuramente la consegna del premio Fair Play durante la cena di gala è stato un momento molto toccante. Come azienda ci siamo sempre spesi molto nel sostenere lo sport. Siamo sponsor del Team Italia che gareggia alla Coupe du Monde de Pâtisserie, supportiamo atlete che gareggiano a livello olimpico e una squadra di pallavolo che quest’anno ha conquistato la serie D. Il premio Fair Play va a chi si è distinto per lealtà sportiva, altruismo e correttezza agonistica; premiare una ragazza così giovane e vederla piangere di gioia mi ha molto emozionata.
4. La tua azienda e il futuro della pizza: quali progetti per domani?
Il futuro della pizza è già presente. I professionisti del settore sono sempre più formati e appassionati e ricercano macchinari che gli permettano di soddisfare un pubblico sempre più esigente. Per questo abbiamo in programma grosse novità sulle famiglie AVGVSTO, SYNTHESIS e TEOREMA POLIS, i nostri top di gamma, che verranno presentate sia a Milano durante la fiera Host che a Rimini, a Sigep 2026.
Erika Brighenti - Brand Manager e Direttrice Commerciale Italia
storie di pizza
ALEXANDRA HORGHIDAN LA “ZIA PIZZA”
DEL CAMBIAMENTO
di Noemi Caracciolo
A Castelnuovo del Garda, in provincia di Verona, nasce “Zia Pizza”, un nome semplice e affettuoso per una pizzeria altrettanto semplice ma ricca di significato. Dietro quel nome, c’è Alexandra, una donna che non si è mai lasciata prendere dagli standard ma si è sempre distinta.
Lei è una pizzaiola, un’imprenditrice, una professionista che ha saputo costruire il proprio spazio nel mondo della pizza, senza mai rinunciare alla sua identità. Ha scommesso sull’ascolto, sulla trasparenza, sulla costruzione di un rapporto genuino con i suoi clienti e collaboratori e, soprattutto, sull’essere una mamma. Tutto ciò, attraverso pochi semplici impasti, tante verdure, genuinità e tradizione.
Raccontami chi sei tu, come è nata la tua passione per l’arte bianca, per la pizza… E quali erano i tuoi sogni?
Assolutamente non avrei mai pensato che un giorno sarei diventata una pizzaiola. È stato tutto molto casuale. Io sono nata in Romania e sono arrivata in Italia a 16 anni con la mia famiglia. Da bambina sognavo tutt’altro. Volevo fare l’attrice. In Romania studiavo teatro, era la mia grande passione e ho continuato anche dopo essere arrivata in Italia. Ho frequentato corsi qui a Milano per migliorare la lingua, per sentirmi più a mio agio, per imparare a comunicare. È stato un percorso importante per me. Poi ho deciso di iscrivermi all’università, ho scelto Lingue, perché mi piaceva l’idea di viaggiare, di lavorare con le persone. Nel frattempo, per necessità, ho iniziato a lavorare in una pizzeria da asporto il sabato e la domenica.
E quella realtà mi ha conquistata un po’ alla volta. Anche se, all’inizio, in pratica condivo solo le pizze e, per un po’, il teatro ha continuato ad accompagnarmi. Poi, però, ha iniziato a farsi spazio qualcosa di diverso. La pizza è diventata sempre più presente nella mia vita. Anche quando ho finito l’università e ho iniziato a lavorare in una grande azienda, in un ruolo d’ufficio, non ho smesso di andare in pizzeria nei weekend.
Quindi lavoravi in una multinazionale e ciononostante continuavi. E poi?
È stato un passaggio graduale ma molto deciso. A un certo punto, mi hanno proposto di prendere in gestione una piccola pizzeria da asporto. Avevo 25 anni. È stata una scelta importante, perché significava lasciare un lavoro “sicuro”. Ma ho deciso di buttarmi. Ho pensato: “provo”. E da lì è iniziato tutto.
Poi, hai lasciato quel luogo e hai deciso di aprire la tua pizzeria.
Sì, ma non è stato semplice. Ho lasciato tutto senza sapere esattamente cosa avrei fatto. Ho passato mesi a pensare, riflettere, capire cosa volessi davvero. In quel periodo è stato fondamentale il supporto del mio compagno, che mi ha sempre incoraggiata. E così è nata l’idea di “Zia Pizza”. Un progetto che potesse rappresentarmi davvero, nei sapori, nei colori, nell’energia. Un luogo dove mettere insieme tutto quello che avevo imparato e tutto quello in cui credo.
“Zia pizza” mi incuriosisce...
Il nome è nato per caso, da un suono che mi piaceva. Era corto, immediato, suonava bene. Poi è diventato qualcosa di più: una specie di soprannome, un’identità. Ormai per molti io sono “la Zia”. Mi chiamano così e a me fa sorridere ogni volta.
La zia è un po’ a metà tra una
mamma e un’amica, quindi è una cosa molto bella! Il team è tutto al femminile, giusto?
Sì, fin dall’inizio. Non è stata una strategia ma una scelta naturale. A me piace molto lavorare con le donne. Ho lavorato con le donne anche in passato, sia in pizzeria che in ufficio e le donne – soprattutto ad una certa, quando diventano mamme –hanno una marcia in più.
Le donne lavorano molto meglio, hanno una capacità organizzativa e una concretezza che mi stupisce ogni giorno. Io cerco persone che abbiano voglia di imparare, non mi interessa se hanno esperienza. Le formo io, partendo da zero. Per me è fondamentale che l’ambiente di lavoro sia sereno, rispettoso, stimolante. E lo è.
