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Millberg p. 37
Le 5 Stagioni p. 99
Scuola Italiana Pizzaioli p. 98
Lilly Codroipo p. 100
Molino Bruno p. 85
Molino Dalla Giovanna p. 83
Molino Pasini p. 61
Mulino Padano p. 71
Rinaldi Superforni p. 9
Sacar p. 49
Sanfelici Franco p. 27
Sirman p. 45
Sitta p. 39
Industria Alimentare Tanagrina p. 41
Valledoro p. 3
lezione di rorato Curiosare, leggere, capire, interpretare, copiare
Giampiero Rorato
stellata o farcitura stellata? Quando un’invenzione diventa un classico replicabile di Monica Piscitelli
di Domenico Maria Jacobone
storie di pizza
tecnica
pazienza"
Serrone e il suo Tegamino’s di Noemi Caracciolo
di Anna Marlena Buscemi
storie di pizza
La semplicità Di “Cesira”
La Pizza di Francesco Pio Comune
di Noemi Caracciolo
storie di
di Alfonso Del Forno
Caterina Vianello
sulla pizza: con cosa abbinarle? di Caterina Vianello
di Giusy Ferraina
di Marisa Cammarano
un libro al mese
a cura della Redazione
aziende informano cmp '25
Cuppone p. 54
Sanfelici p. 26
aziende informano
Molino Grassi p. 66
Scuola Italiana Pizzaioli p. 89
COLOPHON
Antonio Puzzi
«Lo vorrei vedere qui, il signor Goya!
A creare sono bravi tutti. Il difficile è copiare!».
Le parole del “principe della risata” nel film “Totò Eva e il pennello proibito” sono quantomai appropriate per dare il via a questo numero di “Pizza e Pasta Italiana” che, andando un po’ in controtendenza rispetto alla contemporaneità dettata dalla legge dei social network e facendo sicuramente storcere il naso a un po’ di pizzaiole e pizzaioli, vuole tessere un elogio della copia. Perché – checché se ne dica – copiare è un’arte: basti pensare a quante volte, a scuola, abbiamo (ehm… avete!) dovuto trovare i modi più ingegnosi per sopperire alle conoscenze molto lacunose e provare a superare una prova apparentemente difficile, facendo ricorso non alla memoria ma allo “spizzicare lo sguardo” sul compito altrui. La difficoltà maggiore nel copiare sta, però, nel riuscire a farlo bene, comprendendo il senso e, talvolta, “cambiando le parole” per non farsi beccare: è lì che si passa dall’essere un asino a diventare un genio. Nel mondo della cucina –inutile dirlo – si copia da sempre o, almeno, da quando sono nati i ricettari, ossia da quando a ospitare grandi banchetti non erano più solo i nobili ma anche le classi borghesi che necessitavano, dunque, di cuochi, i quali si ispiravano – ça va sans dire – alla cucina di corte. In pizzeria, il discorso è apparentemente diverso: sembra che copiare sia una viltà, un’incapacità di mettere in pratica idee proprie. Eppure, è quantomeno strano che siano proprio i pizzaioli (che, per definizione, sono spesso allievi di bottega e non di scuola) ad avere questo “blocco della copia”. Tant’è che qualche anno fa, cavalcando l’onda del “l’ho fatto prima io!” nacque un portale che certificava la paternità di una pizza in base a chi la registrasse per primo. Pensate se questo strumento fosse esistito ai tempi di Raffaele Esposito, il pizzaiolo che, per primo, secondo la tradizione, avrebbe portato alla ribalta la Margherita: ne avrebbe reso impossibile la diffusione oppure i suoi emulatori avrebbero dovuto riconoscergli delle royalties? Per fortuna, non lo sapremo mai. Resta il fatto che la pizza a forma di stella, quella col cornicione alveolato, quella con il crocchè di patate in fiocchi o quella con le polpettine hanno abbondantemente superato le porte delle pizzerie che per prime le avrebbero realizzate. E questo, indipendentemente dalla firma sul menù, dovrebbe rendere orgogliosi i loro creatori perché, come vuole un motto attribuito a Oscar Wilde (che, con Jim Morrison e Chuck Norris detiene il primato delle frasi celebri, vere o presunte che siano): «Una tradizione è un’innovazione ben riuscita».
PIZZA E PASTA ITALIANA
Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura
Edito da PIZZA NEW S.p.A.
Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990
Anno XXXVI - n.6 giugno 2025 - Repertorio ROC n. 5768
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DIRETTORE RESPONSABILE
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SIGEP World - The World Expo for Foodservice ESal De Riso è stato premiato come “Eccellenza della Pasticceria Italiana”. La cerimonia si è svolta a Napoli a bordo della nave scuola della Marina Militare Italiana, l'Amerigo Vespucci.
Un riconoscimento prestigioso per la nostra nazione, voluto dal Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. L'iniziativa si inserisce nell’ambito delle attività promosse dal Ministero della Cultura e dalla Farnesina per sostenere la candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Immateriale dell'Umanità UNESCO, un progetto che unisce tradizione, eccellenza e identità nazionale. Sal De Riso esporta le sue bontà in tutto il mondo ed è un vanto per la Costiera amalfitana. Membro e presidente dell'Accademia Maestri Pasticceri Italiani (AMPI) ha ricevuto il premio a testimonianza del suo straordinario contributo all'arte dolciaria nazionale e del suo ruolo di ambasciatore del gusto italiano nel mondo. A bordo della nave scuola della Marina Militare Italiana, l'Amerigo Vespucci - definita non a caso "la nave più bella del mondo" erano presenti il Ministro Lollobrigida e il Sottosegretario Cirielli.
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“Gli tisti della pizza”.
Ogni mese, ci lasciamo sorprendere da dodici straordinarie creazioni dei nostri 'Artisti della Pizza'. Per Giugno, vi presentiamo la “Pizza bebbè”, ideata dal talentuoso pizzaiolo Marco Savaiano. Una pizza in teglia carica di gusto, fragrante e leggera. Una vera opera d'arte, ogni fetta è un viaggio di sapori: dalla dolcezza dei pomodorini del Piennolo alla cremosità della stracciata di bufala. Perfetta da condividere, pensata per stupire: la pizza in teglia come non l'avete mai assaggiata.
di Giampiero Rorato
la storia della gastronomia italiana, che interessa in verità tutto il mondo occidentale, inizia nell’ottavo secolo a.c. quando nell’italia meridionale arrivarono numerosi gruppi di greci, diffondendo nelle nuove terre occupate la loro civiltà, la loro cultura ed anche la loro gastronomia.
Bisogna però attendere il VI a.C. per trovare il primo importante documento gastronomico greco scritto in Sicilia da Archestrato, vissuto a Gela. È il primo, pur breve, trattato di gastronomia scritto in Italia.
poi, arrivano i romani e merita ricordare, fra gli autori che trattano di cucina e di prodotti gastronomici, marco porcio catone (234-149 a.c.), plinio il vecchio (23-79 a.c.), columella (4-70 d.c.), autori fra tanti altri che hanno trattato nelle loro opere prodotti e piatti sia tradizionali che creativi del proprio tempo.
Passando al Medioevo, la cultura gastronomica si fa molto interessante grazie alla grandissima cultura dei sultani di Bagdad che diedero vita ad una nuova realtà gastronomica che univa la cultura greco-romana a quella arabo-musulmana. In Italia, l’abbiamo conosciuta grazie a due ricettari scritti a Palermo alla corte del grande Federico di Svevia (1194-1250) che sono alla base dei successivi testi gastronomici apparsi in Italia fra i quali il veneziano Libro per cuoco della fine del XIII secolo e Il libro della cocina pubblicato in Toscana nello stesso periodo.
Gli influssi arabi, tuttavia, sono continuati e ricordiamo, a tal proposito, il Liber de ferculis et condimentis (XIII sec.) di Gianbonino da Cremona che traduce una serie di ricette scritte secoli prima a Bagdad sulla richiesta della Repubblica di Venezia e tre secoli dopo il Interpretatio Arabicorum nominum di Andrea Alpago, medico della colonia veneziana a Bagdad.
Da allora, i grandi cuochi delle corti italiane, basandosi sulle opere degli autori
fin qui citati, attingendo alle tradizioni allora presenti nelle cucine importanti ed aggiungendo la loro creatività, ci hanno lasciato importantissimi volumi di ricette, molte delle quali ancor oggi presenti, dopo essere state copiate da tanti cuochi attivi nelle case della nobiltà e della ricca borghesia del tempo. Bartolomeo Sacchi, Maestro Martino da Como, Bartolomeo Scappi, Cristoforo Messisbugo sono alcuni dei grandi autori di gastronomia che hanno non solo caratterizzato la cucina rinascimentale italiana ma l’hanno fatta conoscere anche nelle corti europee.
La cucina italiana moderna, almeno fino agli anni ‘70 del secolo scorso (quando si diffuse in Italia la Nouvelle Cuisine) si è sviluppata partendo proprio dai cuochi rinascimentali, anche se, nei secoli successivi, sono stati aggiunti prodotti prima sconosciuti come mais, peperoni, zucche, patate, stoccafisso, ecc.: prodotti questi che si sono facilmente inseriti in un filone gastronomico già ben consolidato.
Da sempre, la cucina italiana ha avuto due radici: i prodotti del territorio e una cultura gastronomica basata su tradizione mediterranea quindi greca, romana, araba.
Si dice che la cucina italiana sia la migliore del mondo non tanto per la tecnica operativa, nella quale eccellono i Francesi, quanto piuttosto nella materia prima, visto che l’Italia è il Paese con la più vasta produzione agroalimentare con prodotti di altissima qualità.
ora, studiando i ricettari del passato si trovano, sparse nelle varie regioni italiane, migliaia di ottime ricette storiche che i bravi cuochi hanno via via aggiornato secondo i gusti, le necessità, le tecniche del tempo. La domanda che molti oggi si fanno è: ai cuochi conviene inserirsi nel filone della tradizione che per ogni prodotto ha già saputo realizzare numerose ottime ricette oppure mettersi a inventare ricette nuove dimenticando la straordinaria cultura del passato? Anche oggi abbiamo alcuni grandi maestri come nel passato sia gastronomi che cuochi come Ada Boni, Luigi Carnacina, Nino Bergese e Gualtiero Mar-
chesi, i quali, nei libri di gastronomia che ci hanno lasciato, raccontano lo splendido mosaico della moderna cucina italiana e da loro è possibile attingere idee, suggerimenti, proposte per realizzare dei piatti di grande eccellenza; copiare da loro e da quanti altri ci hanno lasciato negli ultimi decenni dei seri ricettari sia nazionali che territoriali garantisce piatti di sicura qualità. Naturalmente, servono cultura, conoscenza, studio e le necessarie prove per ottenere piatti esteticamente belli, come oggi è richiesto, nutrienti, buoni, rispondenti alle vere necessità alimentari.
Dunque, non conviene – a meno che non si sia grandissimi cuochi – inventare, quando in Italia c’è un patrimonio di ottime ricette sia storiche che moderne, di cui l’Italia va giustamente orgogliosa.
Consuma piu un forno a legna o una foto creata da Chat GPT?
di Domenico Maria Jacobone
Negli ultimi anni, l'uso dell'IA generativa (per esempio ChatGPT e DALL·E)
è esploso anche nel settore della ristorazione, trasformando menù digitali e promuovendo attività sui social.
Questo fenomeno solleva interrogativi sui consumi energetici "digitali" rispetto a quelli tradizionali in cucina. Da un lato, i data center che eseguono modelli di intelligenza artificiale richiedono potenti GPU e sistemi di raffreddamento che consumano notevoli quantità di elettricità; dall'altro, i classici forni per pizza necessitano anch'essi di molta energia per mantenere alte temperature per la cottura, con differenze significative a seconda del tipo di alimentazione.
nella generazione di immagini AI
La creazione di immagini tramite IA si basa su server dotati di GPU ad alte prestazioni. (L'acronimo significa "unità di elaborazione grafica", che è un processore specializzato che si occupa principalmente di elaborare dati grafici e video). Studi recenti indicano che generare un'immagine richiede mediamente circa 0,0029 kWh (2,9 Wh), equivalenti al consumo di un telefono caricato quasi al 24%. In modelli particolarmente "pesanti" come quelli di Hugging Face, il consumo può salire fino a 0,011 kWh. Durante l'elaborazione di
un'immagine complessa, una GPU professionale di ultima generazione può raggiungere picchi di 300-400 W pari a 20 ricariche complete di uno smartphone!
In termini di emissioni, considerando il mix energetico italiano (circa 270 gCO₂eq/kWh), questo si traduce in frazioni di grammo di CO₂ per immagine (0,001-0,003 kg), un valore decisamente contenuto rispetto molte attività quotidiane nel mondo della ristorazione.
nella cottura di una pizza
L’energia consumata per la cottura di una pizza professionale è invece dell’ordine di qualche centinaio di Wh, a seconda del forno. Mediamente abbiamo stimato che un forno elettrico per una pizzeria di media dimensione abbia un consumo energetico di circa 7-10 kW/h. Questo significa che, se il forno viene utilizzato per 8 ore al giorno, il consumo energetico complessivo potrebbe essere di circa 56-80 kW/h al giorno.
L'energia necessaria per cuocere una pizza in ambito professionale è quindi di base
significativamente maggiore che quella per la generazione di un’immagine, per darvi un dato approssimativamente preciso, abbiamo stimato che:
Un forno elettrico professionale consuma circa 0,44 kWh per pizza (incluso preriscaldamento)
Un forno a gas commerciale richiede tra 0,5 e 0,8 kWh per pizza, dovendo compensare maggiori dispersioni
Un forno a legna tradizionale per pizza napoletana assorbe circa 1,86 kWh per pizza (equivalente energetico della legna)
Traducendo questi valori in emissioni di CO₂:
Il forno elettrico produce circa 0,12 kg di CO₂ per pizza (pari a circa 1 km in auto)
Il forno a gas emette circa 0,16 kg di CO₂ per pizza (equivalente a 1,3 km in auto)
Il forno a legna, utilizzando legna certificata, ha emissioni nette considerate "biogeniche", praticamente nulle nell'analisi di lungo termine. La cottura di una pizza genera quindi decine di grammi di CO₂, mentre un'immagine IA solo pochi grammi, per aiutarvi nella comprensione, abbiamo realizzato una tabella comparativa che simula in equivalenza le emissioni CO₂ emesse da un’auto a confronto con i consumi rapportati.
Immagine generata da IA ~0,0029 kWh per immagine (fino a 0,011 kWh)
Pizza (forno elettrico)
Pizza (forno a gas)
kWh per pizza
kWh per pizza (stima)
kg (0,8 g) ~6 metri
km Pizza (forno a legna)
Le soluzioni di intelligenza artificiale possono contribuire significativamente a risparmiare energia nella ristorazione migliorando l'efficienza operativa:
- Sensori intelligenti e controlli "smart" regolano automaticamente consumi di luci, climatizzazione e monitoraggio dei frigoriferi
- Modelli di demand forecasting ottimizzano la preparazione degli ingredienti e il preriscaldamento dei forni nei momenti di picco
- Sistemi basati su IA segnalano perdite di efficienza (come piastre mal isolate) e suggeriscono cicli di cottura ottimali
- Algoritmi avanzati per la gestione delle scorte e dei flussi in cucina riducono inoltre gli sprechi alimentari, abbassando indirettamente i consumi lungo tutta la filiera. Ad esempio:
- La società di catering Elior e la ben più nota IKEA hanno sperimentato con la startup “Winnow” un sistema IA (Winnow Vision) che monitora i rifiuti alimentari in mensa, puntando a ridurre del 30% lo spreco di cibo e del 12% le emissioni di CO₂ per pasto.
- Il gruppo cooperativo CIRFOOD ha ridotto del 15% gli scarti alimentari grazie a modelli di inventory forecasting basati su IA, con un minore fabbisogno di scorte (111 tonnellate di materia prima in meno) nel primo anno di applicazione.
