storie di pizza Campioni si diventa ...e lo si è per sempre
di Antonio Puzzi 52
birra Tre birre autunnali: il comfort perfetto per la stagione dei sapori
di Alfonso Del Forno
Il sodio nascosto nella pizza: quanto sale mangiamo davvero?
di Marisa Cammarano
gluten free Un viaggio nel mondo dei surgelati e dei prodotti a lunga conservazione gluten free
di Alfonso Dal Forno
prodotti Le altre "farine"
di Caterina Vianello
prodotti Dolcezze d'autunno
di Caterina Vianello
La recensione del mese di Caterina Vianello
un libro al mese 5 0 pizzerie da visitare almeno una volta nella vita a cura di Massimiliano Tonelli a cura di N. C.
COLOPHON
Editoriale
Antonio Puzzi
Lo dico spesso ma… il numero che avete tra le mani è davvero una perla! I contenuti che vi proponiamo sono, infatti, tanti e diversi e, per raccontarveli, voglio partire da quelli che danno spazio a due progetti editoriali scritti da firme autorevoli del giornalismo enogastronomico nazionale che mi pregio di avere tra i redattori di questa rivista. Giampiero Rorato ci racconta, infatti, una parte meno nota di Giacomo Casanova, il conquistatore veneziano la cui fama è andata ben oltre i confini della sua presenza storica e al quale il direttore onorario di questa rivista ha dedicato un bellissimo volume (scritto con Anna Maria Pellegrino) dal titolo “A tavola con Casanova”. Giusy Ferraina ha, invece, messo a frutto le sue competenze trasversali per la realizzazione di un saggio (forse il primo) dedicato al marketing della pizza tra storytelling, economia reale e nuove tecnologie, che porta il nome di “Pizza (re)connection”. Sono due letture che dovreste regalarvi, non solo per il “gusto di saperne di più” ma anche perché sono certo che vi tornerebbero utili nella pratica quotidiana del vostro lavoro.
La nostra voglia di “sapere” questo mese ci porta, inoltre, nel magico mondo dell’autunno, che non è fatto solo di zucche e porcini ma di farine alternative, pasticceria dolce e salata, birre e olio nuovo. Un piccolo speciale lo dedichiamo, invece, alle conserve e, in particolare, alla loro gestione in pizzeria: dopo i fatti dell’estate, che hanno richiamato l’attenzione su quanto pericolo si celi dentro un barattolo di sottoli, abbiamo deciso di fare chiarezza su questa situazione con due articoli che possono essere particolarmente significativi per chi lavora ogni giorno nella (o con la) ristorazione. E, poi, ci sono ovviamente le “storie di pizza” che – come sempre – vi portano alla scoperta di luoghi che “vale la pena visitare”. Prima di lasciarvi tuffare in cotanta abbondanza, lasciatemi raccontare una storia. Qualche settimana fa, un quotidiano regolarmente venduto in edicola ha pubblicato un articolo a firma di un giornalista con – in calce – una frase che testimoniava, invece, la sua provenienza da ChatGPT. Questo significa che non solo l’autore si sia rivolto all’AI attribuendosi, però, quell’articolo ma che, prima di mandare in stampa il giornale, nessuno lo abbia riletto e se ne sia accorto. Tra le vostre mani, invece, finisce ogni mese un giornale che può sicuramente anche non piacere ma che ha un valore aggiunto che desidero farvi conoscere: tre persone, tra cui il sottoscritto, che rileggono ogni parola che finisce nelle macchine di stampa e che possono commettere errori – certo – ma che credono ancora nella straordinaria ricchezza di quella che il filosofo Nicola Perullo definisce “intelligenza artigianale”. Buona lettura, nio
PIZZA E PASTA ITALIANA
Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura
Edito da PIZZA NEW S.p.A.
Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990
Anno XXXVI - n.10 novembre 2025 - Repertorio ROC n. 5768
Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.
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Campionato Mondiale della Pizza
Gli eventi del mese
Questo mese Pizza e Pasta Italiana è partner di DeGusto in Calabria, il salone B2B dove i professionisti dell’HO.RE.CA. entrano in contatto con le aziende produttrici italiane di alta qualità, un punto d’incontro per i mercati nazionali e internazionali e contenitore di approfondimenti, incontri e masterclass. Oltre agli interessanti appuntamenti, previsti in quella sede, ecco la nostra selezione di eventi e fiere da non perdere in Italia e nel mondo.
5–6 novembre
-
Milano smau.it
6–9 novembre
127ESIMA
FIERACAVALLI
Verona fieracavalli.it
6–9 novembre
FIERA D’AUTUNNO
Bolzano fierabolzano.it
15–18 novembre
DEGUSTO1° SALONE DEL GUSTO, DEI SAPORI E DEGLI ALIMENTI
Catanzaro salonedegusto.it
23–26 novembre
SAUDI FOOD EXPO
Ryiadh (Saudi Arabia) saudifoodexpo.com
25–26 novembre
BORSA INTER-
NAZIONALE DEL TURISMO ESPERIENZIALE SOSTENIBILE
Venezia bitesp.it
27–29 novembre
FIERE ZOOTECNICHE INTERNA-
ZIONALI DI CREMONA
Cremona fierezootecnichecr.it
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Ristorazione domani
CHE NE SAI TU DI UN CAMPO DI GRANO
di Giampiero Rorato
Daun po’ di tempo, sta tornando di attualità ricorrere soprattutto in panificazione alle farine dei grani più antichi: in particolare, il Timilia siciliano e il Khorasan pugliese. Stanno pure riscuotendo nuovo interesse i frumenti ottenuti nella prima metà del secolo scorso dagli incroci di Nazareno Strampelli come, fra gli altri, il “Mentana” e il “San Pastore”. Sempre dello Strampelli è il grano duro “Senatore Cappelli”, più volte geneticamente migliorato nella seconda metà del secolo scorso. Ci soffermiamo questo mese sui grani più antichi, proprio perché stanno conoscendo una nuova e interessante primavera, sia in panificazione che in altre produzioni correlate e già numerosi ristoratori stanno tipicizzando la propria attività con prodotti anche a base di grani antichi che, in queste pagine, desideriamo far conoscere meglio ai nostri lettori.
IL TIMILIA
Questo grano era noto già in epoca greca con il nome trimeniaios. Il nome stesso ci conferma che questo grano, come del resto altre piante, fra cui la vite e l’ulivo, venne portato in Sicilia dai coloni greci arrivati nell’isola fra l’ottavo e il settimo secolo a.C., conoscendo per secoli notevole successo in tutta l’isola.
La farina integrale è poco burattata e contiene molti oligo-elementi del germe di grano e della crusca; presenta un alto valore proteico e un basso indice di glutine. La farina, dal particolare e unico colore grigiastro, è molto indicata per la panificazione in aggiunta con altre semole siciliane. Con questa farina, infatti, si produce il celebre pane di Castelvetrano in una continuità storica che sta per avvicinarsi ai tre millenni, fatto unico che meriterebbe molta più considerazione e studi più approfonditi anche da parte delle autorità siciliane che, fra i tanti tesori agroalimentari, possiedono anche questo antichissimo grano.
A questo punto, sorge una domanda: se i coloni greci l’hanno portato e coltivato in Sicilia, dove lo avevano trovato, visto che la Grecia non si presta alla coltivazione del frumento? La risposta è molto semplice. Già oltre tremila anni fa, il frumento era coltivato in gran parte della Mezzaluna fertile, quindi dalle alture del Turkmenistan alla pianura dell’Egitto lungo il fiume Nilo, anche se in Egitto questo seme era stato importato anticamente da un’area che va dall’Armenia agli altipiani orientali. C’è dunque uno strettissimo rapporto tra i frumenti antichi presenti nell’Italia meridionale, conosciuta come la Magna Grecia e l’Oriente da cui sono arrivati anche la vite, l’ulivo, il riso e numerose piante da frutto.
IL KHORASAN
Anche il Khorasan appartiene al non lungo elenco dei più antichi grani coltivati in Italia, arrivato anche questo grazie ai coloni greci e diffusosi attorno alla città pugliese di Altamura. È possibile che, soprattutto nei primi decenni del secolo scorso, quando Nazareno Strampelli produsse da incroci il grano che chiamò “Senatore Cappelli”, il Khorasan abbia conosciuto un progressivo abbandono ma non la sua scomparsa.
I grani dello Strampelli - diverse decine da lui ottenuti sia fra i grani duri che fra quelli teneri – hanno visto in pochi anni un enorme successo per tre motivi:
1) La produzione media per ettaro era almeno doppia rispetto ai grani antichi
2) Lo stelo dai circa 180/190 cm di altezza dei grani antichi era stato pressoché dimezzato, facendo sminuire l’allettamento causato dal vento e dalla pioggia
3) Fra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso ci fu in Italia la cosiddetta battaglia del grano per spingere al massimo la produzione di questo fondamentale cereale. Come sempre succede, quando si rinnovano le culture qualcosa del vecchio resta sempre e così è successo per il grano Khorasan, ritrovato qualche decennio fa in una minuscola azienda della plaga Santa Candida in comune di Altamura.
Di questo frumento, oggi coltivato in oltre
500 ettari da un produttore del posto, si ottiene una farina di ottima qualità con le seguenti caratteristiche:
Valore energetico 100g: 359 cal.
Proteine: 17,3%.
Lipidi totali (grassi): 2,6%.
Carboidrati: 68,2%.
Fibre grezze: 1,8%.
Questo tipo di frumento è ricco di minerali, in particolare: Calcio, Ferro, Magnesio, Fosforo e Potassio. Ha basso indice glicemico. La farina di Khorasan è molto apprezzata in panificazione, produzione di biscotti, focacce, pasta e pizza.
IN CONCLUSIONE
Ci siamo limitati ad un veloce esame di due antiche varietà di frumento per cercare di capire i motivi del loro successo attuale che condividiamo. Anche se la produzione di Timilia e Khorasan è molto minore per ettaro di coltivazione rispetto ai frumenti attuali, in particolare quelli i cui semi sono importati da produttori esteri, la qualità degli alimenti con essi prodotti è molto alta e risponde alle esigenze alimentari tese a produrre cibi buoni, biologici, sani, salutiferi e pienamente appaganti. Queste nostre considerazioni non sono una egoistica difesa del “Made in Italy” ma la presa d’atto che in Italia c’è il maggior numero di prodotti agroalimentari qualificati dall’Unione Europea con i marchi
DOC, DOCG, DOP, IGP, IGT, STG. E, se anche numerosi di questi prodotti sono stati importati nel corso dei secoli, è nella nostra Penisola che hanno trovato l’habitat ideale per esprimere appieno le loro migliori caratteristiche nutrizionali. In Italia abbiamo dunque quanto serve per avere un’alimentazione e una ristorazione sane, buone, pienamente appaganti; ciò che ancora manca, salvo qualche lodevole eccezione, è una corretta educazione alimentare che dovrebbe partire dalle scuole dell’infanzia ed elementari, anche per combattere le tante errate informazioni dei social, spesso nocive per la stessa nostra salute.
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Campionato Mondiale della Pizza
LBRO Pizza (re)connection
PARLARE DI PIZZA
AI PIZZAIOLI
Giusy Ferraina racconta il suo primo libro con Antonio Puzzi
PIZZAIOLI
E così hai scritto un libro…
Così pare. Fino a qualche giorno fa, quando avevo visto solo il mockup della copertina, neppure ci credevo. Sembrava una di quelle fake news che girava sul web.
se del marketing della pizzeria, nonostante ci siano state, invece, diverse pubblicazioni sul marketing della ristorazione
Ma perché c’è bisogno di un nuovo libro a tema “pizza”? Che cos’ha di diverso?
Secondo me, questo è “il libro che non c’era”. Ci sono tanti libri che parlano di pizzaioli, poi ci sono le guide e ci sono anche volumi sulla storia e sull’antropologia della pizza, come tu sai bene. Ma non c’era nessun libro che parlas-
Come ti è venuta quest’idea?
È un’illuminazione che ho avuto al Campionato Mondiale della Pizza di Parma dove, da qualche anno, sono una giurata. Mi sono accorta che, tra le tante pizze che venivano presentate, c’era la
volontà di esprimere qualcosa, di cavalcare una tendenza ma spesso in modo errato, poco personale e facendo un copia incolla sterile. Ho capito che c’era bisogno di una guida, di strumenti per aiutarli a farlo al meglio.
Nel tuo libro dedichi una parte importante alla sostenibilità.
Credo sia il tema del presente e del futuro. Non possiamo pen-
sare di far crescere ancora di più questo mondo della pizza se non abbiamo una visione ben chiara di dove vogliamo arrivare e, soprattutto, di quanto sia importante concentrare la nostra attenzione sulla salvaguardia delle risorse del pianeta. Vi sono esempi validissimi, che provo a raccontare: le attività per contenere gli sprechi, le app che consentono di vendere a prezzi irrisori l’invenduto per non farlo finire in pattumiera e dei progetti bellissimi, come quello del “Pizzaiolo del Cambiamento” promosso da “Le 5 Stagioni” che
PIZZA
credo siano di fondamentale importanza per la crescita sana di questo settore.
E tu credi che tutto questo interessi al cliente finale?
Ne sono più che sicura. C’è sempre più gente che si interessa non solo al prodotto che finisce in tavola ma anche a tutto quello che c’è dietro una pizzeria. Lo storytelling digitale ha consentito a tante persone di “saperne di più” sulla pizza e sui pizzaioli e questo è sicuramente un bene.
Quindi i pizzaioli comunicano bene.
Sì e no. Non si può generalizzare: si confonde spesso la brand identity con il personal branding, attività che dovremmo tenere ben distinte, per evitare che i potenziali clienti si fidelizzino al pizzaiolo più che al suo prodotto.
C’è, dunque, bisogno di formazione anche su questo.
In Italia, il problema della formazione esiste. Ci sono tante possibilità di formarsi e tanti contenuti su cui farlo: l’offerta del mercato delle scuole è tanta e varia, a partire dalla Scuola Italiana Pizzaioli, la prima istituzione nata a questo scopo ormai più di quarant’anni fa.
SCRIVERE
E, poi, ci sono i corsi offerti dalle associazioni di categoria che vanno dagli impasti ai topping, alla comunicazione. La questione vera è, però, legata al fatto che ancora oggi non è la maggioranza a seguire questi corsi ma una parte consapevole di artigiani che fa la differenza.