Parlami dei tuoi impasti…
In realtà ho iniziato a impastare solo tre anni fa. E niente, da lì ho sviluppato pian pianino un mio impasto, che faccio tutt'ora. L'ho cambiato, l'ho modificato negli anni parecchio, fino ad arrivare a quello che faccio ora. Tre impasti:
1) Impasto classico: mix personale di farina 00 e farina semi integrale con 48 ore di fermentazione a temperatura controllata.
2) Impasto rustico: personale ricetta con farina tipo 0 grano italiano e farina integrale di grano WineGrain, un grano recuperato, coltivato e macinato da una piccola azienda agricola della Lombardia, di color vinaccia e molto saporito.
3) Impasto di pizza alla pala, che faccio anche in versione tonda: farine tipo 0 e tipo 2 , con metodo indiretto a doppia cottura, molto apprezzato dai clienti, soffice all’interno e croccante all’esterno.
Fate solo asporto?
Siamo partiti come pizzeria d’asporto, sì. Anche perché lo spazio era piccolissimo. Ma, fin da subito, la gente ha iniziato a chiedere di poter mangiare lì. Abbiamo messo un tavolo, poi due, poi qualche sgabello. Poi ci siamo attrezzati con piatti veri, bicchieri, un piccolo servizio. Tutto è cresciuto naturalmente, in base alle richieste delle persone. Oggi abbiamo una ventina di coperti. È un posto accogliente e la gente lo apprezza molto.
E sulla pizza come racconti tutto questo?
L’idea è semplice: stagionalità e rispetto per l’ingrediente. Lavoro con piccoli produttori, quasi sempre locali. Vado io al mercato, conosco chi coltiva le verdure. C’è una signora che mi porta le zucchine, ad esempio ma, se non le ha, quella settimana la pizza con le zucchine non si fa. Voglio che ogni ingrediente abbia senso. Cerco sempre di costruire delle pizze che siano equilibrate ma anche golose. Uso poco il pomodoro, preferisco le basi bianche. E propongo pizze che siano facilmente modificabili in versione vegetariana o vegana. Per me è importante che tutti possano sentirsi a casa. Io sulla pizza ho deciso di non seguire le regole di sempre. Faccio solo pizze che mangerei io, niente di più.
So che poni particolare attenzione al veg: c’è un motivo particolare?
Sì, direi di sì. Sono stata vegetariana per un paio d’anni e in quel periodo ho iniziato a sperimentare. Volevo creare una pizza vegana che fosse buona, golosa, non “di serie B”. Oggi ho diverse opzioni in carta ma cerco di non etichettarle troppo.
Essere una pizzaiola del cambiamento: per te cosa significa?
Significa tante cose. Intanto, significa mettere al centro valori in cui credo: l’inclusività, la sostenibilità, il rispetto, la consapevolezza. Per me anche le parole sono importanti. Ci tengo a essere chiamata “pizzaiola”, non “pizzaiolo”. Essere pizzaiola e donna: tutto questo per anni è stato vissuto come uno svantaggio. Oggi lo rivendico come una forza. E voglio che il mio locale, il mio progetto, parlino anche di questo. Poi ci sono tante altre cose. Ad esempio, la gestione del personale. Io non cerco i “migliori” in assoluto ma cerco persone che magari non hanno mai lavorato in pizzeria ma siano curiose, appassionate. Se sei abbastanza appassionata da trasmettere questa cosa agli altri, anche chi non ha mai fatto la pizza può imparare. Le mie tre pizzaiole oggi non avevano mai fatto la pizza prima. Ma la fanno benissimo. Certo, è un lavoro lungo, impegnativo. Bisogna starci sempre sopra, aggiornare, formare.
Ma è tutta un’altra cosa. Perché anche se tante idee partono da me, si perfezionano lavorando insieme agli altri. Anche nelle piccole cose, che magari ti portano via tempo, però fanno la differenza. Inoltre, uso anche alcuni ingredienti particolari, per esempio, uso funghi shiitake, che prendo da un’azienda agricola locale, a 10 km dalla pizzeria. Vengono coltivati su sacconi di terra riutilizzata e cerco sempre di imparare dai produttori vicino a me. Ci tengo molto anche al broccoletto tipico di questa zona, per esempio. Solitamente, viene preparato con le uova sode ma a me non piacciono e, come ti dicevo, cerco di proporre ciò che mangerei. Con il broccoletto, abbiamo creato due versioni: una con salsiccia, provola di bufala affumicata e noci – sempre locali, che sbucciamo a mano – e una vegana con mozzarella e salame vegetale. Entrambe sono molto apprezzate e spesso i clienti vengono anche solo per queste.
E, se io venissi da te, che pizza mi faresti assaggiare?
Una pizza vegana sicuramente. La più amata è “La Mitica”: base di vellutata di datterino giallo, mozzarella vegetale di una startup della food valley, olive taggiasche denocciolate, cipolle rosse caramellate al forno, pomodorini confit rossi e origano fresco. Anche gli onnivori la adorano. È la mia pizza più venduta, un’esplosione di gusto. Questo per me è il senso: cucinare bene per tutti, senza barriere. Presto eliminerò la sezione “pizze vegane”: saranno tutte nel menu, senza distinzione.
Come reagisci alle richieste strane, ne hai?
Sì, ma non accontento più tutti come un tempo. Ora ho le mie pizze pensate, come “Le 5 terre”. Cinque ingredienti da cinque territori diversi: stracciatella pugliese, crudo di San Daniele, basilico, pomodorino confit e olio extravergine al limone del Garda. È molto richiesta.
È difficile educare il cliente?
All’inizio sì. C’è sempre chi arriva con aspettative diverse o chi cerca le solite cose. Mi chiedono: “che verdure ci sono adesso?”. Quando rispondo: broccoletto, cavoli, sedano, funghi, cavolo viola… vedo le loro facce stupite. Ma ci stanno bene. All’inizio eravamo gli unici a non mettere melanzane, zucchine e peperoni d’inverno. Ma, se fai una pizzeria del cambiamento, non puoi usare ingredienti fuori stagione. Io ho fatto tante battaglie con i clienti per far accettare che la mia pizza era diversa. È una questione di educazione al gusto. Ma piano piano ci sto riuscendo.