Sostenibilità
digitale e culinaria:
verso nuovi orizzonti
Il confronto evidenzia una realtà interessante: generare un'immagine tramite IA richiede energia nell'ordine di pochi Wh, mentre cuocere una pizza consuma centinaia o migliaia di Wh. Le emissioni di CO₂ legate all'IA risultano quindi quasi trascurabili rispetto a quelle della cottura tradizionale ma la vera innovazione risiede nell'integrazione dei due mondi.
L'intelligenza artificiale offre ulteriori opportunità per la sostenibilità energetica nei ristoranti attraverso:
- Ottimizzazione dei cicli termici: algoritmi che apprendono dalle abitudini di cottura possono regolare automaticamente l'accensione e lo spegnimento dei forni, riducendo i tempi di preriscaldamento fino al 15%.
- Manutenzione predittiva: sistemi di monitoraggio intelligente possono identificare anomalie nei consumi energetici prima che diventino problemi, prolungando la vita delle attrezzature.
- Menu engineering sostenibile: l'IA può analizzare l'impronta di carbonio degli ingredienti e suggerire combinazioni che mantengano l'identità gastronomica riducendo l'impatto ambientale.
- Gestione integrata energiaacqua: piattaforme che ottimizzano simultaneamente consumi idrici ed elettrici, con risparmi documentati fino al 20% nelle lavastoviglie professionali.
I casi di utilizzo dell’AI dimostrano già l'efficacia di queste soluzioni nel ridurre sprechi e costi operativi. Particolarmente promettente è l'applicazione di modelli di apprendimento federato che permettono ai ristoranti di condividere dati anonimi sui consumi, creando benchmark di efficienza energetica specifici per categoria e dimensione.
In questo dialogo tra innovazione tecnologica e tradizione culinaria, si delinea un futuro in cui ogni kilowattora risparmiato contribuisce tanto alla sostenibilità economica quanto a quella ambientale: non più mondi separati, ma alleati nella creazione di una ristorazione più efficiente e consapevole.
Il valore aggiunto dell'IA non sta solo nella sua impronta energetica ridotta ma nella capacità di orchestrare tutti i processi verso un obiettivo comune di ottimizzazione delle risorse.
di Giusy Ferraina
Quando dici pizza il pensiero corre alla Margherita, icona di un piatto e di una cultura e appartenente all’immaginario collettivo. Il suo successo è dovuto alla combinazione perfetta di pochi e semplici ingredienti, capace di regalare un gusto che racchiude la quintessenza della cultura mediterranea: il pomodoro, la mozzarella, il basilico e l’olio extra vergine d’oliva. Quattro materie prime importanti e riconoscibili, dalla grande biodiversità e che messi insieme sotto forma diversa riescono sempre a raccontarci la stessa storia. Un po’ come dire che cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia.
Non mancano però le reinterpretazioni, gli adattamenti
gourmet, le sue evoluzioni con i tanti voli pindarici di pizzaioli moderni che sfidano la tradizione e propongono la loro versione di Margherita. C’è chi lo fa con estro artistico, chi con provocazione, chi sperimentando ingredienti diversi con sapori riconducibili a quel senso di comfort che la pizza regina sa dare. Ed è proprio di queste variazioni sul tema che vogliamo parlare.
DI FRANCO PEPE
Facciamo un salto indietro di dieci anni: è il 2015 e FRANCO PEPE presenta la sua Margherita Sbagliata, nata con il chiaro intento di valorizzare il territorio e, in particolare, il
pomodoro riccio di Caiazzo. Dove la parola sbagliata sta a significare un procedimento ben preciso: in cottura, sull’impasto, non viene messo il pomodoro, ma la mozzarella di bufala con un filo di olio extravergine di oliva caiazzana e viene completata in uscita con sottili strisce di passata cruda di pomodoro riccio e una riduzione di basilico a rifinire il gusto. Così facendo, Franco Pepe decide di “slegare” il concetto tradizionale di Margherita e crea una pizza dalla composizione essenziale, visivamente potente e sorprendente che è diventata negli anni una delle pizze più celebri al mondo, una vera icona della cucina italiana e un simbolo culturale che ha travalicato i confini del nostro Paese.
Torniamo al 2025 per trovare una nuova, originale interpretazione della Margherita che
guarda al passato per reinventare il presente. A firmarla è lo chef CIRO DI MAIO , che a Brescia gestisce “SAN CIRO”, che ha voluto rendere omaggio alla cucina povera napoletana, al teatro e alla figura immortale di Totò. Come accadde per gli iconici spaghetti alle vongole fujute di Eduardo De Filippo — dove le vongole, pur essendo nel nome, non compaiono nel piatto — anche in questa pizza l’ingrediente principale
è “scappato”. Nella sua “Margherita Fojuta”, lo chef napoletano, noto per i suoi video su TikTok e per le sue iniziative solidali, ha raccolto tutti gli ingredienti della pizza Margherita e li ha fusi nell’impasto: ci sono ma non si possono vedere. Sono fojuti, ossia scappati. Ispirandosi a quella tradizione di creatività nata dalla mancanza, Ciro ha deciso di racchiudere tutti gli elementi della Margherita direttamente nell’impasto: farina, lievito, sale, olio, basilico, pomodoro, persino la mozzarella e la sua acqua di governo. Tutto impastato insieme per ottenere una focaccia fragrante, carica di sapori ma senza elementi visibili. “Totò diceva che a Milano la nebbia c’è, ma non si vede. E ora, in Lombardia, nasce anche la Margherita che c’è, ma non si vede”, racconta lo chef. “Volevamo rendere omaggio alla Margherita con una pizza che ne racchiudesse l’anima in modo inedito. Il gusto non è scappato, anzi: è semplice, diretto, sorprendente.”
“PIOVE SUL BAGNATO” OVVERO UNA MARGHERITA ASTRATTA
Da “BOB ALCHIMIA A SPICCHI” a Montepaone (Cz), ROBERTO
DAVANZO celebrò la prima Giornata della Ristorazione con una sua versione creativa, quasi un’astrazione di una pizza Margherita, in cui compaiono tutti gli ingredienti ma danno vita a un qualcosa di completamente diverso, almeno nella forma. Si tratta di una “Focaccia rafferma inzuppata di pomodoro chiarificato e dalla base croccante, polvere di pesto, nuvola volante di mozzarella”. Un piatto che vuole essere una giocosa reinterpretazione di una lamentela ricorrente, tipica — e volutamente accentuata — della tradizione calabrese. Un po’ come vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto: il focus resta sul negativo, impedendo di cogliere ciò che di buono c’è. Eppure, anche quando “piove sul bagnato”, se le gocce sono di mozzarella, allora piacciono a tutti! Una rielaborazione della margherita che prende ispirazione dal celebre dessert Bosque Lluvioso di Jordi Roca, del tristellato “El Celler de Can Roca”, pensata come gesto simbolico di accoglienza e convivialità.
LUCA TUDDA, pizzaiolo ambassador per la Calabria di AVPN, di San Marco Argentano nel 2019 partecipa alle Olimpiadi della pizza AVPN con la sua Margherita Molecolare. La sua intenzione era quella di presentare una pizza che andasse oltre la forma classica ma rimanesse legata al sapore autentico. Così, pensò ad una rivisitazione della classica
Margherita in chiave molecolare, per di più cotta con il ghiaccio in un mix di tecnica, provocazione, stupore e creatività. Grazie all’uso di tecniche contemporanee come la sferificazione, la Margherita si trasforma in una pizza fresca e innovativa: una base bianca, mozzarella di bufala campana Dop stracciata a mano aggiunta in uscita, perle gelificate di pomodoro San Marzano e caviale di basilico a completare. Ma come mantenere la morbidezza del disco di pasta dopo la cottura, evitando l’effetto “biscotto”?
CONSENTE DI PRESERVARE L’UMIDITÀ
Alla vista è una pizza bianca, ma che rispetta tutti i canoni della Margherita verace napoletana. La fetta al taglio è morbida, si piega ma senza essere appesantita dagli ingredienti sopra e, al morso, arriva un’esplosione di sapore e freschezza riportando la mente ad una Margherita 100%. Pizza che ancora oggi propone nei suoi menu degustazione o in eventi speciali.
GIAMMARCO AMBRIFI E ANTONIO della pizzeria “LA PASSEGGIATA” a Priverno (Lt), tra omaggio al territorio, visioni futuristiche e ispirazioni che arrivano dal passato hanno dato vita ad un innovativo menu degustazione interamente dedicato alla pizza Margherita dove, partendo da quella più classica e fedele alla ricetta originaria, si viaggia lungo un crescendo sempre più sperimentale. Dalla “Margherita classica” si passa a versioni come la “Margherita Scomposta”, il “Pensiero di Margherita” e “Illusione di Margherita”.
Dove il Pensiero di Margherita viene servita con un coulis di basilico e un gelato realizzato a con il latticello di bufala, tutto in linea con un approccio sostenibile che punta alla riduzione degli sprechi in cucina. Il latticello, infatti, sottoprodotto generato durante il taglio della mozzarella di bufala, viene valorizzato come ingrediente principale, mentre il coulis di basilico è ottenuto dai gambi della pianta, solitamente scartati ma ricchi di aroma e intensità. La “Illusione di Margherita” è quella più sperimentale e visionaria, dove si concentra la loro idea di pizza creativa: ciò che sembra una margherita in realtà è il risultato di una combinazione inaspettata di salsa di kiwi stufata, kiwi fermentati, che richiamano la dolcezza del datterino giallo, beurre blanc al posto del fior di latte, basilico e olio evo Un gioco di percezioni in cui tecnica, ricerca e sperimentazione si combinano alla perfezione.
base di Pomodoro pelato San Marzano, Mozzarella fior di latte e basilico - che rimane sempre una garanzia - si passa di pizza in pizza giocando con pomodori diversi e diversi tipi di mozzarella o formaggi per arrivare a creare altre otto pizze margherite (bio)diverse. Da segnalare in particolare la “Italiana Vera” con San Marzano accompagnato da grana in cottura, stracciatella e macchie di pesto di basilico e la particolare “Aglio Olio e Pomo…doro” con salsa di pomodoro giallo all’aglio, mozzarella Jersey, grana in cottura, figliata di bufala affumicata, olio e basilico, che si apprezza per il suo gusto che ti porta immediatamente ad un piatto di spaghetti aglio e olio.
A Riposto (Ct) da “CRESCENZIO PIZZERIA A TAVOLA”, JOSÉ PARISE E DAVIDE PALERMO hanno studiato una loro Carta delle Margherite che definiscono l’evoluzione naturale del loro percorso di pizzaioli contemporanei:
CARTA DELLE MARGHERITE E BIODIVERSITÀ
Sempre per rimanere in tema di interpretazioni della Margherita, da questo lavoro di rielaborazione nascono le carte delle Margherite, nell’ultimo periodo sempre più presenti nelle pizzerie, come omaggio alla tradizione e allo stesso tempo alla ricerca e alla creatività, oltre che alla biodiversità agroalimentare.
Alcuni esempi? Laddove si fa a gara tra pizze stagionali, special e gourmet, da LORENZO FORTUNA a Rende la Margherita diventa regina sotto ogni punto di vista. Il maestro pizzaiolo calabrese riesce ad ampliare e diversificare il concetto di Margherita, rendendo creativa e differente una pizza che potrebbe sempre apparire uguale a sé stessa ma che invece possiede molteplici sfumature di gusto. Dalla Classica a
VARIANTE NASCE DA UN’ATTENTA SELEZIONE
DELLE MATERIE PRIME, CON PARTICOLARE ATTENZIONE
ALLE ECCELLENZE ARTIGIANALI SICILIANE ED ETNEE.
Si tratta di sette interpretazioni della pizza più iconica, tra cui troviamo alcune interpretazioni più audaci come la “Signora in Giallo” che sorprende con una base di salsa di pomodorino giallo di Sicilia, stracciatella pugliese, capuliato di pomodoro e polvere di basilico, mentre la “Signora-Mente” unisce il sapore intenso della salsa di pomodoro San Marzano DOP alla freschezza dell’emulsione di menta, con mozzarella di bufala e Grana Padano DOP grattugiato in cottura.
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1. "Squadra che vince non si cambia": che cos’è per te il Campionato Mondiale della Pizza?
Il Campionato Mondiale della Pizza non è una semplice competizione. Per noi di Sanfelici srl, che riforniamo le migliori pizzerie d’Italia e non solo, rappresenta il termometro dell’eccellenza.
È qui che si decide il futuro della pizza: nuove tendenze, tecniche rivoluzionarie, materie prime che diventeranno riferimento per i prossimi anni.
Noi forniamo gli ingredienti a molti dei partecipanti, e vedere come vengono trasformati—con rispetto per la tradizione ma anche con coraggio—è sempre una lezione.
Vince chi innova senza tradire l’anima della pizza. E questa squadra, quella degli artigiani veri, non si cambia mai.
2. Qual è la richiesta più strana che hai ricevuto nei giorni del Campionato?
In trent’anni di attività, pensavo di aver visto tutto. Poi arriva un pizzaiolo che mi chiede farina di riso nero per una pizza “fusion” da presentare in gara.
Gli ho detto: “Se funziona, la voglio assaggiare io per primo”. Perché il bello di questo mestiere è proprio questo: nessuna richiesta è troppo strana, se c’è passione dietro. Poi, certo, alcuni abbinamenti li sconsiglio… A parte gli scherzi: il mercato ora chiede sperimentazione, e noi dobbiamo essere pronti a sostenerla, con prodotti di qualità.
3. Quale ricordo ti è rimasto impresso di questa edizione?
Un giovane pizzaiolo napoletano, che da anni utilizza i nostri prodotti, ha gareggiato con una Margherita Contemporanea che sembrava uscita da un vecchio forno partenopeo. Ingredienti semplici, tecnica perfetta.
Ma ciò che mi ha colpito non è stata la pizza in sé, ma le sue parole: “La pizza è memoria.. e senza materie prime eccellenti, la memoria si perde”.
È il motivo per cui la nostra azienda investe così tanto nella tracciabilità e nella selezione dei fornitori. Il futuro della pizza dipende anche da chi, come noi, lavora dietro le quinte.
4. La tua azienda e il futuro della pizza: quali progetti per domani?
Stiamo ampliando la nostra gamma con nuove linee premium dedicate alle pizzerie di alto livello, dove qualità e innovazione si incontrano.
Ma la vera rivoluzione è nel segmento “smart”: abbiamo sviluppato una nuova base pizza atm con ricetta proprietaria, già richiestissima da imprenditori e locali che puntano alla praticità senza dover rinunciare all’alta qualità.
Ma la vera scommessa è l’Accademia
Sanfelici: un centro formazione per pizzaioli dove insegnare non solo la tecnica, ma anche la gestione responsabile delle materie prime. Perché la pizza del futuro dovrà essere buona, sostenibile e accessibile. E noi ci saremo, come sempre, a sostegno di chi fa questo mestiere con onestà e creatività.
di Monica Piscitelli
Quando un’invenzione diventa un classico replicabile
ci sono stelle sulla pizza? tecnicamente no: mai la guida michelin, a dispetto del lavoro fatto dai suoi grandi interpreti, ha attribuito stelle a una pizzeria.
E, forse, anche, ed ancora, a ragione. Il ciclo di incontri alla Pizzeria “Salvo” di Napoli, al suo terzo appuntamento, con un tristellato a firmare le farciture, ci dà l’occasione di riflettere sul tema, dal momento che a Napoli, la patria della pizza, niente del genere si era ancora visto. Facciamo un breve passo indietro. I “quattro mani” sono una formula consolidata nell’offerta di serate a tema destinate al confronto e allo scambio di esperienze. Ne abbiamo visti di ogni genere e rango. Non sono nuovi ma raccolgono certamente l’occasione di “prendere due piccioni con una fava”. Nella recente occasione, dai Salvo, che parallelamente cavalcano molto
bene la moda dell’abbinamento della pizza ai cocktail, addirittura i piccioni sono tre: il pizzaiolo, lo chef stellato e il bartender. E che piccioni! Quello che è stato chiamato da Salvatore Salvo, Fabrizio Mellino, tristellato de “I Quattro
Passi” e Edoardo Nono, bartender di “Rita&Cocktails” di Milano, “un divertimento” che dà da pensare seriamente.
per una notte o per sempre
Cosa vuol dire oggi farcire una pizza? Per una sera, per una stagione o per tutta la vita. La questione è pari a quella di trovare la risposta su come si passi dal fare un ottimo piatto a fare un piatto “cult”. E come farlo rientrare in un Olimpo di ricette che sono l’essenza stessa della cucina italiana. E quindi eternarlo. Come gli Spaghetti al pomodoro fresco e basilico.
