





















dicembre















Campionato Mondiale Della Pizza p. 84 e 100
Cerutti Inox
Cuppone
Demetra
Di Marco Corrado
Dr. Zanolli
Fiera Expomar
Fiera Di Riva Del Garda - Hospitality
Hrc Industries
Latteria Montanari
La Torrente
Le 5 Stagioni
Scuola Italiana Pizzaioli
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dicembre















Campionato Mondiale Della Pizza p. 84 e 100
Cerutti Inox
Cuppone
Demetra
Di Marco Corrado
Dr. Zanolli
Fiera Expomar
Fiera Di Riva Del Garda - Hospitality
Hrc Industries
Latteria Montanari
La Torrente
Le 5 Stagioni
Scuola Italiana Pizzaioli

39
97
73
59
21
29
Millberg p. 45
Molino Bruno p. 71
Mulino Padano
Rinaldi Superforni
Sacar Forni
Salone Sirha - Bake & Snack 2026
Sanfelici Franco
Sitta
Industria Alimentare Tanagrina
Valledoro
Velma
57
13
23
98
3
27
43
49
11
Vito Italia p. 79

storie di pizza
50
Second chance
Sp.accio, la pizzeria di San Patrignano
di Antonio Puzzi

54
64
birra
Birra sotto l’albero: gli abbinamenti giusti per Natale e Capodanno all’italiana
di Alfonso Dal Forno
68
storie di pizza
Mara Mancosu
di Noemi Caracciolo

60

Le figlie del vulcano
Racconto della Sicilia fatta di donne e di vino
di Giusy Ferraina
storie di pasta
Non smettete di sognare
A lezione di cucina inclusiva con Federica
Pucciarello
di Giusy Ferraina
di Alfonso Dal Forno
80
prodotti del mese
Zampone e cotechino
di Caterina Vianello
86 nutrizione
Dieta detox
pre e post festività
di Marisa Cammarano
90
la recensione del mese È giunta l’ora di dire addio alle false recensioni?
di Noemi Caracciolo
94
un libro al mese Strenne natalizie per chi vive di farina e fuoco
a cura della redazione
aziende informano
Sigep p. 12
Scuola Italiana Pizzaioli p. 37
Molino Naldoni p. 38
Vito Italia p. 78 74 gluten free Natale 2025, panettoni e pandori gluten free: cinque indirizzi da segnare in agenda
Antonio Puzzi
Caro 2025, sei stato un anno complicato, lasciamelo dire. Ho come l’impressione che tu abbia trascinato questo mondo nella condizione in cui si trova il brodo in una pentola a pressione. Un brodo con tante carni diverse, di qualità diverse, di frollature diverse. Un brodo che sta cuocendo a fuoco vivace ma senza nessuno che ne governi davvero la cottura e che sappia dirci quando è il momento di spegnere la fiamma, prima che il blocco leva si spezzi, trasformando in spazzatura la nostra ricetta e costringendo, poi, chi entrerà in quella cucina a pulire e a provare a rimettere a posto. Credo che la metafora sia troppo semplice per dovertela spiegare ma ti faccio qualche esempio: la barbarie tra Israele e Palestina, che fa chiedere agli opinionisti da poltrona se sia o non sia definibile genocidio quanto sta accadendo o addirittura ci impone di “definire bambino”, come se l’orrore verso l’umanità abbia un’età in cui possa essere giustificato; l’eutanasia auto-somministratasi dalle gemelle Kessler, che ci fa domandare se sia più giusto amarsi l’un l’altro o amare la vita, indipendentemente da chi ci vive accanto e in che modo; il ricatto dei dazi, che fa schierare una parte della classe politica a favore di un Paese estero (“nostro alleato”, dicono) ma contro il nostro stesso organismo sovranazionale (l’UE) e un’altra a supporto della classe imprenditoriale italiana ma senza fatti concreti; il dissidio tra famiglia e società, che impone di allontanare i figli da chi ha scelto di vivere in un bosco ma continua a sopportare le condizioni igienicosanitarie quantomeno discutibili dei tanti campi Rom sparsi sui nostri territori.
Quanto manca davvero affinché scoppi quella pentola di cui sopra? Spero non sia il 2026 a dircelo. Poiché, però, mi fido di te, ti chiedo un favore: regala al tuo erede, in queste festività, una parola, che oggi è così in disuso: comunità. In un mondo che ha sete di leadership, io penso infatti che ci sia bisogno di tornare a “pensarci insieme”. E mi auguro sia questa la trasformazione che ci riserverà l’anno che sta arrivando.
E, sì, lo sappiamo che la colpa non è tua ma nostra e che quelli complicati siamo noi ma aiutaci a lavorare, perché “il nuovo anno tra un anno passerà” (come dice una celebre canzone)… ma noi vorremmo esserci ancora, magari più buoni, più onesti con noi stessi e più giusti.
E, come si dice dalle mie parti, “buona fine e buon principio”. nio
PIZZA E PASTA ITALIANA
Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura
Edito da PIZZA NEW S.p.A.
Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990
Anno XXXVI - n.11 dicembre 2025 - Repertorio ROC n. 5768
DIRETTORE EDITORIALE DIRETTORE ONORARIO
Massimo Puggina Giampiero Rorato
DIRETTORE RESPONSABILE
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PUBBLICITÀ
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Via Sansonessa, 49 - 30021 CAORLE (VE) Tel. 0421/ 212348 - Fax 0421/81007 - E-mail: redazione@pizzaepastaitaliana.it www.pizzaepastaitaliana.it
PROGETTO GRAFICO
Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi — Mediagraf lab
IN COPERTINA illustrazione di Chiara Palandri
STAMPA MEDIAGRAF S.p.A.
Noventa Padovana (Pd)
COMITATO TECNICO E REDAZIONALE
Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.
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Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).
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a cura della redazione
Da fine novembre 2025 Dr. Schär, nei suoi siti produttivi a livello globale, utilizza soltanto uova provenienti da allevamenti a terra. Un traguardo importante frutto di un rigoroso percorso di valutazione di fornitori e audit in loco per migliorare gli standard qualitativi lungo tutta la catena di produzione, iniziato nel 2016. Attraverso questa scelta Dr. Schär ribadisce la propria visione e conferma l’impegno di lunga data per un approvvigionamento responsabile, anticipando spesso normative locali e tendenze di mercato.
“Non si tratta solo di un risultato produttivo, ma di un impegno concreto verso un futuro più sostenibile, che coniuga qualità, benessere animale e responsabilità nei confronti dei nostri consumatori” commenta Hannes Berger, CEO di Dr. Schär.



Molino Magri rinnova il proprio impegno verso i professionisti del food con un ambizioso progetto: la Molino Magri Academy.
Polo formativo d’eccellenza del settore della farina e del business alimentare, l’Academy è dedicata ad artigiani e imprenditori che desiderano distinguersi in un settore sempre più competitivo per creatività, competenza e visione.
L’offerta formativa include eventi fruibili in presenza oppure online, tra cui Masterclass per conoscere e utilizzare le farine Molino Magri; Webinar per approfondire tematiche specifiche del settore e Innovation Days, eventi ispirazionali e pratici su temi di business.
La missione dell’Academy è chiara: costruire una community di professionisti all’avanguardia ed aprire nuove prospettive per trasformare le idee in veri e propri successi.
Il primo forno elettrico a platea rotante

Il più versatile forno elettrico touch screen sovrapponibile
a cura della redazione
Una vetrina per il meglio del turismo balneare, un imprescindibile momento di incontro e di confronto sulle principali tematiche del comparto, ma anche una occasione di crescita per gli imprenditori di oggi e di domani. Dal 26 al 29 gennaio riflettori puntati sul PalaExpoMar di Caorle, per l’edizione numero 55 del Salone Nazionale dell’Alto Adriatico, evento fieristico organizzato da Venezia Expomar Caorle, Associazione Jesolana Albergatori, comuni di Caorle e Jesolo, la collaborazione dell’Ente Bilaterale per il Turismo e con il patrocinio della regione del Veneto e della Camera di Commercio Venezia Rovigo.
Nel corso delle quattro giornate di una kermesse che, per la prima volta, parte da lunedì, allineandosi alle più importanti fiere internazionali, convegni, seminari, corsi, concorsi e momenti dedicati agli studenti.
Inaugurazione, dunque, lunedì 26 gennaio, alle ore 11.
Per info: fieraaltoadriatico.it


Dagli ingredienti alla preparazione, fino al packaging, la conservabilità dei grandi lievitati dipende da diversi fattori. Mulino Padano, insieme al tecnologo alimentare Alessio Busi, spiega come prolungare sofficità e freschezza di panettoni e pandori. Un lievito madre maturo aiuta a controllare pH e stabilità microbiologica, mentre zuccheri e grassi mantengono umidità e rallentano l’invecchiamento. Fondamentale anche una farina specifica, come la Tipo “00” Panettone e Grandi Lievitati di Mulino Padano, in grado di sviluppare una maglia glutinica stabile. Nella preparazione occorre controllare temperatura dell’impasto, tempi di lievitazione e cottura, evitando eccessi che comprometterebbero la conservazione. Infine, confezionamento e stoccaggio devono proteggere il prodotto da ossigeno, luce e sbalzi termici, garantendo qualità durante tutta la stagione natalizia.









WORLD

Dal 16 al 20 gennaio, i padiglioni della Fiera di Rimini accoglieranno la 47esima edizione di SIGEP World 2026, manifestazione internazionale di Italian Exhibition Group (IEG) che si conferma punto di riferimento per le filiere del gelato, pasticceria, cioccolato, caffè, panificazione e pizza. Un appuntamento professionale imperdibile per la community globale del foodservice, dove prodotti, tecnologie e visioni strategiche si trasformano in relazioni, partnership e nuovi modelli di business per il fuori casa.
Dopo il debutto dello scorso anno, la filiera della pizza diventa uno dei pilastri strategici della manifestazione: nel 2026 infatti la sua presenza cresce con il progetto Pizza (R)evolution, che racconterà il prodotto nel suo insieme tra ingredienti, fermentazioni, impasti, soluzioni tecnologiche professionali, format replicabili, filiere territoriali e flussi di servizio ottimizzati. L’area espositiva dedicata alla pizza sarà inoltre più ampia e strutturata per accogliere aziende, squadre di pizzaioli, centri di formazione e buyer da mercati ad alto potenziale, con padiglioni dedicati e la Pizza Arena animata da talk e demo.
SIGEP World 2026 sarà poi come ogni anno anche il palcoscenico per competizioni nazionali e internazionali come il Concorso Nazionale dell’Arte Bianca (che si configura come il culmine delle competizioni dedicate ai professionisti del settore) e Pizza Senza Frontiere - World Pizza Champion Games.
VISIONE INTERNAZIONALE E LE ALTRE NOVITÀ DI SIGEP WORLD 2026
Tra le novità dell’edizione 2026 di SIGEP World spiccano il format Gelato Meets Chains, dedicato a catene, gruppi alberghieri e concept internazionali che vogliono integrare il gelato nei menù, Innovation Bar, area dedicata al bar di nuova generazione, con focus su workflow, automazioni e modelli di servizio. La Luxury Hotel Food Experience, invece, apre scenari d’eccellenza sul dialogo tra alta ristorazione e hôtellerie di alta gamma, coinvolgendo direttori F&B e pastry chef delle principali catene.
SIGEP World si presenta con un profilo sempre più internazionale: con presenze da oltre 160 Paesi nella scorsa edizione e l’India come Guest Country, la manifestazione si conferma un ponte strategico per l’incontro tra le filiere del gusto italiano e il mondo.





Il profumo di pasta che si leva dai pastifici sparsi per l’Italia, dove il vento gentile accarezza ancora i telai carichi di rigatoni, spaghetti e paccheri, racconta una storia che attraversa l’oceano per approdare sulle tavole americane.
Il Teatro Globale
della Guerra dei Dazi
È un profumo che vale 65 miliardi di euro l’anno ma non sono solo cifre: è parte del respiro stesso dell’export italiano verso gli Stati Uniti, oggi minacciato da una tempesta tariffaria che promette di ridisegnare le geografie del commercio internazionale. Nel silenzio operoso delle fabbriche farmaceutiche della Campania, nelle officine meccaniche lombarde, nei vigneti di tutte le province, si avverte la tensione di un momento storico dove l’aliquota flat del 15% già concordata rischia di trasformarsi in modo imprevedibile, in un crescendo che ricorda le guerre commerciali del secolo scorso.
Se guardiamo oltre l’Atlantico, scopriamo che l’Italia non è sola in questa danza pericolosa. Con un deficit commerciale USA di 1.100 miliardi di dollari nel 2024, l’amministrazione Trump ha orchestrato quella che viene definita una politica di “reciprocità totale”, dove ogni dazio europeo trova il suo contraltare amplificato. La formula matematica è spietata nella sua semplicità: il deficit commerciale diviso per le importazioni, poi dimezzato, genera l’aliquota da applicare. A questo calcolo, si aggiungono poi azioni come quella in corso mentre scrivo questo articolo, con un’indagine antidumping (un sistema che confronta i prezzi di vendita delle merci importate con quelle prodotte internamente) che potrebbe potenzialmente portare i dazi sulla pasta a circa il 107% di quanto pagato oggi!
La Germania, nostro primo partner commerciale in Europa, affronta sfide simili ma con una struttura industriale che le permette maggiore resilienza. Francia ed Italia, che hanno entrambe fatto i conti con il fatturato dell’industria del lusso, dell’agroalimentare, del farmaceutico e dell’aerospaziale, hanno trovato vie alternative attra-
verso accordi bilaterali nel settore energetico. L’accordo include, infatti, l’acquisto di gas naturale liquefatto USA da parte dell’UE, una contropartita che dimostra come la partita si giochi su più tavoli contemporaneamente.
L’anatomia di un Export sotto
I numeri che ho raccolto testimoniano una realtà complessa e sfaccettata. L’export italiano nel 2024 ha raggiunto i 623,5 miliardi di euro complessivi con gli Stati Uniti che rappresentano il 10,4% delle nostre esportazioni, rendendoli il nostro primo mercato extra-UE. Ma è nella granularità dei settori che si nasconde la vera storia: i macchinari industriali guidano con 12,8 miliardi, seguiti dalla farmaceutica con 10 miliardi, l’automotive con 7,9 miliardi prima dei dazi al 25%, e l’agroalimentare con 7,8 miliardi (dati Startmag).

raggiunto i 5,7 miliardi di euro nel 2024, rappresentando il 26% dell’intero export regionale e il 13% del valore complessivo dell’economia regionale (dati Il Sole 24 ORE). È un tessuto economico intrecciato con fili d’oro alla tradizione: la pasta di Gragnano, patrimonio UNESCO, che vede negli Stati Uniti il 20% del suo mercato, la mozzarella di bufala campana DOP, terzo formaggio DOP in Italia e prima denominazione del Mezzogiorno per fatturato, il pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino.
ferma di un’identità culturale che attraversa i mari. Salerno guida con 2,3 miliardi di euro di export agroalimentare, sostenuta dalla trasformazione del pomodoro e dal settore lattiero-caseario, mentre Napoli sfiora 1,8 miliardi trainata dalla manifattura della pasta alimentare di Gragnano.
Il Parmigiano Reggiano, già vessato da tempo da concorrenze sleali, prodotti con italian sounding (il famoso “Parmesan”) e problematiche di prezzo dovute all’inflazione, non vive un momento migliore.
La Campania nel cuore della tempesta
Una regione potenzialmente colpita duramente è la Campania, in cui l’export agroalimentare ha
Con dazi doganali fino al 107% sulla pasta italiana annunciati per gennaio 2026, è l’intera filiera a tremare. Il settore agroalimentare campano impiega più di 100.000 famiglie che vedono nel commercio transatlantico non solo un’opportunità economica ma la con-
Nel mondo del vino, tra agosto e settembre, ho personalmente assistito a telefonate “minatorie”, disdetta di ordini, proposte di taglio di marginalità per mantenere i prezzi assorbendo l’aumento dei dazi.