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V
La redazione di questa rivista, durante la fiera
Tuttofood, si è recata a Milano, in via Solferino per degustare il nuovo menù della pizzeria cocktail-bar “Dry”.
Il “Dry” ha aperto le sue porte nel 2013. Anno in cui ha inizio una nuova era, che combina la tradizione della pizza napoletana con l’universo sofisticato dei drink, un’esperienza in cui le materie prime sono protagoniste nell’universo delle pizze e che vengono magnificamente amplificate dalle essenze contenute nei cocktail.
Il “Dry” di Milano è un posto che fonde il raffinato, l’iconico e soprattutto facilita, per la sua concezione e stile, l’incontro.
Ambienti semplici ma di stile, luci soffuse, elevano questo locale a cocktail-bar con pizzeria, dove l’essenza internazionale della città diventa accattivante. Tutte le proposte vengono curate da Lorenzo Sirabella e Edris Al Malat.
Nonostante il traffico della city ci inghiotta per raggiungere il locale dalla Fiera, obbligandoci a percorrere 5 chilometri in tre ore, l’arrivo ci ripaga di ogni fatica. La curiosità di vedere il “Dry” per la prima volta è tanta, locale decantato da tanti, che risente ancora degli echi lontani di chef Berton. Giunti nell’esclusiva zona di Brera, che vanta bellissimi locali tutt’attorno a
noi, tra cui molti destinati all’aperitivo, ci tuffiamo tra le strade gremite da giovani alla moda prima di giungere al noto locale. Lorenzo Sirabella, maestro pizzaiolo e managing director del “Dry” ci accoglie alla porta e ci fa sedere in prima fila, al bar dei cocktail dove si può godere al meglio lo show.
Sono presenti proprio in quei giorni i bar specialist del progetto “Shub”, il secret hub che sta sotto il ristorante pluripremiato “Piazzetta Milù”, nel cuore di Sorrento.
L’ospitalità di Anna è impeccabile mentre i drink proposti da Valerio riflettono la tradizione sorrentina e ci lasciano stupiti dalla loro lungimirante innovazione, che coniugano tecnica, eleganza e un’ospitalità impeccabile.
Lorenzo è napoletano con origini ischitane, il DNA diventa quasi una vocazione. Lui studia l’antica arte della panificazione ma è con la pizza che trova la sua più ampia realizzazione, trovando così la sua identità. Opera presso la pizzeria “Il Califfo” ad Ischia, per arrivare poi a “La Notizia”, il tempio di Enzo Coccia, una delle più note pizzerie al mondo.
storie di pizza
Per crescere, bisogna spostarsi, contaminarsi, viaggiare e la pizzeria “Dry” di Milano rappresenta la giusta sfida e dal 2018 diventa il regno di Lorenzo, dove mette in atto tutta la sua creatività.
Il “Dry” di Milano è stato riconfermato al settimo posto nella classifica 50 Tpp Pizza Italiana nel 2025 e ha vinto il premio come migliore carta dei cocktail.
In questo mese di settembre, “Dry” festeggia il suo dodicesimo anniversario nel capoluogo meneghino e ci aspetta una settimana con importanti guest dal mondo del food e della mixology.
Per saperne di più, basta seguire le sue pagine social.
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LILLY
1. Squadra che vince non si cambia: che cos’è per te il Campionato Mondiale della Pizza?
È casa. È il punto d’incontro dove tecnica, passione e innovazione si ritrovano sotto lo stesso tetto. Per me il Campionato Mondiale della Pizza è una vetrina importante, ma soprattutto un momento di confronto reale con i professionisti del settore. È lì che capisci cosa funziona, cosa serve davvero in pizzeria, e dove puoi toccare con mano l’evoluzione di questo mestiere.
2. Qual è la richiesta più strana che hai ricevuto nei giorni del Campionato?
Un pizzaiolo si è avvicinato al nostro stand e ci ha chiesto, molto serio: "Avete la pala che lavora da sola?" Per un attimo siamo rimasti spiazzati, poi abbiamo capito che stava parlando della nostra nuova pala ergonomica Arena – e in effetti aveva ragione! È talmente bilanciata e comoda da usare, che sembra fare tutto da sola. Alla fine l’ha provata, ne è rimasto entusiasta e l’ha acquistata sul posto. È stato uno dei momenti più divertenti e gratificanti della fiera.
3. Quale ricordo ti è rimasto impresso di questa edizione?
Senza dubbio la presentazione ufficiale della pala Arena ergonomica. Dopo due anni di studio, test e modifiche, finalmente l’abbiamo mostrata al pubblico. Il manico curvo ed ergonomico ha incuriosito molti, anche i pizzaioli più scettici. Vederli provarla, sentirli dire che “finalmente qualcosa cambia davvero”, è stato impagabile. Quando vedi che il mercato recepisce bene un prodotto su cui hai creduto e investito tanto, capisci che sei sulla strada giusta.
4. La tua azienda e il futuro della pizza: quali progetti per domani?
Il futuro per noi è design, resistenza e qualità. Non ci accontentiamo mai, e stiamo già lavorando per alzare ulteriormente l’asticella. Le nostre pale e attrezzature stanno evolvendo con materiali ancora più performanti e dettagli studiati per chi lavora ogni giorno in pizzeria. Inoltre, stiamo sviluppando una grande novità che presenteremo se riusciamo in anteprima a Host 2025: un progetto su cui stiamo lavorando senza sosta da mesi, e che – ne siamo certi – farà parlare.