Il divertimento cui invitavano i tre a Napoli è eufemismo.
Gli incontri e gli scambi di ricette e know how tra professionisti sono ben altra cosa.
Perché non la chiamano avanguardia? O studio, allora?
Queste occasioni apparentemente “sciolte” sono un fatto molto serio, perché è bastato alzare la testa dal bancone, afferrare la mano tesa da qualche gastronomo o chef illuminato, per cogliere le occasioni del mondo “li fuori”. Le pizze, se non di Stelle, hanno cominciato a parlare di una dignità nuova.
Ma l’incontro tra un pizzaiolo e un tristellato, se non è più la fantascienza di una quindicina di anni fa, è ancor oggi, quantomeno, da celebrare. Forse solo Ciro Salvo, nel 2017, è riuscito a incontrarne di più in un colpo solo: quando, per il decimo anniversario di “Eataly Torino”, si trovò solo tra ben dieci stellati: Massimo Bottura, Davide Scabin, Moreno Cedroni, Claudio Sadler, Enrico e Roberto Cerea, Gennaro Esposito, Philipp Léveillé, Alessandro Negrini e Fabio Pisani, Luigi Taglienti e, infine, il pasticciere Luca Montersino.
da quando?
Ma quando è iniziato il duettare tra pizza e alta cucina? Interrogata sul primo incontro tra uno chef stellato e un pizzaiolo, l’Intelligenza Artificiale prende un granchio e dice che
esso risale al 2023, durante “C’è + Gusto” di Bologna. In quella occasione, lo chef Alain Ducasse (che già lo aveva “incrociato” dal 2015) assaggiò la pizza di Franco Pepe e l’ha definita un ‘piatto di haute couture’. Ma l’incontro, nella fattispecie, non solo non è del tipo “quattro mani” di cui sopra, ma soprattutto è troppo recente. Andando indietro, già nel 2011, durante la prima edizione milanese di “Identità Golose”, Gino Sorbillo portò sul palco del Congresso, con Gennaro Esposito presente tra altri, la tradizione della pizza napoletana, affiancato da Luigi Dell’Amura e Simone Padoan. Seguire le tracce lasciate dai pizzaioli nelle kermesse, nelle serate e nelle fiere è un ottimo modo per indagare il tema. In quanto appunto sono stati “divertimenti” significativi, flirt che hanno spianato la strada all’amore per sempre. Se, oggi, pizzaioli e chef si fanno una telefonata e si incontrano tra baci e abbracci, se si scambiano reciproci accorati apprezzamenti, in un passato non troppo lontano, qualcuno si è certamente chiesto cosa
ci facesse, un pizzaiolo, a un Congresso come quello di Paolo Marchi, oppure sotto i templi di Paestum, o in una Guida dedicata e ancora tra i talenti Emergenti italiani. Il pizzaiolo tornava alle sue origini storiche: attirare il pubblico e sfamarlo. Ma la domanda era: aveva qualcosa di squisitamente tecnico (e non folcloristico) da dire?
Se la memoria non mi inganna, fu Enzo Coccia, da molti additato come il pioniere dei pionieri, a partecipare come primo pizzaiolo a “Identità Golose”. Ma non nel 2005, anno della prima edizione del Congresso a Palazzo Mezzanotte, come dice AI (che annaspa ancora su tutta la linea), ma nel 2012, con “Identità di pizza”. Nel 2008, invece, nasceva “Le Strade della Mozzarella”, quale congresso internazionale di cucina d’autore, a partire dalla “regina bianca”. E lui c’era.
E sempre Coccia era, già nel 2009, tra i fondatori di CHIC ( Charming Italian Chef ), associazione che mise insieme svariati professionisti della ristorazione italiana di alta fascia per favorire lo scambio di idee e esperienze tra i soci. Nel 2010, poi, forte di una ricerca sugli ingredienti iniziata anni prima, bissava la sua “PizzAria”, con “La Notizia 94”, la prima pizzeria a essere premiata con la Forchetta dalla Guida Michelin.
Non erano, allora, usuali gli incontri tra pizza e cucina, figurarsi il lavoro congiunto. Il “divertimento”. Quelli che innovavano la pizza studiavano e applicavano la ricerca relativa al prodotto tutti da soli. Nessun ghost consulente addetto alla selezione degli ingredienti, nessuno chef a suggerire e nessuno scambio culturale. Eppure, la pizza, nel tempo, ha ampliato la sua gamma di farciture e le ha consolidate al punto da farne dei classici intramontabili. Negli assaggi fatti in questi anni di questi cimenti a quattro mani, devo dire che, in fondo, pare un pizzaiolo napoletano interpreti la pasta e il suo legame con il topping meglio di chiunque altro.
quando, allora, una delle ricette dei “quattro mani” diventerà classico?
In teoria, un disco di pasta eccellentemente realizzato come quello dei “Salvo” (per tornare ai maestri di San Giorgio a Cremano) è un piatto perfetto per una farcitura “gourmet” realizzata ad arte. Ma per il fatto stesso di non essere una base (un piatto, appunto), quella napoletana, presenta delle grosse insidie: contrappunto, cottura, consistenza, gradevolezza, armonia complessiva dipendono dal passaggio in forno. Fabrizio Mellino, per tornare alla serata di Napoli, è sembrato averlo intuito.
In quel “quattro mani” ha mostrato la saggezza di una famiglia di ristoratori di grande esperienza e la classe di un giovane tristellato espressione
di un angolo paradisiaco della terra campana: la Costiera amalfitana, il simbolo della semplicità e bellezza in salsa italiana.
L’ottenimento di una ampia “palatabilità”, al di là della ricercatezza, della combinazione degli ingredienti ha reso eterni e indimenticabili i grandi classici della cucina e pizza italiana, taluni semplicissimi. Preparazioni come la Marinara e la Margherita, o come la Carbonara e la Nerano, simboli della cucina nazionale. Nella chiacchierata che abbiamo fatto appena prima della serata a quattro mani dai “Salvo”, non ho potuto resistere dal chiedere a Mellino cosa pensasse della pizza che cerca abbinamenti gourmet e cosa della Nerano sulla Pizza, dato, che essa, con la Genovese e il Ragù napoletano, o la Carbonara e la Cacio e Pepe, sono tra le ricette più abusate d’Italia. E la sua risposta è stata semplice e illuminante. Ragionandoci a qualche giorno di distanza, direi perfino classica: “La pizza deve restare una specialità del popolo”, ha detto il giovane tristellato, con ciò volendo esprimere tutt’altro che una subalternità della pizza alla cucina. No, Fabrizio Mellino mi ha raccontato di una grande ammirazione per
questa tradizione, della quale è osservatore rispettoso. Del suo rispetto parlano in effetti anche gli assaggi delle sue creazioni (su tutte Spring explosion, con favette primaverili e lardo di seppia e ricciola), tutte ispirate a una attitudine al servizio del “piatto di pasta lievitato”, ammirevole. Non altrettanto (ma è stato un autentico divertimento, bisogna dirlo!) i magnifici cocktail di Nono che ha spiazzato in ogni momento con nuances di fragola, “peperone anchio”, cetriolo, “pomodoro niasca” e tequila. Mellino ha lavorato su ingredienti semplici per una ricerca di compostezza e sa-
pore che non puntava a creare una pizza dagli effetti speciali ma una pizza da mangiare e adottare sempre. E come avviene? Quanto resta del “divertimento” di una notte? La risposta è nelle parole di Mellino, Lui, sulla pizza, non ha mai avuto occasione di assaggiare la Nerano ma –confessa - non la considera un insulto per principio, né un tormentone.
Alla risposta di pancia preferisce il pragmatismo: “Quando una salsa diventa tanto amata da essere un classico, non si può che essere felici, perché vuol dire che ha questa forza. Solo questo conta, in fondo. E per la Nerano è così”. Il popolo è sovrano: è lui a decidere cosa è per una notte e cosa è per sempre. Vale tanto per la Nerano quanto per la Margherita. E vale pure per le pizze “gourmet” che un giorno, chissà, saranno dei nuovi classici.
di Domenico Maria Jacobone
Replicabilità nasce dal latino replicare (composto da re-, "di nuovo", e plicare, "piegare"): il termine designava originariamente l'atto di ripiegare, di riavvolgere qualcosa su se stesso.
Nei secoli, questo significato si è evoluto fino a indicare la possibilità di riprodurre un processo o un fenomeno mantenendone le caratteristiche essenziali. Nella terminologia scientifica moderna, la replicabilità rappresenta uno dei pilastri del metodo scientifico: la capacità di ottenere risultati coerenti attraverso la ripetizione di procedure identiche in condizioni comparabili.
La pizza come archetipo di replicabilità
La pizza, nella sua apparente semplicità, rappresenta un caso straordinario di replicabilità gastronomica. Nata nei forni a legna della Napoli popolare, ha saputo espandersi in ogni angolo del pianeta mantenendo un dialogo costante fra radici storiche e innovazione, tra regole codificate e adattamenti territoriali. Questa capacità unica di essere contemporaneamente identica e diversa, riconoscibile eppure flessibile, probabilmente costituisce la chiave del suo successo planetario.
La pizza rappresenta un paradosso gastronomico affascinante: un piatto che tutti riconoscono immediatamente, ma che nessuno definisce esattamente allo stesso modo. Il gesto del pizzaiolo, quel movimento circolare che trasforma sfera di impasto in un disco perfetto, rappresenta la prima forma di replicabilità associata alla pizza. Un movimento tramandato di generazione in generazione, perfezionato attraverso migliaia di ripetizioni fino a diventare memoria muscolare, saggezza delle mani che dialogano con la materia, ancora oggi imitato senza egual successo dalla tecnologia. Non a caso, l'UNESCO ha riconosciuto nel 2017 "L'Arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano" come patrimonio immateriale dell'umanità, celebrando quella coreografia di gesti replicabili che danno vita ad un'opera d'arte quotidiana. Il disciplinare dell'Associazione Verace Pizza Napoletana codifica minuziosamente ogni aspetto della preparazione, dalla temperatura del forno alla modalità di impasto, dal tempo di lievitazione alla consistenza finale. Questa codificazione rappresenta il tentativo di rendere esplicito ciò che per secoli è stato tacito, di trasformare una forma d’arte in tecnica replicabile.
Nell'apparente semplicità dell'impasto della pizza, si cela una complessità che sfida la pura replicabilità meccanica. La farina, elemento primigenio di questa creazione, varia sensibilmente nelle sue caratteristiche organolettiche e nel suo contenuto proteico: dal tenore proteico della Manitoba nordamericana alla delicatezza delle farine italiane tipo 00, ogni variazione determina un equilibrio diverso nell'impasto finale. L'acqua, elemento apparentemente neutro, costituisce forse la variabile più sottovalutata e al contempo decisiva. Le acque minerali di Napoli, ricche di carbonati e con una durezza che oscilla tra i 10°C e i 15°C gradi, dialogano con la farina in modo profondamente diverso rispetto alle acque del Nord Italia, più leggere, o a quelle di New York, pesantemente clorate. Questa variabilità minerale influenza direttamente l'idratazione
Ciò che rende la replicabilità della pizza un esercizio di alta artigianalità è il dialogo costante con le condizioni ambientali. La temperatura e l'umidità rappresentano variabili decisive che il pizzaiolo deve saper interpretare e a cui deve reagire con sapiente adattamento.
della maglia glutinica e la fermentazione dell'impasto. I maestri pizzaioli contemporanei hanno imparato ad analizzare la composizione chimica dell'acqua locale, talvolta modificandola attraverso filtrazione o aggiunta di sali minerali per avvicinarsi al profilo dell'acqua napoletana. In questa alchimia acquatica, si nasconde uno dei segreti più gelosi della replicabilità della vera pizza.
Il sale, oltre al suo ruolo gustativo, regola l'attività fermentativa e rafforza la maglia glutinica, modificando la struttura stessa dell'impasto. La sua percentuale, che tipicamente oscilla tra il 2% e il 3% del peso della farina, richiede un adattamento costante in relazione alla farina utilizzata e alle condizioni ambientali.
Il lievito, infine, rappresenta l'elemento vitale che anima questa massa apparentemente inerte. La sua quantità e tipologia influenzano profondamente non solo i tempi di lievitazione ma anche il profilo aromatico finale.
La replicabilità non significa dunque identità assoluta ma riconoscibilità all'interno di un sistema di variazioni controllate.
A Napoli, culla della pizza più nota al mondo, l'umidità oscillante del clima marittimo mediterraneo (mediamente tra il 60% e l'80%) influenza direttamente la capacità dell'impasto di assorbire acqua. Nei mesi estivi, quando l'umidità relativa raggiunge picchi elevati, la farina assorbe naturalmente più umidità dall'ambiente, richiedendo una riduzione della percentuale di acqua nell'impasto.
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Al contrario, nei climi continentali o desertici, caratterizzati da bassa umidità, l'impasto tende a disidratarsi più rapidamente, necessitando di idratazioni maggiori e di protezioni durante la lievitazione. L'altitudine rappresenta un fattore spesso trascurato: ad alta quota, la minore pressione atmosferica accelera la lievitazione e modifica la struttura dell'impasto. Non è un caso che la pizza di montagna differisca sensibilmente dalle sue controparti costiere, con adattamenti che comprendono idratazioni maggiori e lievitazioni più controllate. Persino il meteo quotidiano esercita la sua influenza: le giornate di bassa pressione accelerano la fermentazione, quelle di alta pressione la rallentano. La vera maestria nella replicabilità tecnica della pizza non risiede nella rigida applicazione di formule immutabili ma nella capacità di adattamento dinamico a condizioni sempre variabili.
I grandi maestri pizzaioli possiedono quella che, se fosse un’AI, potremmo definire una "intelligenza adattiva all’impasto" che si traduce nella capacità di leggere attraverso il tatto l’evoluzione dell'impasto, di percepirne l'elasticità, la forza, il livello di fermentazione, e di intervenire con piccole correzioni costanti. Questa intelligenza tattile rappresenta l'elemento umano irriducibile nella catena della replicabilità, il fattore che nessun algoritmo o procedura standardizzata potrà mai sostituire completamente. La replicabilità tecnica della pizza si configura così come una forma di artigianato avanzato che integra conoscenze scientifiche con una sapienza manuale antica quanto il pane stesso. È una replicabilità che non nega la variabilità ma la incorpora come elemento costitutivo, trasformando l'adattamento in virtù e l'incertezza in opportunità creativa.
Forse la dimensione più affascinante della replicabilità della pizza risiede nella sua capacità di adattarsi a contesti culturali radicalmente diversi mantenendo intatta la propria riconoscibilità.
Dalla pizza napoletana alla deep dish di Chicago, dalla pizza romana alla siciliana, dalla newyorkese alla giapponese, assistiamo ad un fenomeno di traduzione culturale che trasforma senza tradire. Ogni cultura ha reinterpretato la pizza secondo i propri codici gastronomici, le proprie preferenze gustative, le proprie necessità nutrizionali.
Questo processo di adattamento creativo rappresenta l'essenza della replicabilità culturale: non una semplice riproduzione meccanica, ma una reinvenzione rispettosa che mantiene un nucleo identitario riconoscibile.
La vera magia della replicabilità nella cultura della pizza risiede nella tensione creativa tra conservazione e innovazione. Da un lato, troviamo i puristi, custodi della tradizione, che difendono con passione i confini di ciò che può legittimamente chiamarsi pizza. Dall'altro, gli innovatori, che esplorano nuove frontiere gustative e tecniche, spingendosi talvolta fino ai limiti della riconoscibilità. Questa dialettica non rappresenta un conflitto sterile, ma il motore stesso dell'evoluzione della pizza. I grandi maestri pizzaioli contemporanei operano esattamente in questo spazio intermedio, dove la profonda conoscenza delle regole diventa la base per una trasgressione consapevole.