E che sono quelli che entrano in Guida…
Guarda, una delle cose che più mi fa riflettere è quando incontro i
pizzaioli e la loro prima richiesta è: “Ma tu puoi farmi entrare in questa - o quella - Guida?”. La mia risposta è sempre la stessa: “Tu pensa a lavorare bene, poi i risultati arriveranno”.
Ma a te è mai capitato di entrare in una pizzeria che non era segnalata da alcuna guida e trovarla meglio di altre presenti?
Eh, tante volte. E direi: per fortuna! Spesso, poi, riesco anche a se-
gnalarle e a inserirle nell’edizione successiva. Ma quel che è complesso da raccontare a chi fa questo mestiere artigianale e ricco di passione è che una guida racconta solo una visione del mondo, apre una finestra su un certo tipo di proposta. E non è detto che anche se lavori bene quello spazio sia quello giusto per te e per il tuo pubblico.
Chiudiamo con la tua pagina preferita: il ruolo delle donne in pizzeria.
Sì, come sai ne parlo spesso ovunque mi capiti. Credo che se ne parli fin troppo poco, nonostante la loro presenza sia costante da sempre nella storia di questo settore. Solo negli ultimi anni, però, stanno conquistando la scena, andando a occupare posti di rilievo in un mondo che è ancora decisamente a trazione maschile.
Cosa dovrebbe fare il pizzaiolo del futuro?
Formarsi. E non smettere mai di fare questo lavoro con la passione che ha contraddistinto questo settore negli anni.
ABOUT/
Giusy Ferraina, redattrice di “Pizza e Pasta Italiana”, è ideatrice e conduttrice del podcast “Capricciosa, storie di pizza e cucina” e collabora con alcune tra le più importanti testate italiane di gastronomia, tra cui Gambero Rosso e Identità Golose. È altresì consulente di comunicazione e marketing
Il libro Pizza (re)connection, edito da “Dario Flaccovio Editore” per la collana Accadde Domani FuTurismo
diretta da Nicoletta Polliotto, si propone di fotografare il panorama pizza odierno in tutte le sue sfaccettature, esplorando nuove frontiere, tecnologie, innovazioni e sfide che attendono questo prodotto. Nel libro figurano interviste a protagonisti del mondo pizza, come Antonio Pace (Presidente Associazione Verace Pizza Napoletana), Carlo Passera (Identità Golose) e Domenico Maria Jacobone (giornalista e consulente, esperto di processi di innovazione in aziende agroalimentari ed enograstronomiche). La prefazione è di Antonio Puzzi.
Giusy
Guida strategica per il mondo pizza: anticipare esigenze di consumo e tendenze, trasformare le pizzerie in luoghi di condivisione, utilizzare nuovi strumenti e format, per distinguersi e raccontarsi con successo
Giusy Ferraina
FuTurismo
Prefazione di Antonio Puzzi
L’affaire Botulino
CONSERVE E NUOVE LINEE GUIDA MINISTERIALI
di Domenico Maria Jacobone
NEL MOSAICO COMPLES-
SO DELLA RISTORAZIONE ITALIANA CONTEMPORANEA, DOVE OGNI GESTO IN CUCINA PORTA CON SÉ IL PESO DI SECOLI DI SAPIENZA GASTRONOMICA, L'AGOSTO 2025
HA SEGNATO UN MOMENTO DI IMPORTANTE RINNOVAMENTO DELLE REGOLE SULLE CONSERVE ALIMENTARI.
Le nuove linee guida ministeriali sul botulino non rappresentano una semplice imposizione burocratica ma l’inizio di un dialogo necessario tra la memoria delle nostre tradizioni conserviere e le evidenze della scienza microbiologica. Se, nella tradizione casalinga, il valore di una conserva nasceva dalla reputazione e dalla sapienza tramandata - spesso oralmente - da una generazione all’altra, oggi la sfida si gioca sulla capacità di preservare quella stessa autenticità attraverso protocolli verificabili, con ricadute dirette sulla credibilità del settore e sulla sostenibilità economica delle imprese.
DAL BARATTOLO DELLA
NONNA AL LABORATORIO CERTIFICATO
Nella gastronomia italiana, le conserve hanno sempre rappresentato il filo sottile tra abbon-
danza stagionale e previdenza, tra freschezza autentica e necessità di preservare. Barattoli e bottiglie ordinatamente disposti sugli scaffali della dispensa di casa erano archivio di stagioni, promessa di sapori di primavera ed estate cristallizzati per l’inverno, testimonianza tangibile di un sapere che si trasmetteva attraverso gesti ripetuti e osservazioni pazienti. Il “gusto” della sorpresa ogni volta che se ne apriva uno, spesso in occasioni speciali, con la famiglia riunita intorno alla tavola.
La nonna che “sapeva” quando i pomodori erano pronti stava leggendo segnali chimici e microbiologici con strumenti diversi dal pH-metro ma non meno efficaci nel contesto domestico e nella produzione limitata all’utilizzo casalingo.
La ristorazione moderna utilizza tecnologie che le cucine tradizionali non conoscevano: il sotto-
vuoto, le atmosfere modificate, i sistemi di confezionamento che escludono l’ossigeno. Queste tecniche hanno rivoluzionato la capacità di conservare gli alimenti, ma sono ancora soggette al rischio di proliferazione del Clostridium botulinum, quel batterio anaerobico che produce una delle tossine più letali conosciute dall’uomo.
LA CIRCOLARE CHE
HA
CAMBIATO LE REGOLE DELLA
CONSERVAZIONE
Il Ministero della Salute ha tracciato una linea netta con la Circolare 34260 del 12 agosto 2025: ogni azienda alimentare deve validare con prove pratiche e dati di laboratorio ogni processo di confezionamento sottovuoto o in atmosfera modificata. Non si tratta più di dimostrare buona fede o esperienza consolidata, ma di fornire evidenze scientifiche verificabili che il processo adottato è sicuro, riproducibile e conforme agli standard microbiologici richiesti.
In un’epoca in cui le filiere si allungano e il prodotto artigianale viaggia ben oltre il territorio di origine, la ristorazione si è professionalizzata mantenendo spesso un’anima artigianale in alcuni processi. In questo senso, ben prima dei drammatici eventi dell’estate 2025, si serviva l’esigenza di un regolamento condiviso che garantisse standard uniformi senza soffocare la diversità produttiva.
I TRE PILASTRI DELLA NUOVA CULTURA CONSERVIERA
1 La bollitura tra gesto ancestrale e precisione cronometrica
L’ebollizione è forse il più antico metodo di sanificazione conosciuto dall’umanità, un gesto che
attraversa tutte le culture gastronomiche. Ma, oggi, questo atto millenario deve misurarsi con la precisione scientifica. Le circolari ministeriali stabiliscono tempi esatti: tre minuti di ebollizione per le zuppe, un minuto per la sanificazione delle vellutate. Non sono numeri arbitrari ma il risultato di studi microbiologici che hanno determinato il tempo necessario per inattivare le spore del Clostridium botulinum.
La novità più significativa riguarda la comunicazione: questi tempi devono essere riportati in etichetta, trasformando il packaging in strumento di dialogo tra produttore e consumatore. Non basta più la classica dicitura “consumare previa cottura”. Il cliente ha diritto a istruzioni precise, verificate, che lo rendano parte attiva nella catena della sicurezza. È un passaggio culturale importante: la responsabilità si condivide, la conoscenza si trasmette, il sapere diventa patrimonio comune.
Per i ristoratori che offrono zuppe o vellutate da asporto/delivery, questo significa rivedere completamente l’approccio all’etichettatura. Le vecchie indicazioni generiche non sono più sufficienti: serve precisione, serve chiarezza, serve un linguaggio che sia al tempo stesso tecnico e accessibile.
2 L’acidificazione tra alchimia tradizionale e controllo chimico
Se la bollitura è fuoco, l’acidificazione è alchimia. Il pH, quella scala che misura l’acidità o la basicità di una sostanza, diventa il discrimine certo tra sicurezza e rischio nelle conserve vegetali. Il target tecnologico è fissato a pH inferiore o uguale a 4,2, con un limite critico invalicabile a 4,6. Sotto questi valori, il Clostridium botulinum non può crescere né produrre la sua tossina letale.
L’acidificazione non è un concetto estraneo alla tradizione italiana. Le giardiniere sott’aceto, i peperoni in agrodolce, i pomodori, le cipolle, i carciofi ed i funghi
conservati sott’olio sono da sempre parte del nostro patrimonio gastronomico. La differenza è che oggi questo processo deve essere documentato, certificato, tracciato.
La “Nota Tecnica 2025” è lapidaria su un punto chiave: vige il divieto assoluto di rinvasi o rivendite sfuse prive di idonea documen-
tazione di processo. E, per essere in regola, servono: il pH-metro calibrato, serve la registrazione sistematica delle misurazioni, serve la conservazione della documentazione. Per molti piccoli produttori, anche ristoratori che producono per l’autoconsumo nel proprio ristorante, questo approccio rappresenta una sfida culturale significativa.
3 La responsabilità tra dovere morale e obbligo documentale
Il terzo pilastro della nuova cultura della sicurezza riguarda la gestione della responsabilità. Il piano HACCP, nato negli anni Sessanta per garantire la sicurezza degli alimenti destinati agli astronauti, si trasforma da adempimento formale a strumento dinamico di gestione del rischio. La direttiva ministeriale è esplicita: riportare nei piani HACCP le evidenze documentate che la shelf life assegnata ai prodotti sia coerente con le loro caratteristiche di sicurezza e qualità.
Questo significa che non si può più stabilire empiricamente che un prodotto “dura tre giorni in frigo”. Servono test microbiologici, challenge test che simulino le peggiori condizioni possibili di conservazione e distribuzione, analisi chimico-fisiche che confermino la stabilità del prodotto nel tempo. La shelf life diventa il risultato di un processo scientifico, non di un’intuizione per quanto affinata dall’esperienza.
Per i ristoratori, i pizzaioli e i produttori artigianali questo richiede un salto culturale importante. La formazione diventa un elemento identitario della professionalità perché non basta più saper cucinare o conoscere le
ricette tradizionali: bisogna saper leggere un’analisi di laboratorio, interpretare parametri microbiologici, applicare principi di analisi del rischio.
Cosa cambia nella pratica quotidiana della ristorazione
Per chi gestisce ristoranti e pizzerie, l’impatto delle nuove norme tocca diversi aspetti dell’attività quotidiana. I piani HACCP devono essere aggiornati con validazioni documentate, non più semplici descrizioni generiche di processi. L’etichettatura di tutti i prodotti da asporto sottovuoto richiede revisione completa, con indicazioni precise su tempi e modalità di consumo. Il personale deve
essere formato sui nuovi protocolli, non solo informato.
Per le conserve vegetali autoprodotte, quelle melanzane sott’olio o quei pomodori secchi che caratterizzano l’identità “della casa”, diventa necessario documentare sistematicamente il controllo del pH. I prodotti con shelf life superiori a tre giorni devono essere sottoposti a challenge test, spesso affidati a laboratori esterni specializzati.
L’investimento richiesto non è trascurabile, soprattutto per le realtà più piccole. Ma può essere ottimizzato: analizzare contemporaneamente prodotti simili, stabilire rapporti continuativi con laboratori che offrano tariffe convenzionate, partecipare a progetti collettivi promossi da associazioni di categoria.
IL CONFRONTO TRA VECCHIO E NUOVO PARADIGMA
Tabella riassuntiva
ASPETTO NORMATIVA PRECEDENTE NOVITÀ 2025
Validazione sottovuoto
Bollitura zuppe
Protocollo generico HACCP, non sempre con test pratici
Non obbligatorio specificare tempi
Acidificazione conserve Non sempre documentata/ pH verificato
Piano HACCP/ shelf-life
Controlli filiera
GLI STRUMENTI PER ACCOMPAGNARE LA TRANSIZIONE
Documentazione non sempre aggiornata
Controlli non intensificati per eventi temporanei
L’applicazione delle nuove norme richiede investimenti che possono apparire gravosi, soprattutto per le micro-imprese artigianali. Un pHmetro digitale con calibrazione certificata costa mediamente tra i 100 e i 300 euro. I challenge test per la validazione della shelf life possono oscillare tra 500 e 1500 euro per prodotto. Le analisi microbiologiche periodiche si attestano tra 80 e 200 euro per campione.
Sono cifre significative per chi lavora con margini stretti ma vanno considerate come investimenti in credibilità e sicurezza, non come costi improduttivi. Molte regioni e associazioni di categoria stanno attivando percorsi di supporto e finanziamenti specifici per facilitare l’adeguamento. Progetti collettivi che coinvolgano più produttori possono abbattere i costi attraverso economie di scala.
“Ogni azienda alimentare deve validare con prove pratiche e dati di laboratorio ogni nuovo processo...”
“In particolare... indicano un tempo di ebollizione pari a tre minuti e di un minuto per la sanificazione delle vellutate. ... riportare in etichetta i tempi di ebollizione.”
“Necessitano di un’acidificazione documentata, con pH finale conforme (target ≤ 4,2; limite ≤ 4,6)...”
“...riportare nei propri piani HACCP le evidenze documentate che la shelf life assegnata...sia coerente...”
“Controlli mirati nella ristorazione, grande distribuzione, laboratori artigianali, sagre...”
La formazione rappresenta un altro ambito di investimento necessario. Non bastano più i corsi HACCP standard: servono workshop pratici sulla validazione dei processi, aggiornamenti continui sulle evoluzioni normative, momenti di confronto con esperti che parlino il linguaggio della ristorazione senza perdersi in tecnicismi inaccessibili.
IL FUTURO DELLA TRADIZIONE CONSERVIERA
ITALIANA
Le nuove linee guida sul botulino segnano l’inizio di un percorso lungo e complesso, dove la strada da percorrere è ancora in parte da tracciare. Ma la direzione è chiara: verso una ristorazione che integri sicurezza documentata e identità territoriale, scienza e tradizione, rigore e creatività. Il barattolo di conserva sullo scaffale continuerà a raccontare storie
di stagioni e di mani sapienti, di terre generose e di ricette tramandate. Accanto a quella narrazione ne dovremo costruire una nuova e complementare: la storia di una responsabilità condivisa, di una sicurezza certificata, di una tradizione che ha saputo evolversi senza tradirsi.