LA BIRRA
birrifici
& sostenibilità
di Alfonso Del Forno
La birra artigianale italiana, negli ultimi anni, ha cambiato pelle. Alla ricerca del gusto si è affiancata una nuova consapevolezza: produrre non basta, bisogna farlo in modo responsabile, rispettando la terra, le persone, le comunità. In questo scenario alcune realtà hanno scelto di farsi guida, trasformando il birrificio in un organismo vivo che respira insieme al territorio e restituisce valore sotto forme diverse. Baladin, La Stecciaia, Serrocroce e Vecchia Orsa raccontano quattro percorsi distinti ma convergenti, quattro modi di intendere la sostenibilità ambientale e l’utilità sociale come parti integranti del mestiere del birraio.
di Giulia Serafin
A Piozzo, nel cuore delle Langhe, Baladin ha costruito un universo che va ben oltre la semplice produzione brassicola. Nato dalla visione di Teo Musso, il birrificio ha saputo rimettere al centro la terra: cereali e luppoli vengono coltivati in Italia, seguendo una logica di filiera controllata che riduce le intermediazioni e consente di conoscere ogni passaggio, dal seme al bicchiere. L’energia necessaria al funzionamento degli impianti proviene da fonti
Nulla è accessorio, tutto è parte di un disegno che vede nell’economia circolare non un’etichetta di tendenza, ma un principio operativo quotidiano. Baladin ha inoltre adottato un approccio aperto e partecipativo: ha coinvolto la comunità in progetti di crowdfunding, ha immaginato un hub produttivo condiviso, ha fatto della divulgazione un elemento fondante. L’idea di birrificio come cittadella del gusto e della cultura è diventata realtà, dimostrando
Illustrazioni
LA BIRRA
Nelle Crete Senesi, dove le colline disegnano linee essenziali e il paesaggio invita alla lentezza, La Stecciaia porta avanti una filosofia diversa ma altrettanto radicale. Qui la sostenibilità nasce nel campo, dentro un’azienda agricola biologica che dagli anni Novanta coltiva grani antichi e li trasforma in birra senza compromessi. Nessuna filtrazione, nessuna pastorizzazione: il prodotto mantiene una vitalità che racconta la verità della materia prima. La filiera è cortissima, quasi domestica, e riflette un rapporto intimo con il territorio. Non c’è fretta di crescere, non c’è l’ossessione del nuovo a tutti i costi. C’è piuttosto la volontà di custodire un patrimonio agricolo e culturale, di farlo vivere in un bicchiere che profuma di pane e di campi assolati. La Stecciaia è la prova che un birrificio può essere innanzitutto un presidio rurale, capace di tutelare biodiversità e di trasmettere un sapere antico con un linguaggio contemporaneo.
Più a sud, in Irpinia, Serrocroce intreccia il destino della birra con quello dei grani locali. Monteverde è il luogo in cui l’azienda ha messo radici, scegliendo di coltivare direttamente orzo, luppolo ed erbe aromatiche. La scelta del grano Senatore Cappelli, simbolo di una tradizione cerealicola italiana spesso trascurata, racconta la volontà di dare continuità a un passato contadino che rischiava di essere dimenticato. Ogni fase viene seguita in prima persona: seminare, raccogliere, maltare, brassare. Non è solo questione di controllo qualitativo, ma di responsabilità. Serrocroce misura la sostenibilità in gesti concreti: riduce gli sprechi, ottimizza l’uso dell’acqua, mantiene un rapporto quasi artigianale con ogni lotto di birra. I riconoscimenti ricevuti negli anni non sono medaglie da esibire, quanto attestazioni di coerenza. Il birrificio dimostra che l’agricoltura e la trasformazione possono dialogare su un piano di pari dignità, va-
Nella pianura emiliana, Vecchia Orsa racconta una storia ancora diversa. Qui la sostenibilità incontra l’inclusione sociale e la birra diventa strumento di emancipazione. Il birrificio nasce come progetto cooperativo e inserisce nel proprio organico persone con disabilità, coinvolgendole in ogni fase: dall’imbottigliamento all’etichettatura, dalla logistica alla mescita durante gli eventi. Il lavoro è reale, le responsabilità sono concrete, l’organizzazione è calibrata sulle capacità di ciascuno, in un equilibrio che restituisce dignità e autonomia. L’attenzione all’ambiente segue la stessa logica di cura: l’energia viene in buona parte dal sole, l’acqua è gestita con parsimonia, le trebbie trovano nuova vita in mangimifici o progetti agricoli. Vecchia Orsa misura e comunica il proprio impatto, costruendo anno dopo anno un report che non serve a fare marketing, ma a rendere conto alla comunità di ciò che si è fatto e di ciò che si vuole fare.
Italiche si nasce.
Progetti di filiera con aziende del territorio, selezione accuratissima dei migliori grani italiani.
Così nasce la linea di farine Molino Naldoni alla quale abbiamo dedicato il marchio Italica 100% grani italiani. Lo trovate ormai su quasi tutte le nostre farine perchè oltre l’80% del grano che maciniamo è italiano e più del 25% romagnolo. Una scelta che nasce dalla volontà di o rire farine organoletticamente superiori e garantite dal punto di vista salutistico.
Buone per le persone, buone per il pianeta, italiane fin dal primo chicco.
FFCR – Malmö 24/25 settembre 2025
ANUGA - Colonia 4/8 ottobre 2025 ICE, hall 11.2 stand B045
HOST - Milano 17/21 ottobre 2025 hall 6 stand G07 diligo studio.it
LA BIRRA
Il birrificio è anche un luogo di incontro: festival, degustazioni solidali, collaborazioni con associazioni e istituzioni trasformano lo spazio produttivo in un presidio culturale.