Verso una definizione contemporanea di replicabilità
L'esempio della pizza ci permette di elaborare una definizione contemporanea di replicabilità che supera la semplice nozione di riproduzione identica. La replicabilità diventa la capacità di mantenere riconoscibile un'identità attraverso variazioni controllate e adattamenti contestuali.
La pizza ci insegna che la vera replicabilità non consiste nel produrre “copie identiche” ma nel creare variazioni riconoscibili all'interno di un sistema di regole condivise. Come un tema musicale che si sviluppa attraverso variazioni pur rimanendo riconoscibile, la pizza rappresenta un esercizio continuo di equilibrio tra memoria e immaginazione, tra rispetto e creatività. La capacità - che ha la pizza - di essere contemporaneamente radicata e nomade, codificata e flessibile, tradizionale e innovativa, rappresenta forse la lezione più preziosa che la cultura della pizza può offrire al mondo contemporaneo: l'identità autentica non risiede nell'isolamento protettivo, ma nella capacità di dialogare con l'altro mantenendo fedeltà a sé stessi. La replicabilità, vista attraverso il disco di una pizza, si rivela non come un concetto tecnico limitato alla produzione industriale o alla verifica scientifica ma come una complessa dinamica culturale che ci aiuta a comprendere come le tradizioni sopravvivano e prosperino in un mondo di continui scambi e contaminazioni. Un insegnamento prezioso che dalla tavola si estende a ogni aspetto della nostra vita culturale.
a cura della redazione
FRESCA O SECCA. LUNGA
O CORTA, ARTIGIANALE
O INDUSTRIALE. CON
GRANO, GLUTEN FREE O
ADDIRITTURA VEGAN.
IN UNA PAROLA: PASTA!
IL SUO NOME SI PERDE
NELLA NOTTE DEI TEMPI
MA L’ETIMOLOGIA PIÙ
ACCREDITATA SEMBRA SIA
QUELLA GRECA (PASTÉ).
Con questo termine, si soleva infatti indicare sia la farina stemperata sia la pratica stessa dell’impastare ed è evidente che la parola pasta, ancor più di pizza e pane, rimanda immediatamente a quella tecnica quasi alchemica che è l’impasto.
La nascita della pasta non è riconducibile tanto alla coltivazione della materia prima quanto all’abilità dell’artigianato. In pratica, non è la presenza delle coltivazioni cerealicole a innescare consequenzialmente il processo per la creazione e la diversificazione degli impasti ma a far “scattare la scintilla” è piuttosto la semplicità di approvvigionamento del grano e degli altri cereali e, nel tempo, la necessità di sfamare fasce di popolazione eterogenee con prodotti che costassero poco ma non scendessero a compromessi con il gusto.
Marino Niola sostiene: «La pasta è un paradigma del Made in Italy alimentare». Il motivo è illustrato diffusamente: per
la straordinaria capacità di esaltare il gusto dei pochi ingredienti di condimento, per l’inesauribile fantasia, che riesce a trasformare l’indigenza in eccellenza e costruire autentici simboli di gusto. L’Italia è dunque una pluralità di icone, di tradizioni, di localismi, di tipicità, di differenze che parlano di una storia millenaria.
L’Italia – e qui concordiamo appieno con Marino Niola – è un sistema di differenze. Se guardiamo da vicino quella identità italiana che si chiama “Pasta”, essa perde la sua unità e si polverizza in una gamma infinita di variazioni locali: i tajarin piemontesi, le sfoglie emiliane che si chiamano tortellini, tagliatelle, ravioli, cappelletti, i pici toscani, i bigoi veneti, i chitarrini abruzzesi, la fregula sarda, gli anelletti siciliani, le orecchiette pugliesi, ipaccheri partenopei, i pizzoccheri valtellinesi e via dicendo. E, allora, non ci resta che augurare “Buona Pasta a tutt*”!
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C’erano una volta le acciughe sulla pizza.
Star indiscusse, regalavano tocchi di “umamità” anche ai condimenti più semplici: sfidavano l’uniformità dei
gusti a colpi di vanitosa sapidità e impreziosivano gli spicchi di napoletane, siciliane e romane.
Poi, un giorno, sono sparite: nessun comunicato ufficiale, nessun addio strappalacrime. Solo una sensazione di vuoto, simile alla nostalgia.
A Parma, durante l’ultima edizione del Campionato Mondiale della Pizza 2025, le abbiamo cercate. Niente, o quasi. Dopo anni in cui i pizzaioli si emozionavano anche solo a pronunciare “acciughe di Cetara”, “di Monterosso”, o “del Cantabrico”, l’attenzione sembra essersi spostata verso lidi più sicuri e tornate ad esclamare: “Terra!”, con rinnovato entusiasmo.
Perché l’ingrediente marino più diffuso e carismatico del Mediterraneo non è più sulle rotte gastronomiche della pizza?
Partiamo sgombrando il campo dal pretesto più comodo: non è colpa del boom vegetale. Le pizze viste quest’anno a Parma, erano cariche di carni, pulled pork, salsicce, formaggi e salse a base di uova e burro. Nessuna conversione, nessuna rivoluzione “veggie”: l’acciuga non è sparita per salvarle le pinne o ripopolare il mare quindi, la causa va piuttosto ricercata nella dissonanza gustativa.
Infatti, i gusti cambiano: lo fanno nel corso dei secoli, per ragioni storiche, economiche e culturali ma anche nel corso di una vita, per esigenze fisiologiche. Le papille gustative sono curiose: da una parte per necessità nutrizionali, dall’altra per motivi squisitamente gaudenti. Le prime ci guidano verso i nutrienti che ci assicurano la sopravvivenza; le seconde, verso ciò che rende quella vita degna di essere vissuta. Entrambe ci aiutano, in fondo, a conservarci: nel corpo, ma anche nella voglia di restare e talvolta di resistere.
Come se non bastasse, la nostra percezione dei sapori è influenzabile: dall’umore, dalle circostanze, dai ricordi, dal desiderio ma anche dalle tendenze. Se un tempo erano aristocratici, scienziati o artisti a determinare le sorti di un piatto, oggi siamo un po’ più succubi degli algoritmi: sono loro a decidere cosa mostrarci e con quale frequenza, condizionando così anche il nostro desiderio di un certo sapore.
Del resto, anche nel food ci sono le fashion-victim: a seconda della stagione, un ingrediente è cult o out. E l’acciuga, in questo momento, sembra decisamente fuori collezione: estimata da qualche nostalgico tradizionalista o amante del vintage, ma ignorata dal resto della scena.
Un destino curioso, per quella che è stato - senza alcun dubbio - un vero e proprio patrimonio mediterraneo dell’umamità.
Ma l’accusa più sottile - e forse la più determinante - è quella che riguarda la funzione meramente organolettica dell’acciuga, mortificata da una certa attuale ossessione per la cremosità: negli ultimi anni, l’uso smodato di
latticini freschi e topping fotogenici ha alterato profondamente l’equilibrio gustativo della pizza.
L’abuso di burrate e stracciatelle ha smorzato il contributo sapido dell’acciuga, fino a renderla obsoleta: non perché i due ingredienti non possano coesistere- anzi, un buon pizzaiolo saprebbe farne una sinfonia- piuttosto la prima ha completamente invaso lo spazio del contrasto, della tensione, del gioco sensoriale. Dove prima bastava un filetto per equilibrare l’acidità del pomodoro o per sostenere una scarola con dignità, oggi si spalma una colata bianca e rassicurante. Il risultato? Pizze dai gusti più rotondi e “piacioni”, così confortevoli da risultare afone. In un contesto dove tutto deve piacere, l’acciuga finisce per sembrare fuori luogo e impegnativa: troppa personalità gastronomica da gestire.
C’è poi una dimensione meno visibile, ma tutt’altro che irrilevante, che riguarda la complicata filiera produttiva dell’acciuga, oggi sottoposta a continue tensioni, rincari e contrazioni.
Un tempo ingrediente umile, la latta d’acciughe è ormai diventata un piccolo lusso. Secondo i dati del settore conserve ittiche, il prezzo medio delle acciughe sott’olio è aumentato del 35% negli ultimi tre anni. Un rincaro dovuto a un insieme di fattori: la crisi dell’olio extravergine d’olivareso più raro e costoso da una serie di stagioni agrarie difficili, segnate da siccità, parassiti e speculazioni internazionali- si somma all’aumento generale dei costi di produzione e alla difficoltà crescente di reperire materia prima di qualità, in un contesto climatico e stagionale sempre più instabile.
Anche i contenitori tradizionali del comparto conserviero (lattine e barattoli) hanno subito impennate significative, aggravate dal caro energia che incide sulla lavorazione e sullo stoccaggio, determinando un innalzamento dei prezzi lungo tutta la filiera.
A complicare ulteriormente il quadro, si aggiungono le recenti misure protezionistiche adottate dagli Stati Uniti, che hanno imposto dazi aggiuntivi del 20% sulle importazioni dall’Unione Europea. Queste tariffe colpiscono anche le esportazioni italiane di prodotti ittici, tra cui le acciughe, rendendo più onerosa la loro presenza sul mercato americano e indebolendo la competitività delle aziende italiane del settore.
Un dettaglio che potrebbe sembrare lontano dai forni delle pizzerie, ma che in realtà inciderà- e non poco- sui topping delle pizze di domani. Soprattutto su quelle “Italian-style” che, fuori dai confini nazionali, necessitano di importare ingredienti di qualità dall’Italia e sono quindi esposti alle oscillazioni del mercato globale. È già successo nel Regno Unito, dove l’impennata dei costi delle conserve ha fatto precipitare gli acquisti di pelati e passate, dando origine a nuove varianti di pizza senza pomodoro, reinventate per necessità più che per ispirazione.
È probabile che fenomeni simili alimentino presto ulteriori distorsioni dell’offerta. Oggi sul mercato coesistono acciughe di eccellente qualità, ma dal prezzo superiore a quanto l’acquirente medio- diretto o indiretto- è disposto a pagare e acciughe di bassissimo livello: salatissime, molli, conservate in oli mediocri. Queste ultime, incapaci di valorizzare una pizza e qualsiasi altro piatto, finiscono per rafforzare lo stereotipo: “acciuga = sapore sbagliato”.
latta d’acciugheèormai diventata un piccolo lusso...
Domani nasceranno nuovi topping, nuovi contenitori, nuove tecniche di conservazione. Intanto l’acciuga è stata silenziosamente esiliata dalle scene gastronomiche: non è al centro dei gusti, non è facile da raccontare, non è semplice da vendere. Probabilmente resta sospesa tra l’essere troppo pregiata per le logiche del fast, troppo scomoda per i trend del comfort, troppo cara per il “pop”.
Eppure, proprio per questo, potrebbe tornare a essere un esempio utile: per capire dove sta andando la pizza, basterebbe guardare dove finiscono le acciughe.
Forno con alimentazione elettrica, dalle dimensioni contenute, concepito per la cottura di 1 o 2 pizze da 33 cm
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storie di pizza
di Noemi Caracciolo
Così giovane; eppure, con le idee già così chiare, Francesco, classe 2005 – di origini campane – ha scelto di essere un pizzaiolo. Anzi, pare sia stato questo lavoro a scegliere lui, come rivela nel corso della nostra chiacchierata.
Francesco, raccontami chi sei: qual è la tua storia, com’è nato questo amore per la pizza? Cos’è per te, oggi, questo mestiere?
Senza mettere da parte la scuola, ha scelto di accantonare – almeno per ora – la spensieratezza dei vent’anni per inseguire un sogno che ha già preso forma tra farina, lievito e passione. Oggi lavora nel locale di famiglia – “Cesira”, prima trattoria e oggi anche pizzeria, a San Salvatore Telesino, in provincia di Benevento – e, nonostante la giovane età, ha già collezionato riconoscimenti importanti. Ogni giorno si mette alla prova, con umiltà e determinazione, per crescere ancora, un impasto dopo l’altro. Ben consapevole del traguardo che desidera raggiungere, nel frattempo si gode il viaggio, ricco di apprendimento e sperimentazione, ispirandosi alle tradizioni di famiglia e restando fedele alla sua idea di pizza: semplice, curata nei dettagli e, soprattutto, che racconti di sé.
Ho vent’anni e sono nato in Germania ma ho origini campane. La mia storia da pizzaiolo non nasce da una tradizione familiare: sono la prima generazione. Tutto è iniziato quasi per caso, quando in una pizzeria serviva una mano. Ho cominciato così, per necessità, mettendo le mani in pasta senza immaginare che quella scelta avrebbe cambiato la mia vita. Il percorso non è stato semplice. Frequentavo l’Istituto Tecnico Agrario e ho dovuto imparare a conciliare scuola e lavoro. Questo ha significato sacrificare il tempo libero, rinunciare spesso alle uscite con gli amici e ai momenti di svago ma col tempo mi sono abituato e, proprio tra i sacrifici, ho scoperto una vera passione. Quello che all’inizio era solo un lavoro si è trasformato in una vocazione. Ho iniziato a studia-
re, sperimentare, a capire davvero cosa vuol dire essere pizzaiolo: ci sono tecnica, precisione, creatività ma soprattutto cuore. Oggi lavoro nell’attività di famiglia ed è lì che continuo ogni giorno a crescere, con la voglia costante di migliorarmi e di onorare questo mestiere che mi ha scelto, quasi per caso ma che oggi sento mio più che mai.
Sei molto giovane, eppure hai già ottenuto importanti riconoscimenti. Come hai vissuto queste esperienze e cosa hanno significato per te?
Ogni traguardo raggiunto per me ha un valore enorme, proprio perché so da dove sono partito. Non ho avuto tutto servito: ho iniziato per necessità, ho fatto sacrifici, ho lavorato e sto lavorando sodo, spesso mettendo da parte il tempo libero, le amicizie. Vivere certe esperienze, come partecipare a gare importanti e ottenere riconoscimenti, mi ha dato un gran una
grande spinta. Più che un punto di arrivo, le considero tappe che mi confermano che sto andando nella direzione giusta. Sono momenti che mi riempiono di orgoglio ma, allo stesso tempo, mi ricordano quanto è importante restare con i piedi per terra e continuare a migliorarsi. Questi risultati mi hanno dato fiducia, hanno rafforzato il mio amore per il lavoro e mi hanno fatto capire che, anche se sei giovane e inizi da zero, con impegno e dedizione puoi costruirti qualcosa di tuo.
Come descriveresti il tuo stile di pizza? Quali sono le caratteristiche che la rendono "tua"?
Il mio stile di pizza è semplice ma curato nei dettagli. Credo nella bellezza della tradizione ma mi piace anche aggiungere un tocco personale. La pizza per me deve
essere un equilibrio perfetto tra impasto, ingredienti e cottura. Parto sempre da un impasto leggero, ben lievitato, che lascia spazio ai sapori ma senza sopraffare il palato. È fondamentale che sia digeribile e che regga bene la cottura, fragrante ai bordi ma morbida al centro. Per quanto riguarda gli ingredienti, scelgo sempre prodotti freschi e di qualità. L’approccio alla scelta dei topping dipende molto dalla pizza che voglio creare: per una Margherita, ad esempio, mi affido alla semplicità del fior di latte dei Monti Lattari, del pomodoro pelato campano e di un filo d’olio extravergine d’oliva di alta qualità, ovviamente di mia produzione. Infine, qualche foglia di basilico fresco. Mi piace anche sperimentare con combinazioni più originali, usando ingredienti locali e stagionali, per esaltare sempre i sapori del territorio. Penso che ogni pizza debba raccontare una storia e la mia pizza
racconta un po’ di me: una passione per la tradizione ma anche la voglia di metterci sempre qualcosa di nuovo, qualcosa che la renda unica.
C’è una pizza legata a un ricordo o a un momento speciale?
La “Francy 2” è la pizza che sento particolarmente mia, è una mia creazione. Mi ha permesso di raggiungere il mio primo podio al campionato organizzato dall’accademia Pizza Doc di Paestum, a soli 17 anni. È una pizza che racchiude tutto ciò che amo della cucina e della tradizione. Gli ingredienti sono pochi ma scelti con grande cura: pomodoro pelato, fior di latte dei Monti Lattari, pomodoro datterino fresco rosso, origano di montagna, olio all’aglio e formaggio grana media stagionatura. Ogni elemento si fonde perfettamente, dando vita a un sapore che mi ricorda la pizza autentica, quella che ti conquista con la sua semplicità e la qualità degli ingredienti. Questa pizza mi ha dato tanto, non solo in termini di soddisfazione personale ma anche perché mi ha permesso di dimostrare a me stesso e agli altri cosa posso fare.