Insomma, la nostra fiorente economia enogastronomica vive un momento di crisi per l’export verso gli USA, che da sempre sono stati considerati un partner strategico globale e che oggi sono divenuti, invece, una pericolosa incertezza.
Come un maestro vasaio che modella l’argilla sotto la pressione delle mani, le imprese italiane stanno ridisegnando le proprie strategie. Le stime parlano di una contrazione di breve periodo di circa 6 miliardi di euro nelle esportazioni principali ma, nel lungo periodo, in alcuni settori come macchinari e veicoli, l’elasticità del commercio e l’impatto di questa crisi potrebbero essere così alti che le perdite potrebbero superare l’ammontare stesso delle esportazioni 2024.
La risposta si articola su più fronti. La diversificazione geografica
diventa imperativa: mentre gli occhi restano puntati su Washington, le mani operose degli imprenditori italiani tessono nuove reti commerciali verso mercati emergenti come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Paesi asiatici. La Turchia è entrata nella top 10 dei partner commerciali italiani grazie al boom dell’export di gioielli e prodotti legati al lusso, dimostrando che le vie del commercio, come l’acqua, trovano sempre nuovi percorsi.
Sul fronte tecnologico, l’implementazione di sistemi blockchain per la tracciabilità diventano uno scudo per giustificare prezzi premium anche in presenza di dazi. È la qualità certificata, l’autenticità garantita, che permette di trasferire almeno parzialmente l’onere tariffario sul consumatore finale, consapevole di pagare per l'eccellenza vera.
dell’Italian
Nella cruda ironia del commercio globale, i dazi rischiano di ampli-
ficare un fenomeno già doloroso: l’Italian Sounding. Stimato in circa 40 miliardi di euro, questo mercato parallelo del falso “Made in Italy” trova nei prezzi maggiorati dei prodotti autentici un alleato inaspettato. Quando una bottiglia di olio extravergine del Cilento DOP costa il 30% in più a causa dei dazi, il “Tuscan Style Olive Oil” prodotto in California diventa improvvisamente più attraente per il consumatore americano medio.
È una battaglia che si combatte non solo nei porti e nelle dogane ma nelle menti e nei cuori dei consumatori. La strategia di lungo periodo deve necessariamente passare attraverso l’educazione del mercato, la costruzione di una consapevolezza che vada oltre il prezzo, che riconosca nel prodotto italiano autentico non solo un alimento ma un pezzo di cultura, di storia, di sapienza artigianale tramandata attraverso i secoli.
Nel 2030: una visione oltre la tempesta
Nel 2030, quando guarderemo indietro a questo momento di crisi, vedremo forse i semi di una trasformazione profonda. L’Europa, spinta dalla necessità, avrà accelerato la sua integrazione economica, creando catene di valore continentali più resilienti e connesse. L’Italia, con la sua straordinaria capacità di adattamento che l’ha vista attraversare millenni di storia, avrà trovato nuove vie per portare la sua eccellenza nel mondo.
Immagino un futuro dove la tecnologia non sarà più vista come antagonista della tradizione ma come sua custode e amplificatrice. Dove ogni pacco di pasta che lascia Gragnano porta con sé, attraverso un chip invisibile, la storia del grano, del sole che l’ha maturato, delle mani che l’hanno lavorato. Dove il prezzo non sarà più l’unico parametro di scelta ma uno dei tanti elementi in un’equazione complessa che include sostenibilità, autenticità, valore culturale.
Con l’export italiano - che si prevede raggiunga i 679 miliardi nel 2025, nonostante i dazi - la resilienza del Made in Italy si conferma. Ma sarà una resilienza diversa, forgiata nel fuoco della competizione globale, temprata dalla necessità di innovare mantenendo l’essenza.
L’alchimia del valore nel tempo della compressione
La vera magia non risiede nella capacità di aggirare i dazi o di trovare mercati alternativi ma nella trasformazione di una crisi in opportunità di ridefinizione del valore stesso. Quando Lamberto Frescobaldi avverte che il 30% di dazio sarebbe quasi un embargo per l’80% del vino italiano, non sta solo parlando di numeri ma dell’essenza stessa di ciò che
significa essere produttori di eccellenza in un mondo che sembra premiare sempre più la standardizzazione e il prezzo basso.
Il dialogo tra memoria e tecnologia digitale, tra radicamento locale e respiro globale, tra autenticità artigianale e scalabilità industriale, si fa più urgente e necessario. Le imprese che sopravviveranno e prospereranno saranno quelle capaci di navigare questa complessità senza perdere la propria anima, di parlare il linguaggio dei mercati globali senza dimenticare il dialetto della propria terra.
In questo grande arazzo del commercio internazionale, ogni filo tirato rischia di scomporre l’intero disegno. Ma è proprio nella capacità di ritessere, di ricreare, di reinventare mantenendo l’essenza, che si nasconde il genio italiano. Come i maestri vetrai di Murano, che dal fuoco e dalla sabbia creano meraviglie, così le nostre imprese, dal fuoco dei dazi e dalla sabbia delle difficoltà economiche, stanno già plasmando il futuro del “Made in Italy”.
La strada tracciata da queste esperienze indica che il vero lusso del futuro non sarà possedere ma conoscere. Non sarà consumare ma comprendere. E, in questa
nuova economia della conoscenza e dell’esperienza, l’Italia, con il suo patrimonio di storie, saperi, eredità millenarie, ha tutto per emergere, non nonostante i dazi ma attraverso di essi, trasformando l’ostacolo in trampolino, la barriera in ponte verso una nuova concezione del valore e dello scambio commerciale.
Nel silenzio della sera, mentre il sole si adagia sulle acque del Golfo Paradiso davanti a Genova, tingendo di oro liquido le case-torri di Camogli e i promontori di Portofino e le luci dei cargo diretti verso l’America punteggiano l’orizzonte ligure, si comprende che questa non è solo una battaglia commerciale ma culturale. Da questo porto, che ha visto partire Cristoforo Colombo verso l’ignoto, oggi partono container carichi non solo di merci ma di cultura, di sapienza, di quella capacità tutta italiana di trasformare la materia in poesia.
È la difesa di un modo di essere, di produrre, di condividere che va oltre i bilanci e le statistiche. È la testimonianza che anche nell’era della globalizzazione spinta e del protezionismo rinascente, c’è spazio per chi sa coniugare eccellenza e identità territoriale, progresso tecnologico e sapienza antica, numeri e poesia.


di Giampiero Rorato
ilturismo italiano è in crisi?
Certamente no ma, negli ultimi anni diversi altri paesi hanno fatto meglio di noi: Francia, Spagna, Stati Uniti, Cina, relegando l’Italia al quinto posto. Eppure l’Italia è il Paese più ricco di siti UNESCO, con aree archeologiche famosissime, come Pompei, con città d’arte presenti in ogni regione ecc.
A concorrere al successo dell’attrazione turistica è anche il grande settore ristorativo-alberghiero ed è per questo motivo che dispiace che l’Italia sia regredita dal primo al quinto posto per afflusso di turisti.
Scriviamo sempre - e non solo noi - che la ristorazione italiana è fra le più importanti e apprezzate nel mondo, superando anche la Francia per la qualità media
della cucina dei ristoranti, tuttavia ha due problemi: il personale qualificato che è a volte carente e il trattamento del personale stesso. Questo problema riguarda in particolare le grandi aree turistiche marinare come anche delle zone lacustri e montane. Il problema riguarda non solo i ristoranti ma anche gli alberghi. È mai possibile che in queste località si trovino anche in piena stagione dei cartelli con scritto: “cercasi camerieri”, “cercasi personale di cucina”, “cercasi donne ai piani”?
Eppure, in Italia, ogni anno escono dagli Istituti e Scuole Alberghiere migliaia di diplomati e di studenti desiderosi di un lavoro d’estate nelle zone turistiche, lavoro ricercato anche da migliaia di studenti universitari. Perché allora c’è personale insufficiente?

Può anche essere che ci siano dei giovani non preparati a lavorare 7 giorni su 7, anche 10-12 ore al giorno ma questo non succede ovunque: ci sono molti titolari di hotel e ristoranti rispettosi dei contratti di lavoro ed anzi pronti a dare qualcosa in più, visto che questi lavori durano al massimo 4-5 mesi. Ma quei cartelli sono lì a dirci che esistono dei problemi, i quali comportano presenze non funzionali alle necessità del ristorante e dell’albergo, il che non depone a favore di una positiva impressione da parte dei turisti.
Sono soltanto pochi accenni, non certo per accusare ma solo per far riflettere sulla necessità che chi ne ha facoltàIstituti e Scuole Alberghiere, sindacati di categoria, associazioni di albergatori e ristoratori, ecc.- affronti questo problema la cui soluzione migliorerà l’immagine dell’attività turistica in Italia. Non basta infatti che ci sia un titolare serio e professionale, se non ha costanti rapporti con chi può fornire il personale garantendo per esso, come possono fare le scuole alberghiere, avrà sempre delle carenze.


LA FARINA MADE IN ITALY
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La qualità non è mai un caso e la ricerca dell’eccellenza è un impegno costante. Le nostre farine sono prodotte al 100% con energia proveniente da fonti rinnovabili e ogni giorno il nostro obiettivo è quello di garantire a tutti i professionisti che si affidano a Le 5 Stagioni elevata qualità e alte prestazioni.
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Il primo problema che interessa tutti i lavoratori del settore turistico alberghiero riguarda il salario, ormai considerato troppo basso rispetto alla qualità e quantità del lavoro.
Ci sono titolari consapevoli di questa realtà, i quali integrano in vario modo le buste paga con soddisfazione del personale. In questi locali, cuochi, camerieri, altri collaboratori e donne ai piani ritornano volentieri anno dopo anno mentre in altri, troppi, il turnover è piuttosto accentuato con cambi di personale anche nel corso della stagione turistica.

Scrivo di questo problema nella speranza che chi ne ha facoltà possa intervenire, tenendo conto che da diversi anni i salari stanno perdendo peso rispetto al costo della vita.
Altro problema riguarda i controlli sul rispetto dei contratti di lavoro esistenti, sia per il numero delle ore giornaliere effettuate superiori a quanto indicato dai contratti di lavoro sia per quanto riguarda il salario stesso, i giorni di riposo, ecc. In questo caso, il nostro invito va alle Istituzioni interessate ad aumentare i controlli non per infierire ma per collaborare al rispetto dei contratti in atto.


È vero che esistono delle serie agenzie di collocamento ma, come prima accennato, ci vorrebbe un rapporto più stretto tra i fruitori del personale e gli istituti e le Scuole Alberghiere, che questo personale preparano con impegno e capacità. Il rapporto tra queste scuole e il mondo turistico alberghiero dovrebbe e potrebbe essere ispirato a più solidi principi collaborativi con indubbio vantaggio per tutte le parti: imprenditori, scuole, ragazze e ragazzi. In questo mese conclusivo dell’anno, ci è parso utile invitare i nostri lettori e, attraverso loro, le Istituzioni interessate a studiare il problema del personale di alberghi e ristoranti allo scopo di frenare la fuga all’estero di tanti giovani, di valorizzare in Italia il lavoro formativo delle scuole, università comprese che preparano il personale, creando nel contempo un sereno clima di collaborazione a vantaggio di tutti e del buon nome dell’ospitalità italiana, potenzialmente capace di attirare nuovi turisti in tutte le regioni del nostro Bel Paese.

Forno con alimentazione elettrica, dalle dimensioni contenute, concepito per la cottura di 1 o 2 pizze da 33 cm.


Forni elettrici a una o a due camere concepiti per la cottura di pizze e pinsa, in teglia e a pala.


Il Pulcinella Leon è un forno elettrico professionale che simula la cottura a legna, raggiungendo i 510°C per una vera pizza napoletana. È dotato di piano rotante in refrattario e tecnologia di gestione dell'energia per alta efficienza e bassi consumi.

Il nuovo forno ibrido Pulcinella Drago, dal design compatto e cuore napoletano, unisce la cottura a legna e quella elettrica per pizze fragranti e uniformi.






p p pinse.



Forni a tunnel con tappeto di cottura in refrattario. Montato su ruote e configurabile per ogni esigenza. Disponibile anche con tecnologia Industria 4.0.






















Galeotto fu(d) vuol essere una piccola opera corale, dove il cibo non è solo ciò che cuciniamo, ma













IMMAGINATEVI LONDRA
A NATALE, MA NON QUELLA DELLE COMMEDIE
ROMANTICHE CON HUGH
GRANT, PIÙ QUELLA DEL 2020, CALATA NEL DELIRIO DELLA
PANDEMIA, CON GLI AUTOBUS
VUOTI E GLI OSPEDALI PIENI.

A Brixton, in una moltitudine di container colorati- perché in questo quartiere mettono qualsiasi cosa dentro i container, compresi i locali- c’è una pizzeria piccola, piccolissima.

Dentro ci stanno un forno, due persone e giusto lo spazio di manovra per infornare e sfornare pizze.
Loro sono Alice e Tay Fun. Due amici che impastano, condiscono e consegnano.
La loro regola é la stessa da sempre: una pizza regalata per ogni pizza venduta. Arriva dicembre. Natale alle porte. E loro si guardano e dicono: facciamo qualcosa per alleggerire questo periodaccio!”.
MOLTE PIÙ PIZZE. MILLE, PER LA PRECISIONE. IN DODICI GIORNI. LE CHIAMANO


Grazie alla sua forma ottagonale, Il Faggetto resta stabile sulla platea.
Grazie alla sua forma ottagonale, Il Faggetto resta stabile sulla platea.
È più maneggevole da mettere in forno e anche più pratico da immagazzinare, nella confezione da 18 kg con 8 bricchetti. La differenza si vede subito!
È più maneggevole da mettere in forno e anche più pratico da immagazzinare, nella confezione da 18 kg con 8 bricchetti. La differenza si vede subito!

DESTINAZIONE:
OSPEDALI, CASE DI CURA, SUPERMERCATI, RIFUGI. ARRIVANO, LASCIANO LE PIZZE, SALUTANO E RIPARTONO: COME POSTINI DEL CARBOIDRATO PIÙ AMATO DEL MONDO.

Pensandoci bene poi, in fondo, la pizza è perfetta per Natale.
Ha già tutto: il rosso del pomodoro, il bianco della mozzarella. Le manca solo la barba.
Per il resto praticamente è Babbo Natale in versione commestibile.


Ad ogni consegna, provocano reazioni diverse: c’è chi ride perché riceve una pizza calda alle tre del mattino in corsia, perché ritrova, in quel profumo familiare, la speranza che qualcosa di normale é rimasto; c’è chi ne prende due: una per sé e una per il collega per rendere più sopportabile la fatica; c'è chi, tra un morso e l’altro, ritrova un po’ di serenità.
Mille pizze in dodici notti: il Natale lo hanno un po’ cambiato, mentre la città tossiva, cercando compagnia come poteva, sotto le lucine della festa.





a cura di Slow Food Italia www.slowfood.it
Inun’epoca segnata da crisi globali – guerre, cambiamenti climatici, dominio delle multinazionali sul cibo e accelerazione tecnologica che confonde comodità con felicità – emerge una voce fuori dal coro: è quella del Documento di Roma, Un’Altra Idea di Mondo, approvato dall’Assemblea Nazionale dei soci di Slow Food Italia l’11 e 12 luglio scorso presso la sede della FAO.
Attraverso un mosaico di riflessioni associative e citazioni intellettuali – da Alex Langer a Carlo Petrini, da Papa Francesco a Donna Haraway, passando per Italo Calvino e Rachel Carson – questo testo
non è solo un manifesto, ma una “cassetta degli attrezzi” per ridisegnare il nostro rapporto con la Terra, il cibo e noi stessi. Il Documento di Roma rappresenta quarant'anni di riflessione distillati in una visione che parte dal piatto per abbracciare l'intero pianeta, dalle relazioni umane agli ecosistemi, dalla politica alla cultura. È un invito a unirsi a Slow Food non come semplici consumatori ma come protagonisti attivi di un cambiamento necessario e possibile.
Il documento radica le sue origini nel Manifesto di Slow Food degli anni Ottanta, che denunciava il “virus della velocità” come frenesia alienante, proponendo la


lentezza come via al piacere autentico. Vent’anni dopo, Terra Madre ha elevato le comunità contadine a protagoniste, interpretando la globalizzazione non come uniformità, ma come rete di diversità ambientali e sociali. Oggi, di fronte a un mondo in bilico – autoritarismi rampanti, intelligenza artificiale che promette salvezza ma erode il pensiero critico, sistema alimentare concentrato in poche mani – Slow Food riafferma la sua missione: salvaguardare la biodiversità come “faro” per l’adattamento e la sopravvivenza umana. Non si tratta di nostalgia, ma di utopia concreta: riconoscere i limiti senza spegnere l’immaginazione, la gioia e il desiderio di un “altro mondo”.

Il documento identifica nel consumismo una forza più pervasiva di qualunque totalitarismo. Il suo potere sta nel veicolare l'adesione al mercato del superfluo come forma di realizzazione individuale, come massima espressione di libertà. La frenesia del consumo compulsivo non ha alcun rapporto con i reali bisogni degli esseri umani. Come scriveva Goffredo Parise già nel 1974, la povertà intesa come rifiuto della "robaccia" e capacità di assaporare le cose semplici - il pane, l'olio, il pomodoro - rappresenta una forma di educazione elementare ormai perduta. Il consumismo agisce sull'immaginario collettivo, annullando differenze e identità culturali per costruire una massa di consumatori che si somigliano. Il risultato è un degrado planetario che produce malessere, malattia, ingiustizia e infelicità. Citando Italo Calvino: "L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui". Ma Calvino ci indica anche la via: "cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio". Per uscire dal miope antropocentrismo serve un nuovo umanesimo fondato sull'ecologia integrale, che ci ricordi di essere animali tra gli animali, fatti quasi totalmente di acqua, dipendenti dalle piante per l'ossi-

geno e dalla terra per il cibo. Come scrive Papa Francesco nell'enciclica Laudato si', un'ecologia integrale è fatta di semplici gesti quotidiani che spezzano la logica della violenza, dello sfruttamento e dell'egoismo.
Il cuore del documento è la sezione che delinea gli strumenti per “leggere la realtà” attraverso lenti nuove. Al centro, il cibo, da cui “tutto prende vita”: non merce, ma ponte verso la terra, il suolo, l’acqua, la biodiversità. È cultura, piacere sensuale, lingua universale per empatia e accoglienza. Attraverso il cibo, si
scambiano idee, si celebrano diversità, si combatte l’omologazione. Spazio, poi, alla biodiversità, che non è solo diversità biologica ma anche ricchezza sociale e culturale. Include lingue, saperi, valori, musica, arte. Metterla al centro significa educarsi ad accogliere ogni diversità come ricchezza, difendere il diritto di selezionare e scambiare semi, tutelare le minoranze.
La Costituzione italiana stessa, modificata nel 2022, riconosce questa importanza tutelando "l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni".
L'approccio agroecologico propone un sistema agricolo basato sull'armonia tra attività umane e ambiente, integrando agricoltura e allevamento in modo sostenibile e circolare.
Il documento propone di superare i confini nazionali e amministrativi per adottare gli ecosistemi come nuove geografie.