Queste quattro realtà, osservate insieme, compongono un mosaico che racconta il cambiamento in atto nella birra italiana. Baladin dimostra che si può crescere restando fedeli a un’etica di filiera; La Stecciaia insegna che la piccola scala, se coerente, può avere un impatto enorme sul territorio; Serrocroce mostra come l’identità agricola possa diventare valore aggiunto e non limite; Vecchia Orsa ricorda che ogni impresa può e deve interrogarsi sul proprio ruolo sociale. La sostenibilità, in tutte le sue declinazioni, non è un orpello comunicativo ma una pratica, un modo di stare al mondo che richiede investimenti, studio, pazienza, visione.
Bere una loro birra non significa soltanto scegliere un prodotto artigianale. Significa entrare in relazione con una comunità, sostenere un modello di sviluppo, compiere un gesto che, per quanto piccolo, ha conseguenze concrete. È un’azione quotidiana che possiede la forza simbolica di un impegno: se il piacere di un sorso si unisce alla consapevolezza dell’origine e del percorso che quella birra ha compiuto, allora il bicchiere diventa un medium culturale. E forse è proprio questo il lascito più prezioso di Baladin, La Stecciaia, Serrocroce e Vecchia Orsa: l’idea che un prodotto gastronomico possa farsi narrazione di un’etica, di una terra, di una comunità. Una narrazione che non si esaurisce nel brindisi, ma continua nel modo in cui scegliamo, raccontiamo e condividiamo ciò che beviamo.
In un mercato ancora segnato dalla logica dell’efficienza a ogni costo, questi birrifici rappresentano un’alternativa concreta. Hanno accettato la complessità della sostenibilità senza ridurla a slogan, l’hanno tradotta in processi, investimenti e relazioni umane. Hanno dimostrato che la qualità non è solo questione di ricetta, ma di sguardo: la ricetta migliore è quella che tiene insieme gusto, responsabilità e futuro. Per questo le loro storie meritano di essere raccontate. Perché, alla fine, scegliere una birra può voler dire scegliere un mondo in cui credere.
Il basilico aeroponico
di Caterina Vianello
Com'è nata l'idea di dare vita ad un'azienda agricola aeroponica?
L’idea è nata per caso, durante gli anni dell’università. Un mio caro amico calabrese voleva coltivare dei peperoncini particolari ma incontrava molte difficoltà, soprattutto nel farli crescere bene in appartamento. Un giorno, quasi per gioco, ho deciso di costruirgli un piccolo impianto aeroponico. Avevo appena letto sul sito della NASA che stavano sperimentando sistemi di coltivazione senza suolo per i viaggi spaziali. Noi abitavamo al quarto piano e la pigrizia di scendere con sacchi di terra ha fatto il resto. Il risultato ci ha lasciati senza parole: in poche settimane avevamo delle piante rigogliose, cariche di peperoncini. Da lì è nata la passione per la coltivazione indoor. Abbiamo iniziato a sperimentare con insalate, fragole e infine il basilico. Ogni test confermava le potenzialità dell’aeroponica. In seguito, abbiamo costruito un impianto più professionale e prodotto un primo pesto di altissima qualità.
Quell’esperienza ha acceso definitivamente la scintilla: ho deciso di farne un progetto serio. Con il supporto di fondi europei e la possibilità di avviare un’attività vicino casa, ho dato vita alla Fattoria di Pol, con l’obiettivo di unire innovazione, gusto e sostenibilità.
Quali sono i vantaggi di questo tipo di coltivazione?
L’aeroponica presenta numerosi vantaggi. Il primo, evidente, è il risparmio idrico: trattandosi di un ciclo chiuso, l’acqua che non viene assorbita dalla pianta viene recuperata e riutilizzata. Questo principio vale anche per i fertilizzanti, che non vengono dispersi nell’ambiente ma rimangono nel circuito, ottimizzando l’uso delle risorse. Un altro grande vantaggio è la protezione dalle contaminazioni esterne: non coltivando in terra, non si corre il rischio di inquinare le falde acquifere e, allo stesso tempo, le piante non sono esposte a piogge acide o a piogge cariche di metalli pesanti. In pratica, l’intero impianto è isolato dall’ambiente esterno
e questo garantisce una maggiore pulizia e sicurezza del prodotto. La coltivazione avviene sempre in ambiente protetto, generalmente in serra, non solo per proteggere le piante dagli agenti atmosferici ma soprattutto per controllare le condizioni climatiche. In un contesto in cui i cambiamenti climatici rendono sempre più imprevedibili e violenti gli eventi meteo, poter regolare luce, temperatura e umidità è un vantaggio fondamentale per garantire continuità e qualità produttiva. Anche dal punto di vista della sanità della pianta, i benefici sono evidenti: l’assenza di contatto con il suolo riduce drasticamente la presenza di impurità e infestanti. Questo ci permette di non utilizzare diserbanti. Inoltre, la pulizia del prodotto al momento della raccolta è decisamente superiore rispetto a una coltivazione tradizionale. Dal lato gestionale, l’aeroponica è fortemente automatizzata: un sistema computerizzato regola in modo preciso i parametri fondamentali come il pH e la conducibilità elettrica della soluzione nutritiva, permettendoci di offrire alla pianta un ambiente perfettamente equilibrato, che favorisce l’assorbimento di tutti gli elementi necessari, senza carenze né eccessi. Anche il momento della raccolta è più semplice ed efficiente.
Noi raccogliamo tutto a mano, per rispettare il naturale ciclo della pianta e garantire un taglio delicato che favorisca la rigenerazione. Questo metodo ci consente di ottenere una nuova raccolta già la settimana successiva. Infine, la velocità e flessibilità nei cambi colturali è un altro vantaggio enorme: possiamo passare da una coltura all’altra in una giornata, senza dover arare, sterilizzare o preparare il terreno, riducendo tempi morti e costi operativi. In sintesi, l’aeroponica migliora efficienza, sostenibilità e qualità complessiva del prodotto, rendendo il lavoro agricolo più moderno e anche più rispettoso dell’ambiente.