La sfida è culturale prima che tecnica. Richiede un cambio di mentalità che sappia riconoscere nella validazione scientifica non una burocrazia imposta dall’alto, ma uno strumento di valorizzazione del sapere artigianale. Il futuro della ristorazione italiana passa dalla capacità di preservare l’anima dei gesti tradizionali attraverso la solidità di processi documentati, trasformando la sicurezza alimentare da obbligo normativo a elemento identitario della professionalità.
FUNGHI TRIFOLATI
Prestigiosa e ricca “collezione” di funghi di prima scelta lavorati con cura e attenzione, tagliati e trifolati delicatamente secondo tradizionale ricetta. Indicati come accompagnamento per primi o secondi piatti, contorni e per la farcitura di pizze.
DEMETRA FOOD COLLECTION i prodotti che fanno tendenza.
di Massimiliano Bruno Gallo
Olio nuovo, olio buono?
“Dalla morte alla vita, l’olio extravergine di oliva è cambiato e ci ha cambiati”.
Nella sua canzone “Figlio di un re”, Cesare Cremonini offre una personale interpretazione dell’amore, la versione più romantica e malinconica della “Livella” di Totò dove “cca dinto, ‘o vvuò capì ca simmo eguale?” filosofeggia con accento bolognese in “che tu sia figlio di un re o di un capo di stato, che tu sia buono come il pane o brutto e maleducato (…) l’amore è laddove sei pronto a soffrire”.
L’amore - che è vita e che genera vita - e la morte si equiparano. Gli antipodi che si osservano, senza mai toccarsi. Certo, pur con letture diverse, riescono a diventare cosa unica ma divisa, a spiegarci che, in determinate situazioni, siamo tutti uguali, a prescindere da chi siamo.
L’olio, unguento sacro che accompagnava all’ultimo viaggio chi chiudeva gli occhi per sempre, è oggi un limpido liquido di vita. Merito della sua moltitudine di proprietà benefiche che, grazie anche ai centinaia di odori di cui è composto, attiva alcune parti del cervello collegate al relax e alla felicità.
In questo preciso periodo, è praticamente impossibile non essersi imbattuti in una storia su Instagram con protagonista quel filo dorato che, con un flusso continuo, costante ed impetuoso, sprigiona profumi e sapori, caratteristici del nostro essere italiani, del nostro essere indissolubilmente legati a fare quel giro, veloce, sfuggente ma potentissimo, sui nostri piatti: un giro d’olio, che metaforicamente è… un giro d’Italia.
Ebbene si, è arrivato il tempo dell’olio nuovo.
I segreti dell’olio evo
Verdure, carne, pesce, uova, pasta, dolci e anche frutta: posso assicurarvi che esiste un olio extravergine adatto a tutti i vostri piatti.
A differenza del vino, non esisterà olio extravergine che possa migliorare con il tempo. Anzi, più passa il tempo, più l’olio extravergine di oliva, attaccato dall’ossigeno, dalla luce e dai processi ossidativi, peggiora. Quindi, la prima regola del consumatore modello è acquistare gli oli della campagna olearia più recente e conservarli in un luogo asciutto, fresco e in bottiglie o contenitori mai trasparenti, che riflettano la luce. Acquistate sempre oli filtrati ed evitate la trappola del “non filtrato”. Questi tipi di oli vanno incontro più rapidamente ai processi ossidativi e fermentativi, dovuti alla presenza di acqua residua dovuta alla mancata filtrazione. Quando l’olio extravergine di oliva è di qualità, però, vince il tempo e, grazie ai suoi potenti antiossidanti, protegge se stesso, per proteggere chi lo consumerà. Un gesto di vero amore.
Piccante e amaro, una bella coppia
A volte sento ancora dire: “questo olio pizzica, non è buono”; oppure: “l’olio amaro non mi piace”. Respirare, contare fino a tre e sorridere, perché a tutto c’è una spiegazione e la cultura dell’olio solo negli ultimi anni sta iniziando ad espandersi. Fino a qualche anno fa, era la norma acquistare oli scadenti oppure oli di semi per condire. Fortunatamente la tendenza sta cambiando ma il lavoro da fare è ancora tanto. L’amaro e il piccante sono caratteri di qualità dell’olio. I famosi polifenoli che spesso sentiamo nominare, nell’olio evo di qualità abbondano e sono proprio loro, insieme ad un cocktail di sostanze benefiche come l’oleuoropeina, l’oleocantale, lo squalene, a svolgere la loro funzione cardioprotettiva e ipoglicemizzante.
A volte tossirete, avvertendo il piccante e resterete interdetti, assaporando l’amaro ma, con il tempo o anche subito, imparerete ad apprezzare queste sfumature, di gusto e sensazioni, che mai vi stancheranno il palato, regalando note di scarola riccia, carciofo, rucola, peperoncino, zenzero, mandorla e… fino a più di cento aromi, non posso dirveli tutti.
Il vademecum per l’acquisto perfetto
Vi ho dato qualche informazione sull’acquisto perfetto sia in questo articolo che in quelli precedenti ma, in corrispondenza della messa in commercio dell’olio prodotto dalla nuova campagna olearia, vi propongo un vademecum per l’acquisto perfetto, senza cadere in piccole provocazioni dell’industria:
• Acquista sempre l’olio della campagna olearia più recente; ad esempio, la campagna olearia di quest’anno è la 2025/2026 (lo trovate scritto in etichetta)
• Acquistate oli in bottiglie di vetro scuro o le bag in box
• Acquistate oli che siano filtrati, evitando quelli con la scritta “non filtrato”
• Siate curiosi e assaggiate oli anche di altre nazioni ma preferite gli oli di origine 100% italiana
• Annusate sempre l’olio una volta acquistato: se avvertite sensazioni “strane”, che vi ricordano il vino, l’aceto, il grasso del prosciutto ossidato o le olive in salamoia, non acquistate più quell’olio
• Scegliete oli dove si avvertano l’amaro e il piccante; sono caratteri di qualità e fanno bene alla salute
• Scegliete oli dove riuscite a sentire dei profumi, freschi e piacevoli, che vi fanno subito sorridere
La felicità è una reazione immediata, spontanea, apparentemente evanescente ma incredibilmente senza tempo.
Tradizionali
Per ogni tavola, un grissino Valledoro.
I grissini monoporzione Valledoro : la tua selezione d'eccellenza per la tavola .
Dai Satiné, ondulati e salati al punto giusto, ai Rustici, dal gusto tipico e l'aspetto casereccio. Ogni grissino è un benvenuto che lascia il segno , unendo eleganza e tradizione.
Scegli la varietà che distingue, scegli la bontà dei grissini Valledoro.
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Rosmarino
Satiné
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A TAVOLA CON CASANOVA
di Giampiero Rorato
si celebrano quest’anno i 300 anni dalla nascita di giacomo casanova (17251798), il veneziano che, in pochi decenni, ha percorso tutte le strade dell’italia e dell’europa: dalla spagna alla russia, dall’inghilterra alla turchia, con molte soste a parigi, vienna, berlino, san pietroburgo, costantinopoli.
Si dice che Casanova sia vissuto per viaggiare ed abbia viaggiato per mangiare.
Era figlio di due attori veneziani ma, ancor giovane, avendo un’intelligenza molto vivace e una gran fame di sapere, iniziò a viaggiare per l’Italia imparando anche a conoscere le varie cucine regionali.
Il Settecento è stato un secolo molto brillante per l’intera Europa, anche se la Repubblica di Venezia si avvicinava alla sua fine, avvenuta nel 1797 mentre la Francia stava per conoscere la grande Rivoluzione Francese scoppiata il 14 luglio 1789. Forse, proprio per questo, nel Settecento, Venezia si è data a splendide feste, fra le quali
primeggiava il Carnevale, mentre in Francia il re e la nobiltà banchettavano nella Reggia di Versailles e nei castelli sparsi in tutto il Paese. Intanto, Casanova viaggiava e, nel suo primo viaggio da Venezia verso Roma, si fermò a Chioggia dove venne intronizzato nella Confraternita dei maccheroni che, nel nord, sono gli gnocchi mentre, nel sud Italia, sono un tipo di pasta.
in verità, il piatto più amato da giacomo casanova erano le ostriche, il più citato nella mastodontica histoire de ma vie (storia della mia vita) e pretendeva che a tavola vi fossero le ostriche dell’arsenale di venezia, da lui richieste anche quando era all’estero.
Casanova le accompagnava con dello champagne dolce come era allora di moda. Lo ordinava in tutte le occasioni galanti e quando desiderava apparire aristocratico.
Altro piatto amato dal grande veneziano erano le minestre che potevano essere sia di magro che di grasso. Da buon veneziano, preferiva le minestre di riso arricchite sia da ortaggi che da sughi di
carne. In quel secolo, le minestre di riso erano poco brodose: si pensi al classico piatto veneziano dei risi e bisi che, ancor oggi, si mangia con il cucchiaio. Il nostro personaggio amava molto i tartufi, sia quelli bianchi piemontesi che quelli neri dell’Umbria e, nella sua “Storia”, racconta degli episodi molto simpatici a proposito di questa prelibatezza.
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Il pesce che preferiva era lo storione, presente soprattutto nelle cucine dell’alta borghesia e della nobiltà, molto pregiato anche perché non facile da trovare in Italia. I pescatori più fortunati potevano catturarlo nella parte terminale dei fiumi Po, Adige e Livenza, per essere poi conservato in appositi laghetti presenti presso le ville padronali.
Se lo storione era una prelibatezza da signori, Casanova amava tutti i prodotti del mare che ben conosceva fin dalla sua giovinezza quando abitava a Venezia. Nella sua storia, ci racconta che un giorno si arrivò ad Orsera, paese marinaro dell’Istria e si fermò a mangiare in una trattoria, di cui scrive: “La brava donna ci ammannì un gustoso pranzo a base di pesci conditi con olio, che in quel paese è ottimo, e ci dette da bere del refosco che trovai squisito”. Questa frase di Casanova è molto importante e denota alcune cose. Innanzitutto, che il pesce era stato condito con dell’olio d’oliva e precisa che in quella terra, l’Istria, oggi appartenente alla Croazia, l’olio è ottimo. Aggiunge che ha abbinato al pesce, cotto probabilmente ai ferri, il Refosco, anche se in quell’area si tratta di un Refosco dal peduncolo verde, conosciuto oggi col nome di vino Terrano. Anche la carne piaceva al nostro viaggiatore e, in due occasioni, egli stesso taglia a fette un cappone arrosto e lo serve alle dame che pranzavano assieme a lui.
Nella monumentale Histoire che ha scritto negli ultimi anni della sua vita, quando
era ospite nel castello del Conte Waldstein a Dux (oggi Duchcov) nella regione Boemia della Repubblica Ceca, Casanova scrive di circa 120 piatti soffermandosi spesso sulla loro qualità, caratteristiche di cottura e gustosità; a proposito di pesce, cita per due volte le trote gustate nel Monastero di Einsiedeln in Svizzera, ospite dell’abate e - un’altra volta - le acquista personalmente a Spa e le fa friggere dal cuoco nel burro. Quanto precede sono solo alcuni esempi dei tanti piatti ricordati, gustati e descritti da Casanova, così come sono numerosi i vini che ebbe occasione di citare e gustare come lo Champagne, l’Orvieto, Est! Est! Est!, Malvasia, Vino di Cipro, Ribolla, Tokaji ungherese, Gambellara, Soave, Valpolicella, Malaga, Bordeaux ed altri ancora.
Il grande viaggiatore veneziano, uomo di vasta e profonda cultura, finissimo conoscitore della lingua francese, filoso, teologo, violinista, ha lasciato il ricordo della sua intensa vita nella già citata Histoire, considerato una delle più significative immagini della vita altoborghese e signorile del Settecento europeo.
TECNICHE DI CONSERVAZIONE IN PIZZERIA
L’era della conservazione intelligente: salute, risparmio e nuovi format della ristorazione contemporanea
Un nuovo adagio per la ristorazione contemporanea potrebbe essere: “non c’è qualità senza conservazione intelligente”.
Se, nella tradizione, il valore di un piatto nasceva dall’immediatezza degli ingredienti, oggi la sfida si gioca anche sulla capacità di preservare sapori, sicurezza e sostenibilità, con ricadute dirette su salute, food cost e sprechi. Nel panorama della ristorazione moderna, la conservazione degli alimenti
di Domenico Maria Jacobone
rappresenta molto di più che un semplice adempimento normativo. Si tratta di un pilastro che ridisegna anche l’identità di ogni locale, dal laboratorio gourmet di montagna fino alle pizzerie urbane e alle insegne internazionali e che sostiene tanto la salute, quanto il food cost.
La conservazione del futuro - Quando Scienza e Tradizione si incontrano
Nel grande racconto della gastronomia, la conservazione degli alimenti ha sempre rappresentato il filo sottile tra abbondanza e spreco, tra freschezza autentica e compromesso. Oggi, quella stessa
sfida ancestrale trova risposte in tecnologie che promettono di rivoluzionare le cucine professionali nei prossimi cinque anni, coniugando rigore scientifico e rispetto per la materia prima.
Una panoramica dei casi più interessanti in sperimentazione attiva di nuove tecnologie nel mondo della ristorazione/ pizzeria mondiale.
José Andrés’ e la sua Think Food Group (USA): Il gruppo fa uso di avanzate tecniche di abbattimento rapido e termo-conservazione istantanea per garantire la massima sicurezza, qualità e freschezza sia per i piatti caldi che freddi, processi perfezionati anche in occasione di progetti speciali come la preparazione di pasti destinati agli astronauti, dove il tema della sicurezza alimentare e della rigenera-
zione in condizioni estreme è prioritario. La capacità di Think Food Group di creare piatti che mantengono gusto, texture e proprietà nutrizionali anche dopo procedure di abbattimento e successiva rigenerazione in cucina è stata confermata dall’utilizzo di metodi e strumenti sviluppati in collaborazione con enti di ricerca per la cucina spaziale, con particolare enfasi su packaging, conservazione e innovazione scientifica.
Day-Break Artlock Freezer (Giappone): Ristoranti di sushi e pizzerie di Tokyo, tra cui la famosa The Pizza Bar on 38th di Daniele Cason nella splendida cornice del Mandarin Oriental Ginza, stanno adottando questi flash freezer con tecnologia Micro Wind System, in grado di congelare la pizza o preparati senza disi-
dratare o stressare l’alimento, permettendo rigenerazioni con qualità sensoriale pari al fresco. Questo particolare approccio al microfreezing viene utilizzato per garantire uno standard qualitativo eccellente nei complessi contesti gourmet alberghieri.