Qual è il processo creativo dietro una nuova pizza? Da dove parti? Dove prendi ispirazione?
Il processo creativo dietro una nuova pizza inizia sempre dal rispetto per la tradizione ma con un pizzico di curiosità e voglia di sperimentare. Di solito parto dagli ingredienti: scelgo due prodotti freschi, di alta qualità e, se possibile, locali. Spesso mi ispira ciò che è di stagione, perché credo che la freschezza e la stagionalità degli ingredienti siano fondamentali. Poi, penso alla combinazione degli ingredienti, cercando di mantenere un equilibrio che non sopraffaccia nessun sapore ma che permetta a ciascun elemento di emergere. Ad esempio, un pomodoro con un sapore deciso richiederà un formaggio più delicato, o viceversa. A volte mi piace giocare con contrasti di sapori, come il dolce e il salato; oppure, aggiungere un ingrediente che sorprenda, come una crema particolare o un’erba aromatica. Mi ispirano spesso anche esperienze vissute, ricordi: un viaggio, un piatto mangiato al
ristorante o un piatto tradizionale che ho visto preparare in famiglia. Il mio obiettivo, quando penso a una nuova pizza, è sempre quello di creare un equilibrio tra innovazione e tradizione, per offrire qualcosa che sorprenda, ma che rimanga comunque fedele alla vera essenza della pizza.
Escludendo la tua pizza preferita, quella del cuore, quale mi faresti assaggiare? Raccontami com’è fatta.
Ti farei assaggiare una creazione recente: la “Genovese di tonno”, è una pizza molto particolare, nata dal desiderio di unire il sapore deciso della tradizione campana con un tocco marinaro. Alla base, c’è uno stracotto di quattro tipi di cipolle che preparo lentamente e frullo dopo la cottura per ottenere una crema dal sapore che definirei profondo e avvolgente. Metto la crema e il fior di latte dei Monti Lattari, poi si completa con un filetto di tonno dell’Antica Marineria, proveniente dalla storica famiglia Gallo di Salerno, cicoria
arrostita, basilico fresco e, ovviamente, il mio olio extravergine di oliva. È una pizza che racconta una storia fatta di territorio, tecnica e rispetto per le materie prime. Un equilibrio tra dolcezza, intensità e freschezza, che sorprende sempre chi la prova per la prima volta.
MONDIALE
DELLA PIZZA
Squadra che vince non si cambia: che cos’è per te il Campionato mondiale della pizza?
Cuppone S.r.l.
Via Sile, 36 31057
Silea (TV) Italia
Tel: +39 0422 361143
Il Campionato Mondiale della Pizza da sempre rappresenta un momento, oltre che di "sana" competizione tra pizzaioli, anche di scambio e confronto tra noi aziende produttrici di attrezzature e gli utilizzatori finali.
È uno scambio diretto di opinioni con le persone che usano quotidianamente i nostri prodotti e questo ci aiuta a comprendere meglio cosa richiede il mercato e cosa può essere utile per agevolare il più possibile il lavoro di chi ha “le mani in pasta”.
Qual è la richiesta più strana che hai ricevuto nei giorni del Campionato?
Riceviamo richieste di ogni tipo quotidianamente, alcune bizzarre o irrealizzabili, come forni che raggiungono temperature impossibili o che si regolano da soli riconoscendo, non si sa in che modo, gli impasti automaticamente, o ancora forni che non hanno bisogno di operatori e che possono essere gestiti in toto tramite l’utilizzo della domotica.
Riceviamo però anche richieste interessanti ed utili al nostro team per sviluppare futuri software o migliorare le performance dei forni.
Quale ricordo ti è rimasto impresso di questa edizione? Sicuramente questa edizione è stata segnata dell'ingresso alle competizioni del mondo amatoriale, con tutta la sua passione e la voglia di far vedere il proprio potenziale.
Cuppone ha molto investito negli ultimi due anni nello sviluppo di un forno domestico che potesse portare la pizza professionale a casa, garantendo le performance di un forno professionale in piccole dimensioni e con un design accattivante.
La tua azienda e il futuro della pizza: quali progetti per domani?
Stiamo sviluppando nuove tecnologie che possano rendere i nostri forni ed attrezzature in generale, sempre più prestanti sia dal punto di vista della cottura che dal punto di vista di efficienza e sostenibilità.
Stiamo appunto sviluppando nuovi controlli trizona ed utilizzando nuovi materiali ed isolamenti che riescano a conservare il calore in camera più inalterato possibile durante il servizio.
“GLI AMERICANI SONO INNAMORATI DELLA PIZZA NAPOLETANA!”
Possiamo affermare con numeri alla mano che l’America è la patria della pizza, non per genesi ma per business, considerando che ha il maggior numero di pizzerie al mondo (oltre 90 mila secondo una ricerca di BoldData del 2022) e che gli Americani sono grandi mangiatori di pizza.
Se l’amore tra l’America e la pizza è profondo, diventa quasi venerazione se è “napoletana” e “fatta a mestiere”. Per capire questo rapporto, abbiamo fatto qualche domanda a un vero ambasciatore della pizza napoletana oltreoceano. Stiamo parlando di Roberto Caporuscio, maestro pizzaiolo e titolare di “Kesté Pizza & Vino” a New York, a cui abbiamo chiesto com’è cambiata la pizza e il suo lavoro in questi anni e cosa succede in questo nuovo capitolo economico e momento storico per gli USA e il resto del mondo.
Roberto Caporuscio, nato e cresciuto in provincia di Latina, a Pontinia, ha studiato a Napoli dai più talentuosi maestri pizzaioli per imparare il mestiere e, poi, con spirito imprenditoriale e anche un po’ di sfida ha provato ad esportare la pizza napoletana negli States ed è stato il primo pizzaiolo italiano a portare nel 1999 la vera pizza napoletana in America. Ha aperto due pizzerie a Pittsburgh e nel New Jersey e nel 2009 arriva a New York City dove, inaugura “Kesté Pizza & Vino”, un successo cui segue il format “Kestè Pizza Go”, innovativo servizio di delivery della tradizionale pizza italiana che serve tutta l’America.
Di recente, Caporuscio ha ricevuto dalla guida Gambero Rosso il prestigioso riconoscimento dei Due Spicchi per la sua pizzeria, un premio che conferma la qualità dei suoi prodotti, rafforzando il suo ruolo di ambasciatore della pizza napoletana negli Stati Uniti
Roberto, sei stato tra i primi
pizzaioli italiani a portare la pizza napoletana in America: cosa ti ha portato a trasferirti negli Stati
Uniti e far conoscere la vera pizza?
La passione per la pizza napoletana e il desiderio di far conoscere l’autenticità di questo prodotto straordinario mi hanno spinto a venire negli Stati Uniti. Nel 2009, ho aperto “Kesté” a New York, quando la vera pizza napoletana era ancora poco conosciuta.
Volevo creare un luogo dove la tradizione e la qualità potessero essere protagoniste.
Che rapporto hanno gli americani
con la pizza, soprattutto quella
napoletana? E quanti tipi di pizza
ci sono negli Stati Uniti?
Gli Americani amano la pizza, fa parte della loro cultura quotidiana, anche se storicamente sono più abituati a versioni diverse come la pizza New York-style o Chicago-style. Negli ultimi anni, però, la pizza napoletana ha conquistato sempre più appassionati, grazie al suo carattere autentico e alla sua leggerezza.
Ci vuoi raccontare un aneddoto sulla pizza o sul topping più particolare?
Negli Stati Uniti, alcuni clienti chiedono topping davvero insoliti per noi Italiani, come ananas o perfino pollo barbecue! È curioso vedere quanto gli americani siano creativi e aperti a sperimentare, anche se da “Kesté” restiamo fedeli alla tradizione napoletana.
Dopo la nomina dell’Arte del Pizzaiuolo Napoletano a Patrimonio Unesco, il vostro lavoro e la percezione della pizza e del suo artigiano è cambiata?
Assolutamente sì. Questa nomina ha dato grande visibilità al nostro mestiere e ha rafforzato la percezione della pizza napoletana come patrimonio culturale, ha anche aumentato il rispetto verso il nostro lavoro artigianale e la voglia di riscoprire l’autenticità, anche da parte dei clienti.
A questo punto, raccontaci com’è fatta la tua pizza. secondo te, perché piace? qual è la più richiesta nei tuoi locali?
La mia pizza segue rigorosamente i metodi tradizionali: impasto lievitato naturalmente per oltre 24 ore, cottura in forno a legna, ingredienti freschi e di altissima qualità. Piace per la sua leggerezza, per il suo sapore autentico e per la passione che ci mettiamo ogni giorno. La Margherita rimane la più richiesta, simbolo della semplicità, anche nella sua versione gluten free
Immagino che tu sulla tua pizza
utilizzi ingredienti italiani: La situazione attuale dei dazi comporta delle conseguenze? il settore pizza e i tuoi colleghi italiani sono preoccupati?
Sì, utilizziamo ingredienti italiani come farina, pomodori San Marzano e mozzarella di bufala. I dazi sull’importazione creano difficoltà, aumentando i costi. Questo è motivo di preoccupazione per chi, come noi, punta sull’autenticità e sulla qualità delle materie prime, ma nonostante tutto, non intendiamo scendere a compromessi.
Cosa significa e quanto impegno c’è nel portare la pizza all’estero e mantenere alti gli standard di qualità e il suo valore simbolo della gastronomia italiana?
Portare la vera pizza napoletana all’estero è una missione che richiede passione, dedizione e grande attenzione ai dettagli. Ogni giorno lavoriamo per trasmettere la tradizione, rispettando le regole dell’arte pizzaiola, garantendo sempre la qualità e preservando l’anima autentica di questo simbolo della nostra cultura.
Toglimi una curiosità: si sente parlare spesso di Italian Sounding e di imitazione di prodotti italiani sul mercato estero. Com’è la situazione da voi a New York e più in generale negli USA? Quali sono i prodotti maggiormente comprati e più presenti sugli scaffali dei supermercati?
Il fenomeno dell’Italian Sounding è molto presente: si trovano tanti prodotti che richiamano nomi italiani ma che con l’Italia non hanno nulla a che vedere. Per fortuna, c’è anche una crescente domanda di veri prodotti italiani, come olio extravergine d’oliva, pasta, pomodori San Marzano e mozzarella autentica, che i consumatori più attenti imparano a riconoscere e preferire.
“Il mio desiderio più grande? Che un giorno, ovunque ci sia un “Tegamino’s”, ci sia anche quel profumo inconfondibile di casa, quel calore umano che ti fa sentire parte di qualcosa. Perché, in fondo, il segreto non è solo fare pizza ma creare legami che restano”.
Così racconta Marco Serrone, classe 1996, fondatore del brand “Tegamino’s”, nato in collaborazione con Elisa Simonaro. Lui è un ragazzo che semplicemente si è innamorato della pizza e ha scelto di porre al centro della sua vita una preparazione tanto semplice quanto carica di memoria: la pizza al tegamino, che sa di famiglia, di domeniche lente, di nonne che infornavano con gesti amorevoli e la cui casa profumava di buono. “Tegamino’s” è un luogo in cui ogni pizza racconta una storia e
l’atmosfera calda e accogliente ti fa sentire subito parte di qualcosa di speciale. E, come ci racconta Marco, l’obiettivo non è solo servire una pizza buona ma far sì che ogni persona che entri nel locale possa staccare un po’ dalla quotidianità e portarsi via un’esperienza unica. Come? Valorizzando una tecnica di cottura che sa di storia, il cui risultato è una pizza leggera, croccante e al tempo stesso morbida, che racconta un impasto perfettamente equilibrato, un prodotto carico di passione, tradizione e, al contempo, innovazione.
Marco, su Instagram parli di un momento di ispirazione che ti ha portato fino a qui, del desiderio di costruire qualcosa che ti rispecchiasse. Qual è stato quel momento? Come ti sei innamorato della pizza? Raccontami la tua storia e di come nasce “Tegamino’s”.
Sono sempre stato profondamente legato al valore umano delle relazioni, al concetto di legame vero, “puro”. Fin da subito, ho desiderato costruire non solo un’azienda ma un luogo dove le persone potessero crescere, realizzarsi e sentirsi parte di qualcosa di autentico. Sono una persona che dà senza aspettarsi nulla in cambio: mi piace vedere le persone fiorire e trovare la propria strada. Nel 2018 ho deciso di trasformare questo sogno in realtà, dando vita a “Tegamino’s”.
Ma com’è nato l’amore per la pizza?
Beh, chi non ama la pizza?! Personalmente, la mangerei dalla colazione alla cena. Con “Tegamino’s” però volevo dare la mia interpretazione, senza stravolgere o inventare nulla ma rendendo unica la nostra pizza al tegamino. Il nostro impasto è leggero, croccante e al tempo stesso morbido: per me, è come la tela di un pittore, su cui posso giocare partendo dagli abbinamenti più classici fino a quelli più creativi. Così è nato “Tegamino’s”: non solo un locale ma un’esperienza. Un luogo dove il tegamino diventa simbolo di convivialità, croccantezza, genuinità e, sempre, un pizzico di sorpresa.
Il vostro slogan è “It’s not a dream, taste it”: quali sono i valori e la filosofia che rappresenta? E cosa ti piacerebbe che un cliente si portasse via dall’esperienza in “Tegamino’s”?
Lo slogan nasce da un’idea molto semplice: volevamo creare qualcosa che sembrasse quasi un sogno per chi ama la pizza ma che, al contempo, fosse reale, concreto, da gustare e ricordare. I nostri valori ruotano attorno ad autenticità, qualità e leggerezza. Non solo nell’impasto ma anche nell’atmosfera, nel servizio, nel modo in cui accogliamo le persone.
Vorrei che chi esce da “Tegamino’s” si porti via la sensazione di aver vissuto un momento speciale, di aver assaggiato qualcosa che non è solo buono ma che racconta una storia. E, magari, di aver staccato la spina per un attimo.
La pizza di “Tegamino’s” è un’espressione di equilibrio tra croccantezza e sofficità: come si raggiunge questo equilibrio nell’impasto? E, per quanto riguarda ingredienti e topping, come ti muovi e da dove prendi ispirazione?
L’equilibrio nell’impasto è una danza continua tra tecnica e pazienza. Usiamo farine selezionate, alte idratazioni, lunghe maturazioni: sono processi che richiedono tempo, precisione e rispetto profondo per la materia prima. A questo, si aggiunge uno studio accurato sulle cotture, perché il calore fa la differenza: è il tegamino a permetterci di ottenere quel contrasto unico tra il bordo croccante e il cuore soffice.
Per i topping, mi lascio guidare da stagionalità, memoria e curiosità. Un piatto
assaggiato durante un viaggio, un ricordo d’infanzia, un ingrediente scoperto per caso possono diventare la scintilla per creare una nuova pizza. Il menù per me è come una collezione in continua evoluzione: un modo per esaltare la mia creatività e portare sempre qualcosa di nuovo e sorprendente ai nostri clienti.
Quanto c’è di tecnica, quanto di istinto e quanto di sperimentazione nel tuo lavoro?
Direi che è un mix imprescindibile. La tecnica è la base, il terreno solido su cui costruire: senza conoscenza, non puoi davvero innovare. L’istinto entra quando devi prendere decisioni veloci, capire cosa
manca a un impasto, a un abbinamento. La sperimentazione, invece, è il motore creativo: senza di essa, rischieremmo di ripeterci. È il momento in cui ti concedi di sbagliare, di osare, di uscire dagli schemi. “Tegamino’s” non sarebbe quello che è oggi senza questi tre ingredienti insieme.
Qual è la tua pizza preferita del menu?
E quale consiglieresti a chi entra per la prima volta da Tegamino’s?