Le terre alte, marginalizzate ma ricche di risorse essenziali come acqua pulita e biodiversità.
Le terre basse, sfruttate dalle monocolture ma dove si gioca la sfida della rigenerazione. Le terre d'acqua, ecosistemi cruciali ma compromessi.
Le aree urbane, dove riavvicinare città e campagna. Le comunità sono i veri agenti del cambiamento: basate su collaborazione, fiducia, partecipazione.
La bellezza infonde tensione e significato ai gesti quotidiani; il lavoro riacquista valore emancipatorio nell’artigianalità, integrando tecnologia senza schiavizzarla. Il femminile emerge come energia unificante, dal latte materno agli ecosistemi, opponendosi a discriminazioni maschili su viventi e risorse.
Bambini e giovani sono al centro: lo sguardo della meraviglia per i primi, la trasmissione di valori e saperi per i secondi, garantendo un futuro inclusivo.



Il documento si conclude con impegni precisi che Slow Food Italia si assume in tutte le sue espressioni:
• Difendere il diritto a un cibo buono, pulito e giusto per tutti, sostenendo chi produce nel rispetto dell'ambiente e pretendendo per ognuno una vita di pace e prosperità.
• Difendere il diritto al piacere, prendersi cura di sé e degli altri, condividere e godere della bellezza.
• Difendere il diritto alla lentezza, riconquistando spazi e tempi in cui agire.
• Difendere il diritto al pensiero e alla memoria, superando l'uso compulsivo della tecnologia per vivere con consapevolezza.
• Difendere la Natura perché, come afferma il documento in modo cristallino: "Noi Siamo Natura".
Il Documento di Roma non è un manifesto nostalgico né una dichiarazione di resa. È un invito a unirsi a una "rivoluzione gioiosa" in cui essere sempre di più a credere che "noi non consumiamo, noi scegliamo". Attraverso progetti come l'Arca del Gusto, i Presìdi Slow Food, l'Alleanza dei cuochi, gli orti, i Mercati della Terra e gli eventi come Terra Madre, Cheese e Slow Wine Fair, Slow Food costruisce concretamente questa alternativa, come un invito a rallentare, ad abbassare la pressione sulla biosfera, ad attenuare ogni forma di violenza. Un invito a riscoprire e praticare il limite non come privazione ma come opportunità. Un invito, in definitiva, a costruire insieme un'Altra Idea di Mondo, perché - come ci ricorda la poesia di Emily Dickinson – “la Natura è tutto ciò che vediamo, udiamo e conosciamo, nella sua semplicità che rende impotente la nostra sapienza”.
Se vuoi far parte anche tu di questo cambiamento, unisciti a Slow Food: basta andare sul sito web soci.slowfood.it
di Giampiero Rorato
la tradizione dei dolci natalizi ha radici lontane, precisamente nel iii secolo d.c. quando, in italia e poi in europa, i cristiani ebbero la possibilità di celebrare pubblicamente la festa del santo natale di gesù, fissata già allora il 25 di dicembre, appena dopo il solstizio d’inverno.
In quella occasione, i Cristiani si recavano alla Santa Messa di mezzanotte portando con sé dei pani speciali che venivano benedetti e poi offerti alle autorità religiose e civili, nonché ad amici e parenti: si trattava di pani particolari, grandi, dolci grazie all’aggiunta di sostanze dolcificanti, di pezzi di fichi secchi, di chicchi d’uva appassita.

questa tradizione si andò poi diversificando da luogo a luogo, sia nella forma del pane che degli ingredienti ad esso aggiunti in panificazione.
L’attuale Panettone milanese, con ricetta depositata presso le istituzioni di settore, è l’evoluzione più recente del pane preparato nel corso del ‘300, dopo l’editto di Costantino del 313 e quello dell’Imperatore Teodosio, che rese il Cristianesimo religione ufficiale dell’Impero Romano.
il panettone e il pandoro
Fino a meno di un secolo fa, il Panettone milanese era molto più basso dell’attuale, anche se confezionato con i medesimi ingredienti. Era ancora un dolce tipicamente locale, non conosciuto lontano da Milano. Fu un pasticciere milanese, Angelo Motta che, nel 1919, forse per un errore di lievitazione, si ritrovò con un dolce molto più alto del tradizionale. Quel pasticciere non si scompose ed anzi colse l’opportunità per lanciare non solo a Milano e Lombardia quel suo dolce che, in pochi decenni, divenne il più importate dolce natalizio in Italia e in tutto l’Occidente. Gli ingredienti scelti da Angelo Motta erano: farina di frumento, uova, burro, uvetta e scorze d’agrumi. Poco dopo, un altro pasticcere milanese, Gioacchino Alemagna, fece un panettone quasi analogo che ebbe grande fortuna in tutta Italia per le feste di Natale.
Altro dolce italiano natalizio, famoso e apprezzato in tutto il mondo, è il pandoro, così chiamato a ricordo di un dolce che, nei pranzi più importanti, il doge di Venezia offriva alle più illustri personalità in visita alla città. Tale dolce era ricoperto da una leggera lamina d’oro per mostrare agli ospiti la potenza e la ricchezza della Repubblica di San Marco.
Il Pandoro che noi conosciamo nacque per caso nel 1894 nella pasticceria del veronese Domenico Melegatti, il quale stava preparando il tradizionale dolce natalizio

della città scaligera, il Nadalin ma, per un errore di un suo collaboratore, lievitò a dismisura, arrivando alle dimensioni attuali. Dolce soffice e leggero, piacque subito e, in pochi anni, soppiantò a Verona il tradizionale Nadalin e si diffuse nel corso del secolo scorso, come il panettone, in tutto il mondo.
A questi due dolci se ne può aggiungere un terzo ampiamente diffuso e regalato in occasione delle festività natalizie: il Mandorlato, che ha tradizioni antiche in diversi luoghi d’Italia anche se realizzato in modo leggermente diverso.
i dolci natalizi regionali
In una veloce carrellata lungo lo Stivale, partendo da nordest, va detto che il più antico dolce natalizio tra Veneto e Friuli è la Pinsa, un impasto di farina di frumento e di mais con fichi secchi, uva sultanina, semi di finocchio selvatico. Nel corso del tempo, questo dolce ancor oggi diffusissimo ha subito aggiunte e/o varianti coma la polpa di zucca o d’altro. In Trentino Alto Adige, è diffuso lo Zelten, ricco di frutta secca e canditi; in Piemonte, godono oggi di buona fama il Bonet e il Torrone d’Alba. C’è il Micòoula in Valle d’Aosta, un dolce di segale e frumento arricchito con castagne, fichi secchi e uvetta.

In Liguria c’è il Pandolce Genovese, una sorta di focaccia dolce arricchita con canditi e uvetta.
In Emilia-Romagna, il Pan Speziale, detto anche Certosino, è un dolce ricco di frutta secca, miele e spezie. In Toscana, troviamo il Panforte, ricco di frutta secca e spezie, la cui ricetta è stata codificata attorno all’anno Mille ed è tuttora la medesima.
In Umbria, vi è il Pampepato, ricco di frutta secca e spezie. L’analogia con altri dolci natalizi qua sopra citati è la testimonianza dell’antichità di questi dolci, la cui origine va fissata attorno al III secolo d.C., come prima abbiamo ricordato. Nelle Marche, c’è il Frustingo, ricco di frutta secca e fichi. Famoso nel Lazio è il Pangiallo, un dolce antico di frutta secca e miele che presenta lievi variazioni da una provincia all’altra del territorio, arrivando anche a nord del Lazio.
Tipico in Abruzzo è il Parrozzo, dolce confezionato con mandorle e ricoperto di cioccolato. Nel Molise, il dolce che oggi è più diffuso è la Cicerchiata, composto da piccole palline di pasta fritte e amalgamate con miele. In Campania, troviamo una straordinaria varietà di dolci natalizi: struffoli, roccocò, mostaccioli, susamielli
e divino amore. In Puglia, ci sono diversi dolci natalizi, tipici delle varie aree territoriali; tra questi, sono famosi le cartellate, i calzoncelli e le pettole. In Basilicata, le tradizioni natalizie assomigliano molto a quelle pigliesi e campane. In Calabria, troviamo per le feste natalizie i Mostaccioli, i Petrali e la Pitta ‘mpigliata o ‘nchiusa.
nelle isole
La Sicilia è un’isola che, nel corso dei secoli, ha conosciuto la presenza di diversi popoli arrivati anche da lontano, ad iniziare dai Greci, arrivati tra l’ottavo e settimo secolo a.C. dei quali rimangono illustri vestigia come il teatro greco di Siracusa, i templi di Agrigento e altro ancora. Poi, sono arrivati i Romani; quindi, nell’ottavo secolo d.C. gli Arabi, poi ancora Svevi, Normanni, Spagnoli, Francesi, Inglesi ed altri ancora… e tutti hanno lasciato dei loro ricordi entrati nella tradizione gastronomica dell’isola. I dolci principali preparati per le feste di Natale sono oggi i Buccellati, la Cassata, il Torrone, i Nucatoli e i Mostaccioli. Merita ricordare che nel comune di Castelbuono si produce un pa-
nettone di grande eccellenza, conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo. Molto interessanti anche i dolci natalizi della Sardegna, fra i quali ricordiamo: il Pan’e Saba, i Papassini (o pabassini), il Torrone, i Mostaccioli e il Gattò de mendula.
Nella nostra carrellata non hanno trovato posto, soprattutto per motivi di spazio, i tantissimi altri dolci natalizi che caratterizzano la ricchissima gastronomia locale del nostro Paese.
I dolci citati sono, tuttavia, sufficienti per farci capire lo straordinario patrimonio dolciario dell’Italia, che merita essere conservato nonostante il commercio proponga soprattutto panettoni e pandori. Ma non dobbiamo limitarci a questi due, anche se molto buoni.

IN PIZZERIA: IL CONFINE SOTTILE TRA ECCELLENZA E IMPROVVISAZIONE

di Enrico Bonardo, Direttore marketing Scuola Italiana Pizzaioli
Il panettone artigianale è diventato un mercato da oltre 260 milioni di euro ma il dato più sorprendente è che più del 20% dei panettoni “artigianali” oggi non nasce in pasticceria. Molte pizzerie, attratte da margini elevati e da un forte valore identitario, hanno iniziato a inserirlo nella propria offerta stagionale. Alcune si appoggiano a laboratori esterni, altre tentano la produzione interna. Ed è qui che il fenomeno mostra tutta la sua fragilità. Il panettone è un lievitato estremo: doppio impasto, emulsioni complesse, lievito madre da governare con precisione millimetrica, temperature che non ammettono deviazioni, strutture che collassano se la tecnica non è impeccabile. Non è un prodotto “da aggiungere” al menù: è un organismo vivo che richiede competenze avanzate. E i dati di mercato lo confermano: nelle analisi comparative, una quota significativa dei panettoni provenienti dal mondo pizza evidenzia instabilità, acidità fuori controllo e shelf-life ridotta. Il problema non è il pizzaiolo ma l’illusione che la manualità della pizza possa essere trasferita automaticamente ai grandi lievitati. Le pizzerie che ottengono risultati davvero convincenti sono quelle che trattano il panettone come un progetto industriale, non come un esercizio stagionale. Perché, al di là dell’entusiasmo, un panettone mediocre danneggia l’immagine del locale molto più di quanto la presenza del prodotto possa valorizzarla. Al contrario, un grande lievitato eseguito correttamente diventa un segno distintivo che comunica controllo tecnico e ambizione professionale. Il mercato dei panettoni è un’opportunità reale per le pizzerie ma è un terreno che richiede studio, disciplina e capacità di misurare ogni fase del processo. La differenza tra eccellenza e improvvisazione è abissale. E oggi il cliente lo percepisce immediatamente.
www.scuolaitalianapizzaioli.it
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MOLINO NALDONI
Via Pana 156, Faenza (RA) T. 0546 40002 naldoni@molinonaldoni.it

www.molinonaldoni.it
INGREDIENTI (per 6 persone)
➢ Per la sfoglia:
1. 300g farina Ideale per Pasta Fresca Molino Naldoni
2. 3 uova
➢ Per il ripieno:
1. 300g ricotta
2. 200g squacquerone
3. 100g Grana Padano
4. 4g sale
5. Noce moscata e scorza di limone (una grattugiata a piacere)
Disporre a fontana la farina sulla spianatoia. Conservare 50g di farina per poterla utilizzare eventualmente in un secondo momento, a seconda della grandezza delle uova. Aggiungere le uova ed impastare delicatamente fino a creare un impasto liscio, omogeneo e senza grumi. Avvolgere l’impasto con la pellicola lasciandolo riposare circa 30 minuti.
In una ciotola mescolare la ricotta, lo squacquerone e il Grana Padano grattugiato, il sale, la noce moscata e la scorza di limone. Amalgamare il composto fino a renderlo uniforme e lasciare riposare in frigorifero.
Stendere l’impasto con il matterello di legno fino ad ottenere una sfoglia di 2-3 mm di spessore. Con una rotella zigrinata tagliare la sfoglia, utilizzando il matterello come se fosse un righello. Ottenere dei quadretti di sfoglia al centro dei quali verrà adagiata una quantità di impasto tale da consentire la chiusura a cappelletto. Cuocere in un ottimo brodo portato ad ebollizione, finché non salgono in superficie (2 minuti circa).
I cappelletti possono essere consumati freschi oppure inseriti subito nel freezer o in abbattitore (su un vassoio di carta, magari su una spolverata di farina o semola, per non farli attaccare).


Giunto alla quattordicesima edizione, “I Dolci delle Feste dei Grandi Interpreti by Mulino Caputo”, è un appuntamento per custodire e al tempo stesso rinnovare il patrimonio dolciario del Sud Italia, coinvolgendo maestri pasticcieri chiamati ogni anno a confrontarsi su un tema diverso.
Le feste – non solo quelle natalizie – sono da sempre terreno fertile per l’arte bianca: panettoni e roccocò, struffoli e zeppole, pastiere, migliacci, raffioli, torte conventuali e lievitati di ogni forma punteggiano le tavole e le tradizioni di ogni regione. Quest’anno, però, il focus è stato volutamente ristretto a uno dei simboli più antichi della tradizione meridionale: la cassata. Sontuosa e barocca, di origini siciliane, la cassata affonda le radici in più di dodici secoli di storia, dalla “ricotta addolcita col miele” ai contributi arabi, normanni e poi borbonici. La cassatina, invece, è la sua interpretazione napoletana: un formato più piccolo, più leggero, nato dall’incontro tra maestri siciliani e sensibilità partenopea. Come ricorda Antimo Caputo, patron dell’evento: «La Cassata è un dolce che racconta la grande arte dei pasticcieri del Sud. Dalla Cassata siciliana, arrivata a Napoli, è nata la cassatina: piccola, monoporzione, più leggera». Il tema non è stato scelto per nostalgia ma per indagare la tensione viva tra tradizione e artigianalità contemporanea. «Il nostro obiettivo», aggiunge Caputo, «era porre l’attenzione sull’artigianalità, stimolando la creatività dei pasticcieri e, contemporaneamente, di custodire la storia della pasticceria, adattandola allo stile di vita contemporaneo.





Con la consapevolezza che la vera evoluzione non può prescindere dal rispetto delle proprie radici».
Ed è proprio lo stile di vita contemporaneo ad aver guidato la maggior parte delle proposte presentate quest’anno. Se, in passato, i dolci delle feste venivano percepiti come pesanti, oggi il sentimento comune è un altro: ridurre zuccheri, alleggerire, rendere il dolce più accessibile, più inclusivo, più vicino anche ai giovani. Non solo leggerezza, ma anche attenzione alle intolleranze e alle esigenze nutrizionali di un pubblico moderno che non vuole rinunciare al gusto.
Molti maestri hanno raccontato apertamente questa esigenza. È il caso di Rocco Cannavino di Zio Rocco, che con la sua “Cassatina lievitata” ha esplicitamente dichiarato: i giovani “scappano” dai dolci tradizionali quando sono troppo zuccherini; modificando ricetta e intensità, invece, si riavvicinano.
Lo vede sulle sue figlie.
È la direzione seguita anche da Santi Palazzolo, che ha portato sia la cassata classica – omaggio alla storia siciliana – sia un tronchetto reinterpretato, con zuccheri ridotti, arancia intensificata e ricotta alleggerita. Il tema ritorna anche nella proposta senza lattosio di Salvatore Capparelli, pensata esplicitamente per “renderla accessibile a tutti”, o nell’equilibrio agrumato e più pulito di Giustina Brasiello, che nella sua Armonia mediterranea lavora sul frangipane di mandorla, la mousse di ricotta, il fondente, il pistacchio e l’arancia mantenendo al minimo gli eccessi zuccherini.
Perfino nelle versioni più fedeli alla tradizione riaffiora questo sguardo attuale: Sal De Riso, con la sua Cassata oplontina, alleggerisce zuccheri e grassi pur mantenendo ricotta di bufala, pan di Spagna allo Strega, canditi e albicocca semicandita; Marco Infante, nella sua Trilogia di cassatine, gioca con gianduia, mandorla di Toritto e amarena cercando nuove consistenze; Carmine Di Donna trasforma la cassata in una ciambellalievitato, mettendo la ricotta di bufala direttamente nell’impasto; Sabatino Sirica, con il suo pasticcino di cassata cotta, punta sulla delicatezza; Pasquale Pesce ripropone la sua Cassata avellana, marchio registrato, mantenendo la ricotta di pecora ma lavorando sulla pulizia dei sapori; Salvatore Catapano costruisce una versione aromatica a forma di Bûche de Noël;




Salvatore Gabbiano torna al miele e alla frutta secca; Santi Palazzolo, infine, conclude con una cassata barocca che onora Avola, la pasta reale e la ricotta di pecora.
Il filo conduttore? Rispetto della storia, ma con uno sguardo limpido su ciò che serve oggi. Non distruggere la tradizione, ma renderla praticabile per un pubblico contemporaneo.
E forse è proprio questo che rende la cassata e la cassatina dolci perfetti per rappresentare l’edizione 2025: un dolce antico, che continua a evolversi senza perdere identità. Un dolce che parla delle feste di ieri e delle abitudini di oggi.