Come mai la scelta di partire dal basilico?
L’aeroponica si adatta perfettamente a colture a foglia e a ciclo breve, come insalate, erbe aromatiche e, appunto, il basilico. Dal punto di vista tecnico, il basilico risponde molto bene a questo tipo di coltivazione: è una pianta delicata ma reattiva e, in ambiente controllato, dà risultati eccellenti sia in termini di resa che di qualità. In più, la scelta è stata quasi naturale, perché viviamo in Liguria. Il nostro obiettivo è quello di esaltare le qualità del basilico ligure, migliorandole attraverso l’uso di tecniche avanzate, senza snaturare il prodotto.
Infine, si è trattato anche di una scelta pratica e di mercato: il basilico è una pianta che conoscevo bene fin dall’inizio, ne conoscevo le esigenze agronomiche e in Liguria c’è una forte domanda, soprattutto da parte di artigiani e ristoratori attenti alla qualità. Questo ci ha dato fiducia nel lancio del progetto.
Dal punto di vista organolettico e gustativo, ci sono differenze rispetto al basilico coltivato in modo tradizionale?
Sì, ci sono delle differenze e alcune di queste vengono apprezzate proprio da chi, in Liguria, è abituato a riconoscere e pretendere un certo tipo di qualità. Una prima differenza visiva è che il nostro basilico ha una foglia più grande. Questo può inizialmente lasciare un po’ interdetti ma non va confuso con una maturazione eccessiva: al contrario, le nostre piante vengono raccolte una volta a settimana, quando sono ancora giovani, tenere e in piena vitalità. Dal punto di vista del gusto, il nostro basilico non presenta quel retrogusto mentolato
o amarognolo che a volte si trova nei basilici cresciuti troppo o in condizioni di stress. In ligure si dice che “il basilico sa di menta”, ovvero prende quel sapore “troppo forte” che non piace. Noi evitiamo questa deriva mantenendo le condizioni ambientali sempre stabili: niente stress idrico o termico, niente sbalzi di luce o carenze nutrizionali. È un basilico giovane, fresco, aromatico al punto giusto, che si sposa benissimo con le preparazioni più esigenti come il pesto fresco.
Come si pone il basilico da coltivazione aeroponica
rispetto a quello previsto dal disciplinare e a marchio?
Il nostro basilico si inserisce in una fascia di mercato diversa rispetto al DOP. Non vogliamo assolutamente entrare in competizione con chi ha fatto del basilico tradizionale la propria bandiera: quel prodotto ha un valore storico, culturale e gastronomico importantissimo e continuerà a essere utilizzato da chi crede in quella filiera e in quel modello produttivo. Abbiamo scelto di proporre un’alternativa sostenibile, sia in termini di consumo di risorse che di gestione della produzione. anche detto che il mercato del basilico non è affatto saturo, anzi: gran parte del basilico utilizzato per il pesto industriale proviene da altre regioni italiane o addirittura dall’estero. Considerando che il pesto è una delle salse più consumate al mondo, è evidente che non tutto il basilico utilizzato può essere DOP. È proprio in questa zona grigia che si inserisce la nostra proposta: offrire una materia prima locale, controllata, coltivata in modo pulito e tecnologico. Non è una scelta ideologica, ma pragmatica. E noi siamo molto soddisfatti della risposta ricevuta finora dal mercato.
Il disciplinare del basilico a marchio Dop prevede che la coltivazione possa essere effettuata in ambiente protetto tutto l'anno.
L'aeroponica può rientrare nella definizione di "ambiente protetto?"
Assolutamente sì. L’aeroponica rientra a pieno titolo nella definizione di ambiente protetto ed è proprio in quel contesto che riesce a esprimere il massimo del suo potenziale. Un ambiente protetto, per definizione, è uno spazio in cui parametri fondamentali come umidità, temperatura e illuminazione vengono gestiti e controllati artificialmente, con lo scopo di creare le condizioni ottimali per la crescita delle piante. L’aeroponica si basa esattamente su questo principio: non avrebbe senso coltivare in pieno campo con questa tecnica, perché perderebbe tutta la sua efficacia.
Come avviene il processo di
coltivazione e successiva raccolta del suo basilico?
Si parte dalla semina in cubetti di substrato naturale, poi le piantine vengono trasferite nelle canaline aeroponiche dove le radici vengono nebulizzate con una soluzione nutritiva calibrata. Crescono in ambiente controllato, senza uso di pesticidi, e in condizioni di massima igiene. Dopo circa 15 giorni abbiamo il primo taglio: il basilico è pronto per la raccolta manuale e poi, a cadenza settimanale, qualche taglio ancora. Viene immediatamente confezionato in sacchetti appositi e distribuito, mantenendo la catena del freddo per garantirne la freschezza.
Quante
persone impiega l'azienda?
Attualmente siamo in sei persone operative ma la struttura è pensata per crescere. Io seguo la parte gestionale e tecnica, affiancato da un team giovane e motivato. Inoltre, collaboriamo con esperti agronomi e consulenti finanziari per garantire un approccio professionale e sostenibile.
Un po' di numeri: quanto basilico viene prodotto e venduto?
La nostra produzione, una volta terminati i lavori e a pieno regime, si attesterà intorno ai 1.000–1.200 kg di basilico a settimana. Attualmente, ci stiamo avvicinando a questi volumi e, parallelamente, stiamo avviando la campagna di commercializzazione per espandere la rete di clienti e garantire che la vendita possa seguire l’andamento produttivo. Il nostro obiettivo è quello di allineare la crescita della produzione con quella della domanda. In questa fase, stiamo lavorando intensamente per colmare il gap tra produzione potenziale e vendite attuali e le prime risposte dal mercato sono molto incoraggianti.