La mia pizza preferita è la “Conci”, un omaggio a mia nonna Concetta e ai ricordi della mia adolescenza. È una pizza che per me è un’esplosione di sapori e gusto incredibili: pancetta piacentina, cipolla caramellata e grana si fondono in un mix
che sorprende al primo morso e conquista al secondo. È una pizza che emoziona, racconta una storia e porta in tavola un pezzo di cuore. A chi entra per la prima volta, consiglio la “Marghe Più Gusto”: nella sua semplicità, esalta tutto ciò che rende unica la nostra pizza ovvero fragranza, leggerezza e sapore autentico. Gli ingredienti sono tutti selezionati, italiani e genuini. Una volta che provi la nostra base, si apre un mondo… e, attenzione, può creare dipendenza!
I “Tegalovers” sono sicuramente ansiosi che il franchising si espanda. Tu come immagini il futuro di Tegamino’s?
Immagino un futuro fatto di crescita consapevole. Non vogliamo aprire per il gusto di farlo ma, per portare l’esperienza “Tegamino’s” in nuovi quartieri, nuove città e - perché no - magari anche fuori dall’Italia, sempre mantenendo intatta la qualità, la cura e il calore che ci contraddistinguono.
Voglio costruire una rete di luoghi che sappiano adattarsi al contesto locale ma restino fedeli alla nostra filosofia e ai nostri valori: autenticità, passione, attenzione al dettaglio. E ovviamente, continuare a coccolare i nostri “Tegalovers”, coinvolgendoli in questa avventura e facendoli sentire sempre parte del nostro viaggio. Il mio desiderio più grande? Che un giorno, ovunque ci sia un “Tegamino’s”, ci sia anche quel profumo inconfondibile di casa, quel calore umano che ti fa sentire parte di qualcosa. Perché in fondo, il segreto non è solo fare pizza, ma creare legami che restano.
Le farine Molino Grassi danno forma alle pizze del futuro
MOLINO GRASSI SPA
Via Emilia Ovest 347 43126 Parma – Italia +39 0521 662511 info@molinograssi.it
IChristian Nasti:
“Oggi fare pizza significa fare impresa. E la qualità non è più un'opzione”.
l mondo della pizza è in piena trasformazione. Oggi servono visione, strategia e attenzione a ogni dettaglio, dalla scelta degli ingredienti alla comunicazione. Ne è convinto Christian Nasti, pizzaiolo-imprenditore tra i più promettenti della nuova scena italiana. Dal 2018 guida con successo Nasti Eat a Nocera Inferiore, un format che fonde artigianalità e spirito imprenditoriale.
“Il nostro settore è cambiato profondamente – racconta –. Non basta più una buona pizza: bisogna offrire un’esperienza. Ogni aspetto conta, dall’impasto al servizio, dal racconto dei prodotti alla coerenza del concept”.
Secondo Nasti, anche la percezione della qualità si è trasformata. “Il termine gourmet ha perso valore. Oggi il cliente riconosce la qualità concreta: quella che si
misura con gusto, trasparenza e costanza”. In quest’ottica, la scelta delle materie prime è centrale. “Le nuove farine con germe di grano di Molino Grassi, le linee Napoletana e Romana, sono un punto di svolta: tecniche ma versatili, garantiscono risultati eccellenti con diversi metodi di lavorazione”.
La linea Napoletana, farina tipo 0 con germe di grano, si articola in due versioni: Midi, per lievitazioni brevi e impasti diretti, ed Extra, ideale per lunghe lievitazioni. La linea Romana, invece, è pensata per pinsa, pizza in teglia e al padellino: ricca di fibre, contiene farina di riso per garantire croccantezza e leggerezza. Disponibile anche in versione Rustica, con un profilo aromatico più intenso.
“Uso le farine Molino Grassi da sempre - conclude Nasti - La loro filosofia parla chiaro: qualità, filiera controllata e innovazione continua. Un prodotto stabile e performante che fa la differenza nel lavoro quotidiano di chi punta all’eccellenza”.
Scopri di più: molinograssi.it molinograssi.it
di Noemi Caracciolo
Dopo aver iniziato giovanissimo nei ristoranti di Roma, fino ad aprire la sua prima pizzeria nel 1999, Domenico Sancamillo, pizzaiolo romano de “Il Mondo della Pizza” a Bellegra, ha continuato a crescere, senza fermarsi mai.
Spinto dalla passione per l’arte bianca e dalla voglia di mettersi in gioco, sempre con il sostegno di sua moglie, costantemente al suo fianco. Dopo essersi distinto lo scorso anno, conquistando il primo posto nella categoria “Pizza in teglia” al Campionato Mondiale della Pizza a Parma – che ha segnato un momento importante nel suo percorso ma non certo un punto d’arrivo – oggi continua a proporre una pizza che racconta il territorio, fatta di ingredienti scelti con cura e una visione che guarda alla sostenibilità.
Domenico, cosa è cambiato dopo la vittoria dello scorso anno? Hai sentito il peso di nuove aspettative da parte dei clienti? Parlami delle novità e di come è andata, invece, quest’anno al Campionato.
Dopo la vittoria dello scorso anno sono cambiate molte cose. Quella che mi rende più soddisfatto è il riscontro da parte dei miei clienti - vecchi e nuovi – che, con le loro belle parole. mi fanno lavorare in modo più sereno. Entrare nel Palaverdi di Parma e leggere il mio nome, per il secondo anno di fila, è sempre una grandissima emozione. Quest'anno ho gareggiato con un'altra categoria, cioè Pizza in Pala, nonostante fossero anni che non lo facevo. Ho presentato un impasto diretto con 90% di farina 00 superiore 10% di farina di farro e una idratazione di circa l’80%. La pizza che ho presentato è “La mia terra”, con crema di zucca di nostra produzione, funghi porcini e punte di asparagi selvatici raccolti da me; con i gambi, abbiamo realizzato la crema, pancetta di maiale nero della macelleria Roberto Cetrone, scamorza di bufala, cialde di parmigiano di mucca rossa e fiocchi di pomodoro, realizzati portando il pomodoro in ebollizione e usando la buccia.
Cosa vuol dire per te “sostenibilità”? Hai fatto scelte particolari in termini di ingredienti, gestione, relazioni?
Da qualche anno abbiamo fatto una scelta, quella di portare nel nostro locale solo ed esclusivamente prodotti del nostro territorio: ricaviamo moltissimi dei nostri prodotti dalla mia campagna. Materie prime come zucchine, melanzane, fiori di zucca, pomodorini, zucca gialla, patate, broccoli, cime di rapa e moltissime altre varietà. Ovviamente, valorizziamo il territorio, scegliendo le aziende del luogo per altri prodotti, come per esempio formag-
gi e salumi. È una scelta sentita, che mi riempie di orgoglio. Le mie pizze vengono realizzate tutte partendo da prodotti delle nostre aziende, vicine a me e, come ti dicevo, la maggior parte dei prodotti proviene dal mio orto, che ogni giorno viene curato da mio padre.
C’è un gesto, un valore o un principio che oggi, secondo te, non può mancare in una pizzeria che voglia davvero parlare di futuro?
Nella mia pizzeria, quasi istintivamente, non manca e non può mancare un rac-
conto che parli attraverso la pizza della tradizione, della stagionalità, con particolare attenzione alla scelta e all’uso “sostenibile” del prodotto. Ciò significa che mi ingegno spesso per riutilizzare appieno la materia prima, spesso con ricette di recupero che sfruttano il 100% dei prodotti di condimento.
Dimmi, Domenico, oggi qual è la tua pizza preferita e quale mi faresti assaggiare rispetto allo scorso anno?
Quest’anno la mia pizza preferita è “I sapori e i profumi del mio territorio”. Un impasto diretto con farina 00, una percentuale di tipo 2, guarnita con salsiccia di maiale nero tagliata a punta di coltello, funghi porcini di Bellegra, lardo di maiale nero della bottega del macellaio di Roberto Cetrone, una scamorza di bufala, del timo e cristalli di pomodoro del mio orto e un bel tartufo bianco.
di Alfonso Del Forno
IL MONDO DELL’ALIMENTAZIONE
SENZA GLUTINE È SPESSO VISTO
COME UN UNIVERSO DI “COPIE”, UNA SORTA DI IMITAZIONE DELL’ORIGINALE PENSATA PER RISPONDERE ALLE ESIGENZE DI CHI, PER MOTIVI DI SALUTE O SCELTA PERSONALE, NON PUÒ O NON VUOLE CONSUMARE GLUTINE.
Pane, pasta, pizza, dolci: l’obiettivo, nella maggior parte dei casi, è ricreare l’esperienza originaria utilizzando farine alternative, addensanti, tecniche correttive. Un lavoro importante, senza dubbio. Ma c’è un altro approccio, forse meno immediato, eppure più interessante e, in molti casi, qualitativamente superiore: quello dei prodotti che non hanno mai avuto bisogno del glutine per essere buoni.
Non si tratta solo di sostituzioni ben riuscite. Parliamo di alimenti che nascono senza glutine per propria natura, per storia, per tradizione. Prodotti autentici, identitari, che raccontano un territorio, un sapere, una scelta produttiva consapevole. E che, oggi più che mai, stanno diventando l’asse portante di una nuova cultura gastronomica che non si limita a “togliere” ma sa proporre, valorizzare, sorprendere.
PRENDIAMO LE FARINE ALTERNATIVE, AD
ESEMPIO. ALCUNE DI
ESSE SONO DA SECOLI
UTILIZZATE IN CUCINE
REGIONALI CHE NULLA
HANNO DA INVIDIARE ALLA
COSIDDETTA “TRADIZIONE”
DEL FRUMENTO.
La farina di castagne, protagonista assoluta di tante ricette montane, è un esempio perfetto: dolce, profumata, intensa, viene usata per preparazioni sia dolci che salate, come il castagnaccio, le crêpe rustiche, gli gnocchi. La farina di grano saraceno, nonostante il nome, è naturalmente priva di glutine ed è alla base di piatti iconici come i pizzoccheri della Valtellina o le galette bretoni. Il mais, nella sua versione gialla o bianca, è alla base della polenta e delle tortillas, alimenti semplici ma profondamente legati alla terra e alla cultura di chi li consuma da generazioni. Anche la farina di riso, spesso sottovalutata, è un ingrediente centrale in molte cucine asiatiche e in numerose ricette della pasticceria italiana.
QUESTE FARINE NON SONO ALTERNATIVE DI RIPIEGO MA VERE PROTAGONISTE. E CHI LE SA LAVORARE CON COMPETENZA RIESCE A OTTENERE RISULTATI CHE NON CERCANO L’IMITAZIONE MA CHE AFFERMANO UN’IDENTITÀ.
UN ALTRO AMBITO IN CUI
IL SENZA GLUTINE BRILLA
PER AUTENTICITÀ È QUELLO
DELLA PASTICCERIA.
MOLTI DOLCI DELLA
TRADIZIONE ITALIANA E
INTERNAZIONALE SONO, IN REALTÀ, PRIVI DI GLUTINE
PER LORO NATURA.
È il caso della torta Caprese, simbolo della pasticceria campana, fatta solo con mandorle, cioccolato, burro, zucchero e uova. Nessuna farina di frumento, nessuna rinuncia: solo sapore e intensità. Oppure della torta Tenerina, originaria di Ferrara, che si regge sul cioccolato fondente e sulla sua texture fondente e avvolgente. A questi si aggiungono le me-
ringhe, i macaron, le mousse, le creme, la panna cotta: dolci eleganti, essenziali, che dimostrano come il glutine non sia indispensabile per emozionare il palato.
ANCHE NEL CAMPO DEI
PRODOTTI SALATI, LA
QUALITÀ SENZA GLUTINE
NON È UN’UTOPIA. ANZI. PENSIAMO AI FORMAGGI
ARTIGIANALI, AI SALUMI
TRADIZIONALI, ALLE
CONSERVE GENUINE.
Nella maggior parte dei casi, si tratta di prodotti naturalmente privi di glutine. Ma ciò che fa la differenza è la cura con cui vengono realizzati: la selezione delle materie prime, i metodi di lavorazione, l’assenza di additivi o di sostanze aggiunte solo per ragioni commerciali. Un Parmigiano Reggiano stagionato 36 mesi, un culatello di Zibello lavorato con pazienza e maestria, un caprino fresco prodotto da un piccolo caseificio di montagna sono prodotti di altissimo livello, che parlano di territorio, di filiera corta, di qualità senza compromessi. E sono, spesso, le scelte migliori anche per chi mangia senza glutine.
Lo stesso vale per le conserve: sottoli realizzati con ortaggi di stagione, pestati al mortaio, confetture senza addensanti industriali, salse e paté preparati con ingredienti riconoscibili. Prodotti che non hanno bisogno di etichette rassicuranti perché parlano da sé e che rendono la dispensa di chi mangia senza glutine un luogo ricco, creativo, appagante.
Infine, uno sguardo al mondo delle bevande e, in particolare, della birra artigianale. In un primo momento, il gluten free nel settore brassicolo è stato considerato un territorio difficile, pieno di limiti. Ma oggi alcuni birrifici italiani ed europei hanno scelto di affrontare la sfida in modo radicale: invece di “depurare” birre esistenti, hanno creato birre che nascono già senza glutine, studiate fin dall’inizio per essere complete, gustose, complesse. Ne sono nate pilsner, IPA, blanche, sour, affinate in legno o fermentate con lieviti selezionati, che nulla hanno da invidiare alle birre tradizionali. Sono birre che non si giustificano ma si affermano. E che dimostrano come la qualità non debba mai dipendere da ciò che manca ma da ciò che si sceglie di mettere.
SENZA GLUTINE DI ALTA QUALITÀ ESISTE, CRESCE, CONVINCE. MA
NON SEMPRE SI TROVA NEI
PRODOTTI CHE CERCANO DI COPIARE L’ORIGINALE. SPESSO ABITA ALTROVE: NEI DOLCI CHE NON HANNO BISOGNO DI FARINA, NELLE CONSERVE CASALINGHE, NEI FORMAGGI A LATTE CRUDO, NELLE BIRRE NATE DA UNA NUOVA IDEA DI FERMENTAZIONE.
È lì che il glutine diventa irrilevante. Perché il gusto, quando è autentico, non ha bisogno di compromessi. Solo di scelte.
a cura della Dott.ssa
Marisa Cammarano, biologa nutrizionista
Tra i tanti condimenti che vengono utilizzati per la pizza, il formaggio occupa il posto d’onore. Fino a qualche tempo fa parlando di pizza l’unica discussione poteva essere tra fior di latte o bufala. Oggi, l’uso dei formaggi sulle ricette dei maestri pizzaioli è sempre più variegato. L’importante, però, che si tratti di latticini di alta qualità, preferibilmente con latte 100% italiano. Ovviamente la mozzarella è quello più utilizzato, ma condivide questo ruolo fondamentale con altri latticini che ben si sposano tra di loro e con altri ingredienti. Vediamo quindi quali sono i formaggi più utilizzati e quali sono le loro caratteristiche.
Ovviamente, la regina della pizza è la Margherita, di cui un ingrediente cardine è la mozzarella Fiordilatte. Questo latticino è semplicemente il formaggio fresco a pasta filata più famoso al mondo e parte integrante della dieta mediterranea. Il Fiordilatte è ricco di sali minerali e vitamine B12, K, J, ma anche di grassi saturi. Per i più attenti alla linea negli ultimi anni si possono trovare anche versioni di mozzarella Fiordilatte Light, a base di latte scremato e senza lattosio. La mozzarella per pizza è leggermente diversa da quella da tavola: contiene meno acqua, ma mantiene le stesse caratteristiche organolettiche.
Questa tipologia di mozzarella, tipica della Campania, è fatta con latte proveniente solo da bufale selezionate ed inviato al caseificio entro dodici ore dalla mungitura. Qui viene filtrato e sottoposto a diversi trattamenti seguendo rigorosamente il processo tradizionale: la filatura, la formatura e la salatura. Il prodotto finale è la mozzarella di bufala per pizza che tutti amiamo. Questo gustoso latticino ha una grande concentrazione di grassi e proteine. Rispetto al fiordilatte, la mozzarella di bufala presenta una leggera crosta. Una volta tagliata, però, rilascia più liquido.