Un dolce che resta fedele alla sua radice artigianale ma che, come ricorda Caputo, può essere riletto all’infinito: «L’innovazione di ieri è la tradizione di oggi».
Un percorso che dimostra come l’artigianalità del Sud continui a vivere, crescere e trasformarsi. E che, anche attraverso un dolce che attraversa le epoche, sappia ascoltare i bisogni del presente. Le feste e i dolci che le accompagnano rimangono così testimoni di un equilibrio tra memoria, tecnica, gusto e innovazione. Dopotutto, cosa sarebbero le feste senza i dolci che le raccontano, le impreziosiscono e le rendono memorabili?
panettoni artigianali e inclusione sociale
Restando in tema di dolci per le feste, meritano una menzione quelle realtà che uniscono gusto, tradizione e impegno sociale, come iCare, cooperativa attiva nel territorio della provincia di Benevento con progetti di inclusione, educazione e comunità. Quest’anno, per Natale, il Laboratorio di Pasticceria
Sociale DolceMente presenta la sua linea di panettoni artigianali, realizzati da ragazzi e giovani insieme a operatori e volontari con passione e cura. Le varianti spaziano dal tradizionale al Chocolat, dal Segreto del Bosco al Biancaneve, dai Fichi e Noci alla Cocca Bella, fino a Oro Verde e alla novità Pampera. Ogni dolce racconta una storia di impegno, creatività e comunità, trasformando la preparazione e la condivisione del panettone in un gesto di inclusione e convivialità, capace di unire gusto, tradizione e valore sociale.



“Il pane ti restituisce quello che sei. Il pane sente come sei tu. Se sei arrabbiato, allegro, stanco o distratto, lo vedi nel risultato. È come una fotografia del tuo stato d’animo.”
Partendo da questa verità profonda, la storia di Ivo Corsini – panificatore, pasticciere e formatore, proprietario di “Corsini Forno dal 1875”, a Porretta Terme (BO) – si dispiega come un impasto ben lievitato: radicata in una tradizione familiare secolare ma arricchita da una curiosità senza confini. È un racconto che intreccia la disciplina di un maestro con l’umiltà di chi sa che, nel pane e nella vita, non si smette mai di imparare.
Ivo, raccontami chi sei. So che la vostra è un’attività di famiglia con radici antiche.
Sì, la nostra storia parte da lontano, dall’Ottocento. Io praticamente ci sono nato. Mio padre e mia madre facevano entrambi questo mestiere. Mio padre, però, mi diceva sempre: “Non farlo, ti rapisce. Ti prende tempo, relazioni, vita. È un lavoro che ti fa suo”. Ma non riuscì a scoraggiarmi. Avevo già la passione dentro, trasmessa da lui. Dopo le superiori, feci il militare e, all’epoca, la mia grande passione era l’equitazione. Il mio cavallo è stato con me per 24 anni, un vero compagno di vita, capiva le mie emozioni. A un certo punto dovetti scegliere: continuare con i cavalli o intraprendere la strada di famiglia. Scelsi la seconda. Mio padre, come aveva fatto suo padre con lui, mi mandò a “imparare il mestiere” di pasticceria in giro per l’Italia. Negli anni ’50 e ’60 lui era stato uno dei primi a introdurre la pasticceria accanto alla panificazione. Era stata una rivoluzione per l’epoca. Aveva imparato nelle pasticcerie più antiche di Bologna.

Tu sei la quinta generazione, giusto?
Sì. E, come da tradizione, fui mandato a fare esperienza fuori. La prima fu a Pistoia, da un maestro severissimo, che poi è diventato il mio mentore: Gastone Pegoraro. Diceva: “Domenica mattina alle cinque qui”. Se fossi arrivato alle 05:05, la porta sarebbe stata chiusa. Era il suo modo di insegnarti disciplina e rispetto. E, credimi, non voleva in cambio nulla di più, infatti insegnava gratis. Da lui ho imparato tanto. Nel 2001, partecipai alle selezioni italiane della panificazione a Brescia. Preparai pane per mesi ma, durante la gara, un forno si spense e l’altro bruciò tutto. Arrivai terzo. La settimana dopo, c’erano le selezioni per le brioches, avevo solo sette giorni per prepararmi. Alla fine, arrivai primo. C’era Iginio Massari, che assaggiò tutte le mie brioches e mi disse: “dopo ne parliamo”. Da lì mi si aprirono un sacco di porte.
Qual è stato l’insegnamento più importante del tuo maestro?
Mi ha insegnato a non accontentarmi mai, a non pensare di essere arrivato, a restare umile e curioso. Diceva: “Quando sali su un piedistallo, la caduta fa male, cerca sempre di essere pronto ad appren-
dere cose nuove”. Questo è stato il suo insegnamento più importante, anche se per me non è stato difficile seguirlo: in famiglia ci contraddistingue l’umiltà. Nel 2006, ricevetti una telefonata da un manager giapponese, si parlava di una multinazionale, erano interessati ai miei prodotti. Mi chiese 20 ricette e la licenza d’immagine per cinque anni. Poi mi invitò in Giappone a insegnare. Portai con me Gastone, il mio maestro. Che ha sempre “mandato avanti” me. Non mi ha mai scavalcato, anzi. E questo fu un altro insegnamento molto importante.
Dev’essere stata un’esperienza straordinaria.
Sì. Quando atterrammo a Osaka, trovammo un cartellone enorme: “Benvenuti in Giappone, Ivo Corsini”. Ci ospitarono al Ritz Carlton. Il secondo giorno dovevamo scattare delle foto, fu un’esperienza unica. Vedevamo le nostre foto accanto a grandi marchi internazionali. Insegnare ai giapponesi fu incredibile. Sono di una precisione quasi commovente: cronometri, termometri, registrazioni. Se avessi buttato pomodori e olive su una focaccia, avrebbero segnato dove cadevano, per rifarlo identico.

Però tutta questa precisione sembra mancare di parte emotiva e quella secondo me nel piatto si sente, no?
Lì, la regola dà sicurezza. Non c’è spazio per l’improvvisazione. Diciamo che hanno un’emozione controllata.
Hai portato a casa qualcosa da quell’esperienza?
Sì, tantissimo. Ho imparato l’importanza dell’organizzazione e della trasmissione dei processi. Da allora cerco di insegnare ai miei ragazzi ogni passaggio, senza segreti. Così, anche quando non ci sono, il laboratorio funziona. E poi ho imparato a guardare ai gusti con occhi diversi, traggo ispirazione anche da queste cose qui, da tutto ciò che apprendo girando e dai gusti degli altri. I giapponesi, per esempio, hanno una salivazione più bassa e preferiscono prodotti e impasti più umidi: basti pensare a come mangiano il riso o alle zuppe. Così ho adattato alcune ricette, aumentando l’idratazione e curando l’elasticità della mollica.
Che cosa ti appassiona di più dell’insegnamento?
Il pane ti restituisce quello che sei. Il pane sente come sei tu. Se sei arrabbiato, allegro, stanco o distratto, lo vedi nel risultato.
È come una fotografia del tuo stato d’animo. È stato difficile far comprendere le innovazioni o la loro utilità a mio padre. Lui diceva: “Da 150 anni facciamo il pane così e ora vuoi cambiare le cose”. Ma io avevo imparato nuove tecniche in Europa, utili a risparmiare anche tempo ed affrontare il lavoro diversamente: lavorazioni diurne, cotture notturne, gestione della lievitazione. Gli dimostrai che potevano migliorare la qualità e la vita dei lavoratori, prendendo, per esempio, una cella di controllo della lievitazione. Alla fine, si convinse ma solo toccando il risultato con mano, attraverso dimostrazioni.
Ecco, proprio in virtù di questo, come sei riuscito e come riesci a mantenere equilibrio tra tradizione e innovazione?
Con la pazienza. Mio padre andava a occhio: “Quattro dita d’olio, due palozze di malto…” Io allora prendevo gli ingredienti dall’impastatrice, li pesavo, scrivevo tutto. Poi andavo ai corsi: parlavano di 2%, 3%, biga, pasta di riporto… non ci capivo nulla. Quando cominciai a fare il pane, veniva uno schifo: pieno di bolle, rosso, da buttare via. Mio padre diceva: “Vedi? Il nostro pane lì non si può fare”. Io però continuavo a provare, riprovare, telefonare ai maestri, andare a Brescia, Pistoia, Firenze… finché una notte mi venne un pane migliore del suo. A quel punto gli dissi: “E adesso cosa dai ai tuoi clienti?”.
E lui mi rispose: “Mi tocca dargli il tuo”. Da lì, comprai una cella adeguata e iniziammo a fare il pane in questo nuovo modo. Da una tipologia siamo passati a due, poi tre. E non eravamo più indispensabili nel venire la notte a lavorare. Da lì adottammo celle di lievitazione e nuovi processi di fermentazione controllata. Oggi lavoriamo con lievito madre vivo, rinfrescato quotidianamente. È un organismo delicato, richiede equilibrio tra acidità lattica e acetica: se l’acidità prevale, l’impasto si irrigidisce; se è troppo debole, il pane risulta piatto. Serve ascolto.
Quanti tipi di pane fate oggi?
Una trentina, tra pane tradizionale e specialità. Molti li gestiamo in negativo, cioè precotti o crudi e poi rigenerati. Dal 2006, grazie alla collaborazione con Irinox, utilizziamo abbattitori a temperatura negativa: il freddo blocca l’attività enzimatica, conservando umidità, elasticità e profumo. Spesso un pane rigenerato è più buono di uno sfornato otto ore prima.
E il vostro pane simbolo?
Il “Brutta”. È senza sale, semplice, genuino. Siamo al confine tra Toscana ed Emilia. Ne vendiamo tantissimo, ci ha permesso di farci conoscere, è veramente buono. Ha crosta croccante e mollica profumata. Il sale manca e, proprio per questo, emergono le note di grano e di lievito. È un pane che “parla”.
E, invece, le tue idee da dove arrivano?
Dai viaggi e dalle persone, come ti dicevo già a proposito del Giappone. In Cina, ho adattato farine e condimenti per creare focacce leggere ma saporite. In Australia, Canada, Croazia, Georgia… ogni Paese mi ha ispirato. Vado nei mercati, assaggio, annuso, prendo appunti e creo.
Tua figlia Matilde seguirà le tue orme?
Sì, ho due figli, lei ha 21 anni e studia Scienze Gastronomiche a Pollenzo. Prima aveva fatto ragioneria, poi ha capito che la sua strada era qui. È stata con me per un po’ ma ho cercato di trasmetterle l’idea secondo la quale è necessario avere una visione più ampia, soprattutto relativamente alla comunicazione. È una cosa importante, che io a mio tempo non ho saputo far veramente mia.

Tutti i migliori ingredienti più uno... la nostra autentica passione
Lei ha scritto una relazione bellissima in inglese sulle emozioni legate al nostro lavoro e su cosa significa trasformare la materia in emozione. Non era facile, è stata bravissima. Non l’ho mai forzata, ma sapere che, in modo naturale, ha assorbito la nostra passione è una grande soddisfazione.
Quali sono le creazioni di cui sei più fiero?
La focaccia di Porretta, sintesi tra quella genovese e quella bolognese: croccante fuori, morbida e umida dentro, grazie a un doppio impasto e a una finitura d’acqua e olio prima della cottura. È fragrante, leggera, profumata d’olio d’oliva. Poi, i pani a lievito madre con lunga maturazione: crosta sottile, acidità lieve e struttura elastica. Li ho fatti tutti quelli a lievito madre, anche lì ha un’acidità però molto tenue, non troppo aggressiva, non troppo invadente.
E tra i prodotti dolci?
Il panettone: questo, fatto a lievito madre, ti dà grande soddisfazione perché, assieme al pandoro, sono i due prodotti più difficili da far lievitare, i più complessi.
Se dovessi scegliere: pandoro o panettone?
Amo il panettone. Fai conto che nell'impasto dei panettoni abbiamo 5 kg di farina e altri 15 kg di prodotto che non è farina; quindi, è tutto da sollevare e da sostenere, è un equilibrio molto delicato fra acidità del lievito madre, abilità nell’inserire gli ingredienti e grande rispetto verso la farina e verso il lievito.
Cosa vuol dire grande rispetto verso la farina?
Vuol dire che io non la devo sollecitare troppo, perché i tempi di impastamento sono lunghissimi. Se hai una farina estre-

mamente naturale, quindi non ha glutine aggiunto, acido ascorbico e una serie di correttivi che sulle farine di poca qualità vengono aggiunti, puoi ottenere però un grande beneficio quando lo vai ad assaggiare. Una scioglievolezza in bocca incredibile. Il panettone è questo, poi devi scegliere un buon candito. Lo sapevi che ha anche un valore simbolico? L’uvetta rappresenta il denaro, l’arancio l’amore, il cedro l’eternità. Regalare un panettone è un gesto di augurio.
Prepari anche qualche altro tipo di dolce per le feste?
Il torrone, che è fantastico, me l’ha insegnato proprio Gastone, un torrone morbido con nocciole e pistacchi: è buonissimo. Ho la fortuna di avere qua vicino un amico che ha un’azienda biodinamica, fa un miele che è da andarci fuori di testa; è così chiaro, di acacia. Il torrone viene morbidissimo. Anche lì sono pochi ingredienti ma è veramente fantastico. Poi facciamo tutto quello che faceva mio papà, non abbiamo smesso di farlo ed è ancora qua che lo facciamo: le Raviole, le colombine, i biscotti, i cantucci.
Le Raviole e le Colombine?
Sono una pasta frolla al latte, all’interno di una mostarda bolognese che è praticamente una marmellata di mele cotogne. La colombina invece non è lievitata ma è una pasta frolla con all’interno la mostarda bolognese, uvetta, pinoli. Veniva fatta una volta nelle famiglie di Bologna e le andavano a impreziosire con qualche ciliegia candita. Si faceva quando era proprio festa, insomma, venivano fatte quando c’erano degli eventi importanti in famiglia.
E a me, oltre a quanto già raccontato, cosa faresti assaggiare?
Una torta ai frutti di bosco con una crema pasticciera fatta come una volta, cotta sul fuoco e poi in forno. La magia è nella pasta frolla: è la ricetta di mio padre, che tutti dicono “sbilanciata” ma è perfetta così com’è, con i frutti di bosco sopra. Poi, un ciambellone da inzuppare nel latte freddo, quello vero della colazione. Il pane di segale. E, per restare sul salato, una focaccia di farina di mais, con curcuma e una spolverata di pepe per esaltarne i benefici. Grazie a un’idratazione generosa e a un lungo pre-fermento, è così leggera che te ne mangi mezza in un soffio.

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storie di pizza
Spesso basta pronunciare Rimini per richiamare alla memoria i fasti dell’estate degli anni ’80, i gloriosi film di Vanzina e le trasmissioni televisive di Gigi Sabani. Ma Rimini è molto altro: è la storia di Paolo e Francesca e della famiglia Malatesta, l’agricoltura ricchissima della Romagna e, non ultimo, il percorso dalle tante curve – reali e simboliche – che conduce alla conoscenza della Comunità di San Patrignano.
San Patrignano è la più grande comunità di recupero per tossicodipendenti d’Europa, fondata nel 1978 e, da quel momento, ha accolto oltre 26.000 persone, offrendo loro una casa, assistenza sanitaria e legale, la possibilità di studiare e di imparare un mestiere e reimmettersi sul mercato del lavoro. Una volta giunti qui, il panorama abbraccia la costa adriatica e la campagna si distende in un mosaico di vigneti e campi coltivati.
Il rapporto tra la Comunità e il mondo esterno è possibile grazie a Sp.accio, un progetto nato nel 2008 come vetrina della comunità e banco di prova dei suoi ospiti. In questo luogo, la pizza diventa molto più di un piatto:
è il simbolo tangibile che ricominciare è possibile, che il talento può sbocciare anche dalle situazioni più difficili, che la dignità del lavoro ben fatto può restituire senso e futuro a chi l’aveva perduto. Il negozio e la pizzeria rappresentano,

infatti, due importanti realtà per la formazione delle persone inserite nel percorso. Sp.accio è nato proprio come uno dei molti progetti di formazione professionale legati all’agroalimentare e, fin dagli inizi questo luogo è stato un laboratorio sociale e del gusto insieme, diventando banco di prova finale del recupero attraverso il rapporto diretto con una professione e con la clientela.
La struttura che accoglie Sp.accio racconta già da sola una storia di rinascita e trasformazione. Un’affascinante ex stazione di posta settecentesca è stata recuperata con sapienza, preservando l’anima storica del luogo e integrandola con una visione contemporanea. Muri di mattoni a calce dialogano con ampie vetrate che incorniciano il paesaggio, mentre gli arredi minimal e raffinati conferiscono alla struttura un aspetto elegante ma accogliente.
Ogni dettaglio degli interni è stato curato e realizzato artigianalmente dai settori del “Design Lab “della Comunità di San Patrignano: arredi in legno, decorazioni, lavorazioni in ferro e metalli, tessili per la tavola.
Il risultato è uno spazio dove l’eleganza non è mai ostentata ma si respira in ogni angolo, dalla sala al piano terra fino agli spazi del primo piano, tutti con vista sul mare e sulle colline.
A fare da cornice, il rilassante panorama collinare che nelle giornate più limpide sembra quasi toccare l’orizzonte marino. Il grande giardino esterno, con i suoi tavoli disposti a godere della vista, diventa nelle serate d’estate il luogo ideale dove il piacere della buona tavola si fonde con la bellezza del paesaggio.