Marriott Algiers (Algeria): Il reparto F&B del Marriott Algiers ha adottato una catena del freddo digitale basata su celle smart a temperatura differenziata, con sistemi monitorati da sensori IoT per controllo immediato di temperatura e umidità. Gli ingredienti freschi e i semilavorati, tra cui impasti e pizze, sono stoccati secondo parametri specifici in celle positive e negative, garantendo sicurezza HACCP
anche in climi caldi e umidi. Grazie a software dedicati, la tracciabilità totale delle scorte e la pianificazione degli acquisti sono gestite in tempo reale, ottimizzando la logistica interna per banqueting e ristorazione Horeca. Il sistema, pensato per grandi volumi, riduce sprechi energetici e garantisce la qualità anche durante eventi e catering internazionali. Questo approccio rappresenta uno standard di innovazione applicata alla conservazione alimentare in ambienti critici.
Attica, tra i ristoranti più celebrati di Melbourne, è famoso per la sua costante sperimentazione sulle tecniche di conservazione e maturazione naturale degli ingredienti,
applicata anche alle pizze stagionali. Ben Shewry e il suo team praticano fermentazioni controllate su verdure, frutta e pani e gestiscono la maturazione lenta di impasti e prodotti freschissimi in celle climatiche dedicate, così da ottenere aromi complessi e texture ideali. Il monitoraggio digitale delle scorte e delle scadenze consente di servire piatti sempre al massimo della qualità, con attenzione alle variabili di ogni singolo ingrediente e stagione. Questa visione inclusiva e scientifica della dispensa, insieme a una creatività che fonde ricerca e territorio, ha reso Attica un riferimento mondiale per la ristorazione evoluta e sostenibile.
Uno sguardo alle tecnologie d’avanguardia in fase di sperimentazione
• La tecnologia PEF (Pulsed Electric Field) rappresenta un punto di svolta nella conservazione. Il principio è tanto elegante quanto efficace: brevi impulsi elettrici ad alta intensità –dell’ordine di 20-80 kV/cm per pochi microsecondi – attraversano l’alimento, creando micro-pori nelle membrane cellulari dei microrganismi patogeni e alterativi. Questa permeabilizzazione irreversibile ne causa l’inattivazione senza generare calore significativo, preservando
così vitamine termolabili, enzimi benefici e, soprattutto, le caratteristiche organolettiche originali di carni, frutti, latticini e succhi freschi. Il processo richiede fino al 90% di energia in meno rispetto alla pastorizzazione termica tradizionale, prolungando la shelf-life di settimane mantenendo intatto il carattere del prodotto fresco.
• La surgelazione criogenica utilizza azoto liquido (-196°C) o anidride carbonica liquida (-78°C) per ottenere velocità di congelamento estremamente elevate – fino a 10 volte superiori ai sistemi meccanici tradizionali. Questa rapidità è cruciale: attra-
versando velocissimamente la zona critica tra 0°C e -5°C, si formano microcristalli di ghiaccio che non danneggiano le strutture cellulari dell’alimento. Il risultato è la preservazione della texture originale, la minimizzazione della perdita di liquidi allo scongelamento (drip loss) e il mantenimento pressoché integrale del valore nutrizionale. Abbinata a imballaggi intelligenti dotati di sensori TTI (TimeTemperature Indicators) e biosensori che rilevano composti volatili indicatori di deterioramento, questa tecnologia offre un controllo qualitativo in tempo reale lungo tutta la filiera.
• La digitalizzazione porta sistemi IoT (Internet of Things) nelle celle frigorifere e negli ambienti di stoccaggio: sensori wireless monitorano continuamente temperatura, umidità relativa e persino concentrazioni di gas (etilene, CO₂, O₂) negli spazi di conservazione. Attraverso piattaforme cloud e algoritmi predittivi, questi dispositivi non si limitano a registrare dati, ma analizzano trend, inviano allarmi preventivi prima che si verifichino criticità e suggeriscono azioni correttive. L’automazione riduce drasticamente l’errore umano e consente
una gestione dinamica delle scorte, diminuendo gli sprechi fino al 30% e ottimizzando l’efficienza energetica complessiva.
• Le biotecnologie stanno sviluppando rivestimenti edibili a base di polisaccaridi, proteine e lipidi che creano barriere selettive contro ossigeno e umidità, mentre la blockchain alimentare registra ogni passaggio della filiera in ledger immutabili e tracciabili. Ogni scansione – dal campo al frigorifero del ristorante – crea un record verificabile che garantisce autenticità, provenienza e rispetto
della catena del freddo, restituendo quella fiducia diretta che un tempo nasceva solo dalla conoscenza personale del produttore.
L’approccio allo sviluppo di queste tecnologie ci indica una direzione precisa: il futuro è delle cucine dove sicurezza microbiologica, qualità sensoriale e sostenibilità ambientale si fondono in un’unica filosofia operativa, al servizio di una ristorazione che custodisce il sapore autentico guardando al domani.
Igienizzazione e conservazione senza riscaldamento tramite impulsi elettrici, efficace su carne, frutta, latte, birra, succhi
Surgelazione ultrarapida con azoto liquido/ CO2, microcristalli, preservazione qualità
Alternative vegetali, fermentazione di precisione, ingredienti innovativi, processi sostenibili
Film attivo antimicrobico per prevenire batteri tipo Listeria e Salmonella
Prolungamento shelf life, minor uso di energia, nessun conservante chimico
Migliore consistenza, rapidità, shelf-life più lunga
Controllo qualità, allerta deterioramento, antispreco
Nuove materie prime, personalizzazione, maggiore salute
Sicurezza igienica, shelf-life più lunga
Prototipi e validazione preindustriale
Sistemi industriali, impianti pilota
Prodotti pilota e ricerca partnership
Ricerca e applicazioni commerciali
Fase di prototipazione e validazione
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storie di pizza
CLAUDIO ALVICOLO
LA BUONA PIZZA DI ORVIETO
di Noemi Caracciolo
Claudio Alvicolo, classe 1965, titolare dell’omonima pizzeria sita nel cuore di Orvieto, in Umbria, ha fatto della pizza la sua forma d’arte. La sua storia, ricca di passione, è nata in famiglia, segnata dagli impasti che preparava la sua mamma. La sua filosofia si basa su un'idea semplice: la pizza deve essere un'esperienza gastronomica a tutti gli effetti, degna di un ristorante e, soprattutto, deve essere incredibilmente digeribile. Un percorso, quello di Claudio, che lo ha portato insieme ai fratelli, a creare dapprima il "Charlie", e poi "Claudio Alvicolo". Sintesi d’amore, gusto e innovazione. Claudio, raccontami: chi sei? Come e quando hai deciso di diventare un pizzaiolo’
Nel 1978, quando avevo tra i 13 e i 14 anni, i miei genitori, che facevano tutto un altro mestiere - papà operaio e mamma casalinga - decisero di intraprendere questa strada e comprarono un piccolo locale in periferia.
Cioè, dal nulla i tuoi genitori hanno deciso di stravolgere la propria vita?
Sì. Immagina, nel ‘78 c’erano quei bar con il banconcino e tre teglie di pizza sopra. Piccolissimi. E, in quella attività, ci sono rimasti un anno. Dopo un anno, si sono trasferiti nel centro storico di Orvieto. Era una pizzeria / tavola calda. Il bancone diventò di 4-5 metri. E io ho iniziato lì, avevo 14-15 anni, andavo a scuola. Finché non ho messo le mani in pasta.
È stato in quel momento che hai capito di voler continuare? Molti, crescendo in un’attività, se ne discostano.
No, a me assolutamente non è successo. Io ho iniziato lì, poi ho smesso di andare a scuola e mi ci sono infilato al 100%. Nel
1989 abbiamo aperto la prima pizzeria da soli, io, mio fratello Stefano e mia sorella Stefania. I miei genitori hanno continuato con la loro attività. E noi abbiamo aperto la pizzeria “Charlie” di Orvieto nel 1989.
Ma chi ti ha insegnato a fare la pizza? I tuoi genitori facevano un altro lavoro.
Lo so, però all’epoca ti garantisco che mia madre faceva una pizza che piaceva a tutti. Pizza in teglia all’epoca.
E, poi, come si è evoluta la cosa?
Allora, 1989: si libera un fondo vicino a noi di 180 mq e decidiamo di aprire esclusivamente una pizzeria al piatto. Non più tavola calda. Apriamo il “Charlie” - noi tre fratelli - e siamo stati là per circa 20 anni.
storie di pizza
Poi, c’è stata l’opportunità di trasferirci in un locale più grande, con un giardino. Ci siamo trasferiti. Nel 2019, dopo tanta formazione, abbiamo deciso di aprire “Claudio Alvicolo”. Al “Charlie” facciamo pizza classica. Diciamo stile napoletano, non napoletana, però, per farti capire, pizza classica. Dopo le esperienze formative che ho avuto con la Scuola Italiana Pizzaioli e l’Università della Pizza, abbiamo deciso di aprire una pizzeria, chiamiamola “gourmet”… Ma a me proprio “gourmet” non piace: è una schifezza proprio già come nome, no?
Sono d’accordo.
La mia idea è che è sempre un lievitato. Altrimenti, mi prendo una pizza fatta anche con i piedi, la taglio in sei e diventa “gourmet”.
Perché proprio “Claudio”? Perché sei tu che fai la pizza?
Sì, io faccio la pizza. Al “Charlie” ci sono i miei fratelli. Mia sorella Stefania, mentre mio fratello è sommelier.
Senti, ma qual è la filosofia che guida il tuo locale?
La filosofia è di far provare un’esperienza diversa. Io ho tolto dalla testa dei miei clienti l’idea di “andiamo a mangiare una pizzetta al volo”. No, qui non succede. Non è che puoi venire qui, mangi la pizzetta al volo. Vieni, ti siedi, prenoti. Puoi fare la degustazione dei nostri 5 impasti, puoi bere una cola, una birra artigianale, un calice di champagne. Vai a cena, ti siedi e ti rilassi.
Ma tu hai una priorità in particolare?
Non so, che la pizza debba essere innovativa, territoriale, digeribile?
La priorità? Allora, la prima priorità è che sia digeribile. Io questa cosa la riscontro sempre con clienti che non mangiano pizza da anni. Poi la vengono a mangiare, ritornano e dicono: “io non ho sentito niente”. Questo succede frequentemente. Ho dei diabetici, per esempio, che riescono a mangiare tutta la serata e non gli dà fastidio. Però, non chiedermi il segreto perché non c’è, io non lo so.
Probabilmente è legato all’approccio verso gli impasti. Sono cinque, giusto?
Allora, l’impasto classico e l’impasto crunch, la teglia, nascono da una biga. Biga fermentata 16 ore, con lievito di birra. Non uso il lievito madre, assolutamente.
Perché?
Perché l’ho provato e secondo me rende il risultato diverso. Il lievito di birra usato correttamente è dieci volte meglio. Questa è una mia convinzione. Poi faccio un padellino con impasto diretto, integrale, cotto al vapore. Poi, il quarto impasto è con farina di mais frantumata e semi di girasole. Questo viene farcito con la tartare di manzo. Infine, il quinto impasto è con farina di segale e semi di sesamo e chia. Quello viene farcito con prosciutto speciale, ad esempio cinta senese.
Tu hai accostato ogni impasto a una farcitura specifica.
Esatto. Allora io faccio tre marinare, tre margherite; poi, per il crunch, ci sono cinque gusti; il “golosa” sono tre gusti con tre pesci, mais e carne, segale e cinta senese o un altro tipo di prosciutto. Se mi chiedono quell’impasto con un altro condimento, non lo faccio assolutamente. Nemmeno a mia moglie.
E quanto ci hai messo ad arrivare a queste combinazioni?
È esperienza, 35 anni. Poi, ci sono arrivato forse anche per intuito. Quando ho deciso di farcire la focaccia al mais con la tartare, non ci credevo tanto. In realtà è una delle pizze che lascia scioccati.
Tu quanto peso dai agli ingredienti del territorio?
Allora, per quel che è possibile, il 100%. Per esempio, per la tartare, tutte le sere alle 7, mando un whatsapp al macellaio, lui me la macina e me la porta. Siamo a 50 metri. La verdura la prendo dal mercato rionale qui vicino. Il prosciutto è di cinta senese, qui al confine con la Toscana. D’altro canto, la mortadella non c’è. Così come la mozzarella di bufala.
QUALITÀ E NUMERI:
IL FUTURO DELLE
PIZZERIE PASSA
DALL’ORGANIZZAZIONE
di Enrico Bonardo, Direttore commerciale e marketing di Scuola Italiana Pizzaioli
La pizza è un prodotto artigianale ma il mercato di oggi richiede di unire qualità e numeri. Una pizzeria moderna non può basarsi solo sul talento del singolo pizzaiolo: deve saper produrre volumi importanti senza perdere la propria identità. Per riuscirci, serve un’organizzazione di tipo industriale applicata al mondo artigianale, perché non basta più “saper fare la pizza”, occorre gestire un’impresa con processi strutturati e ottimizzati. Il primo passo è affidarsi alla tecnologia: impastatrici evolute, celle di fermentazione programmabili con lo smartphone, abbattitori e forni ad alta produttività garantiscono risultati costanti e riduzione dei tempi morti, rendendo replicabile la qualità anche quando la produzione cresce. Alcuni stili, come la pala romana o la pizza in teglia, si prestano bene a questa logica grazie alla possibilità di precuocere e rigenerare in servizio, con vantaggi sui flussi di lavoro e sulla riduzione degli sprechi. A ciò, si aggiunge il controllo del food cost: elemento decisivo per mantenere margini sostenibili senza compromessi sulla materia prima. Allo stesso modo, la gestione del personale deve essere improntata a criteri moderni: ruoli chiari, turni pianificati e formazione continua creano un team coeso e performante. Quello che manca oggi a molte pizzerie non è la qualità della pizza ma una mentalità imprenditoriale capace di leggere numeri, investire in attrezzature, formare risorse e governare i conti economici con metodo. La formazione, in particolare, è il vero motore del cambiamento: non solo tecnica ma anche organizzativa e manageriale. Investire in competenze significa ottenere risultati concreti in termini di efficienza, qualità e redditività. La pizzeria del futuro non sarà quella che produrrà di più ma quella che saprà unire cuore artigianale e testa imprenditoriale, trasformando l’organizzazione in valore aggiunto e garanzia di successo.