Chi sono i vostri clienti?
I nostri clienti principali sono ristoranti, laboratori artigianali di pesto e pastifici che producono pesto fresco quotidianamente o settimanalmente. È un business fortemente orientato al B2B, dove la qualità, la freschezza e la continuità della fornitura fanno davvero la differenza. Abbiamo instaurato collaborazioni con realtà che credono nella cura del prodotto e che vogliono offrire un pesto fatto con materie prime eccellenti, spesso autoprodotto in loco. Circa il 99% della nostra produzione è destinata a professionisti del settore food.
L'agricoltura aeroponica è l'agricoltura del futuro?
Non voglio dire che sostituirà del tutto l’agricoltura tradizionale ma sicuramente è una delle strade più promettenti per il futuro. In un mondo dove acqua, suolo fertile e clima stabile sono sempre più scarsi, serve un’alternativa che sia sostenibile, scalabile e di qualità. L’aeroponica risponde a queste sfide.
La recensione del mese
Per segnalazioni, potete scrivere all’indirizzo redazione@pizzaepastaitaliana.it
La recensione
“Abbiamo aspettato 1h30 per 4 pizze e un tagliere come antipasto. L’antipasto aveva la carne cruda grigia, l’abbiamo rimandata indietro e al posto della carne ci hanno portato pomodoro e mozzarella dopo averci promesso la salsiccia di Bra (20 €) nemmeno 0,50 centesimi di sconto. Che lentezza…”.
Recensione lasciata su Tripadvisor per un ristorante in provincia di Cuneo nel mese di luglio 2025
Il commento
Ci sono serate che iniziano col sorriso e finiscono contando i minuti. Anzi, le mezz’ore. È il caso della recensione di questo mese: un’ora e mezza per quattro pizze e un tagliere. Con un antipasto pure da rimandare indietro e una promessa: quella della salsiccia di Bra, rimasta tale.
In questi casi, più del piatto sbagliato o del conto salato, a lasciare l’amaro in bocca è la sensazione di essere stati dimenticati. Come se il tempo di chi sta seduto valesse meno di quello di chi corre tra cucina e sala. La lentezza nel servizio è un tema spinoso. C’è chi la giustifica dicendo che “la qualità richiede tempo”, “i piatti sono cucinati al momento”, chi la sopporta se arriva col sorriso del cameriere e chi, semplicemente (dopo mezz’ora senza nemmeno una bruschetta in tavola) si sente più ostaggio che ospite.
Intendiamoci... nessuno pretende di cenare col cronometro. Siamo lì per rilassarci, chiacchierare, magari brindare. Ma tra il “non avere fretta” e l’essere costretti a contare le portate come si conta il tempo in una sala d’attesa, c’è un’enorme differenza. Se si volesse cenare velocemente, si andrebbe in un fast-food: un po’ di relax dunque è contemplato ma non l’idea di sedersi a cena per alzarsi la mattina successiva.
Come sempre, non tutte le situazioni sono identiche e, in alcuni casi, dall’altro lato ci sono i ristoratori, che spesso si trovano a dover gestire situazioni non semplici. Per esempio, nei momenti di picco, con personale ridotto o inesperto, garantire un servizio rapido senza compromettere la qualità diventa una vera sfida. La cucina “espressa” (quella vera, fatta al momento), che tanto valorizziamo, richiede tempi più lunghi. Il punto, però, è che non si tratta solo di lentezza. Si tratta di attenzione, di cura e considerazione. Perché puoi anche aspettare, se nel frattempo qualcuno ti guarda, ti aggiorna, si scusa. Ma, quando l’attesa si allunga e nessuno dice nulla, allora non è più lentezza, è disinteresse. Ed ecco che inizia l’indigestione, pure a stomaco vuoto.
E poi c’è la questione del piatto mai arrivato. O, meglio, del piatto sostituito, non concordato e anche interamente pagato. Va bene tutto ma se nel menù mi vendi la salsiccia di Bra a 20 euro e poi mi porti una caprese, un piccolo gesto - anche simbolico - sarebbe il minimo. Un euro in meno, un caffè offerto, un “ci scusi per l’inconveniente” detto sinceramente. Niente di eclatante.
Forse basterebbe ogni tanto mettersi dall’altra parte. Sedersi al tavolo, aprire il menu e chiedersi: “come la vivrei io questa serata?”. Perché il servizio è anche ciò che si comunica con la gestione del tempo. E quel tempo, quando si sceglie di passarlo fuori a cena, non è un dettaglio: è parte della spesa, dell’esperienza, del ricordo. E, se il cliente, una volta uscito, ricorda più il tempo trascorso a guardare la tovaglia vuote che il sapore della pizza o di un piatto di pasta… forse qualcosa è andato storto.
FUORI CASA SÌ, MA CON GUSTO
(E CONDIVISIONE)
Dalla ricerca Host-CSA emergono nuove abitudini che parlano la lingua dell’Arte Bianca
Che si tratti di una pala croccante o di un piatto di spaghetti fumanti, per gli italiani mangiare fuori casa è un vero e proprio rituale. Lo conferma una ricerca CSA per Host 2025, che ha analizzato le abitudini legate al consumo fuori casa in sette Paesi. In Italia, il pasto è un’esperienza multisensoriale, dove cucina, servizio, atmosfera e racconto giocano un ruolo centrale. La pizzeria resta la prima scelta per il 34,8% degli intervistati, seguita dalla cucina tipica.