Al piano terra, si trovano il negozio e l’emporio, veri scrigni di eccellenze che testimoniano meglio di tante parole l’impegno con cui i ragazzi svolgono il loro percorso, alla ricerca dell’eccellenza e di una nuova vita.
Il negozio propone vino, formaggi, salumi e prodotti da forno, che raccontano la maestria artigianale conquistata giorno dopo giorno, ma anche pelletteria, accessori, piccola falegnameria e persino fiori freschi. A questi, poi, si uniscono alcune eccellenze del nostro Paese, in un locale che è una vera e propria boutique del gusto.
Le pizze proposte dal locale sono un mix di esperienza e naturalità, prodotti ottenuti con studio, ricerca e continue prove, per riuscire a offrire quel perfetto equilibrio tra sapore e leggerezza e tra tradizione e innovazione. Fatte con farine selezionate da grano italiano macinato a pietra e pasta madre, l’impasto riposa 24 ore in cassetta. Qui si può scegliere tra diversi impasti: classico, con crusca, grano spezzato, segale o kamut.
L’attenzione maniacale per la materia prima è evidente in ogni pizza che arriva
al tavolo. I capperi sono esclusivamente di Pantelleria, il pomodoro è rigorosamente San Marzano della Campania, la mozzarella di bufala è DOP; i salumi vengono lavorati nei laboratori della comunità utilizzando solo carne di mora romagnola; i formaggi sono prodotti esclusivamente con il latte bovino e ovino degli allevamenti di San Patrignano.
Nel menu si trovano sia la classica Margherita che proposte più elaborate come la “Samia”, con fiordilatte, funghi cantarelli, “mucchino di San Patrignano” (formaggio semistagionato), prosciutto cotto, cipollotto gratinato al forno e maionese al basilico.
Sp.accio è una realtà in continua evoluzione e oggi affianca la pizza con una proposta di cucina che fonde lo street food a tecniche più ricercate: si va dall’hamburger con bacon croccante e cheddar, tagliate di carne pregiata, piatti unici che celebrano il territorio, accompagnati dai vini della cantina di San Patrignano e da una selezione di birre artigianali di alta qualità. Ma ciò che rende davvero unico Sp.accio non si esaurisce nella qualità gastronomica, per quanto eccellente. Come spiega Marco Bragaglia, responsabile della pizzeria: “Spaccio è una storia di rinascita e di riscatto.
Ragazzi e ragazze arrivate in comunità sconfitti, scoprono, si formano e si appassionano al lavoro in pizzeria, che sia al forno o in sala, regalando ai clienti un’esperienza difficile da dimenticare. Una voglia di far bene che si gusta in ognuna delle pizze che arrivano a tavola e che si legge negli occhi di chi le serve”.

Questo luogo ha contribuito a formare una generazione di pizzaioli avviati al lavoro una volta usciti dalla comunità e, al contempo, ha saputo catalizzare l’amicizia di molti professionisti che hanno condiviso con le persone in formazione saperi ed esperienza. La consulenza storica di Giuliano Pediconi, esperto di farine e lievitazioni, ha guidato fin dall’inizio il percorso verso l’eccellenza.
Oggi la pizzeria collabora con pizzaioli di grande talento come Luca Mastracci e Jacopo Mercuro, che portano avanti un dialogo continuo sulla pizza contemporanea. I riconoscimenti non sono mancati:
Sp.accio è stata eletta miglior pizzeria d’Italia 2016 da Gastronauta.it mentre la Guida Pizzerie d’Italia del Gambero Rosso le ha assegnato il massimo riconoscimento dei “Tre Spicchi”.
Ma, più di ogni trofeo, contano le storie di chi qui ha trovato una seconda possibilità, come quella testimonianza di un giovane che racconta di essere entrato a San Patri-


gnano a diciassette anni, con una vita fuori controllo e che oggi, dopo l’esperienza in sala a Sp.accio, lavora in un ristorante raffinato sul mare, studia le lingue e vuole diventare sommelier.
Andare a Sp.accio vuol dire essere pronti a fare un’esperienza gastronomica e umana unica, a capovolgere il proprio punto di vista. Significa scoprire che dietro ogni pizza perfettamente lievitata, dietro ogni sorriso di chi serve in sala, c’è un percorso di fatica, determinazione e speranza.
Significa sostenere un modello di impresa sociale dove il lavoro diventa riscatto e testimonianza, dove l’eccellenza non è solo un obiettivo gastronomico ma anche umano.

storie di pizza
“Bisogna fare un piccolo sacrificio per poter arrivare a un grande risultato”. Queste parole di Mara Mancosu racchiudono la sua filosofia di vita e di lavoro. Dalla passione per la cucina trasmessa dai nonni, alla sfida di aprire una pizzeria tutta sua in Lombardia, Mara – che da piccola sognava di preparare gli gnocchi – racconta un percorso fatto tra tradizione, studio e amore per la pizza, mostrando come dedizione e impegno possano trasformare un sogno in realtà. Un mix perfetto di umiltà, gentilezza e genuinità, che l’hanno portata ad aprire, nel 2017, Domo mia a Nibionno (LC).

Ti sei proprio innamorata della pizza. E non perché qualcuno ti abbia spinto a farlo.
Esatto, sì. È proprio una passione che ho avuto, credo da sempre.
Mara, raccontami chi sei e da dove sei partita. Ho 35 anni, origini campane e sarde. Mi sono trovata in Lombardia perché i miei vi si sono trasferiti quando erano giovani. Ho fatto l’alberghiero ma ci sono arrivata grazie ai miei nonni materni e paterni, che erano amanti della cucina. La domenica si passava in famiglia, si cucinava e si mangiava bene. La passione è nata dagli gnocchi, dai ravioli, dal pesce e da tutta una serie di bontà che preparavamo e che mi porto nel cuore. Oggi i miei nonni purtroppo non ci sono più, però mi hanno trasmesso questo amore. Io sono nata come cuoca ma, dal bancone della cucina, guardavo sempre quello della pizzeria. Ho rubato un po’ il mestiere, finché non sono arrivata al Campionato Mondiale della Pizza di Parma.
La pizzeria, invece, quando è arrivata?
Io e il mio compagno lavoravamo entrambi come dipendenti, in due locali molto belli e in zone altrettanto belle. Un giorno ci siamo guardati e abbiamo detto: “Vogliamo essere dipendenti per sempre? Proviamoci.” Allora abbiamo aperto il nostro locale nel 2017.
Il nome “Domo mia”, come mai? Vi siete lasciati ispirare dall’immagine di casa? Proprio perché significa “casa mia”. Infatti, quando i nostri clienti parlano di noi, la cosa che ci dicono sempre è che si sentono a casa, che stanno bene, che si sentono coccolati. Quello lo facciamo con tutti. Quindi la gente sta seduta tanto, chiacchiera tanto, gli piace parlare anche
con noi. È proprio una situazione familiare, anche tra collaboratori: i clienti si sentono così. Ecco, questa è la soddisfazione più bella per noi.
In merito invece allo stile della pizza: so che unisci lo stile napoletano e quello sardo, giusto?
Allora, “nì”. Nel senso che la nostra è una pizza tipica napoletana. Io arrivo dalla scuola dell’Associazione Verace Pizza Napoletana, i cui Maestri sono sempre stati un po’ i miei mentori. Ho sempre fatto anche in casa una pizza di quel tipo, con una lievitazione fatta in giornata, perché il nonno la preparava la mattina per la sera, con farine deboli, insomma, come si faceva una volta a Napoli. Poi, sono andata a studiare farine, lievitazioni, maturazioni e sono arrivata a fare un impasto napoletano ma gestito in frigo, che arriva fino a 24 ore. Quindi la mia base è napoletana. Il “pezzo” di Sardegna è invece legato agli ingredienti, perché uso ingredienti che arrivano dalla mia terra.

Perfetto. Mentre invece il tuo compagno è napoletano o sardo?
Il mio compagno ha origini napoletane e venete.
Un mix tutto italiano! Ma quindi, alla fine, il tuo impasto oggi com’è? Come lo prepari?
Io preparo un impasto diretto. Ogni fine settimana proponiamo impasti diversi. Sperimentiamo con le farine e faccio anche impasti con pre-fermento. Tra le farine che uso, vi sono: Grano franto, Grano arso, Grani antichi, Farro, Tipo 1 e Tipo 2.Sperimento, insomma. Per esempio, ne ho preparato uno al profumo di rosmarino: buono! Faccio degli impasti più piccoli e li faccio assaggiare ai clienti. Quello al rosmarino l’ho portato anche al recente Campionato europeo della Pizza, svoltosi a Milano.
Mannaggia, guarda, io amo il rosmarino. Peccato, quest’anno mi sia persa il Campionato. Senti, per quanto riguarda gli abbinamenti sulla pizza, come ti vengono in mente?
Innanzitutto, cerco di creare un connubio tra ristorante e pizzeria per evitare sprechi. Cerco di ideare ricette che possano essere utilizzabili su entrambi i fronti. Per esempio, in questo momento ho il risotto con la zucca, il “Quarto Taglio”, che è un formaggio prodotto dalle “Fattorie da Sogno”, praticamente attaccate a noi e la luganega di Monza della “Macelleria del Gallo”.
Ho fatto il risotto con sopra anche la sbriciolata di taralli. Dall’altra parte, ho utilizzato la crema di zucca ma modificando un po’ gli ingredienti. Per me è importante anche non sprecare.
Sì, infatti so che sei molto attenta anche alla sostenibilità.
Sì, esatto. Per noi è importante utilizzare prodotti di stagione. Usiamo molto il sottovuoto, l’abbattimento, e tutta una serie di lavorazioni che mi permettono di mantenere bene il prodotto e di utilizzarlo in entrambi i reparti. Sono anche una “pizzaiola per il cambiamento”. È un progetto ampio che potrebbe avere un grande risultato. Per me significa, prima di tutto, partire dalle materie prime: prodotti di stagione, a km zero. A volte costa, perché sono piccoli produttori, però bisogna fare un piccolo sacrificio per poter arrivare a un grande risultato.
Penso che questo sia un concetto applicabile in più campi, non soltanto in cucina. Senti, ma a proposito di cucina, tu cucini e fai le pizze?
Sì.
Non deve essere semplice districarsi su due fronti.
No, per niente. Diciamo che non ho una preferenza: amo entrambe, sia la pizza che la pasta. Mi occupo di tutta la linea, ho un collaboratore che mi aiuta con i condimenti e il mio compagno si occupa di tutto ciò che è in sala.
Vi compensate molto bene.
Credo sia per quello che ci siamo trovati.
Qual è la tua pizza più richiesta?
La Margherita, sempre. Anche perché i nostri clienti apprezzano il taglio manuale del fior di latte. È il nostro must, arriva da giù. La seconda, che porterò anche al mondiale, è la “Gigi”, dedicata a mio nonno Ferdinando, che tutti chiamavano Gigi. È una pizza con polpette, ciliegine di mozzarella, pomodoro del piennolo: una pizza emozionale.

Farine Mulino Padano per la Pizza, create pensando a te.
Sì. In ogni sacco ci mettiamo anche i tuoi sogni, i tuoi progetti e la tua passione, per aiutarti a creare una pizza che raggiunga l’eccellenza. Perché ogni impasto racconta la tua storia.

Quando metti l’emozione nel piatto, penso che venga trasmessa a chi la mangia. E queste polpette le prepari alla napoletana?
Eh sì, come le faceva mio nonno.
Invece il piatto più richiesto?
La fregola ai frutti di mare, una pasta tipica sarda difficilissima da trovare qui. Questa e il maialino sardo sono i piatti più richiesti.
Fammi un esempio di pizza con ingredienti sardi che mi faresti assaggiare.
“Marchigeddu”, la pizza che ho dedicato a mio papà. Si chiama Marco, e “Marchigeddu” in sardo significa “Marcolino”. Ha base di pomodoro San Marzano, mozzarella fior di latte, salsiccia sarda fresca, spianata sarda piccante e, in chiusura, salsiccia secca e pecorino grattugiato.
La prenderei anch’io! Anche se non amo particolarmente il finocchietto.
Neanche io, infatti faccio anche la doppia versione; per chi la vuole, c’è anche con la salsiccia normale.
Perfetto! Adesso ci siamo proprio. E, invece, la tua pizza preferita? La marinara. Amo il pomodoro.
In vista delle feste, ti capita di preparare pizze dolci o dolci tradizionali?
Sono un po’ contro le pizze dolci. Noi prepariamo personalmente i dolci. Mi sono resa conto che alcuni sono richiesti tutto l’anno: quando faccio gli struffoli li vogliono sempre, ma anche la pastiera. Diventa impegnativo.

Perdonami, poiché lo amo, il mio pensiero è rimasto sull’impasto al rosmarino. Mi spieghi come l’hai fatto?
(ridiamo, ndr) Allora, ho fatto un pre-impasto idratato al 50%. All’interno, ho messo il 10% di rosmarino, che ho fatto essiccare e sbriciolato. L’ho fatto maturare 24 ore, poi ho chiuso l’impasto con la farina napoletana rossa di “Le 5 Stagioni”, che mi ha permesso di mantenere un’elasticità importante e di conservare i profumi. Il risultato è che, sia visivamente che al gusto, si sentiva il rosmarino.
E cosa ci hai messo sopra?
Essendo periodo autunnale, ho deciso di utilizzare anche una tecnica di cucina: alla base tre creme diverse – zucca, sedano rapa e patate –, mozzarella fior di latte, polpo cotto a bassa temperatura e poi grigliato, chips di zucca e sedano rapa e, in chiusura, una crema di “Quarto Taglio”, un formaggio che assomiglia al taleggio. Poi, ho aggiunto un trito di semi di zucca e rosmarino, con un filo d’olio. Era molto profumata, proprio come volevo e i colori erano autunnali.
Hai qualche altra idea in mente?
Oh sì, vorrei provare con le bacche di mirto. Il problema è che si trovano solo in determinati periodi dell’anno, quindi bisogna organizzarsi. Usare bacche e foglie sarebbe bello, perché creano effetti diversi.
Mara, si sente che ami il tuo mestiere. Ma da bambina che volevi fare?
Gli gnocchi! (ridiamo, ndr) Però anche l’artistico. Mia mamma mi diceva: “Ma che vuoi fare da grande?” Io rispondevo: “O cucino o dipingo.” E lei: “Va bene, però se vuoi dipingere poi devo venire a prenderti sotto un ponte.”
La cucina è comunque una forma d’arte, quindi in qualche modo hai realizzato un sogno.
Quello sì, infatti in qualche modo ho unito le due cose.




“Gli tisti della pizza”
Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Artisti della pizza”. Dicembre è stato dedicato al nostro caro pizzaiolo Ciocan Vili, che esalta il gusto del Marzanino con la sua “Marzanino allo sgombo”. Un pomodoro eccellente e particolarmente apprezzato dagli intenditori per il suo gusto dolce. Il Marzanino profuma intensamente e contiene pochissimi semi, ideale per ogni ricetta. Sulla pizza si esalta con ricotta fresca e radice di peperoncino: un perfetto equilibrio mare–monti dal sapore intenso e sorprendente.


Questa è la storia di Federica Pucciarello ed è una storia di inclusività. Una storia bella e importante per noi che la raccontiamo, di rivincita e di entusiasmo per chi la vive ma, soprattutto, una storia da cui imparare. Mai come in questo caso la cucina è un mondo accogliente e inclusivo, motore di felicità, scuola e modello su cui costruire centinaia di storie come quella di Federica.

Abbiamo conosciuto e incontrato Federica lo scorso mese al Premio Internazionale “Anna Dente Ostessa” 2025, conferito a lei e ad altre 44 donne che si sono distinte nel settore dell’enogastronomia, raccogliendo l’eredità e la passione di una cuoca simbolo di tradizione e modernità come Anna Dente.
Federica Pucciarello, classe 1986, è stata assunta qualche mese fa come aiuto cuoco all’Aleph Rome Curio Collection by Hilton, un hotel 5 stelle sito in via San Basilio a Roma. Fin qui nulla di così eclatante, se non fosse che Federica è una chef con sindrome di Down.
Nei suoi 39 anni, Federica ha sempre avuto le idee chiare, ha sempre saputo quello che voleva fare e, senza mai arrendersi o farsi abbattere dai pregiudizi, è andata dritta all’obiettivo, ovvero la cucina.
Terminato il percorso all’Istituto d’arte, ha la consapevolezza che “l’arte che mi piace non è quella grafica, ma quella della
cucina”. Così, supportata dai genitori, Patrizia e Gianni, si iscrive all’Istituto alberghiero e grazie, poi, alle prof che ne avevano intuito talento e caparbietà trova il suo primo stage. Qui è l’inizio di tutto, al contrario di quanto teorizzava il suo psicologo, come ci racconta la mamma di Federica:
“era totalmente contrario al nostro assecondare le sue scelte, ci disse che la stavamo illudendo, che non ce l’avrebbe fatta, con il rischio di sentirsi frustrata. Forse quello che non ce l’ha fatta è proprio lui, visto che mia figlia, seppur con i suoi tempi e le difficoltà del caso, è oggi sous chef in un ristorante di lusso a Roma”.