Gli impasti sono tanti e diversi. Se un cliente viene e chiede un consiglio, cosa gli suggerisci?
L’impasto classico. Doppia cottura. È idratato al 90%. Io la mattina gli faccio la prima cottura al 50-60%, appena si caramellizza lo sforno e lo faccio freddare. La sera tu ti trovi con questa pizza alveolata, non molle. La condiamo come Marinara o Margherita. Questo impasto rimane friabile, croccante. Il bordo pronunciato, ma non è molle. È quello che piace a tutti.
Se dovessi scegliere il tuo preferito?
È questo, sì.
C’è stato un momento in questi anni in cui hai pensato: “se avessi fatto una scelta diversa”?
Ma è normale. Se magari avessi continuato gli studi, sarei diventato ingegnere e ormai sarei quasi all’età della pensione.
Invece no. Mio padre mi voleva far arruolare. Mi diceva: “saresti diventato maresciallo e già stai in pensione”. E io: “lo so, ma io ho voluto fare altro”. Non mi sono mai pentito. Non tornerei indietro.
Sei innamorato del tuo lavoro?
Sì.
E te la ricordi la prima pizza che hai fatto?
Certo. Quando aprimmo il “Charlie”, primo aprile 1989. Tutto pronto per l’inaugurazione con parenti e amici. Arriva una guida con un pullman di 48 tedeschi che volevano cenare. Loro non sapevano fosse un’inaugurazione. Li abbiamo fatti sedere, io mi sono fiondato dietro al bancone, ho cominciato a spianare la pizza col mattarello e li abbiamo fatti mangiare. Da quel momento non sono più uscito da quella postazione. Alla fine, parenti e amici servivano la pizza, le bibite, sparecchiavano. Non eravamo proprio organizzati e pronti e, invece, fu un inizio col botto.
Ma chi aveva impastato quel giorno?
Quell’impasto lo avevamo preparato prima, con mia madre. Se mi chiedi che impasto facessimo, non te lo so dire: acqua e farina mischiata, giù tanto lievito e via.
La pizza della mamma è sempre la più buona in fondo.
Sì, infatti, tutto è partito da lì.
Dunque, proponete anche degli accostamenti con il vino?
Sì. Anche con la birra ma io preferisco il vino.
Io pure.
Con birra è scontato secondo me, molti chiedono “la birretta” e io la birretta non ce l’ho, non uso birre commerciali. Per il vino, tu preferisci con bollicine o senza?
Senza.
Bene, bene. Personalmente non amo le bollicine, per me bianco secco; ci sono clienti che bevono bollicine tutte le sere.
Ma, se io venissi lì con mio marito, vino a parte, cosa mi faresti provare?
Marinara classica divisa in due, 3 spicchi a testa; una golosa integrale cotta al vapore, 2 spicchi con gamberi crudi e due con capesante. E, per finire, creme caramel fatto da me, di cui vado fiero.
storie di pizza
FABRIZIO TROPEA
IL GUSTO AUTENTICO DELLA PIZZA
di Giusy Ferraina
Fabrizio Tropea è un pizzaiolo di Albairate, in provincia di Milano, un tipo dalla faccia simpatica, capace di trasmetterti allegria con un sorriso, che sfoggia un’espressione a metà tra lo sfacciato e il risoluto (in senso buono, ovviamente) che ricorda uno dei tanti personaggi interpretati da Jerry Calà nei film di fine anni ‘80.
Basta cercarlo su Instagram e guardare uno dei suoi video mentre spiega le sue pizze: sguardo fisso in telecamera, gesti sicuri, tanta passione per la tonda, condita da un accento milanese e da una grande dose di spontaneità. Per chi conosce Tropea, confermerà che quello che si vede e quel suo modo di fare non è un personaggio “acchiappa click” ma proprio Fabrizio, un pizzaiolo innamorato del suo lavoro che, negli ultimi tempi, si è caricato di una missione: svecchiare la pizza da una visione provinciale e portarla a essere un’esperienza.
Niente di nuovo all’orizzonte se viviamo a Roma, Milano, in Campania o se siamo dei “pizza addicted” pronti a partire per assaggiare le creazioni dei grandi maestri. Le cose cambiano abbastanza quando il terroir si restringe e la pizza è vista come un diversivo del weekend, un comfort food o un momento di convivialità. Curiosi, dunque, della sua ricerca del gusto autentico e dell’esperienza gli abbiamo fatto qualche domanda.
Fabrizio, come ti sei avvicinato alla pizza e cosa ti piace della pizza?
Ho iniziato a lavorare nelle pizzerie come rider a 14 anni, poi nel tempo sono passato a fare la linea e poi a fare le pizze, fin quando - a 23 anni - non ho deciso di aprire una pizzeria d’asporto tutta mia a Robecco sul Naviglio, un paese non distante da qui. Nella mia famiglia, non ci sono pizzaioli, anzi la mia propensione all’arte bianca non era proprio ben vista; per i miei genitori, era quasi un capriccio, per me che ne ero letteralmente ammaliato era la mia strada. Ne ero certo: volevo costruire qualcosa di mio, da solo e così è stato… E ancora oggi quando i clienti mi dicono: “bravo”, quando assaggiano la
mia pizza e mi sorridono, capisco che la scelta è stata quella giusta. Dare gioia e far stare bene le persone con la mia pizza è
Sul sito della tua pizzeria dici “Pizzeria Il Point è una tappa obbligata se siete ad Albairate e amate il gusto autentico della pizza”. Ma qual è secondo te il gusto autentico della pizza?
Ho imparato a fare questo mestiere dai napoletani e quello che ho sempre cercato di fare, nonostante le variazioni sul tema e le personalizzazioni del prodotto, è il rispetto delle origini attraverso l’utilizzo del forno a legna, piuttosto che di alcu-
ni ingredienti. Nel mio scegliere la strada della contemporaneità mi piace sempre guardare al passato, proporre i sapori di una volta, diretti, riconoscibili, autentici per l’appunto.
Mi parli della tua pizza?
Lavoro con un pre-fermento, idratazione al 78% e un tempo tra lievitazione e maturazione che va dalle 48 alle 72 ore massimo. La mia pizza è contemporanea, cerco di essere sempre aggiornato su impasti e prodotti, punto molto alla leggerezza e alla digeribilità.
Da poco, ho sviluppato un impasto ai cereali, che sta avendo un discreto successo e, visto che sono uno molto attento e meticoloso, mi sono posto l’obiettivo di perfezionarlo fin quando non tiro fuori un “capolavoro”.
Hai una filosofia ben precisa dietro la tua pizza?
Pizzeria “Il Point” ha due menu, uno per la pizza cosiddetta classica e uno per quella creativa, dove propongo le mie ricette. Lavoro molto con prodotti locali, filiera corta e cerco di essere il più sostenibile possibile e sempre nel pieno rispetto delle stagioni. Per farvi un esempio: la pizza più local che ho è quella pensata in occasione della festa patronale di Albairate con crema di zucca, gorgonzola e una pasta di salame prodotte nelle cascine di zona. Qui ci trovi tutti i sapori del territorio. Confesso anche che - sebbene io parli milanese - le mie origini sono siciliane; sono legato alla Sicilia perché da bambino ci andavo in vacanza con i miei, che per l’estate “tornavano giù” e si andava con un lungo viaggio in macchina e una tappa
storie di pizza
fissa in Calabria, a Tropea (nomen omen – ndr). Quei viaggi ritornano tutti nelle mie pizze, dove utilizzo molto prodotti siciliani e ripropongo le ricette tipiche. Importante è che siano sempre prodotti stagionali, ben conservabili e di qualità.
Come definiresti la tua pizza?
Per me è la “mia” pizza, per chi viene a mangiare da noi è un’esperienza. Può sembrare una frase già sentita ma, in un paese e in una zona dove si mangiano per lo più pizze classiche, la mia risulta molto diversa sotto tanti punti di vista. A me piace lavorare sugli impasti e sui topping, personalizzare il prodotto ma senza snaturarlo, pensare ad abbinamenti nuovi, applicare una buona dose di cucina.
E, allora, dimmi: qual è la pizza che assolutamente bisogna provare se si viene da te?
Io consiglio sempre di provare “le mie ricette”, così si ha modo di capire cosa faccio, la mia ricerca, la mia personalità. Anche perché questa sezione tende a variare spesso, non solo per la stagione e per il prodotto a disposizione ma anche in base alla mia fantasia: sono uno molto estemporaneo e mi piace cambiare. Qui, ora, ti direi: “prova una semplice Margherita”, che non delude mai e che è fatta con una salsa di pomodorini gialli, mozzarella e in uscita pomodoro essiccato e gel di basilico.
Che rapporto hai con i social network e quanto è importante come pizzaiolo essere presente e raccontare il proprio lavoro?
Da un po’ di tempo mi sono aperto alla comunicazione social con dei video, dove racconto semplicemente come faccio le mie pizze. Non c’è niente di costruito, faccio tutto da solo e sono anche molto spontaneo in quello che dico. Sono come mi vedete, carico di energia positiva e soprattutto mi piace metterci la faccia quando racconto le mie “creature”.
Da quando mi sono esposto, ho capito che la comunicazione è necessaria sia per farti conoscere, parlare con lo stesso
linguaggio alle generazioni più giovani. E - cosa importante - al di là dei follower o dei nuovi clienti che arrivano (cosa che fa sempre piacere) è scoprire che sei fonte di ispirazione per altri pizzaioli su l territorio, che ti cercano per fare cose insieme o che guardano al tuo lavoro cercando di migliorare il proprio. È come se si fosse sbloccato qualcosa nella visione generale di questo lavoro. E sono felice di ciò.
C’è qualcosa che non ti piace del mondo social applicato alla pizza?
Non mi piace l’ignoranza diffusa e la costruzione del personaggio. Spesso vedo persone che, per avere più visualizzazioni e follower, fanno cose senza una logica, si inventano impasti o piatti assurdi, dicendo che sono i primi ad averli fatti, li presentano come grandi risultati di bontà ma, se uno li studia bene, sono cose che non funzionano, praticamente sbagliate. E tutto questo non è giusto per chi si approccia al web da autodidatta e cerca spunti online, perché impara cose sbagliate. E, poi, ci sono i famosi leoni da tastiera, altra categoria che non amo e altro male dei social. Per fortuna, ho a che fare con pochi e ho imparato a gestirli.
storie di pizza
CAMPIONI SI DIVENTA
...E LO SI È PER SEMPRE
di Antonio Puzzi
Giorgio Sabbatini è Campione del Mondo di Pizza in Pala 2025. Ma non solo. Giorgio ha, infatti, già vinto il Campionato, altre due volte: nel 2012 e nel 2017. E non ha mai smesso di partecipare. Giorgio è altresì uno storico Master Istruttore della Scuola Italiana Pizzaioli ma, nonostante questo, ama mettersi in gioco e raccontarsi attraverso il linguaggio che gli è più consono, la pizza.
Caro Giorgio, iniziamo questa chiacchierata facendoci un po’ i conti sulla tua età anagrafica… Quando hai iniziato a fare questo lavoro e perché?
A dicembre festeggio 40 anni di lavoro! Ho iniziato nell’85 perché i miei genitori hanno acquistato una pizzeria e a me attraeva perché si mettevano le mani in pasta, sentivo che potevo fare qualcosa di mio. Mi permetteva di stare fra la gente, protetto dal bancone. Da ragazzo adoravo la pizza, era tra i miei cibi preferiti e mi appassionava il profumo immediato questo mix di acqua e farina dava una profumazione che mi incuriosiva.
Sei un veterano dei Campionati del mondo… e anche delle vittorie! Cosa ti spinge ogni volta a metterti in gara?
“Ogni volta che entro in gara lo faccio per due motivi: da una parte la voglia di superare me stesso, di non accontentarmi di quello che ho fatto e, dall’altra, la passione che ho per questa professione. Ci metto il cuore, perché partecipare non è solo un trofeo: è un modo per crescere, sperimentare, confrontarmi con altri pizzaioli, imparare qualcosa di nuovo.
Anche dopo le vittorie — come quella al Campionato Mondiale della Pizza che ho conquistato — il senso non è “avercela fatta” e basta, ma chiedermi: «Cosa posso ancora fare meglio? Quale nuovo abbinamento, quale nuova tecnica, quale nuova storia posso raccontare con la mia pizza?»
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In fondo, il forno è il mio laboratorio, la farina la mia materia prima, ma la vera spinta è restare curioso, restare in viaggio.
E quando la sfida è sana, è un grande motore: mi ricorda da dove vengo, chi ero, e verso dove voglio andare.”
A proposito di Campionato del Mondo: che valore ha oggi?
“Per me il Campionato del Mondo della Pizza vale tantissimo, perché è il momento in cui il lavoro, la passione e i sacrifici di un anno trovano un riconoscimento. Non è solo una gara ma una famiglia che si ritrova per celebrare l’arte della pizza in tutte le sue forme. Vincere è una grande emozione ma partecipare con colleghi che condividono la stessa passione è già una vittoria.”
Se dovessi descrivere la tua pizza, come la racconteresti?
“La mia pizza è il riflesso di chi sono: passione, rispetto per la tradizione e voglia di innovare. Ogni impasto racconta un percorso fatto di studio e amore per le materie prime. È una pizza che parla italiana ma con un linguaggio moderno: leggera, digeribile, ma piena di carattere. Ogni morso deve lasciare un’emozione, non solo un sapore.”
Che tipo di professionista e che tipo di persona vuole essere “da grande”
Giorgio Sabbatini?
“Vorrei essere un punto di riferimento per le nuove generazioni di pizzaioli: qualcuno che dimostra che il talento conta, ma la costanza e l’amore per questo mestiere contano di più. Voglio essere un professionista che innova senza dimenticare le radici, e una persona che lascia un segno positivo — non solo nei piatti, ma anche nelle persone.”
Ecco, i giovani… Cosa consigli loro?
“Ai pizzaioli più giovani consiglio di avere pazienza e fame di imparare. Questo mestiere non si impara in un giorno: serve rispetto per la farina, per il forno e per chi ti insegna. Studiate, osservate, sbagliate e rifate. La passione è la vera forza: se ci mettete cuore, arriverà tutto — tecnica, riconoscimenti e soddisfazioni.”