Il Gorgonzola, è un formaggio dalle origini antiche che deve il suo nome alla città di Gorgonzola, alle porte di Milano. Il caratteristico gusto del Gorgonzola è dato dall’esposizione del latte al ceppo fungino Penicillium Roqueforti. Queste muffe conferiscono al formaggio il caratteristico aspetto e consentono una maturazione piuttosto rapida, tenendo alla larga altri tipi di muffe e batteri. In vendita nelle versioni dolce e piccante, si tratta di un formaggio ricco di grassi saturi e colesterolo, ma povero di lattosio. Non è adatto per le diete ipocaloriche, ma è consigliato nella terza età per la presenza di molti sali minerali come sodio e calcio.
Stretto parente della Mozzarella, il Provolone, viene ottenuto tramite l’esposizione del formaggio fresco al fumo di paglia di grano. Il procedimento scurisce la crosta del formaggio che assume un colore giallo scuro e il tipico aroma affumicato. Si tratta di un formaggio di origini molto antiche. La prima apparizione sembra sia stata intorno al 1700, quando per la prima volta comparì nei presepi napoletani. Dal punto di vista nutrizionale la provola è ricca di vitamina C, sodio, calcio, fosforo e può essere consumata sia fusa sulla pizza sia come formaggio da tavola.
Infine, abbiamo il Grana Padano DOP, uno dei formaggi più famosi al mondo. ll Grana Padano è un formaggio a pasta dura che viene prodotto nella Pianura Padana. L'origine del Grana Padano risale al Medioevo e la sua invenzione è dovuta ai monaci cistercensi dell’Abbazia di Chiaravalle, che si trova a pochi chilometri da Milano, intorno al 1135. Si tratta di un prodotto DOP (denominazione di origine protetta) che deve essere lavorato esclusivamente in un territorio ben delimitato del nord Italia, secondo il disciplinare redatto nel 1954. Il disciplinare, oltre a indicare le varie fasi di lavorazione e il periodo di stagionatura del formaggio, dai 9 ai 24 mesi, stabilisce anche che l’allevamento delle bovine, la loro mungitura e la successiva trasformazione del latte avvenga esclusivamente nell’area indicata.
La quantità di mozzarella per pizza varia a seconda delle dimensioni della pizza, degli altri ingredienti e delle preferenze personali. In generale, per una pizza tonda di diametro 22-35 cm, si consigliano tra 80 e 100 grammi di mozzarella. Per una teglia industriale 60x40 cm, invece, la quantità consigliata è di 400-500 grammi, mentre per una teglia da forno classica è di 250-300 grammi. Per una pizza margherita, si può utilizzare circa 110 grammi di mozzarella, mentre per pizze farcite si consiglia di ridurne la quantità a 90 grammi.
La quantità di latticini sulla pizza può influenzare la sua digeribilità, ma non è l'unico fattore determinante. Una pizza ben lievitata e cotta è generalmente più digeribile, e la scelta dei latticini e la loro quantità possono contribuire a rendere la pizza più o meno pesante. In generale, una pizza con poco formaggio e latticini a basso contenuto di grassi, come la mozzarella, è più digeribile di una con una generosa quantità di formaggi grassi. La mozzarella è generalmente considerata più digeribile rispetto ad altri formaggi, soprattutto quelli più grassi e salati. La quantità di mozzarella utilizzata può essere ridotta per una pizza più leggera.
Se si preferisce, è possibile aggiungere altri latticini, ma in quantità moderate e preferibilmente a basso contenuto di grassi, come la ricotta.
Benefici e qualità nutrizionali: I latticini forniscono proteine ad alto valore biologico, necessarie per la crescita e il ripristino dei tessuti.
Calcio: Il calcio è fondamentale per la salute delle ossa e dei denti.
Vitamina D: La vitamina D aiuta l'assorbimento del calcio e svolge un ruolo importante nella salute ossea e muscolare.
Vitamina B12: La vitamina B12 è importante per il corretto funzionamento del sistema nervoso e per la formazione dei globuli rossi.
I latticini contengono anche fosforo, zinco e potassio.
I latticini sono particolarmente importanti per la salute delle ossa e per la prevenzione dell'osteoporosi, soprattutto in età giovanile e adulta, inoltre, il loro consumo può contribuire al benessere del sistema immunitario e alla regolazione dei livelli di calcio e fosforo.
LA BIRRA
di Alfonso Del Forno
In Italia, la birra non ha mai avuto il ruolo nobile e centrale che ha ricoperto in altre nazioni europee. Non siamo la Germania con le sue severe leggi di purezza e le birre di frumento, né il Belgio con le sue fermentazioni complesse e la sacralità delle birre d’abbazia, né tantomeno la Gran Bretagna con i suoi pub storici e le sue ale tradizionali. La nostra storia brassicola, fatta eccezione per alcune sporadiche testimonianze antiche, è recente, quasi acerba, e proprio per questo incredibilmente fertile.
È proprio questa mancanza di una tradizio ne rigidamente codificata che ha permesso all’Italia di affrontare la birra con uno sguardo nuovo, libero da vincoli culturali o stilistici. Invece di replicare pedisse quamente gli stili birrari internazionali, i birrai italiani hanno potuto studiarli con occhi curiosi e poi reinterpretarli, plasmandoli secondo la loro personale sensibilità, modellandoli con l’istinto e la competenza che in Italia da sempre ac compagnano il cibo e il gusto.
L’Italia è, per eccellenza, la patria del palato fine, della cucina regionale, dell’attenzione maniacale alla qualità della materia prima, del saper bilanciare sapori anche complessi con una naturalezza quasi innata. Questo “DNA del gusto” si è rivelato un fattore determinante anche nel mondo della birra artigianale. I birrai italiani, pur prendendo ispirazione da modelli consolidati — come le lager tedesche, le saison belghe o le bitter inglesi —, non si sono limitati a riprodurli, ma li hanno trattati come strumenti
Il risultato è un panorama birrario eterogeneo e sorprendente, dove la tradizione straniera viene onorata, ma mai idolatrata. Una IPA fatta in Italia non è una fotocopia dell’omologa americana, ma un’interpretazione che spesso privilegia il bilanciamento aromatico, una maggiore bevibilità, o l’inserimento di ingredienti locali. Una saison italiana può raccontare i profumi del Mediterraneo, una sour portare in sé le note di un vino autoctono, una stout sorprendere per l’eleganza e
In questo senso, l’assenza di una tradizione birraria radicata non è stata un limite, ma una benedizione. Ha dato spazio alla sperimentazione, alla contaminazione, alla libertà creativa. I birrai italiani hanno potuto avvicinarsi alla birra con l’approccio di chi sa cucinare, di chi conosce l’equilibrio tra sapori, di chi considera l’abbinamento col cibo non come una possibilità accessoria ma come un destino inevitabile. Hanno trattato la birra non solo come bevanda, ma come piatto liquido, qualcosa che deve sapersi inserire in un contesto gastronomico, esaltare e non coprire, accompagnare e non sovrastare.
Ecco perché oggi possiamo parlare di una “via italiana alla birra”: non uno stile codificato, ma uno spirito. Quello di chi ha imparato a copiare per poi innovare, a imitare per poi superare, a guardare oltre le regole per scrivere nuove pagine. E in un mondo come quello della birra, dove le tradizioni contano tanto, avere il coraggio – e il gusto – di rompere gli schemi è forse il contributo più autentico che l’Italia potesse offrire.
A conferma di questo percorso di contaminazione creativa, negli ultimi anni sono emersi anche alcuni stili birrari che il panorama internazionale riconosce come tipicamente italiani. Il primo esperimento di questo genere è avvenuto in modo quasi inconsapevole con le birre alla castagna, nate nei primi anni 2000 soprattutto nelle zone montane del Centro e Nord Italia. Non esiste un vero e proprio stile codificato come italiano, ma queste birre hanno rappresentato un primo esempio di utilizzo consapevole di un ingrediente tipico del nostro territorio – la farina o i pezzi di castagna, fresca o affumicata – per arricchire la birra di sentori rustici, terrosi, a tratti dolci e affumicati. Una categoria in cui abbiamo fatto scuola, aprendo la strada a nuove possibilità espressive.
, invece, è una variazione moderna della tradizionale Pilsner ceca o hopping), che conferisce alla birra un profilo olfattivo più fresco e floreale, pur mandelle pils. È una birra che unisce la pulizia poranea del craft, ed è ormai imitata anche fuori dai confini italiani, tanto da diventare uno degli stili emergenti più apprezzati
Questi esempi dimostrano che l’Italia, pur senza una lunga tradizione brassicola, ha saputo non solo copiare e reinterpretare, brassicolo globale, portando un’impronta
In fondo, è proprio questo il segreto italiadere tutti. Anche nel mondo della birra. restituirlo come qualcosa di nuovo.
di Caterina Vianello
Una panoramica dei diversi nomi della melanzana nelle diverse lingue è un vero e proprio viaggio nelle culture e nella storia. Di origine asiatica, importata in Medioriente e nel Mediterraneo nel VII secolo dagli arabi, dall’originario bādingiān, diventa in Italia dapprima melangiana e poi melanzana, con il suffisso “mela”, o meglio “melo”, aggiunto per indicare i vegetali di provenienza lontana: da melobadinjian a melanzana c’è stata in mezzo anche un’interpretazione popolare, quella di mela insana, perché non commestibile da cruda.
Dall’arabo, e con l’articolo - al-bādhingiān deriva il catalano albergínia, ma anche il francese, tedesco e inglese britannico (aubergine) e lo spagnolo alberengena, mentre, senza articolo, ecco la seconda forma spagnola (berenjena) e la portoghese bringella, o bringiela. Gioca sulla somiglianza con le uova di gallina di alcune cultivar bianche, invece, la lingua inglese americana, con eggplant Al pari dei nomi, anche le varietà sono molteplici e si differenziano per colore e forma: dal nero violaceo, al viola chiaro striato, dal bianco al rosso rosa, e dall’ovale al tondo al bislungo, le melanzane sono un caleidoscopio di sapori diversi, che vale la pena scoprire prima di passare poi in pizzeria per le proposte più appetitose.
La melanzana ovale nera è il tipo più noto, rappresentato egregiamente da due varietà che portano in Sicilia: la durona nera di Palermo e la sciacchitana nera di Agrigento. La ovale c’è anche in versione bianca, bella carnosa e dal sapore delicato. Scarsità di spine e polpa gustosa sono le caratteristiche della melanzana lunga violetta: da segnarsi quella napoletana e quella palermitana.
Forma cilindrica e affusolata, colore scurissimo e notevole versatilità di preparazione sono i tratti della melanzana lunga nera, perfetta per diventare crema, involtino al forno o destinata a frittura dorata, mentre la tonda viola, nelle due varietà principali - prosperosa e zuccherina - dolce e polposa, diventa contorno, in padella, trifolata o al forno.
Tra tutte, una delle più delicate è la tonda sfumata rosa, con polpa soda, saporita e compatta, perfetta per cottura alla griglia e frittura.
Bellissima da vedere è la zebrina viola, con le caratteristiche striature bianche su sfondo viola, che al Sud che si trasforma in ricette golosissime.
Merita una menzione particolare, infine la melanzana rossa di Rotonda, a marchio
Dop. Prodotta in Basilicata, nell’area del Massiccio del Pollino, ha storia particolare. Nel periodo del colonialismo, molte famiglie di Rotonda si trasferirono nei territori conquistati dal regime fascista in Africa, per trovare lavoro. Nel 1935, prima dello scoppio della guerra di Etiopia, chi tornò in patria portò questa particolare melanzana che si adattò molto bene al territorio: simile al pomodoro, ha consistenza spugnosa, polpa carnosa, profumo intenso e fruttato, e sapore piccante con finale amarognolo.
Tradizionalmente le melanzane di Rotonda si conservano nzertate, cioè legate a grappoli e appese sotto tettoie ad asciugare. Si mangiano fritte e aromatizzate con menta e aglio, con il caciocavallo podolico per condire la pasta o mescolate alla salsiccia per fare polpette ma ottime anche sott’olio e sott’aceto.
In pizzeria, la Parmigiana è certamente la proposta più classica: in questo caso a fare la differenza è la qualità degli ingredienti e la capacità di giocare con le cotture, le consistenze e gli ingredienti a corollario. Se invece si vuole uscire dalla zona di comfort, tra creme, fritture, marinature e vellutate, le possibilità di assaggiare cose inedite sono molte. Ciro Salvo, nella sua 50 Kalò, a Napoli, ha valorizzato le melanzane sia nella classica Parmigiana – con un ragù veloce con pomodoro, melanzane fritte a fette lunghe, provola, Parmigiano Reggiano Dop e basilico fresco – sia nella “Melanzane e provola”, con melanzane al funghetto al sugo di datterini, provola e Parmigiano. Raffaele Bonetta, il “Sacerdote degli impasti”, nel suo locale a Pozzuoli ha in carta una “Parmigiana Pop”, con stracotto di pomodoro, tartare di pomodoro San Marzano affumicato, parmigiana di melanzane, stracciata di vaccino, scaglie di stravecchio di Bruna Alpina, basilico e olio evo Cilentano.
Decisamente fedele all’originale è Lello Ravagnan di Grigoris ad Asseggiano: la sua “Parmigiana 2020” ha il pelato San Marzano Dop dell’Agro-Sarnese Nocerino, melanzane fritte, mozzarella di bufala artigianale Campana Dop, e Parmigiano Reggiano Dop 30 mesi. Chi pare essersi “dimenticato” la melanzana sul fuoco è Simone de Gregorio, de La Bolla, di Caserta: la sua pizza si chiama infatti, ironicamente “Si è bruciata la parmigiana” ed è realizzata con uno stracotto di parmigiana bruciata e San Marzano, fettine dorate di melanzane, provola, basilico riccio e Parmigiano 36 mesi. Vittorio Vespignani, della Pizzeria Decimo Scalo di Caserta ha in carta una “Parmigiana stracciata” con una base di ragù di melanzana realizzato con melanzana fritta e cotta a fuoco lento nella passata di San Marzano Dop per quattro ore, spolverata di Parmigiano Reggiano, basilico e, all’uscita, stracciata di bufala preparata in pizzeria con panna artigianale e basilico.
Golosa è la proposta di Giancarlo Casa de La Gatta Mangiona, Roma: una pizza ricotta alla parmigiana, che viene cotta una prima volta al 95%, poi condita per metà con melanzane “false fritte” al sugo di pacchetelle di pomodorino del Piennolo del Vesuvio Dop, fior di latte, Parmigiano Reggiano Dop e basilico. Viene poi piegata a metà e tostata a bocca di forno. Dalla sua pizzeria di Napoli, La Notizia, Enzo Coccia, propone “Da nord a sud”: un autentico viaggio in Italia che comprende pomodorini del piennolo del Vesuvio Dop, mozzarella di bufala campana Dop, speck Igp alla julienne, melanzane al funghetto, olio evo Dop Penisola Sorrentina e basilico.
I fratelli Francesco e Salvatore Salvo, sempre a Napoli, guardano al dialogo con il mare: non a caso la loro proposta si chiama “Terramare” ed è una pizza bianca con fior di latte, crema di melanzana fritta marinata alle spezie giapponesi, cipolla rossa in osmosi, filetti di tonno sott’olio e sedano croccante, olio evo Moraiolo di Felsina.
Una versione in crema anche per Bob Alchimia a Spicchi, la pizzeria di Roberto d’Avanzo a Montepaone Lido (Catanzaro): in versione 8 spicchi da condividere, la sua è una pizza in caduta: fa un primo passaggio in forno a legna e poi in quello elettrico, con l’abbassamento (la “caduta”) della temperatura che la rende particolarmente friabile.
La sua versione con le melanzane si chiama “Verdure” e vede una vellutata di melanzane affumicate, baba ganush, zucchine in agrodolce e carote croccanti.
Dalla pizzeria PiGreco di Volla (Napoli) di Corrado Alfano, ecco che si strizza l’occhio alla tradizione dei primi piatti e alla pasta: la pizza si chiama “Fuori Norma” e vede provola affumicata, melanzane alla norma, salsiccia, cacioricotta, olio evo.