Potremmo pensare alla storia di Federica come a una favola moderna di rivalsa, consapevolezza e ambizione, con una bella dose di “girlpower”, dove al posto del principe azzurro c’è un sogno da realizzare.
Ed è Federica che lo ammette senza troppi giri di parole nella puntata de Il cacciatore di Sogni, programma tv andato in onda su Rai 3, quando dice: “il mio progetto futuro è diventare una sous chef e avere un contratto di lavoro a tempo indeterminato”. La prima cucina di Federica è stata quella de “La Cacciarella”, una trattoria romana nel quartiere tiburtino, dove ha lavorato per ben 8 anni; poi nel 2019 passa al ristorante “Etico Food” all’interno di “Albergo
Etico” di Roma, a due passi da Piazza del Popolo. Si tratta del primo hotel ad avere come personale principale persone con disabilità. Un progetto nato dall’esperienza di Antonio Pelosi che, dopo un periodo di coma a causa di un incidente in moto, capisce che la riabilitazione abbinata al lavoro raddoppia la sua efficacia. Da qui, l’idea di mettere su un albergo dove far fare tirocinio a chi si risveglia da un coma e ad altre persone con fragilità di vario tipo. L’esperienza di Federica Pucciarello all’Etico Food inizia post pandemia nel 2022 accanto allo chef Paolo Marigliano, che è stato immediatamente conquistato da lei, tanto da seguirla da vicino e farla crescere in tempi record. All’inizio le affida la pasticceria, soprattutto, le crostatine, che erano talmente buone, al punto che oggi tutti le conoscono come “le
crostatine di Federica”, per poi ampliare le sue mansioni in cucina. Alla fine del tirocinio, forte di quanto imparato e fatto da “Albergo Etico”, per Federica c’è il grande salto, il sogno che si realizza ovvero la firma del contratto come sous chef presso il ristorante dell’Hotel Aleph sempre a Roma. Qui il suo ruolo è diversificato, Federica si muove dal dolce al salato con disinvoltura. Anzi, possiamo dire che ama cambiare e mettersi alla prova su piatti e ricette diverse.
Mamma Patrizia, dal canto suo, non è rimasta a guardare: a conclusione del tirocinio della figlia, dà vita a un’associazione con la mission di accompagnare dopo il tirocinio da Albergo Etico, che si impone sulla scena come una sorta di hub per ragazzi con disabilità e fragilità, verso nuove esperienze lavorative nel settore hospitality finalizzate all’assunzione.
ProEtico Roma viene fondata nel giugno 2024 e il progetto “Etico Out” che si poneva come obiettivo almeno 3 assunzioni nell’arco dell’anno va ben oltre ogni aspettativa registrando otto ragazzi contrattualizzati. Tra questi, c’è anche Federica.
La stessa Patrizia Cristofano, mamma della cuoca, ci riporta la sua soddisfazione e quella della figlia: «Lo staff dell’Aleph ha fatto dell’inclusione un valore fondamentale: insieme a Federica lavorano infatti altri due ragazzi con sindrome di Down ed entrambi vengono dall’Etico».
L’assunzione di Federica all’Aleph è - e deve rappresentare - una ricchezza umana per l’azienda e ci auguriamo che sia da esempio per altre realtà lavorative,

così come l’intero suo percorso pieno di impegno e di successi. Ma Federica è una donna energica e dalle mille risorse, tanto da aggiungere a tutto ciò un altro importante tassello, il suo primo libro di cucina, Il piatto è pronto e buon appetito (Edizioni Ponte Sisto), una raccolta di ricette personali, semplici e gustose, testimonianza della sua creatività e dedizione. Il libro di Federica fa parte della collana editoriale “Voci invisibili”, un progetto che dà spazio a chi, nella vita, è spesso penalizzato o messo ai margini, pensato per offrire un’opportunità di espressione e far emergere storie e talenti che meritano di essere ascoltati.
La storia di Federica, che abbiamo scelto di raccontarvi in chiusura di quest’anno, ci insegna che non bisogna mai smettere di sognare: lo dice in modo chiaro nel suo
libro. Con il suo istinto, la sua gioia autentica e la sua simpatia travolgente, unite a una determinazione straordinaria nel voler realizzare i suoi sogni e progetti, Federica ha saputo scardinare ogni stereotipo e pregiudizio, tracciando per sé e anche per chi è come lei una strada nuova, non scontata ma “normale”.
Ora non resta che aspettare la realizzazione del suo sogno più grande - come ci ha confidato - ovvero aprire un ristorante tutto suo. E, come lei stessa insegna: basta crederci!
ANatale e Capodanno, l’Italia si divide tra Vigilia di magro e pranzi di carne, tra cenoni che sembrano non finire mai e brindisi beneauguranti a base di spumante. In mezzo, quasi sempre ai margini, c’è un grande assente: la birra. Eppure, proprio il mondo birrario offre oggi strumenti perfetti per raccontare i piatti delle feste in modo diverso, con abbinamenti capaci di esaltare tortellini, capitone, cotechino e dolci della tradizione almeno quanto - e talvolta più - di molti vini scelti all’ultimo momento.


Illustrazioni di Giulia Serafin
Il sorso scorre rapido, il palato si pulisce e il boccone successivo sembra sempre il primo. Quando arriva il capitone, spesso fritto, oppure una grande frittura mista di pesce, il discorso cambia. Qui entrano in , birre nate nelle campagne belghe ma perfette per i cenoni del Sud: secche, vivaci, con una leggera speziatura pepata e una carbonazione sostenuta, sono in grado di alleggerire la grassezza del fritto e di gestire senza timori le note più intense del pesce. Nel caso del baccalà Blanche, birra di frumento belga, agrumata e delicatamente speziata – aggiunge un tocco di scorza d’arancia e coriandolo che si sposa con la sapidità del merluzzo e accompagna molto bene anche zeppoline e verdure in pastella.
Spostandosi verso il Centro-Nord, il momento sacro diventa il pranzo del 25 dicembre. In molte case, l’apertura è affidata ai tortellini in brodo di cappone, piatto apparentemente delicato ma in realtà ricco di grasso e profumi. Qui una Helles Kellerbier, poco amara e dal profilo maltato morbido, rappresentano una compagnia ideale: richiamano le note di pane e crosta ed esaltano la parte “carnosa” del ripieno e del brodo, senza sovrastare la complessità del piatto. Servita ad una temperatura di poco superiore ai 5°C, anche in un semplice calice da vino bianco, diventa a tutti gli effetti parte della ritualità del pranzo.
LA BIRRA
Quando sulla tavola arrivano lasagne, paste al forno o timballi, con stratificazioni di ragù, besciamella e formaggi, è il momento di salire di corpo. Una Bock ambrata o una Märzen, con la loro struttura maltata, le note di caramello leggero e di pane tostato, sostengono la ricchezza del condimento e offrono quel sorso pieno che molti cercano in un rosso di corpo. Boccone dopo boccone, la birra rinfresca, pulisce e prepara alla forchettata successiva, senza creare quella sensazione di fatica che a volte danno vini troppo tannici. Il grande bollito misto, con le sue carni differenti e la compagnia di salse come bagnetto verde, bagnetto rosso, cren o senape, chiede un alleato ancora diverso. Qui funzionano alla perfezione le Strong Bitter inglesi o le Altbier tedesche: ambrate, equilibrate tra malto e luppolo, con un buon amaro netto ma non aggressivo, sono in grado di bilanciare la tendenza dolce della carne, confrontarsi con la sapidità complessiva e la vivacità delle salse, senza perdere eleganza.
La notte del 31 dicembre, l’Italia torna improvvisamente unita intorno a un simbolo preciso: il piatto di cotechino e lenticchie. Il maiale, morbidissimo e grasso, incontra le lenticchie, considerate da sempre portafortuna per forma e colore, richiamo ideale alle monete e all’abbondanza del nuovo anno. Di fronte a un piatto così, una semplice Lager rischia di sparire. Molto più interessante è scegliere una Belgian Dubbel o una Strong Ale ambrata, con sentori di frutta secca, caramello e una leggera tostatura. Queste birre dialogano con le note dolci del maiale, abbracciano la componente terrosa delle lenticchie e, grazie al grado alcolico più elevato, regalano anche una piacevole sensazione di calore, perfetta per il clima di festa. Dove al cotechino si preferisce lo zampone, spesso servito con purè di patate o polenta, si può anche osare una Rauchbier, la tipica birra affumicata tedesca, purché scelta in una
versione non estrema. Il carattere fumé trova un sorprendente punto d’incon tro con la componente carne, mentre il corpo maltato sostiene la dolcezza del contorno, creando un abbinamento qua si “rustico” che funziona benissimo nelle serate d’inverno.
Quando il pranzo sembra finito, in realtà entra in scena un altro menu nel menu: quello dei dolci delle feste. Panettone e pandoro dominano le tavole del Nord e non solo, mentre al Sud si sommano struffoli immersi nel miele, roccocò duri e speziati, mostaccioli al cioccolato, pan forte, torroni morbidi o friabili. Con il pa nettone classico, magari ricco di canditi e uvetta, le Christmas Ale o Winter Ale spesso ambrate, dal profilo caldo, con note di caramello, frutta secca e talvolta spezie, rappresentano l’abbinamento più naturale. Le leggere spezie, i profumi di frutta matura e la dolcezza contenuta si intrecciano con la struttura del dolce, sen za sovrastarlo. In alternativa, una belga, secca ma generosa in profumi frut tati, offre una lettura più “snella” dell’ab binamento, adatta a chi non ama eccessi di dolcezza nel bicchiere.


I dolci tipici del Natale meridionale, come struffoli, roccocò e mostaccioli, giocano su miele, cannella, chiodi di garofano, frutta secca e cacao. Qui una Belgian Strong Dark Ale o un Barley Wine entrano in campo con tutti i loro richiami a toffee, fichi secchi, datteri, noci e mandorle. Il sorso è intenso - quasi da liquore - e accompagna bene piccoli assaggi ripetuti, trasformando la fine del pasto in un momento di vera meditazione. Con torroni di qualità, ricchi di nocciole o mandorle e con i dessert al cioccolato più importanti, è difficile trovare qualcosa di più efficace di una Imperial Stout. Le sue note di caffè, cacao, liquirizia e talvolta vaniglia costruiscono un ponte diretto con il dolce, quasi a sostituire il caffè o l’amaro di fine pasto. Servita leggermente più calda rispetto a una birra “da seduta”, in un bicchiere a coppa o in un piccolo calice, diventa a tutti gli effetti un digestivo da sorseggiare lentamente.
Resta il momento più iconico: il brindisi di mezzanotte. Qui la birra non deve imitare lo spumante ma può proporsi come alternativa credibile per chi cerca bollicine diverse. Le Italian Grape Ale rappresentano il ponte più naturale: birre rifermentate in bottiglia, con aggiunta di mosto d’uva come ingrediente, dal perlage fine, secche al palato, con profumi che spaziano dall’uva bianca alle note floreali e fruttate. Servite in flute o in calici da spumante, accanto a panettone, pandoro e torroncini, offrono un’esperienza molto vicina a quella delle bollicine ma con un carattere aromatico più marcato. Chi ama chiudere in grande stile può scegliere anche una Tripel secca e ben carbonata, da stappare come fosse uno Champagne “d’autore”: il grado alcolico più elevato scalda, le note fruttate ricordano pera, mela, talvolta banana e spezie e il sorso resta comunque abbastanza agile da permettere il bis.
Portare la birra sulle tavole di Natale e Capodanno non è un vezzo per appassionati ma un modo per rileggere la tradizione italiana con un linguaggio diverso. Gli stessi piatti di sempre, dai tortellini al capitone, dal cotechino al panettone, possono raccontare storie nuove se affiancati da birre pensate per dialogare con le loro consistenze, i loro profumi e la loro struttura. La chiave sta nella consapevolezza: scegliere lo stile giusto, servirlo alla temperatura adeguata (mai ghiacciata, soprattutto per le birre più complesse), usare bicchieri che permettano ai profumi di aprirsi e, soprattutto, condividere con gli ospiti il perché di quell’abbinamento. È in quel momento, tra una spiegazione e un brindisi, che la birra smette di essere un intruso e diventa, a tutti gli effetti, uno degli ingredienti della festa.


Sono donne del vino. Sono figlie del Vulcano. E sono proprio loro le protagoniste di “Etna’s Wine Women – Le figlie del vulcano”, lo short film sulle “Donne dell’Etna DOC” prodotto da Italy Wine Tv che si è aggiudicato tra i 10 film finalisti la menzione d’onore al Wine Spectator Video Contest 2025, prestigiosa competizione internazionale promossa dalla celebre rivista americana dedicata al settore vitivinicolo. Un riconoscimento speciale che premia la creatività, l’originalità e la forza del racconto visivo, che ha convinto la giuria internazionale.
Il film, di appena due minuti, è il racconto di un'alchimia, di un rapporto profondo e antico con il territorio, l’Etna appunto, che affonda le sue origini in una dimensione quasi onirica, in una leggenda generatrice di vita (e di vite) che si perpetua nel tempo e arriva ai giorni d’oggi dove queste donne sono simbolo di forza e custodi di memoria e sapere.
Etna’s Wine Women racconta questo legame, quasi viscerale, tra il vulcano e le sue figlie. L’Etna è la madre generosa e severa che offre la sua terra a queste sei donne che hanno il compito di trasformare la roccia in vigna. Un dono prezioso, che è anche un gesto di sfida, una scommessa raccolta. Da
quelle vigne, nasce un vino che conserva e combina la memoria della lava, la durezza della roccia e la grazia femminile di chi lo coltiva e lo racconta.
In questi due minuti scorrono le immagini evocative e di grande forza narrativa di paesaggi estremi, attraversati da queste donne, avvolte in lunghi veli bianchi, che avanzano senza paura e leggere sulla cenere dell’Etna. Sono le “figlie del vulcano”, custodi del fuoco e della pietra, della lava che diventa terra fertile, della viticoltura che qui è un atto d’amore e di resistenza.

Nella sua seconda parte, la pellicola le segue nella loro dimensione quotidiana e contemporanea e le racconta una per una: Gina Russo, alla guida della “Strada del vino e dei sapori dell’Etna”; Manuela Seminara di “Tenute Ballasanti”; Irene Badalà, vignaiola del suo omonimo progetto; Aurora Ursino, agronoma dalla visione lucida; Maria Carella, enologa di “Nicosia”; Marika Mannino, direttrice della “Strada del vino”; Maria Gambino ed Elisa Vasta dell’azienda “Vini Gambino”; Federica Milazzo, miglior sommelier di Sicilia del 2022. Tutte donne determinate che hanno deciso di legarsi e intrecciare la propria vita a quella della terra e attraverso il loro vino, che non è solo prodotto, ma è identità, dare voce all’Etna. Un legame antichissimo tra il vulcano e le donne che si rinnova con ogni vendemmia.
Il film prodotto da Massimo Gavello e Rodolfo Carrara, con la regia e le riprese di Vladimir Di Prima e Alfio Vecchio (FilmKam Catania), è disponibile online (www.etnaswinewomen.com) e nasce in collaborazione con l’associazione “Donne del Vino”, del “Consorzio e della Strada del vino e dei sapori dell’Etna”, con l’intento di celebrare proprio quel legame profondo tra il vulcano e le donne che ogni giorno ne raccontano l’identità attraverso il loro lavoro, qui narrato con cura e delicatezza e di portare al territorio una visibilità internazionale di grande valore, un’occasione per raccontare al mondo l’unicità dell’Etna doc, capace di coniugare natura, storia e innovazione.
La tradizione del lavoro femminile nelle vigne sull’Etna è lunghissima: da sempre, chi lavora in campagna è donna – fa notare Francesco Cambria, presidente Consorzio “Etna Doc”, che spiega come il legame tra la viticoltura e la figura femminile affonda le sue radici nella storia etnea e oggi si rinnova con nuove energie e professionalità. In questo film, c’è la perfetta rappresentazione della competenza, passione e visione che le donne hanno del territorio e della viticoltura praticata qui con coraggio e orgoglio.

La stessa presidente “Strada del Vino e dei Sapori dell’Etna”, Gina Russo, commenta con entusiasmo la partecipazione al progetto che racconta l’intera identità etnea attraverso la voce delle donne, custodi di tradizione e interpreti autentiche della cultura del vulcano: “Le donne sono sempre state al centro della famiglia e dell’accoglienza, ed è anche grazie a questo ruolo che oggi riescono a raccontare l’Etna in modo autentico.
È un invito a scoprire il vulcano con i suoi paesaggi, i suoi sapori e la sua straordinaria umanità”. La stessa partnership costruita in occasione di questo film incarna appieno lo spirito delle Donne del Vino - sottolineano Daniela Mastroberardino, presidente nazionale delle “Donne del Vino” e Roberta Urso, delegata della Sicilia - della loro volontà di fare rete e unire competenze ed energie per valorizzare
il ruolo femminile in un comparto in continua evoluzione. Qui l’Etna, con la sua forza e unicità, diventa il simbolo di un racconto più ampio, che parla di territori, identità e passione”.