LA BIRRA
Tre birre autunnali: il comfort perfetto per la stagione dei sapori
L'autunno è un periodo che porta con sé cambiamenti visibili: dai colori caldi delle foglie che cadono alla frenesia del ritorno a casa dopo una lunga estate. È anche la stagione dei sapori più ricchi e avvolgenti, che rispecchiano la freschezza della natura e il desi derio di rifugiarci in momenti di comfort. Se il cibo è sicuramente uno dei protagonisti di questa stagione, anche la birra trova il suo posto, adattandosi alle esi genze del palato con profili gustativi più complessi e profondi. Le birre autunnali, infatti, sono perfette per accompagnare piatti stagionali e per creare l’atmo sfera giusta durante le serate fresche. In questo arti colo, esploreremo tre stili di birra che rappresentano il meglio di ciò che l’autunno ha da offrire, perfetti per chi cerca un’esperienza unica e appagante.
LA BIRRA
Il suo carattere complesso la rende anche una birra molto interessante da degustare da sola, per apprezzarne appieno l’intensità e la varietà di sapori che si svelano ad ogni sorso. La sua morbidezza e il suo retrogusto persistente sono ciò che rende la stout un’ottima scelta per le fredde serate autunnali.
2. La Vienna Lager: equilibrio e armonia
Se la stout è la birra che incarna la robustezza e la potenza autunnale, la Vienna Lager rappresenta un’alternativa più delicata, ma altrettanto apprezzata per le sue caratteristiche equilibrate e la sua freschezza. Questo stile di birra, originario dell’Austria, è conosciuto per il suo colore ambrato brillante e per un corpo medio, che offre una sensazione di leggerezza pur mantenendo una buona complessità. La Vienna Lager si distingue per il suo pro-
Una delle caratteristiche più affascinanti di questo stile è proprio il suo equilibrio. La Vienna Lager non è mai troppo pesante, ma neppure troppo leggera, ed è proprio questa sua capacità di bilanciare dolcezza e amaro a renderla perfetta per l’autunno. La sua versatilità la rende un’ottima scelta per accompagnare piatti come carni bianche (pollo, tacchino), ma anche piatti a base di funghi o risotti autunnali. La delicatezza della birra si abbina perfettamente alla consistenza morbida dei piatti autunnali, creando un’armonia che è appagante senza mai risultare pesante.
Il profilo aromatico della Vienna Lager, che si arricchisce di note di frutta secca o di nocciola, si adatta perfettamente a piatti che celebrano il raccolto dell’autunno, come le zuppe di zucca, i risotti ai funghi o i piatti a base di carne stufata. Inoltre, la sua freschezza la rende un’ottima scelta per essere sorseggiata anche nei primi giorni autunnali, quando le temperature sono ancora miti e la voglia di qualcosa di rinfrescante non è completamente scomparsa.
Forno con alimentazione elettrica, dalle dimensioni contenute, concepito per la cottura di 1 o 2 pizze da 33 cm
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Forni a tunnel con tappeto di cottura in refrattario. Montato su ruote e configurabile per ogni esigenza. Disponibile anche con tecnologia Industria 4 0
Forni a tunnel con di cottura in refra Montato su ruote configurabile per esigenza. Disponi anche con tecnolo Industria 4.0.
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gredienti più simbolici della stagione: la zucca. Questo stile di birra è nato come un omaggio alla tradizione autunnale e ai sapori tipici di Halloween e del raccolto, con una ricetta che prevede l’inclusione di zucca cotta, spezie come cannella, noce moscata, chiodi di garofano e zenzero. Il risultato è una birra che sa di casa, di piatti cucinati con amore e di aromi che richiamano la dolcezza della stagione.
La Pumpkin Ale si abbina bene con piatti come il risotto alla zucca, le torte di mele o i piatti a base di carne di maiale, che ben si sposano con il profilo aromatico della birra. La sua versatilità la rende anche un’ottima scelta per accompagnare formaggi stagionati o piatti a base di funghi, ma anche dolci come biscotti speziati, crostate di frutta o dolci al cioccolato. LA BIRRA
L’autunno e la birra: una stagione da scoprire
La Pumpkin Ale si distingue per il suo colore dorato o ambrato e per il sapore morbido e speziato che la rende unica. Le note dolci della zucca si combinano perfettamente con le spezie, creando una birra che non è mai troppo invadente, ma che sa conquistare il palato con la sua dolcezza bilanciata da una lieve amarezza. Questo stile di birra è perfetto per l’autunno perché evoca immediatamente l’atmosfera calda e accogliente delle prime serate fresche, quando il desiderio di qualcosa di confortante è più forte che mai.
L’autunno è una stagione che stimola i sensi, grazie ai colori caldi, agli odori della natura e, naturalmente, ai sapori che caratterizzano i piatti e le bevande di questo periodo. Le birre autunnali sono l’occasione perfetta per scoprire nuovi gusti e abbinamenti, ma anche per ritrovare la tradizione che sa di casa e di convivialità. Che si tratti di una stout corposa, di una Vienna Lager equilibrata o di una Pumpkin Ale speziata, ogni birra autunnale ha il potere di evocare emozioni e sensazioni che arricchiscono il piacere di una serata in compagnia.
Queste tre birre autunnali rappresentano il meglio della stagione, ognuna con un carattere unico, ma tutte in grado di accompagnare al meglio i piatti più ricchi e saporiti che questa stagione ci offre. Sia che si tratti di una serata tranquilla a casa, di una cena con gli amici o di una festa autunnale, le birre giuste sono un ingrediente fondamentale per rendere ogni momento speciale. Concludere una giornata autunnale con una buona birra è un modo perfetto per godere appieno della bellezza di questa stagione, riscoprendo il piacere delle cose semplici ma buone.
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Il sodio nascosto nella pizza: quanto sale mangiamo davvero?
Ilsale è entrato a far parte dell’alimentazione in epoche antichissime, originariamente come conservante e poi per insaporire i cibi. Uno dei principali componenti del sale è il sodio, elemento indispensabile per il corretto funzionamento dell’intero organismo che regola il passaggio di liquidi e sostanze nutritive attraverso le cellule ed interviene nella trasmissione degli impulsi nervosi. L’assunzione di sale iodato, invece, contribuisce a prevenire le patologie della tiroide, piccola ghiandola alla base del collo. L’eccessivo consumo giornaliero di sodio, però, è uno dei principali fattori di rischio per l’ipertensione arteriosa perché il sale, trattenendo i liquidi, assorbe anche parte dell’acqua di cui è composto il sangue rendendolo più denso. Di conseguenza il cuore, per poter fare arrivare il sangue ai diversi organi e tessuti, deve lavorare di più, provocando un aumento della pressione sanguigna, principale causa di insorgenza di patologie cardio-cerebrovascolari.
Un consumo eccessivo, quindi, di sale può determinare un aumento della pressione arteriosa, con conseguente aumento del rischio di insorgenza di malattie cardio-cerebrovascolari e non solo. Parliamo di ictus cerebrale, infarto del miocardio, scompenso cardiaco e non in ultimo insufficienza renale. Altri effetti conseguenti all'abuso di sale sono rappresentati dal rischio di calcolosi renale ed aumentato rischio di tumore allo stomaco. Infine, dato che l'eccesso di assunzione di sale comporta una maggiore perdita urinaria di calcio, anche il metabolismo dell'osso ne soffrirà, con maggiore tendenza all'osteoporosi. Un altro caso in cui è bene tenere il consumo di sale sotto controllo è la gravidanza. Un consumo eccessivo potrebbe, infatti, causare l’ipertensione gravidica che può provocare gestosi. Il sale contenuto naturalmente negli alimenti che assumiamo rappresenta una quota mediamente molto bassa, che non supera il grammo al giorno, vale a dire circa un quinto del limite, ad oggi, consigliato per l’adulto (5 grammi).
Tuttavia, è del tutto sufficiente per il benessere del nostro organismo. Frutta e verdura, in particolare, contengono pochissimo sodio, mentre la quota è leggermente più alta nei prodotti di origine animale, in particolare quelli ittici come molluschi, cozze e vongole che sono tra i pochissimi alimenti ricchi di sale. Il sale si nasconde in tutti gli alimenti trasformati su base industriale ed artigianale. Le principali fonti di sodio sono sicuramente il pane, e con esso tutti i vari prodotti da forno, formaggi, salumi, condimenti ed alimenti, ovviamente, conservati sotto sale. Pensiamo, ad esempio, a prodotti come tonno, sgombro, salmone od ancora pistacchi, arachidi e lupini. In natura contengono pochissimo sodio, ma quando vengono inscatolati e conservati in varia maniera viene aggiunta una notevolissima quantità di sale diventando un problema per la nostra salute.
La prima raccomandazione fornita dall’OMS per la riduzione del consumo di sale, rappresenta l’invito a non assumere più di 5 grammi di sale al giorno, vale a dire circa 2 grammi di sodio.
Per persone con problemi cardiovascolari e renali,
e per gli anziani, il consumo di sale deve essere ridotto ulteriormente.
I bambini dovrebbero assumere meno di 2 grammi di sale al giorno: l’aumento di pressione arteriosa, responsabile dei principali effetti negativi derivati da un consumo eccessivo di sale, infatti, conduce alla perdita di elasticità delle arterie, causandone irrigidimento, fin dalla tenera età. L'attuale consumo giornaliero di sale nei paesi europei varia tra 8 g e 19 g, ben al di sopra di questa raccomandazione.
In Italia il consumo di sale nella popolazione adulta è in media circa doppio rispetto alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e maggiore nelle regioni del Sud (11 grammi al giorno), rispetto a quelle settentrionali e centrali. Sarebbe, dunque, importante che si diminuisse progressivamente la quantità di sale usata per cucinare, in maniera tale da permettere al palato di adattarsi al nuovo gusto. Così facendo potremo tornare ad apprezzare il sapore naturale degli alimenti. Se non si vuole rinunciare alla possibilità di insaporire i cibi si possono usare, ad esempio, aromi, spezie, limone, peperoncino, pepe ed erbe varie. Fondamentale è anche controllare le etichette dei prodotti alimentari prima di acquistarli, così da scegliere quelli a minor contenuto di sale. Questo vale soprattutto per il pane che consumiamo in grandi quantità, ma anche per prodotti surgelati come pizze e minestroni.
Un altro consiglio può essere quello di scolare e sciacquare verdure e fagioli in scatola per togliere il sale aggiunto.
Visto che la maggior parte del sale arriva da alimenti pronti, bisogna, spingere le industrie a riformulare i prodotti. A livello istituzionale sono stati sottoscritti protocolli d’intesa fra il ministero della Salute e le associazioni di panificatori artigianali, le associazioni delle industrie alimentari e quelle dei produttori di pane industriale, che prevedono l’impegno volontario a ridurre del 10% il contenuto di sale nel pane fresco, nei sostituti del pane, in alcuni piatti pronti, nei surgelati e nella pasta fresca. Rimanendo sui prodotti da forno, una pizza margherita contiene circa 4 g di sale, ma una al salame può superare i 6 g.
Fonti di sodio nella pizza
• Impasto: L'impasto viene preparato con sale per migliorarne il sapore, la lievitazio ne e la consistenza.
• Formaggio: Formaggi come la mozzarella e il parmigiano, utilizzati per guarnire la pizza, sono una delle principali fonti di sodio.
• Salsa di pomodoro: Spesso la salsa è addi zionata di sale, soprattutto se preconfezio nata, per esaltarne il sapore e prolungarne la conservazione.
Consigli per ridurre
l'assunzione di sodio
Quanto sodio...?
• Condimenti a base di carne: I salumi come salame piccante, prosciutto cotto o crudo, e salsiccia sono noti per essere ricchi di sodio, in quanto il sale è un ingrediente fondamentale per la loro lavorazione.
• Altri condimenti: Ingredienti come le olive, i capperi ed acciughe, che vengono conservati in salamoia, aggiungono un notevole apporto di sodio.
• Scegliere condimenti freschi: Preferire condimenti come verdure fresche, basilico o altri aromi per insaporire la pizza.
• Controllare l'etichetta: Se si acquistano prodotti preconfezionati, leggere attentamente le etichette nutrizionali per confrontare il contenuto di sodio. Alcuni marchi offrono opzioni a basso contenuto di sodio.
• Pizze più sane: Optare per pizze con verdure fresche anziché con salumi, e chiedere meno formaggio o una variante a basso contenuto di sodio.
• Porzioni moderate: Limitare il consumo ad una volta a settimana ed integrare il pasto con altri alimenti a basso contenuto di sodio, come un'insalata verde fresca.
circa 4 gr. quantità che ognuno consuma in media ogni giorno
circa 2 gr. quantità MASSIMA giornaliera consigliata
circa 2 gr. in 300 gr di pizza rossa o bianca
circa 1,3 gr. in 50 gr. di prosciutto crudo dolce
circa 1 gr. in un piatto di pasta pronta surgelata
circa 0,5 gr. in 3 gr. di dado da brodo
circa 0,5 gr. in 100 gr. di fagioli in scatola
circa 0,35 gr. in 50 gr. di prosciutto cotto
circa 0,3 gr. in 50 gr. di parmigiano
circa 0,3 gr. in un pacchetto di crakers
circa 0,15 gr. in una fetta di pane
quasi nulla in una fetta di pane "toscano" sciapo
quasi nulla in frutta e verdura fresca
Un viaggio nel mondo dei surgelati e dei prodotti a lunga conservazione gluten free
di Alfonso Del Forno
L’ALIMENTAZIONE SENZA GLUTINE
È DIVENTATA UNA VERA E PROPRIA ESIGENZA PER MILIONI DI PERSONE IN TUTTO IL MONDO, MA NEGLI ULTIMI ANNI SI È TRASFORMATA ANCHE IN UNA FILOSOFIA GASTRONOMICA.
La crescente consapevolezza sulla celiachia e le intolleranze al glutine ha spinto l’industria alimentare a evolversi, offrendo una vasta gamma di prodotti senza glutine, tra cui surgelati e alimenti a lunga conservazione. Questi ultimi hanno aperto nuove opportunità per chi segue una dieta senza glutine, permettendo loro di godere di piatti convenienti, pronti e soprattutto sicuri, senza rinunciare al gusto.
In questo viaggio nel mondo dei surgelati e dei prodotti a lunga conservazione gluten free, esploreremo le varie opzioni disponibili, come sono prodotti, e come questi alimenti hanno risposto alle esigenze di chi è intollerante al glutine, senza sacrificare la qualità e la varietà. In particolare, vedremo come questi prodotti abbiano rivoluzionato anche il settore Ho.Re. Ca., offrendo nuove soluzioni per ristoranti, pizzerie e bar.