Pizza e pasta rappresentano simboli di gratificazione condivisa: gustose, versatili e in continua evoluzione, sono sempre più protagoniste nei menù, anche in versioni salutiste, gourmet o free-from.
Host 2025, in programma a Fiera Milano dal 17 al 21 ottobre, interpreterà queste tendenze con il nuovo MIPPP – Milano Pane Pizza Pasta, potenziato grazie alla partnership con il Consorzio SIPAN. Qui si alterneranno tecnologie smart per impasti e cottura, demo live, eventi e talk.
Debutta anche Bakery Square, area dedicata all’incontro tra arte bianca e culture alimentari emergenti, realizzata con Richemont Club Italia. In scena professionisti da tutta Europa e oltre, per esplorare nuovi stili e ingredienti.
Tornano il Campionato Europeo della Pizza, in collaborazione con Pizza e Pasta Italiana, e gli show-cooking di A.P.Pa.Fre., che celebrano la tradizione della pasta fresca fatta a mano.
Con queste novità, Host 2025 si conferma osservatorio privilegiato per i trend del fuori casa.
ORGANIZZATA DA FIERA MILANO, HOST 2025 SI TERRÀ
DAL 17 AL 21 OTTOBRE A FIERA MILANO - RHO.
Per informazioni aggiornate: host.fieramilano.it; @HostMilano.
fieramilano 17-21
OTTOBRE 2025
Food in Italy.
Il settore industriale ed enogastronomico a cura di Simonetta Pattuglia
a cura di D. M. J.
Nel cuore pulsante della cultura gastronomica italiana, dove i saperi antichi si tramandano di generazione in generazione, si delinea un panorama economico che racconta molto più di semplici cifre: è la narrazione di un'Italia che ha saputo trasformare la propria vocazione territoriale in un pilastro dell'identità nazionale.
Il settore agroalimentare italiano vive una stagione di straordinaria vitalità. Con una crescita del 2,2% che supera di quattro volte quella del PIL nazionale, questo comparto non rappresenta solo un fenomeno economico ma una rinascita culturale che affonda le radici nella più profonda eredità gastronomica del Belpaese.
I numeri parlano di una realtà imponente: oltre 1,1 milioni di aziende agricole, un milione di lavoratori, 90.000 operatori biologici distribuiti su 84.000 imprese.
Ma, dietro questi dati, si cela una storia più intima: quella di comunità rurali che hanno saputo preservare saperi antichi mentre abbracciavano le sfide della modernità.
L'export agroalimentare italiano, che ha sfiorato i 70 miliardi di euro con un balzo del 7,5% sul 2023, non è semplicemente un successo commerciale: è la testimonianza di come i territori italiani abbiano saputo raccontare la propria unicità al mondo. Ogni prodotto esportato porta con sé un frammento di paesaggio, una memoria familiare, un gesto artigianale che attraversa i secoli.
Edizioni: Guerini e Associati
Anno: 2024
Prezzo di copertina: € 24,00
Pagine: 248
L'Europa, con i suoi 19,5 miliardi di euro di importazioni italiane, si conferma il principale palcoscenico di questo racconto gastronomico, dove Germania e Francia diventano i primi interpreti di una sinfonia di sapori che parla di colline toscane, di pianure padane, di coste meridionali baciate dal sole.
Nel solco di questa evoluzione, si inserisce il libro "FOOD IN ITALY - Il settore industriale ed enogastronomico", curato dalla Professoressa Simonetta Pattuglia dell'Università di Roma Tor Vergata. Quest'opera non è solo un'analisi accademica ma un viaggio attraverso le trasformazioni di un settore che ha saputo coniugare sostenibilità e competitività, nuove tecnologie e rispetto per le radici culturali.
Il volume esplora le dinamiche contemporanee del settore, dalla rivoluzione digitale all'internazionalizzazione, senza mai perdere di vista l'anima profonda di un'industria che affonda le radici nella cultura contadina e artigianale italiana. Particolare attenzione merita il fenomeno del turismo enogastronomico, che nel libro trova uno spazio privilegiato. Non si tratta di semplice degustazione ma di un'esperienza immersiva che permette di esplorare le pratiche agricole millenarie, le tecniche di produzione artigianale e la storia delle comunità locali. Ogni territorio italiano diventa così un capitolo di un racconto più ampio, dove la diversità gastronomica riflette la ricchezza culturale di un Paese dalle mille sfaccettature. Come sottolinea la Professoressa Pattuglia, questo turismo permette di "immergersi nelle peculiarità culturali di un territorio, elemento fondamentale che determina l'identità dei diversi prodotti italiani". Un viaggio che non si limita alla degustazione, ma diventa "un viaggio attraverso le pratiche agricole, le tecniche di produzione artigianale e la storia delle comunità locali".
Il libro, arricchito dai contributi di numerosi esperti e professionisti del settore, si presenta come una mappa per navigare le sfide future: dalla sostenibilità ambientale alla digitalizzazione, dalla valorizzazione dei prodotti biologici alla lotta contro la povertà alimentare.
In questa narrazione, emerge con forza l'immagine di un'Italia che ha saputo trasformare le proprie caratteristiche uniche in vantaggi competitivi, costruendo quella che la Professoressa Pattuglia definisce una "solida dorsale italiana" nel settore agroalimentare. È un patrimonio che va oltre i confini economici, toccando le corde più profonde dell'identità nazionale e della memoria collettiva. Il futuro del settore agroalimentare italiano si delinea così come un equilibrio delicato tra le nuove tecnologie e la custodia delle radici storiche, tra mercati globali e specificità territoriali, tra efficienza economica e sostenibilità ambientale. Un racconto che continua a scriversi ogni giorno, nelle campagne come nelle aziende, nei mercati internazionali come sulle tavole familiari, dove ogni sapore custodisce un frammento di storia italiana.
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