IL MONDO CAMBIA MOLTO VELO-
CEMENTE E QUELLO CHE OGGI
TROVIAMO NELLA GASTRONOMIA
SENZA GLUTINE È FRUTTO DI
STUDI E LAVORI SEMPRE PIÙ
APPROFONDITI PER OTTENERE
PRODOTTI DI ALTA QUALITÀ E
BELLI DA VEDERE. TRA QUESTI,
TROVIAMO I GRANDI LIEVITATI
TIPICI DEL NATALE: PANETTONE E PANDORO.
Ormai, chi mangia senza glutine vive il Natale con molta più serenità, tra luci, regali e cene in famiglia. Una volta, la ricerca di un panettone o di un pandoro che non facessero rimpiangere la versione “classica” era un sogno, una chimera. Oggi, il mondo dei grandi lievitati gluten free ha fatto il salto di qualità definitivo: i laboratori artigianali hanno iniziato a dedicare linee, spazi e competenze specifiche a chi vive senza glutine, trasformando quello che prima era un compromesso in un vero prodotto di pasticceria.

NEL NATALE 2025, QUESTO
CAMBIO DI PASSO È
EVIDENTE. ACCANTO ALLA
GRANDE DISTRIBUZIONE, UNA SERIE DI ARTIGIANI
– SPESSO GIÀ AFFERMATI
NEL MONDO DEI LIEVITATI
– HANNO MESSO A PUNTO
PANETTONI E, IN ALCUNI
CASI, PANDORI O “PANETTONI PANDORATI”
PENSATI PER CELIACI E INTOLLERANTI.
Cinque nomi, in particolare, rappresentano bene questa evoluzione. Vediamoli insieme in un piccolo “grand tour” del Natale senza glutine.
A Napoli, Leopoldo Infante ha scelto di affiancare alla tradizione partenopea una linea specifica “senza glutine e senza lattosio”, con un punto vendita dedicato e una presenza strutturata anche online.


I gusti non mancano, ma dietro le quinte la scelta è stata chiara: concentrarsi prima di tutto sul panettone classico, considerato il banco di prova più importante. È su quello che si misura davvero la capacità di far dimenticare al cliente di stare mangiando un dolce senza glutine. Solo dopo aver lavorato sulla struttura, sui profumi, sulla tenuta dell’impasto, arrivano le varianti più golose. In confidenza, Leopoldo Infante in persona mi ha detto che il “pezzo del cuore” resta il panettone al cioccolato fondente, che mette insieme il lato più rassicurante del dolce delle feste con la gola pura del cioccolato. Il messaggio, in fondo, è semplice: se il classico funziona, il resto è una conseguenza.

A Sant’Egidio del Monte Albino, nell’agro nocerino-sarnese, il Mastro Dolciere Giuseppe Pepe è da tempo un punto di riferimento nel mondo dei grandi lievitati. Qui il senza glutine non è un ripiego ma una declinazione naturale del lavoro sui panettoni. Accanto al panettone classico, proposto anche in versione senza lattosio, una delle “punte di diamante” è il panettone con l’albicocca “Pellecchiella” del Vesuvio, anch’esso disponibile in variante senza lattosio. Una scelta che racconta bene la filosofia del laboratorio: partire da una materia prima identitaria del territorio, come l’albicocca vesuviana e portarla dentro un grande lievitato gluten free senza rinunciare a struttura, morbidezza e complessità aromatica. In questo modo il panettone senza glutine non solo regge il confronto con quello tradizionale, ma diventa anche veicolo di una precisa idea di pasticceria legata ai luoghi.
Per chi vive tra Nocera e Pagani, “Il Mondo Senza Glutine” è ormai un nome familiare. Il laboratorio nasce espressamente come realtà totalmente gluten free e questo, per chi deve fare i conti ogni giorno con il rischio di contaminazione, è già una garanzia in più. A Natale l’offerta si allarga con una gamma di panettoni artigianali che spazia dai gusti più classici alle versioni vegan, senza latte e senza uova, pensate per chi deve conciliare più esigenze alimentari nella stessa famiglia. Accanto al panettone, è arrivata anche una proposta “pandorata”, che rilegge la morbidezza del grande lievitato veronese in chiave senza glutine. Il risultato è una tavola di festa in cui il commensale celiaco non ha bisogno del suo “dolce separato” ma può condividere il centro tavola come tutti gli altri.
Sulla Costa d’Amalfi, il nome di Sal De Riso è da tempo sinonimo di pasticceria d’autore. Il fatto interessante, per chi mangia senza glutine, è che questa attenzione alla qualità non si ferma davanti alle esigenze del pubblico gluten free. Per il Natale 2025, il laboratorio propone tre panettoni senza glutine, tutti anche senza lattosio: il Panettone Milanese, il Panettone al Cioccolato Fondente e il Panettone al cioccolato e arancia candita. Tre interpretazioni diverse dello stesso impasto pensate per chi non può – o non vuole – consumare glutine ma desidera comunque un dolce da alta pasticceria, con agrumi canditi di qualità, cioccolato selezionato e la stessa cura dedicata al resto della produzione.
È UN SEGNALE CHIARO: IL SENZA GLUTINE NON È UN’AGGIUNTA MARGINALE AL CATALOGO MA UNA PARTE RICONOSCIUTA E STRUTTURATA
DELL’OFFERTA NATALIZIA DEL LABORATORIO.
Salendo verso nord si arriva a Parma, dove il maestro pasticcere Claudio
Gatti, Presidente dell’Accademia
Maestri del Lievito Madre, ha scelto di spingersi ancora oltre con il progetto “Natural Sweets”, una pasticceria interamente dedicata al mondo free from. Qui il panettone senza glutine è al centro della proposta, non una parentesi stagionale. Nella linea natalizia trovano spazio panettoni senza glutine e senza lattosio che puntano su un’idea di pasticceria più leggera e attenta al benessere, senza però rinunciare alla struttura del grande lievitato: impasti studiati, ingredienti selezionati – dall’uvetta siciliana alle scorze d’arancia candite – e un lavoro di ricerca costante per ottenere una mollica soffice, umida, aromatica. È la dimostrazione che il senza glutine può essere il cuore di un progetto contemporaneo, non solo un adattamento.
Mettendo insieme queste esperienze, il quadro che emerge è chiaro: nel 2025 il panettone – e, dove presente, il pandoro o le sue varianti – gluten free è un prodotto che può tranquillamente occupare il centro della tavola natalizia. Non è più “il dolce per il celiaco” ma un grande lievitato che può piacere a tutti, con in più il vantaggio di essere sicuro per chi deve evitare il glutine.


Per chi vive senza glutine, però, restano alcune buone abitudini da non dimenticare. La prima è la lettura attenta dell’etichetta, verificando la dicitura “senza glutine” evidenziata come previsto dalla normativa e controllando l’elenco degli ingredienti. La seconda è informarsi, quando possibile, sulla gestione delle contaminazioni in laboratorio: sapere se il prodotto viene realizzato in ambienti dedicati o con protocolli specifici aiuta a scegliere con maggiore consapevolezza. La terza riguarda i tempi: i panettoni artigianali gluten free, soprattutto quelli di qualità, vengono prodotti spesso in quantità limitate e per un periodo ristretto; quindi, conviene muoversi d’anticipo con prenotazioni e ordini.
ALLA FINE, LA SCELTA
DIVENTA QUASI UN GIOCO DI IDENTITÀ: L’IMPORTANTE È CHE, ANCHE A NATALE, NESSUNO SIA COSTRETTO A RINUNCIARE AL PROPRIO PEZZO DI PANETTONE. PERCHÉ IL PIACERE, ATTORNO A UNA TAVOLA, HA SENSO SOLO SE È DAVVERO CONDIVISO.


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Simboli delle feste natalizie, sintesi di tradizioni gastronomiche, emblemi di storia regionale italiana: zampone e cotechino non sono semplicemente due ricette ma un intero universo culinario. Come spesso accade, la loro storia e quella delle loro origini si fa ben presto leggenda, accettata di buon grado e con un sorriso, anche se si sa che è ammantata di fervida immaginazione. Nel nostro viaggio natalizio, partiamo quindi dalla
passando per i fatti. È il 1511 e le truppe pontificie di papa Giulio II assediano il castello di Mirandola (fra il 19 dicembre 1510 e il 20 gennaio 1511): stremati dalla fame, per non sfruttare le poche risorse cerealicole ancora presenti in città, ai mirandolesi non restano che i maiali come alimento. Piuttosto che regalarli al nemico, decidono di macellarli tutti e conservare le carni nelle zampe e nella cotenna degli animali. Pare che l’idea

di Pico della Mirandola, consegnando così ai posteri la ricetta. In realtà, la breve durata dell’assedio e il fatto che nei secoli successivi i riferimenti documentati non siano molti, sollevano molti dubbi sulla fondatezza della storia. Più probabili sono, piuttosto, le origini contadine: il maiale si macellava, infatti, all’inizio dell’inverno e la lavorazione delle carni aveva come obiettivo quello di garantirne la disponibilità per i mesi successivi.
Di qui la necessità di conservazione, che aveva in prosciutti e salami i suoi protagonisti. C’erano, poi, delle preparazioni che non necessitavano di stagionatura e che permettevano di consumare anche i tagli meno nobili dell’animale: ecco, allora, insaccati come cotechini e zamponi, che venivano consumati subito, cotti.

Certe sono le fonti accreditate, a partire da Vincenzo Tanara, autore bolognese de L’economia del cittadino in villa (1644), che parla di uno “zampetto”, cui segue il letterato ferrarese Antonio Frizzi, che a metà ‘700 scrive un poemetto intitolato La salameide. Nel 1790 è il Leonardi nell’Apicio moderno a dare ancora una ricetta di “zampetto”, da preparare cuocendo “metà nervetti di maiale, che si mettono a parte quando si fanno le mortadelle, e salami, e l’altra metà cotenne di maiale […] e poi si tritano ma le cotenne non tanto fine quanto per i cotechini”, mentre nel 1832 è il cuoco di Maria Luigia di Parma, Vincenzo Agnoletti, nel suo Manuale del cuoco e del pasticciere, a rivelare la prima ricetta codificata, intitolata “Zampetti di maiale secondo il vero modo che si fanno in Modena”. Vale la pena riportarla per intero: “Tritate quattro libbre di buona carne di maiale magra con due libbre di lardo fresco, e sei libbre di cotenne mezze cotte, condite con sei once di sale, un’oncia di pepe ammaccato grossamente, due once di cannella pesta, un’oncia di coriandoli, un’ottava di garofani, e quattro noci moscate tutto in polvere, riempiteci i zampi di maiale disossati, cuciteli e fateli bene asciugare”.
È l’apertura del salumificio Bellentani, nel 1821, a segnare una svolta nella storia della produzione del prodotto che, da piccola scala passa a larga scala, coinvolgendo anche personalità illustri come il compositore Gioacchino Rossini: quest’ultimo, proprio in uno scambio epistolare con Giuseppe Bellentani, fa espressa richiesta di “quattro zamponi e quattro cotechini”.
Contestualmente, si evolve anche la ricetta: nel 1866, un almanacco popolare modenese riporta una combinazione di due terzi di carne di maiale e un terzo di cotenne mentre, a fine ‘800, le cotenne si riducono al 20%. Oggi, il riferimento per la ricetta è il disciplinare: dal 1999, Zampone e Cotechino di Modena sono prodotti a marchio Igp.
Finora abbiamo parlato di zampone e cotechino senza approfondirne la differenza: in realtà, anche se il principio è il medesimo, una distinzione esiste.
La base comune è certamente una miscela di carni suine macinate grossolanamente, cotenna, sale, pepe intero e/o a pezzi, cui possono essere aggiunti vino, acqua, aromi naturali, spezie (pepe, noce moscata, chiodi di garofano) e piante aromatiche. Nel caso dello zampone, tra i principali ingredienti ci sono guancia, testa, gola e spalla, con aggiunta di sale e spezie variabili a seconda della “concia” di ogni salumificio. Condimenti ammessi: vino lambrusco, pepe, cannella regina, macis, coriandolo, chiodi di garofano, cumino, vaniglia, noce moscata, timo, alloro, aglio. Severamente vietati, invece, gli additivi, come i polifosfati. La differenza è l’involucro: lo zampone ha come involucro la zampa di maiale mentre l’impasto del cotechino è racchiuso nel budello, che può essere sia artificiale che naturale. Non è una differenza banale: l’involucro trasmette infatti il proprio sapore al contenuto che avvolge.

Nel caso del Cotechino di Modena Igp, la produzione segue le fasi della preparazione degli ingredienti crudi: macinazione, miscelazione e riempimento. Segue, poi, l’asciugatura nel caso in cui il prodotto venga venduto fresco o la precottura nel caso opposto. Una volta tagliato, la superficie deve avere un colore rosa brillante, tendente a un rosso non uniforme e una consistenza soda e uniforme. Anche lo Zampone di Modena Igp vede le fasi di macinazione, miscelazione e riempimento. L’impasto viene, poi, inserito – appunto – in un involucro naturale formato dal tessuto cutaneo della zampa anteriore del maiale, comprese le falangi distali, legata all’estremità superiore. Segue, poi, l’asciugatura nel caso di prodotto fresco o la precottura.

Se Modena è la città di elezione, l’area di produzione dei due insaccati comprende tre regioni: Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Oltre la zona del marchio, anche il Friuli-Venezia Giulia è una regione che vede nella lavorazione della carne di maiale un tratto identitario.
Sulla tavola natalizia, se lenticchie, purè di patate e verdure cotte sono gli accompagnamenti più presenti, cotechino e zampone possono essere valorizzati e impiegati in molti modi, dall’antipasto in avanti.
Ecco, allora, il cotechino con cinque varianti di purè (patate, lenticchie, sedano rapa, polpa di zucca, finocchi lessi), con zabaione salato, in crosta con salsa di patate, in crosta di polenta con mostarda, come ripieno per i calamari, come farcia per le cipolle, come ripieno di cappelletti serviti con crema di spinaci, in versione “croccante” con crema di patate e porri, come cuore goloso di cubotti di patate, come accompagnamento di un flan di grana, come ripieno di gattò di patate o di tartellette, in teglia con spinaci filanti, come farcia di tortelli insieme alla zucca, in frittelle insieme alle lenticchie. Il segreto, insomma, è la fantasia: uscendo dagli accostamenti canonici e usando la creatività, le soddisfazioni saranno molte.
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a cura della Dott.ssa Marisa Cammarano, biologa nutrizionista
Ilmese di dicembre, come è facile intuire, non è di certo il migliore per chi ha problemi di linea. Alle giornate breve e fredde in cui è più difficile rinunciare alla coccola offerta da alcuni alimenti, si aggiungono, infatti, le temute festività natalizie.
Pranzi e cene interminabili, magari cucinati da parenti a cui della linea non interessa nulla e che, anzi, si offenderebbero se rifiutassimo il cibo, con ogni probabilità delizioso quanto ipercalorico, preparato per l’occasione.
Limitare i danni è naturalmente un imperativo categorico anche in quei giorni, ma è una battaglia molto complessa.
Una mossa saggia è, dunque, quella di seguire, nei giorni che precedono il Natale, una dieta “detox”, di una settimana circa, basata sul contenimento dell’indice glicemico, eventualmente da ripetere ad inizio gennaio, così da non ritrovarsi nel
2026 a recuperare una situazione difficile. Ridurre, inoltre, il consumo di cereali raffinati ed abbinare i carboidrati a fibre e proteine che ne riducono l’impatto glicemico è l’altro passo da compiere. La colazione è, chiaramente, il pasto più critico quando si decide di ridurre gli zuccheri. Non sono solamente da limitare le brioche, i biscotti o le merendine, ma anche i cereali elaborati in scatola, cioccolato ed i succhi di frutta, meglio optare per uno yogurt greco con fiocchi d’avena, un paio di noci o nocciole e qualche mirtillo.
Fondamentale è rinunciare ai succhi di frutta, specialmente se industriali: in primo luogo perché lavorazioni di questo tipo innalzano l’indice glicemico degli alimenti, e poi perché questo tipo di succhi spesso contiene pochissima frutta vera e propria. Meglio preparare in casa un estratto o un centrifugato, in modo da salvaguardare almeno un po’ di fibre.
Per quanto riguarda i carboidrati, invece, per questi giorni di dieta “detox” è il caso di mangiare legumi o pasta integrale con porzioni che non superino (intendendo il peso a secco) i 100 gr ed i 70 grammi rispettivamente, in un unico pasto della giornata. A cena abbiniamo una porzione di verdura cruda o cotta con carne bianca come pollo o tacchino, oppure del pesce, meglio se azzurro, al forno. Fondamentale il movimento costante per allontanare la pigrizia. L’attività fisica svolge un ruolo di primaria importanza per tornare a recuperare l’equilibrio corporeo perso. In questo caso, la cosa migliore da fare è scegliere un’attività fisica che piaccia veramente e non che aiuti semplicemente a bruciare calorie e quindi a perdere peso. La motivazione deve essere sempre al massimo, altrimenti il rischio è quello di lasciar perdere appena si presenta qualche difficoltà. Yoga, Zumba, corsa, nuoto, bicicletta, non esiste un’attività migliore di un’altra. L’importante è che piaccia. Seguire questo stile di vita può aiutare a “disintossicarci” dalla ricerca continua di cibi carichi di zuccheri, perché la voglia di dolci è diversa dalla semplice fame ed ha origini, spesso, psicologiche. Il consumo di glucosio stimola, infatti, aree del nostro cervello legate al piacere e porta a sviluppare una dipendenza non troppo diversa da quella creata dalle sostanze stupefacenti: quando il glucosio esaurisce il suo effetto, abbiamo voglia di assumerne ancora. È doveroso precisare, però, che concetti come depurazione, dieta disintossicante o “detox” dal punto di vista medico-scientifico hanno valore nullo. Non esiste, infatti, alcun cibo tossico, se assunto per un periodo di tempo limitato. Pertanto, concedersi qualche fritto in più, una doppia porzione di panettone o diversi drink nei 10-15 giorni di festa non finirà per intossicare l’organismo. Al massimo, può appesantire il processo digestivo e favorire gonfiore e accumulo di liquidi, non di grasso. In ogni caso, ciò non deve essere visto come una tragedia a cui porre rimedio con diete drastiche e attività fisica estenuante.