LA RIVOLUZIONE DEI
SURGELATI GLUTEN FREE
Quando si parla di surgelati, il primo pensiero va a piatti pronti e alimenti confezionati che si conservano per lungo tempo nel congelatore, pronti per essere consumati in qualsiasi momento. Ma nel mondo della cucina senza glutine, i surgelati sono molto più che una soluzione comoda per il consumo quotidiano; sono un’opportunità per portare sulla tavola piatti gustosi, nutrizionali e sicuri.
I surgelati senza glutine, infatti, sono una delle categorie di prodotto che ha visto un’evoluzione impressionante negli ultimi anni. Piatti pronti, pizze, pasta, snack, verdure, frutta e persino dolci: tutti disponibili senza glutine e pronti in pochi minuti, rispondendo a un bisogno crescente di alimenti pronti all’uso che possano soddisfare le esigenze alimentari di celiaci, ma anche di chi sceglie il senza glutine per motivi di salute o di stile di vita.
L’introduzione di questi alimenti è stata una vera e propria svolta per il mercato, che ha risposto con prodotti sempre più elaborati, ma anche più sani e convenienti. Le aziende produttrici hanno compreso che, per incontrare il favore del consumatore gluten free, non basta semplicemente toglie-
re il glutine; è necessario garantire anche un gusto che non faccia sentire la differenza rispetto ai tradizionali prodotti contenenti glutine.
Le pizze surgelate senza glutine sono un esempio lampante di questa evoluzione. Inizialmente, le opzioni disponibili sul mercato erano limitate e di bassa qualità, con basi di pizza spesse, gommose e con sapori poco convincenti. Oggi, le pizze surgelate gluten free sono diventate un must per molte famiglie, grazie a impasti leggeri e croccanti, e a ingredienti di alta qualità che non hanno nulla da invidiare alle versioni tradizionali. Lo stesso vale per altri piatti pronti come lasagne, ravioli e piatti unici, che con l’uso di farine senza glutine hanno conquistato una nuova clientela, soddisfacendo il desiderio di cibi pronti ma buoni.
IL RUOLO NEL
SETTORE HO.RE.CA:
UN’OPPORTUNITÀ PER RISTORATORI E PIZZERIE
Il mondo del senza glutine ha visto negli ultimi anni una vera e propria esplosione nel settore Ho.Re.Ca. (hotel, ristoranti, catering), dove la domanda di piatti gluten free è aumentata considerevolmente. Molti ristoratori e pizzerie, anche quelli che non hanno spazi adeguati o attrezzature per la preparazione di piatti senza glutine in ambienti separati, hanno trovato nei prodotti surgelati e a lunga conservazione gluten free una soluzione pratica e sicura per soddisfare questa richiesta crescente.
Un esempio emblematico è il boom delle basi per pizza pronte senza glutine. Le pizzerie, che spesso non hanno a disposizione aree dedicate o linee separate per la preparazione di
piatti gluten free, possono ora servire pizze senza glutine in modo semplice e veloce, grazie all’utilizzo di basi di pizza già pronte. Queste basi sono realizzate con impasti di alta qualità, che permettono di ottenere una crosta croccante e saporita, senza la necessità di dover impastare o lavorare la farina senza glutine in loco.
Questo tipo di prodotto ha semplificato notevolmente la vita ai ristoratori, consentendo loro di offrire un’opzione gluten free senza compromettere la qualità o aumentare i costi operativi. Le basi per pizza pronte senza glutine, infatti, sono una soluzione economica e pratica, che elimina il rischio di contaminazione incrociata, grazie alla produzione in ambienti controllati, e riduce al minimo il tempo di preparazione.
Anche altri prodotti surgelati, come piatti pronti, snack o antipasti senza glutine, sono diventati una risorsa fondamentale per i ristoratori che desiderano diversificare l’offerta senza dover investire in strutture speciali. Questi alimenti permettono ai locali di offrire un’ampia scelta ai propri clienti, senza dover cambiare radicalmente la loro organizzazione o formazione del personale.
LA QUALITÀ: NON SOLO ASSENZA DI GLUTINE
Nonostante la varietà e la praticità dei prodotti surgelati e a lunga conservazione senza glutine, la qualità rimane uno degli aspetti fondamentali nella scelta dei consumatori. La possibilità di trovare sul mercato prodotti che siano non solo sicuri per chi soffre di celiachia, ma anche buoni e sani, ha spinto le aziende a migliorare costantemente le loro offerte.
Molti produttori oggi utilizzano ingredienti naturali e biologici, puntando su materie prime di qualità che rispettano i principi di una dieta equilibrata. La tendenza è quella di evitare l’uso di conservanti, additivi e aromi artificiali, preferendo invece ingredienti freschi e ricette più semplici. Questo approccio ha portato alla nascita di numerose linee di prodotti gluten free che non solo sono sicuri, ma anche ricchi di sapore, nutrienti e leggeri.
Un altro aspetto che ha avuto un grande impatto sulla qualità è l’innovazione nelle tecniche di produzione. L’uso di tecnologie avanzate per la surgelazione e la conservazione a lunga durata ha reso possibile ottenere prodotti che mantengono il sapore, la freschezza e la consistenza, senza compromettere le proprietà organolettiche originali. Grazie a queste tecnologie, i prodotti senza glutine non solo sono più convenienti, ma sono anche più gustosi e appetitosi rispetto a quelli di una volta.
UN FUTURO SEMPRE PIÙ
GLUTEN FREE
Il mondo dei surgelati e dei prodotti a lunga conservazione gluten free ha fatto passi da gigante, offrendo a chi segue una dieta senza glutine una vasta gamma di opzioni pratiche, sicure e gustose. La crescita di questa categoria è una risposta diretta all’aumento della domanda di alimenti senza glutine, ma è anche il frutto di un cambiamento culturale che ha visto il senza glutine evolversi da una necessità medica a una scelta alimentare consapevole. Oggi, i consumatori non solo cercano prodotti privi di glutine, ma anche cibi sani, gustosi e convenienti.
Con un mercato in continua espansione e con l’innovazione che gioca un ruolo sempre più rilevante, il futuro dell’alimentazione senza glutine sembra promettente. I prodotti a lunga conservazione e i surgelati gluten free rappresentano una risorsa fondamentale per tutti coloro che desiderano un’alimentazione equilibrata, sicura e gustosa, senza dover rinunciare alla praticità e alla qualità. Grazie a soluzioni innovative, i ristoratori possono ora offrire piatti gluten free con maggiore facilità e sicurezza, rispondendo così alle richieste di una clientela sempre più attenta e consapevole.
La cottura non va a rotoli
Grazie alla sua forma ottagonale, Il Faggetto resta stabile sulla platea.
È più maneggevole da mettere in forno e anche più pratico da immagazzinare, nella confezione da 18 kg con 8 bricchetti. La differenza si vede subito!
Le altre "farine"
di Caterina Vianello
La storia gastronomica del nostro Paese è contrassegnata spesso da ricette che derivano più dalla necessità che dal gusto, più da strategie di sopravvivenza che da scelte volute. Ne è un esempio l’ampia famiglia delle farine alternative che, in particolare in alcune zone d’Italia, ha lasciato tracce consistenti e molto gustose nella tradizione culinaria regionale.
Versatili, dal sapore caratteristico e impiegate trasversalmente sia per preparazioni salate che dolci, sono un universo da scoprire che riserva piacevolissime sorprese, ben oltre le più scontate zuppe e vellutate.
Farina di castagne
Si deve a Senofonte, nel IV secolo a.C. la definizione del castagno come “albero del pane”, termine che attraversa i secoli e rende giustizia ad una pianta i cui frutti trovarono notevole apprezzamento nel Medioevo, quando carestie, scarsità di raccolti o indisponibilità di cereali, costrinsero intere popolazioni a rivolgersi al castagno come alternativa al pane. Frutti saporiti e farinosi, le castagne sono raccolte in autunno, quando i ricci cadono spontaneamente dalla pianta. Estratte dai ricci, le castagne vengono sistemate in sacchi e portate in piccoli essiccatoi dove vengono essiccate per una ventina di giorni. Vengono quindi battute, per pulirle dal guscio e quindi tostate. L’ultima fase è quella della macinatura: poste in un mulino ad acqua o in pietra, macinate e setacciate, le castagne si trasformano in una farina dalla grana uniforme. Il sapore è peculiare e riconoscibilissimo per le note dolci e leggermente terrose.
Nel nostro Paese, ci sono due farine di castagne a marchio Dop che vale la pena conoscere e che dicono molto della tradizione della castanicoltura in Italia centrale.
La “Farina di Castagne della Lunigiana” è una delle eccellenze del territorio e, di fatto, la sua zona di produzione coincide con il territorio della Comunità Montana della Lunigiana. Le varietà di castagni da cui si ottiene sono: Bresciana, Carpanese, Fosetta, Marzolina, Moretta, Primaticcia, Rigola, Rossella e Rossola (Bresciana, Carpanese, e Rossola devono raggiungere almeno il 70%). Dopo la raccolta – che avviene tra il 29 settembre e il 15 dicembre – le castagne vengono essiccate in “gradili”, essiccatoi in muratura di pietrame, calce e sabbia, a due piani, il cui pavimento è di lastre di pietra arenaria.
L’essiccazione deve avvenire a fuoco lento, usando solo legna di castagno, per almeno 25 giorni. Quindi le castagne vengono pulite dalla buccia esterna e ventilate a macchina per eliminare le impurità. Il Disciplinare prevede che il mulino non debba macinare più di 5 quintali di castagne secche al giorno: questo consente alla farina di mantenere la sua peculiarità, cioè la “borotalcatura”, consistenza vellutata al tatto e fine al palato.
Il colore va dal bianco all’avorio, il sapore è dolce ed il profumo intenso. In cucina viene impiegata per molti piatti, dalla pattona (pattòna) alle focaccine (cian), dalle frittelle cotte in padella (fritei, padléti) alle lasagne, fino al pane (pane marocca).
Se vi sono testimonianze archeologiche che dimostrano la presenza del castagno in Lunigiana dal I secolo d.C. e la sua affermazione successiva tra il V ed il VI secolo, altrettanto antichi sono i cenni storici relativi alla presenza del “neccio” - dall’aggettivo medievale castanicius, ovvero ‘relativo alla castagna’ - in Garfagnana, risalendo fino al VII e l’VIII secolo d.C. Il territorio è quello della provincia di Lucca: qui, tra le Alpi Apuane e l’Appennino tosco-emiliano, il ‘neccio’ ha sempre rappresentato una preziosa fonte di sostentamento per le comunità di montagna.
Dop dal 2004, la Farina di neccio della Garfagnana si produce in un’area di 18 comuni dell’alta provincia di Lucca, per un totale di 3500 ettari di castagneti. Raccolte tra ottobre e novembre, le castagne vengono quindi essiccate: poste nei “metati” (piccoli edifici in pietra costruiti nei boschi, suddivisi in due spazi da un graticcio di asticelle in legno rimovibili, con prese d’aria che permettono al fuoco sottostante di ardere senza fiamma), si lasciano ad essiccare per almeno 40 giorni. Sbucciate, vengono macinate a pietra nei mulini, anche in questo caso non superando i 5 quintali al giorno. Il prodotto finale è una farina naturalmente dolce e dal lieve retrogusto affumicato. In cucina, si trasforma in castagnaccio, menafregoli (budini dolci cotti nel latte, ricotta o panna, oppure nel brodo di maiale o pollo) o nella produzione della pasta secca.
Farina di ceci
Tra i legumi più usati al mondo (al terzo posto dopo soia e fagioli), il cece è un ingrediente assai versatile. Anche in questo caso, la farina è il risultato della macinazione dei semi secchi, raffinata. Tratteggia la gastronomia di alcune delle più note ricette regionali del nostro paese, come la farinata e la panissa liguri o le panelle siciliane. Tralasciando le origini leggendarie della farinata (che si vuole nata per caso nel 1284, al ritorno delle navi genovesi dalla battaglia della Meloria contro Pisa, quando una tempesta fece rovesciare i barili d’olio e farina di ceci a bordo della flotta genovese) resta la golosità di un prodotto semplicissimo, fatto solo con farina di ceci appunto, acqua, olio e sale. Varianti regionali della più nota farinata sono la belecauda (basso Piemonte, in Monferrato e dintorni), la
Altrettanto gustosa è la panissa, di fatto una polenta fatta con farina di ceci, tagliata a pezzetti e fritta. Ci si sposta in Sicilia invece per le panelle, immancabili, in coppia con il pane, per uno dei simboli dello street food dell’isola. Si tratta di sottili frittelle di farina di ceci da mangiare calde e condite con sale e limone, servite in un panino. Tradizionale cibo povero e popolare, pare tragga origine dalla dominazione araba in Sicilia. Oltre ai ceci, vale la pena menzionare altri legumi dai quali si può ricavare farina, per essiccazione e macinazione. La consistenza è simile a quella della farina tradizionale, a variare sono invece colore e sapore, oltre ovviamente alle proprietà nutrizionali. Prive di glutine, hanno una buona quantità di proteine, fibre e sali minerali.
Farina di fagioli
Ha colore bianco e si ricava dalla polverizzazione dei semi secchi e crudi. Nel nostro paese si ottiene soprattutto dalla varietà Borlotto. Si ricava in genere attraverso la criomacinazione, processo che prevede l’uso dell’azoto liquido per la rottura dei semi in mulini che invece di avere delle macine hanno dischi in acciaio che ruotano velocemente. È ricca di vitamine e minerali, proteine vegetali e carboidrati complessi. Può essere usata per panificati e pasta fresca.
Farina di piselli
Ha colore verde acceso e, per ottenerla, i piselli sono essiccati e frantumati. Ha sapore dolce e piacevole e può essere impiegata in preparazioni come crepes, biscotti salati, o lievitati senza glutine. È ricca di proteine e carboidrati, e vanta buone concentrazioni di sali minerali (potassio, fosforo e ferro).
Farina di lenticchie
Ha colore tendenzialmente verde ma, a seconda della varietà usata, può essere anche rossa. Ha un elevato contenuto proteico ed è ricca di sali minerali, soprattutto ferro. Può essere impiegata aggiungendola alla farina tradizionale nella panificazione, o per farne crepes.