Ciro e Marco Spinelli della Pizzeria Giallo Datterino, a Villaricca (Napoli) rendono un triplice omaggio alle melanzane, giocando con l’ironia e l’autoironia: si parte dalla “Siciliana”, con pomodoro San Marzano Dop, Fiordilatte di Agerola, melanzane al funghetto, Parmigiano Reggiano 24 mesi, basilico, olio evo, si prosegue con un’Ortolana – Fiordilatte di Agerola, panna, chips di zucchine, melanzane al funghetto bianche, peperoni, Parmigiano Reggiano 24 mesi, basilico, olio evo per chiudere con una scoppiettante “Era una Siciliana”: mozzarella di bufala, salsiccia di maialino nero, melanzane fritte bianche, crema di pomodoro arrosto, pesto di basilico, olio evo. In chiusura, un tocco di brio. Luca Cornacchia e Giorgia Santuccione dalla loro Fermenta, a Chieti, propongono una coraggiosa “De medici”: Finocchiona, fiordilatte, melanzane piccanti, crema di pecorino di Farindola.
di Enrico Bonardo, Direttore commerciale e marketing di Scuola Italiana Pizzaioli
Oggi, la figura del pizzaiolo è in continua evoluzione. Non basta più "aver fatto pratica" in qualche pizzeria: servono competenze solide, conoscenze scientifiche e, soprattutto, metodo. In un settore sempre più tecnico e competitivo, la formazione professionale non è più un dettaglio, ma un elemento fondante per costruire una carriera credibile e duratura.
Comprendere la chimica degli impasti, la funzionalità degli ingredienti, le logiche della fermentazione e le tecniche di cottura non è più un sapere per pochi ma una necessità. Senza queste basi, si resta in balia del caso, incapaci di replicare i risultati, correggere gli errori o proporre innovazioni coerenti.
Eppure, nel mondo della pizza, l’improvvisazione è ancora fin troppo diffusa. Molti si lanciano senza alcuna conoscenza, affidandosi a tutorial, video sui social o – peggio – copiando prodotti di altri senza comprenderne l’essenza. Si replicano impasti visti su Instagram o combinazioni di topping alla moda del momento, sperando di ottenere lo stesso risultato, condito da tanti “like”. Ma, dietro ogni prodotto riuscito, c’è un pensiero tecnico, un equilibrio studiato, una scelta precisa di materie prime e processi. Senza consapevolezza, si finisce per proporre solo copie sbiadite, senza anima.
Copiare senza capire è il sintomo più evidente della mancanza di formazione. Ed è anche uno dei mali del nostro tempo: si rincorrono le mode, si salta da una tendenza all’altra ma manca il lavoro vero, quello che si costruisce giorno dopo giorno con studio, prove, errori e miglioramenti costanti.
Essere pizzaioli, oggi, significa conoscere, sperimentare, analizzare, ragionare. Solo così si può creare un prodotto autentico, replicabile e soprattutto riconoscibile. E solo così si può dare dignità e futuro a una professione che è diventata, prima di tutto, un mestiere di testa oltre che di mani.
www.scuolaitalianapizzaioli.it
di Caterina Vianello
Versatile, capace di attraversare fieramente tutto il menu affrontando praticamente tutti i tipi di cottura, facendosi verdura sobria nella versione al vapore o golosissima in quella fritta, la zucchina è una delle protagoniste indiscusse della tavola estiva. Forte di notevoli varietà, sa assumere vesti e caratteri diversi, dalla dolcezza al tono brioso fino a quello agrodolce.
Importata in Europa intorno al 1500, è originaria dell’America centro-meridionale e appartiene alla famiglia delle cucurbitacee, in particolare a quella della Cucurbita pepo, o talvolta cucurbita moschata. Molte le varietà, che arrivano a contare 500 tipi. La classificazione più semplice consente di distinguere le zucchine lunghe, quelle più diffuse ed utilizzate, dal frutto cilindrico di colore verde scuro, striate, a volte bianche; quelle tonde, dal frutto sferico e
Tra le varietà da assaggiare, vale la pena citare la zucchina striata di Napoli: inconfondibile per le strisce più o meno larghe, chiare su fondo scuro (ma anche il contrario), ha forma cilindrica e generalmente proporzionata con le due estremità che si allargano in modo armonioso. La ricetta che la esalta è certamente in scapece.
Merita anche la zucchina nera di Milano: è il tipo più comune, che si trova dal fruttivendolo o al supermercato. Di colore verde scuro e forma cilindrica, rivela una consistenza tenera e una polpa soda, che la rende perfetta per preparazioni anche crude, oltre che per griglia e primi piatti.
La zucchina romanesca, inconfondibile per il fiore che diventa un goloso antipasto fritto, si distingue per striature, che donano a questa varietà piccola e chiara una
La zucchina rigata pugliese è il prototipo della zucchina perfetta: ha forma proporzionata, lunga e dalla giusta combinazione di curve e linee dritte, polpa soda, buccia liscia, con striature delicate. E’ perfetta per la pasta, un po’ come lo zucchino ortolano di Faenza, che ha buccia verde pallidogrigiastro, polpa carnosa e dolcemente saporita, forma allungata, ottimo anche per le vellutate e le creme di verdura.
Dalla Toscana arriva la zucchina lunga fiorentina: forma allungata, costole longitudinali molto pronunciate e colore che va dal verde chiaro al verde scuro, con diverse sfumature. Saporita, ha polpa tenera, ed in cucina va fritta con il fiore o trifolata.
Rimaniamo a Firenze per lo zucchino tondo: sodo, di un bel verde striato e con delle leggere “costole” che lo attraversano da una estremità all’altra, diventa un ottimo contenitore per ripieni, ma va benissimo anche fritto e in risotti.
Ci spostiamo in Emilia Romagna per lo zucchino tondo di Piacenza: perfettamente sferico, di colore verde scuro e con striature che disegnano degli spicchi sulla buccia, è protagonista di versione ripiene, meglio se di carne.
Di un bel giallo sgargiante, la zucchina gialla, ha buccia sottile e polpa estremamente dolce e delicata. La coltivazione è faticosa e ha rese basse ma merita: trifolata, ripiena al forno oppure marinata è perfetta anche per risotti e frittate o come condimento per la pasta. A guardare la zucchina gialla rugosa friulana, non si sa se considerarla una zucca o una zucchina. In effetti a trarre in inganno sono sia il colore giallo canarino, sia la consistenza rugosa della buccia. Ha polpa molto soda, bianca e poco acquosa. Il sapore è particolarmente dolce e delicato, caratteristica che la rende ottima anche a crudo. Spostandoci dall’orto e dalla cucina alla pizzeria, ecco che la stessa versatilità di cui abbiamo parlato finora per primi piatti, risotti, zuppe e vellutate, può essere riportata sulla pizza.
Dando per scontata la versione grigliata di molte pizze vegetariane - che, se solo si cominciasse a considerare la stagionalità della zucchina, consentirebbe di fare un salto di qualità – si può spaziare davvero molto. Abbiamo parlato di uno dei piatti simbolo della gastronomia campana, gli spaghetti alla Nerano: ebbene, ormai ampiamente sdoganata da illustri firme dell’universo della pizza contemporanea è la versione pizza del celebre primo piatto, rigorosamente a base bianca.
Qui le zucchine fritte diventano un banco di prova e soprattutto danno la possibilità di misurarsi, affiancando consistenze diverse, in una sorta di “verticale”: oltre alla versione tagliata a rondelle, la zucchina può allora diventare crema, chips croccantissima e arricchirsi dei fiori. Inoltre, se il dominio del noto Provolone del Monaco è quasi incontrastato, si può giocare anche con un Provolone di Sorrento. Creme e consistenze vellutate aprono orizzonti ancora da esplorare appieno, non solo dal punto di vista gustativo ma anche cromatico: scegliendo una varietà di zucchina che non rilasci troppa acqua, la versione cremosa può farsi base golosa per accostamenti delicati – nel caso della stracciatella o della burrata, per esempio - raffinati – nel caso di crostacei, gamberi in particolare – o in grado di spingere con la sapidità – nel caso di un aggiunta di bottarga o alici di cetara. In accostamento alle pacchetelle – gialle o rosse, oltre che con il sapore, si gioca anche con i colori, accendendo la tavola, mentre affiancando alla crema anche la versione a rondelle, l’aggiunta di ricotta di capra – magari in mousse – pesto di menta e scorza di limone grattugiata è una soluzione fine e vellutata al palato. Da non sottovalutare infine, la versione in scapece: qui sono gli abbinamenti a fare la differenza: visto il carattere deciso della zucchina in questa veste, meglio scegliere degli accostamenti che non eccedano troppo in sapidità.
Per segnalazioni, potete scrivere all’indirizzo redazione@pizzaepastaitaliana.it
“Premetto che ero già stato in questo ristorante nel luglio 2020. Per un compleanno abbiamo prenotato per quello che telefonicamente il proprietario aveva definito il secondo turno delle 21:30 (primo turno ore 19:30). Alle 21:35 chiediamo quanto tempo sia necessario prima di prendere posto a tavola. Ci viene risposto “il tempo di apparecchiare”. C’è stato un altro confronto alle 22:10 perché ancora non avevano “apparecchiato” ed eravamo ancora fuori ad attendere il tavolo che era stato correttamente riservato. Alle 22:20 ce ne siamo andati ormai innervositi da un comportamento totalmente scorretto ed irrispettoso”.
Recensione lasciata su Tripadvisor per un ristorante di Firenze nel mese di marzo 2025
Quante volte ci è capitato di arrivare in un ristorante con una prenotazione e trovarci a dover aspettare, nonostante l’orario concordato? E, quando il tavolo sembra non arrivare mai, quel senso di frustrazione non è solo per la lunga attesa, ma anche per la sensazione di essere invisibili o falsamente in errore. Proprio come accaduto a chi ha scritto la recensione oggetto di questo mese e che, dopo aver prenotato, si è sentito dire che il tavolo “era ancora da apparecchiare” e si è trovato ad aspettare fuori dal ristorante, senza spiegazioni, per un’ora. Fino a quando, esasperati, sono andati via. Ecco, quella recensione non è un caso isolato. È il riflesso di una realtà che purtroppo capita non di rado. Succede. Succede più spesso di quanto si pensi. E non è solo una questione di tempi lunghi o di attese fastidiose. È una questione di rispetto. Perché, dietro ogni prenotazione, c’è un momento che si costruisce: un compleanno, una serata tra amici, un’occasione che si vuole rendere speciale o semplicemente la necessità di andare al lavoro in orario. E, quando accade che l’orario della prenotazione non venga rispettato o la prenotazione stessa venga additata come “fasulla”, magari per questioni di disorganizzazione interna, si spezza anche quel senso di fiducia che dovrebbe esserci tra chi entra e chi accoglie.
Ma non è semplice. Come in tutte le cose, c’è anche l’altro lato della medaglia. La ristorazione è un mestiere fatto di corse, ritardi, imprevisti. Non si può prevedere tutto. D’altronde, ci sono clienti che non si presentano, quelli che arrivano in ritardo o in un numero doppio rispetto a quello comunicato. E, allora, il secondo turno si accavalla col primo, il tavolo si libera troppo tardi, lo staff è sotto pressione e cerca di gestire come può. Ciononostante, non è corretto - e soprattutto assolutamente non professionalepenalizzare chi, invece, è educato e preciso. Come si può ovviare a questo? Non si tratta di trovare scuse ma di pensare a soluzioni che siano rispettose per entrambe le parti. Per esempio, se un tavolo non è pronto al momento della prenotazione, sarebbe sufficiente informare il cliente tempestivamente, magari proponendo una soluzione alternativa, come un drink al bar mentre si aspetta.
Oppure, se l’attesa è lunga, offrire aggiornamenti regolari sullo stato della situazione. È importante che il cliente non si senta mai “abbandonato” o ignorato ma piuttosto coccolato: non è ciò che vorremmo tutti quando andiamo a mangiare fuori? Sentirci come a casa, coccolati e rilassati. Avvolti da un’atmosfera serena, mangiando e bevendo con gusto, godendoci un tranquillo momento di spensieratezza e convivialità.
Basta poco: un’informazione data per tempo, una spiegazione gentile, un aggiornamento onesto. Nessuno pretende la perfezione ma il silenzio, l’attesa senza risposte, l’impressione di essere ignorati: quello sì, pesa. Organizzarsi meglio, magari. Assegnare dei compiti precisi, degli orari in cui poter prendere prenotazioni, avvalersi di un valido sistema digitale (pur riconoscendo che anche su questo aspetto ci sarebbe molto da discutere e approfondire) e usare solo quello.
Forse è arrivato il momento di ristabilire le regole di questo “patto” implicito tra cliente e ristoratore. Un patto che parte dalla parola data: se si prenota, si rispetta. Se si accetta una prenotazione, si fa il possibile per mantenerla. E, se qualcosa va storto, lo si dice. Perché mangiare fuori dovrebbe essere un piacere, non una prova di pazienza. E la fiducia, quella vera, si costruisce così. La fidelizzazione, la voglia di tornare del cliente e quella del ristoratore che il cliente torni e il passaparola non prescindono (anche) da questo aspetto.
"La gastronomia è la consapevolezza ragionata di ciò che si riferisce all’uomo, in quanto egli si nutre. Il suo scopo è di vigilare sulla conservazione della specie mediante il nutrimento più perfetto che sia possibile.
[...] La gastronomia ha relazione:
Con la storia naturale per la classificazione degli alimenti;
Con la fisica per l’esame della lor composizione e della lor qualità;
Con la chimica per le diverse analisi e decomposizioni necessarie;
Con la cucina per l’arte di ammannire le vivande e renderle gradevoli al gusto; Col commercio per la ricerca di acquistare ciò che le occorre al minor costo e di venderlo col maggior vantaggio possibile;
Finalmente, con l’economia e politica per i proventi che ella cagiona alle imposte erariali e per i mezzi di scambio che suggerisce alle nazioni.
La gastronomia è arbitra della vita; dacché i vagiti del neonato anelino all’ubero nutritore, e il morente inghiotta con un barlume di speranza l’ultima pozione che, ahimè, non dovrà digerire!”
a cura della redazione
È questa una delle meditazioni più celebri del primo (e, forse, più importante) gastronomo mai vissuto: il giurista francese Jean Anthelme Brillat Savarin. Nato in Francia, ai piedi delle Alpi, si laurea in legge (come voleva la famiglia) e si occupa della vita politica del suo Paese. Nominato deputato all’Assemblea Costituente nel 1789 e poi consigliere della Corte di Cassazione, si trasferisce prima in Svizzera e poi a New York, per tornare infine in Francia e riprendere la carica di consigliere di Cassazione. Oltre che avvocato, giudice e politico, Brillat-Savarin è stato ufficiale dell’esercito, professore di francese e musicista ma soprattutto buongustaio.
Pubblicata anonima nel 1825, la “Fisiologia del gusto” è sicuramente lo scritto più amato dall’autore, che aveva dato alle stampe trattati giuridici e di carattere economico, oltre ad opere di narrativa andate perdute. Brillat Savarin temeva di non essere più professionalmente apprezzato nel proprio lavoro, se i suoi colleghi avessero scoperto la dedizione al piacere della gola.
A dire il vero, però, l’opera di Brillat Savarin alterna ad aneddoti e meditazioni molte digressioni filosofiche e di costume che vanno ben oltre il tema del "soddisfacimento di pancia".
La Fisiologia del Gusto è infatti la prima riflessione moderna sul rapporto tra l'uomo e il cibo, il primo tentativo di dare all’arte della cucina e della tavola lo stato e la dignità di scienza.
Physiologie du Goût venne ripubblicata subito dopo la morte dell’autore nel 1838 con una prefazione di Honoré de Balzac che lo definì impareggiabile "homme d'esprit".
Scandito da 30 “Meditazioni” sui principali temi dell’alimentazione e del convivio, il volume è un corpus unico di piacevolissima lettura. Un libro pionieristico, le cui tematiche sono divenute patrimonio della cultura occidentale, indispensabile per ogni cultore della tavola.
Prima edizione: 1825
Attualmente in libreria con Slow Food Editore
Prezzo di copertina: € 16,50
Pagine: 400
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