Le festività natalizie sono, comunque, un momento di grande allegria e di condivisione, ed è “normale” lasciarsi andare e trascurare le proprie abitudini alimentari sane. Tuttavia, è importante, poi, riportare gradualmente l'alimentazione alla normalità per evitare problemi di salute a lungo termine. Dopo le abbuffate delle festività, è importante, infatti, riportare gradualmente l'alimentazione alla normalità per evitare shock al sistema digestivo. Riprendere un piano alimentare equilibrato e salutare, può essere più facile di quanto non si pensi. Basta seguire un programma settimanale compatibile con le proprie esigenze e non avere fretta di vedere risultati immediati. I consigli sono quelli di:
Iniziare la giornata con una colazione sana e nutriente, che include frutta fresca, cereali integrali e proteine magre. Evitare di saltare i pasti, ma mangiare in quantità più piccole e più spesso. Ridurre gradualmente l'assunzione di cibi ad alto contenuto di grassi e zuccheri, come dolci, fast food e alimenti confezionati. Bere molta acqua. Praticare una moderata attività sportiva, iniziando, ad esempio, con delle lunghe passeggiate all’aria aperta.
Poche, ma semplici regole che possono risolvere velocemente la questione a proprio vantaggio.
Aumentare l'apporto di frutta e verdura: l'aumento dell'apporto di frutta e verdura è un'ottima idea per “ritornare” alla normalità dopo le feste e tornare velocemente in forma. Frutta e verdura sono ricchi di vitamine, minerali ed antiossidanti che aiutano a sentire prima il senso di sazietà ed in più, rafforzano il sistema immunitario. Si può includere più frutta e verdura nella dieta sostituendo gli snack poco salutari con frutta fresca e verdura cruda. Inoltre, bisogna limitare l'assunzione di alimenti ad alto contenuto di grassi e zuccheri, responsabili, sicuramente, dell'aumento di peso e delle malattie cardiovascolari. Gli alimenti con un più alto apporto di grasso e zuccheri e che quindi è bene limitare sono: fritti e soffritti; intingoli e salse ad alto contenuto lipidico, salumi e insaccati formaggi stagionati, dolci, preparati industriali che presentano un’alta quantità


di farine raffinate, composti idrogenati e conservanti; margarine perché contengono composti idrogenati e conservanti. Riducendo il consumo di questi pochi alimenti è possibile abbassare il rischio di problemi di salute a lungo termine.
Le festività natalizie sono un momento di grande allegria e di condivisione, ed è, quindi, normalissimo concedersi pasti più abbondanti e sfiziosi. Godersi il momento senza sensi di colpa aiuterà a non avere strascichi ed a riprendere una routine regolare nonché un’alimentazione sana e completa di tutti i macronutrienti senza particolari rinunce. Infatti, comportamenti autopunitivi oltre a essere inutili possono essere dannosi soprattutto quando si tratta di alimentazione. Infatti, una dieta se basata su privazioni e scelte drastiche, in realtà non apporta alcun reale beneficio. Anzi, se arbitraria e priva di supporto professionale, può persino rivelarsi più dannosa delle abbuffate natalizie. Quindi se dopo un periodo limitato di pranzi e cene più calorici del normale la lancetta della bilancia segna quei 1-2 kg in più è del tutto normale. Basterà riprendere il proprio normale regime alimentare per tornare al peso “pre festivo”. Sfatando, assolutamente, tutti quei falsi miti che invitano a dimezzare l’apporto calorico, bere acqua e limone per depurarsi e fare il pieno di fibre e proteine eliminando i carboidrati.

Nello specifico, ecco cosa NON fare per tornare in forma dopo le feste:
Gli eccessi a tavola e la sedentarietà dei giorni festivi possono far registrare qualche chilo in più sulla bilancia ma, come detto, si tratta di liquidi e gonfiore, non di grasso. Pesarsi il meno possibile dopo le feste allontana il rischio di cadere nella trappola di sottoporsi a diete “detox” fai da te. E’, infatti, inutile e controproducente controllare il peso ogni giorno. Potrebbe diventare stressante e demotivante, oltre che fuorviante.
Saltare i pasti riducendo l’apporto calorico giornaliero può condurre all’effetto controproducente di rallentare il metabolismo e predisporre all’aumento di massa grassa e alla riduzione di quella magra. Inoltre, a livello psicologico, aumenta la frustrazione ed il rischio di perdere il controllo durante il pasto successivo a causa dei possibili attacchi di fame.
I carboidrati sono dei macronutrienti fondamentali per il benessere dell’organismo e non dovrebbero mai essere eliminati completamente dalla dieta. Dopo gli eccessi delle feste, allora, può essere utile ridurre la quantità giornaliera ma sempre in maniera equilibrata. Allo stesso modo, eccedere con le proteine può rivelarsi più dannoso che altro, soprattutto senza un consulto medico. Un eccesso di proteine, infatti, può affaticare i reni e compromettere la salute a lungo termine.
Seguire diete sbilanciate a base di pasti pronti e bevande proteiche: Anche dopo le feste, l’organismo ha bisogno di nutrimento e il modo migliore per prendersene cura è seguire un’alimentazione bilanciata. Le diete “detox” che si basano unicamente su 5-6 alimenti, oppure quelle a base di beveroni o succhi di frutta, non solo non sono in grado di offrire tutti i nutrienti necessari ma allontanano dall’obiettivo della rieducazione alimentare indispensabile per ritrovare benessere.
Le fibre alimentari sono importanti per il benessere dell’intestino e favoriscono la motilità, ma se assunte in eccesso possono provocare gonfiore, crampi e costipazione. Allo stesso modo, sottoporsi ad estenuanti sessioni di attività fisica può mettere sotto stress l’organismo e condurre ad infiammazioni o peggio lesioni muscolari che potrebbero essere evitate allenandosi adeguatamente, il corpo va rispettato. In conclusione, dopo le festività è del tutto sconsigliabile farsi prendere dall’ansia del peso forma.
Controllare in modo ossessivo la bilancia ed in base a quello diminuire o aumentare la razione di cibo quotidiana è un errore da non commettere. Quello che serve è riprendere le sani abitudini alimentari e riprendere a fare movimento, se questo era già lo stile di vita pre natalizio basterà rientrare nella normale routine. Se al contrario i bagordi delle feste hanno aggravato una situazione di sovrappeso già esistente allora gennaio è il mese ideale per pianificare una nuova routine. Senza ansie, senza privazioni eccessive ma composta da piccoli obiettivi da raggiungere. Una dieta davvero efficace non è quella che fa perdere peso ma quella che si riesce a mantenere nel tempo tanto da diventare il proprio normale regime alimentare.
di Noemi Caracciolo
Questo articolo chiude l’anno della nostra rubrica dedicata al mondo delle recensioni: storie, riflessioni e piccoli frammenti di quotidianità che, di mese in mese, ci hanno raccontato come cambia il modo di vivere i locali e di parlarne online. E, a differenza del solito, non parte da una recensione lasciata su una piattaforma, ma dalle recensioni stesse, da ciò che rappresentano, da quanto contano e da come stanno per cambiare. Il motivo del cambiamento è chiaro: il DDL annuale per le PMI, approvato in Senato a ottobre e ora in attesa di diventare legge, introduce per la prima volta una norma che riguarda direttamente le recensioni online. Una misura nata per contrastare le false recensioni, un fenomeno che negli anni ha assunto proporzioni enormi e che, nel campo della ristorazione e del turismo, può davvero spostare il destino di un’attività.
Tra i promotori del provvedimento, fortemente sostenuto dalla Federazione Italiana Pubblici Esercizi (FIPE-Confcommercio), c’è il senatore Bartolomeo Amidei, che ne ha seguito da vicino la stesura e l’iter parlamentare e mi ha raccontato il suo punto di vista in merito. Nelle sue parole emerge con chiarezza la consapevolezza di un problema concreto: “È un problema, una situazione da tempo insostenibile. Non si può pensare che ci siano queste false recensioni che dirottano l'opinione del consumatore. In qualche modo viene ingannato. Credo che questo passi attraverso una necessità, o no?”.
Il Disegno di Legge nasce su iniziativa del Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ed è stato approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso gennaio.

Il testo, poi passato all’esame della 9ª Commissione del Senato (Industria, Commercio, Turismo, Agricoltura e Produzione Agroalimentare), ha visto l’approvazione del subemendamento 13.100/1, a firma dei senatori Maffoni, Fallucchi, Bergesio e Amidei.
È in questo contesto che prende forma la norma che introduce il principio di “presunzione di autenticità” delle recensioni, riconoscendo attendibili solo quelle accompagnate da una prova d’acquisto: uno scontrino, una fattura, una ricevuta.
“Il sistema non è ancora messo a punto,” spiega Amidei, “perché ne stiamo tuttora discutendo. Però credo sia inevitabile passare attraverso queste soluzioni operative, sennò si inventa teoria senza nessun riscontro”. L’obiettivo è, quindi, quello di creare un meccanismo di verifica che dia solidità alle recensioni e permetta agli esercenti di difendersi da contenuti falsi o diffamatori. Secondo FIPE, si tratta di un passo concreto verso una maggiore trasparenza e genuinità delle recensioni online, a tutela non solo degli operatori del settore ma anche dei consumatori, che potranno contare su informazioni più affidabili e verificabili. Il testo prevede che le recensioni siano “sufficientemente dettagliate” e supportate da elementi tangibili, così da evitare abusi e garantire la trasparenza delle piattaforme.
“Ci vorranno delle verifiche”, aggiunge il senatore, “e capire che la legge debba essere supportata da elementi tangibili, da elementi verificabili. Altrimenti si innesca un meccanismo incontrollabile. Alla fine, qualsiasi cosa può essere oggetto di contestazione.” Per Amidei, la questione non è soltanto tecnica ma anche etica: “Nel momento in cui una recensione non corrisponde al vero, bisogna capirne l’origine, il perché, il come. Io credo che un sistema preciso sia il frutto di un’analisi di più fattori che concorrono a produrre la falsa recensione. Non ce n’è uno solo, è impossibile che ce ne sia uno solo.”
La proposta introduce anche un limite temporale entro cui scrivere la recensione, fissato attualmente in 90 giorni dall’acquisto o dall’utilizzo del servizio, così da garantire che l’esperienza sia recente e verificabile. È inoltre vietato qualsiasi incentivo, come sconti o omaggi, in cambio di recensioni positive.
“Non è che io debba ricavarne dei vantaggi”, precisa Amidei. “La recensione non dovrà essere frutto di sconti, regali o benefici. Se vieni nel mio ristorante e ti dico: ‘fammi una recensione positiva e ti faccio dieci euro di sconto’, non va bene. E, a volte, questo succede. L’obiettivo è tutelare i consumatori e la concorrenza sleale, contrastando pratiche scorrette che danneggiano la competitività tra imprese oneste.”
Il senatore chiarisce anche il ruolo dell’Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che avrà il compito di vigilare e, nei casi più gravi, di intervenire con sanzioni e risarcimenti. “Se io ho subito un danno da una concorrenza sleale,” spiega, “c’è anche addirittura l’estremo della diffamazione, perché se tu dici che io sono un incapace, stai diffamando la mia attività, che invece è onorata. Io credo che sia un provvedimento utile e necessario, perché effettivamente c’è una sorta di utilizzo improprio della recensione, se non a fini di interessi personali.” Naturalmente, il confine tra libertà di espressione e abuso resta sottile. Non è semplice. In fondo, se ho mangiato effettivamente bene ma ho avuto uno screzio con il titolare o il cameriere, cosa mi vieta di mentire ugualmente sul cibo? Si tratta senz’altro di buon senso. E Amidei non lo nega: “Qui entriamo in un ambito soggettivo che diventa difficile, diventa materia giuridica. Ma parliamo di casi limitati, rispetto all’utilizzo improprio della recensione per avere vantaggi personali. Ci vuole oggettività. È chiaro che una o due recensioni non fanno danno ma, se ce ne sono dieci, trenta, allora c’è una reiterazione e lì si configura anche un illecito”. Il senatore riconosce che le piattaforme digitali avranno un ruolo decisivo. “Lo strumento più semplice,” dice, “è quello della verifica oggettiva: se mi dici questo, dimostralo. La ricevuta o lo scontrino sono elementi oggettivi.
Poi, la piattaforma deve poter verificare quando la recensione è stata fatta, perché ci sono anche aspetti temporali: non puoi scriverla dopo sei mesi.

Va segnalata entro un termine, perché col tempo l’efficacia della recensione si riduce”.
Sui tempi di attuazione Amidei resta cauto: “Sono aspetti che andranno messi a punto, perfezionati. Ma la volontà è quella di rendere la legge efficace quanto prima. Non credo servirà molto tempo, bisogna solo sistemare la parte pratica, operativa.”
Quando gli chiedo su quali punti sarà importante mantenere l’attenzione nel passaggio alla Camera, risponde: “I punti sono la veridicità e l’oggettività.
Dobbiamo avere elementi verificabili, come la fattura, la ricevuta, i tempi trascorsi. Sono questi gli elementi che danno valore alla legge. Altrimenti si rischia di innescare contenziosi che vanno oltre gli obiettivi del provvedimento. Bisogna rendere tutto il più possibile chiaro e documentabile”.
E conclude con una riflessione che riporta tutto all’origine del problema: “Siamo in un mercato dell’ecommerce e dell’online, dove le recensioni diventano un elemento condizionante dell'acquisto. Non solo del prodotto, ma anche del servizio. Penso all’hotel, al ristorante, al turismo. Questo problema è frequente. Le recensioni devono tornare a essere ciò che dovrebbero essere: un racconto onesto dell’esperienza, non uno strumento di manipolazione”.
E forse è proprio da qui che vale la pena chiudere l’anno: da un provvedimento che prova, almeno, a restituire alle parole il loro peso e alla fiducia il suo spazio. Su queste pagine se n’è parlato tanto e in diverse salse. Ma il succo resta lo stesso. In un mondo in cui l’opinione digitale pesa quanto quella reale, questa legge potrebbe segnare un piccolo - ma decisivo - passo verso una comunicazione più autentica. Forse non eliminerà tutte le ingiustizie ma potrebbe dare valore a chi sceglie di raccontare con sincerità.



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Natale è il momento perfetto per regalare (e regalarsi) libri che raccontano passione, radici e mestiere. Per pizzaioli, ristoratori e amanti della tradizione “fornaia”, ecco quattro titoli che scaldano il cuore… più della legna.
a cura della redazione

Le pizzerie storiche di Napoli: Viaggio nell’anima della città
(a cura di Luciano Pignataro con undici giornalisti specializzati tra cui Giulia Cannada Bartoli, Emanuela Sorrentino, Francesca Pace, Guido Barendson, Fosca Tortorelli, Santa Di Salvo e altri) è la “bibbia” delle insegne centenarie. Napoli compie 2500 anni e questo straordinario compleanno si celebra con 23 pizzerie storiche nelle quali la tradizione si tramanda di generazione in generazione da decenni, a volte da oltre due secoli.
Il libro spazia da Starita a Di Matteo, da Da Michele al Trianon, con storie, aneddoti e la pizza che li ha resi leggenda. Perfetto da sfogliare in sala, in attesa tra un turno e l’altro, o da tenere sul bancone come vanto di categoria.
Sempre di Pignataro, la ristampa aggiornata del volume
edito da Hoepli che raccontwa che, al pari della Toscana per la storia della nostra lingua, la cucina italiana non esisterebbe senza Napoli: pizza, pasta, caffè, mozzarella, limoncello sono solo alcuni dei simboli di una gastronomia eterna e radicata nelle abitudini della gente.


(Edizioni dell’Ippogrifo) di Giustino
Catalano è invece un libro nato da due anni di ricerche che intende tracciare un racconto, saltando da un’epoca all’altra, anche in maniera non cronologica e raccontando come si sia arrivati agli stili attuali attraverso aneddoti e storie assolutamente inedite. La prefazione è di Antonio Scuteri.
Per chi invece a Torino ha scelto di portare un pezzo di Napoli,
(Graphot Editrice) della giornalista
Sarah Scaparone e del blogger e designer
Giorgio Pugnetti è il regalo ideale. Mappa aggiornatissima delle migliori pizzerie del capoluogo sabaudo: napoletane veraci, gourmet, al tegamino ma anche quelle “contemporanee” che meritano comunque attenzione. Recensioni sincere, foto invitanti, indirizzi da segnare per gite fuori porta o per scoprire dove i propri colleghi stanno portando la bandiera campana sotto la Mole.

Infine, per un tocco innovativo e sensoriale, segnaliamo
(Dario Flaccovio Editore, serie Accadde Domani FuTurismo, a cura di Nicoletta Polliotto) di Ilaria Legato, che esplora l’arte dell’olfatto nel branding e nel marketing turistico. In un mondo di immagini saturo, questo libro insegna a usare il “logo olfattivo” – profumi che evocano emozioni e memorie – per distinguersi.
Per un ristoratore o pizzaiolo, è un invito a trasformare l’aroma di forno e pomodoro in un marchio indimenticabile, legando tradizione a creatività. Una lettura fresca, tra olfatto e storytelling, per chi vuole “annusare” il futuro del proprio business.
Amore per la tradizione che si rinnova ogni giorno tra farina, pomodoro e passione. Ideali da trovare sotto l’albero o da mettere subito in sala per far sapere ai clienti che “qui” si conosce ogni segreto.




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