Dolcezze d'autunno
“Togli pulli smembrati e tagliati e friggile con le cipolle ben trite, con lardo in bona quantità: e cotti i polli abbastanza mettivi su spezie e sale abbastanza. Poi togli erbe odorifere, mettivi su zaffarano in bona quantità e trita forte …mesta colle dette erbe con alquanto di cascio grattato. Poi togli queste un’altra quantità e fanne ravioli; e togli anche cascio fresco e fanne ravioli bianchi. Togli anche petrosello e altre erbe odorifere e cascio fresco e fanne ravioli verdi…Togli anche amandole monde, pestale forte e dividile in due parti; nell’una mettivi de le spezie in bona quantità, nell’altra mettivi zuccaro; e de l’una e de l’altra quantità fanne ravioli spartitamente: poi togli ova e falli pieni…
Togli anche presciutto crudo e taglialo sottile e fa’ similmente salsucce…Poi togli farina bene monda e fanne pasta salda, e forma al modo de la tegghia o la padella. Poi collo cocchiaio togli del brodo dei detti polli e ungi la detta pasta: poi nella detta pasta fa’ un solaio di carne d’essi polli; nel secondo solaio poni ravioli bianchi col savore di sopra; nel terzo solaio poni presciutto e salsucce, tagliate come detto è. Nel quarto solaio poni de la detta carne. Nel quinto poni dei cervellati, cioè budelli pieni di sopraddetti. Nel sesto de’ ravioli d’amandole; e in ciascuno solaio vi si ponano dei dattari…e in ciascuno solaio poni spezie abbastanza..e abbi la bragia e poni il testo sopra, e di sopra e di sotto sia la bragia.
Scopri spesso la detta torta e ungila con lardo;e se la si rompesse, togli la pasta sottile e sottilemente menata e bagnala coll’acqua e poni su la rottura, e metti il testo caldo di sopra.
I gusti odierni, guardando i ricettari del passato, sono assai più semplici e il numero di ingredienti si è notevolmente ridotto: le torte, tuttavia, rimangono una preparazione molto amata, che sa di festa, di golosità e di condivisione.
La grande famiglia delle torte salate può essere analizzata a seconda del tipo di pasta, del tipo di ripieno e del tipo di forma.
La pasta
Se la farcia di una torta salata è certamente importante, non secondario è il contenitore in cui essa è racchiusa. Che sia sottile e burroso, friabile o spesso, ancora più consistente o addirittura avvolgente, l’impasto gioca un ruolo fondamentale, non soltanto nel gusto finale ma anche nella masticabilità e nella consistenza al palato. Ecco, allora, la leggerezza e la croccantezza della pasta sfoglia, il carattere della pasta brisée, che rimanda subito alle quiche francesi, la “burrosità” e lo spessore marcato della pasta frolla salata, il tono più rustico della pasta di pane o impasti lievitati simili al pain brioche, la morbidezza del plumcake. Sono preparazioni che richiedono tempo e lavoro; nel caso in cui non ci siano le condizioni per farle con calma, si può ricorrere ad una base già pronta oppure optare per una soluzione che mette d’accordo tempo e volontà di mettere alla prova la propria manualità: è il caso della pasta matta, un impasto semplice che si prepara con pochi ingredienti. Servono infatti farina, acqua, olio extravergine d’oliva, aceto e un pizzico di sale. È senza lievito e si stende facilmente.
Il ripieno
Probabilmente gli unici criteri da seguire, in questo caso, sono fantasia e gusto personale. Dalle verdure (zucchine, spinaci, bietole, carciofi, asparagi, peperoni, radicchio), ai formaggi (ricotta, gorgonzola, mozzarella, brie, feta, caprino), dai salumi (prosciutto cotto, speck, pancetta, salame, salsiccia) al pesce (tonno, salmone, acciughe), dalla frutta fresca (mele, pere) alla frutta secca (noci, nocciole, mandorle), senza dimenticare uova, funghi e patate, il ripieno consente davvero di giocare con accostamenti e consistenze, prediligendo delicatezza o contrasti, raffinatezze eleganti o gusti più decisi.
La forma
Dalla classica tonda alla crostata con le classiche strisce di pasta poste sopra, dal rotolo con ripieno arrotolato alla treccia, dallo strudel alla versione più piccola della tartelletta, anche la forma non è secondaria e determina la consistenza del morso perfetto, non troppo pieno di farcia da non sentire la pasta, non troppo spesso da far prevalere l’impasto sugli ingredienti della farcitura.
In cucina, vincono accostamenti che sappiano valorizzare ogni ingrediente: quello che distingue una torta salata da una somma di ingredienti a caso fatta per svuotare il frigo è la cura nell’accostamento degli ingredienti. L’autunno ci regala grandi opportunità e grandi idee, da servire come antipasto, piatto unico, in un brunch o in un aperitivo.
Ecco, allora, la torta salata con broccolo romanesco, pecorino romano e ricotta vaccina, lo strudel di radicchio, in cui il suo sapore amarognolo ben si sposa con la dolcezza delle pere e le note affumicate della scamorza, la torta salata con zucca, speck e taleggio, con lo speck a dare una sferzata di sapore all’eleganza della zucca. E, ancora, la torta salata con formaggio erborinato e pere, racchiuse scenograficamente in uno scrigno di pasta brisée, la torta salata con cavolo viola e gorgonzola, in cui il colore conquista la vista prima ancora che il sapore conquisti il palato, la torta salata funghi, speck e mozzarella, lo stile tutto francese della quiche di mele renette e chèvre chaud o quello tutto rustico della torta salata patate e gorgonzola. Ricotta, noci e miele di bosco valorizzano il radicchio caramellato su una base di brisée.
Elegante è la proposta che accosta porri e brie, così come quella che affianca salmone affumicato e groviera, cui la panna arriva a dare dolcezza finale. Altrettanto ampia è la famiglia dei plumcake salati che consente di giocare con pomodori secchi e feta, prosciutto cotto ed Emmental, pancetta e funghi, così come quella dei lievitati salati che permette di gustare ciambelle salate con crema di zucca o con robiola speck e noci, pain brioche alla ricotta con pesto, bauletti con carote e barbabietole giocando anche con le diverse colorazioni all’interno dell’impasto. Le possibilità, insomma, sono davvero infinite: a fare la differenza sono creatività e voglia di sperimentare, cimentandosi magari all’inizio con accostamenti più classici e, poi, provando a osare un po’ di più.
La recensione del mese
Per segnalazioni, potete scrivere all’indirizzo redazione@pizzaepastaitaliana.it
La recensione
“Complessivamente non male, ma ho assistito ad una scena antipatica: è stato rifiutato poco gentilmente l'ingresso ad una coppia con un piccolo cane. Ormai sono anni che i cani sono benvenuti in alberghi e ristoranti e anche nei supermercati nell'apposito carrello! ”.
Recensione lasciata su Tripadvisor per un locale di Fucecchio (FI) nel mese di aprile 2025
Il commento
“Mi dispiace, il cane non può entrare”, succede ancora spesso. Si arriva al ristorante con un cane al guinzaglio e ci si sente dire che non può entrare. Il tono può essere gentile o meno ma l’effetto è lo stesso: delusione o rabbia E, in quel momento, il ristoratore sa che rischia di scontentare qualcuno o di perdere dei clienti. Molti locali decidono di non accogliere animali per motivi molto pratici. Gli spazi sono stretti, le cucine aperte, i tavoli ravvicinati. Ci sono persone allergiche, bambini che si agitano, persone che semplicemente non si sentono a loro agio. A volte c’entra anche l’igiene o la sicurezza, o la paura che un cane, per quanto tranquillo, possa spaventare qualcuno. Dire di no non sempre nasce da una chiusura.
Dall’altra parte ci sono i locali pet friendly, che scelgono consapevolmente di accogliere anche gli animali. Allestiscono spazi all’aperto, tengono ciotole d’acqua pronte, a volte riservano aree specifiche per chi vuole cenare con il proprio cane. E funziona! Perché sempre più clienti cercano luoghi dove sentirsi liberi di condividere il tempo anche con i loro animali. In alcuni casi, questa scelta diventa parte dell’identità del ristorante, un segno di attenzione che crea fiducia e fidelizza. Il punto è che ogni decisione porta con sé un rischio.
Chi chiude la porta ai cani rischia di perdere una fetta di pubblico, chi li accoglie rischia di far scappare chi non li sopporta. Non c’è una regola che valga per tutti: come possono convivere rispetto e accoglienza? Forse la risposta sta nel pensare a spazi più flessibili. Un’area pet friendly e una no, tavoli riservati, comunicazione chiara già al momento della prenotazione (o indicazione chiara del fatto che non si accettino animali). In questo modo, chi vuole portare con sé il cane può farlo e chi preferisce mangiare senza animali vicino può stare tranquillo. Certo, non può essere una regola generale, non sempre l’ampiezza del locale lo permette.
Ma anche i proprietari dei cani hanno un ruolo. Quanto sarebbe giusto chiedersi se quel momento è davvero adatto? Se il locale è piccolo, se il cane è agitato o se l’ambiente è troppo affollato, forse la scelta migliore è lasciarlo a casa. Non per rinuncia ma per rispetto verso gli altri (e verso il cane stesso). Allo stesso modo, chi non ama gli animali può provare a comprendere, adattarsi; dopotutto, si tratta di un paio d’ore. Un cane silenzioso, che dorme sotto al tavolo, non è un’invasione.
Un locale pet friendly non è automaticamente caotico o disordinato, se la gestione è fatta bene. In fondo, tutto dipende dal comportamento delle persone, più che dagli animali. Molti ristoratori lo dicono chiaramente: il problema non è il cane ma come viene gestito. Il confine tra libertà e fastidio è sottile e si attraversa facilmente se manca la cura reciproca. Un “no” spiegato con educazione può essere compreso, così come un “sì” gestito con attenzione può diventare un punto di forza. Essere pet friendly non significa accettare tutto ma trovare un modo per accogliere tutti. Cani, padroni, clienti senza animali, ristoratori.
Perché, alla fine, anche chi non ha un canecome i protagonisti della recensione in oggetto - può restare colpito da un “no” sgarbato, da un gesto di chiusura verso gli amici pelosi. E, allora, viene da chiedersi: quanto vale davvero la pena rischiare? Forse, più che di cani, qui si parla di sensibilità. E quella, nei locali come nella vita, fa sempre la differenza. E voi, cosa ne pensate?
UN
da visitare almeno una volta nella vita
a cura di: Massimiliano Tonelli 50 pizzerie
a cura di N. C
è una pizza che ricordi per sempre? Quella che ti ha fatto capire che un semplice impasto può raccontare un territorio, una storia, una passione? "50 Pizzerie da Provare una Volta nella Vita" è più di una guida: è un invito a cercare proprio quelle esperienze. Curata da Massimilano Tonelli, questa raccolta è un viaggio nell'Italia che non delude, selezionando non solo la bontà dei piatti ma l'unicità di ogni storia. Come scrive il curatore: il merito di questa "metamorfosi" della pizza è di pionieri che hanno rifiutato la comfort zone, toccando con coraggio persino la tradizione, spesso "inventata e inzuppata di stereotipi".
Il risultato è un atlante gastronomico che mette insieme tutto e il contrario di tutto, consapevole che "certe segmentazioni sono chiare nella mente di chi scrive e meno in quella di chi legge". Si parte dai luoghi storici - come la mitica “Pepe in Grani” a Caiazzo, dove Franco Pepe ha creato una destinazione gastronomica globale e un intero "Pizza Hub" per esplorare l'Alto Casertano – ma si esplorano anche realtà che hanno cambiato le regole del gioco. Penso a “I Masanielli” a Caserta, dove Francesco Martucci applica all'impasto il rigore dell'alta cucina, con pizze cotte a tre diverse temperature e omaggi a chef come Massimo Bottura, o a “Bob” in Calabria, dove Roberto Davanzo, ex cuoco di Mauro Uliassi, sperimenta la "pizza a caduta".
Ciò che colpisce, sfogliando le pagine, è la varietà delle voci: dalla pizza fritta storica della “Antica Friggitoria Masardona” a Napoli, che dal 1945 resta fedele alla sua ricetta "Completa", alla pizza contemporanea e condivisa di “Berberè”, nata a Bologna e diventata un caso internazionale, con una casa madre che è anche polo formativo e cuore pulsante di un gruppo che investe sulle persone. Ma il vero pregio di questa guida lo si scopre quando si inizia a usarla come una mappa per i propri viaggi, un compagno di avventure che parla di territori, economie e passaggi generazionali. Ti capita di programmare un weekend a Milano? Ecco
che “Dry” diventa una tappa obbligata per il suo rivoluzionario abbinamento pizza e cocktail, mentre “Pizza Stella” importa con stile la New York Style "pie". Una trasferta a Roma non può dirsi completa senza un assaggio delle croccanti meraviglie di “Pizzarium” di Gabriele Bonci o senza un tuffo nell'atmosfera di quartiere de “La Gatta Mangiona”, istituzione da venticinque anni. E, per chi vuole addentrarsi nella Napoli più autentica, i capitoli dedicati a “Concettina ai Tre Santi” – dove Ciro Oliva onora la nonna che nel 1951 iniziava a friggere pizze "a credito" – e alla già citata “Masardona” sono vere e proprie lezioni di cultura. E cosa dire della “Pizzeria Clementina” a Fiumicino, dove Luca Pezzetta fa parlare il mare che ha di fronte, o di “PizzAut”, progetto toccante e concreto dove una squadra di ragazzi autistici trova nel lavoro di pizzeria uno strumento di inclusione e riscatto?
La sensazione, pagina dopo pagina, è di avere a che fare con una selezione viva, che respira. Non ci si limita a descrivere un menu ma si coglie l'anima del luogo: l'atmosfera di una cucina a vista, la passione di un pizzaiolo che racconta il suo lievito madre, il profumo del forno a legna che ti accoglie all’ingresso. È questo che la rende uno strumento prezioso non solo per gli appassionati ma anche per chi, nel mondo della pizza, ci lavora e cerca ispirazione.
pagine: 216
editore: 24 Ore Cultura prezzo di copertina: € 49,00
Perfetta da regalare a un amico gourmand, da consultare prima di un viaggio o, semplicemente, da tenere in cucina per quando si sogna qualcosa di speciale. Perché, in fondo, le pizze che cambiano il gusto sono rare e questa guida, con il suo mix di rigore e narrazione, ci aiuta a trovarle, assaggiarle e, forse, a non dimenticarle più.
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