Pizza e Pasta Italiana - Gennaio 2024

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gennaio

2024 anno XXXV



La nostra naturale evoluzione.

Saremo presenti al Sigep PAD. D7 STAND 1

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pizza e pasta italiana gennaio

2024

AZIENDE

— Sommario —

Afinox

p. 33

Arcabox

p. 21

Avanzini Bruciatori Srl

p. 79

editoriale

Avpn

p. 57

di Antonio Puzzi

Campionato Mondiale Della Pizza

p. 16

Cerutti Inox

p. 63

Conserve Italia

p. 27

Cuppone

p. 75

Demetra

p. 49

Di Marco Corrado Srl

p. 73

Dr. Zanolli

p. 85

Familia

p. 31

International Pizza Expo

p. 10

Gam International

p. 103

Gi Metal

p. 53

La Torrente

p. 15

Linea Dori

p. 105

Menu'

p. 116

Mam - Eredi Malaguti

p. 113

Molino Agugiaro

p. 13

Molino Cosma

p. 107

Molino Dalla Giovanna

p. 51

Molino Grassi

p. 43

Molino Denti

p. 44

Molino Naldoni

p. 69

Molino Pasini

p. 7

Mulino Padano

p. 23

Padellino

Rinaldi

p. 3

di Antonio Puzzi

Sacar Srl

p. 83

San Felici Franco

p. 115

Sirman

p. 61

Sori' Italia

p. 2

Sitta - Il Faggetto

p. 11

Industria Alimentare Tanagrina Srl

p. 89

Sunmix Srl

p. 81

Molecola

p. 39

Uni - Tech - Vamparossa

p. 91

Waico

p. 21 - 95

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gli eventi del mese a cura della redazione

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prima pagina

le parole del 2024

a cura della redazione

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Brunch di Noemi Caracciolo

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le parole del 2024

Equilibrio di Giampiero Rorato

Dove vai in vacanza? a cura della redazione

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28

Rigenerato

54 Buon compleanno AVPN di A.P

58

di Domenico Maria Jacobone

Idratazione

di Giusy Ferraina

34

storie di pizza

Pino Longo

di Noemi Caracciolo


sommario

64 storie di pizza

Domenico Volgare di N.C.

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104 gluten free

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Come bilanciare dolce e salato nella pizza gluten free? di Alfonso Del Forno

storie di pasta

Agrofficina, il racconto dalla terra al piatto di Giusy Ferraina

76

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le parole del 2024

Birra

di Alfonso Del Forno

ristorazione domani

La ristorazione fuori casa di Giampiero Rorato

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96 prodotti

Mille e più di mille: storia ragionata degli agrumi di C.V.

100 slow food

Slow Wine Fair a cura di Slvia Ceriani, Slow Food Italia

86 prodotti

Lo zucchero o gli zuccheri? di Caterina Vianello

la posta dei lettori

Il mestiere del pizzaiolo: proposta di legge a cura della redazione

Scuola Italiana Pizzaioli

111

Scuola Italiana Pizzaioli

salute

Palatabilità e pericoli

112 un libro al mese

Le assaggiatrici a cura della redazione

di Marisa Cammarano

le aziende informano Forni Valoriani

p. 43

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pizza e pasta italiana gennaio

2024

Editoriale

L’anno con il giorno in più Antonio Puzzi

B

eh, è vero: l’ultima esperienza in tal senso non è stata proprio esaltante visto che, dopo 3 anni, siamo ancora qui a parlare di virus e affini, però proviamo a cogliere il lato positivo di questo nuovo anno bisestile, ovvero l’opportunità di avere a disposizione un giorno in più. Ed è vero anche che questo giorno in più ci sarà solo a febbraio ma noi abbiamo voluto fare le cose in grande, anticipando sin da questo numero le tante novità che Pizza e Pasta Italiana vuole portare nel 2024. Oltre alle gradite riconferme delle pagine consacrate alla birra, al gluten free, al rapporto tra cibo e salute, alle letture consigliate e ovviamente al futuro della ristorazione, da questo numero trovate infatti due nuovi spazi che intendono avvicinare questa rivista a tutti voi: La posta dei lettori, in cui proviamo a rispondere alle vostre sollecitazioni che ci arrivano tramite e-mail, messaggi e telefonate chiedendo a un esperto di intervenire sull’argomento; Gli eventi del mese, con informazioni su fiere, gare e appuntamenti da non perdere per il mondo dell’arte bianca. E, per inaugurare questi due appuntamenti, abbiamo deciso di fare le cose in grande: in tema di eventi abbiamo, infatti, dedicato uno speciale ai “consigli per le vacanze invernali” di chi, in questo mese e/o nel prossimo, si gode un po’ di meritato riposo. Per la “posta dei lettori”, invece, ispirandoci a una riflessione di Pino Longo, nostro appassionato lettore e (talvolta) anche fornitore di ottime ricette, abbiamo intervistato il senatore Bartolomeo Amidei, promotore di una legge per riconoscere la professione del pizzaiolo a livello istituzionale.

COLOPHON

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PIZZA E PASTA ITALIANA Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura Edito da PIZZA NEW S.p.A. Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990 Anno XXXV - n.1 gennaio 2024 - Repertorio ROC n. 5768 DIRETTORE EDITORIALE Massimo Puggina

DIRETTORE ONORARIO Giampiero Rorato

DIRETTORE RESPONSABILE Antonio Puzzi PUBBLICITÀ Caterina Orlandi REDAZIONE Via Sansonessa, 49 - 30021 CAORLE (VE) Tel. 0421/ 212348 - Fax 0421/81007 - E-mail: redazione@pizzaepastaitaliana.it www.pizzaepastaitaliana.it

PROGETTO GRAFICO Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi — Mediagraf lab DIGITAL PUBLISHING Maura Trolese — Mediagraf lab IN COPERTINA illustrazione di Liubov Dronova STAMPA MEDIAGRAF S.p.A. Noventa Padovana (Pd) COMITATO TECNICO E REDAZIONALE Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon. AFFILIAZIONI INTERNAZIONALI Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).

PER INFORMAZIONI, SOTTOSCRIVERE UN ABBONAMENTO O RICHIEDERE UN ARRETRATO: TELEFONARE AL NUMERO 0421 212348 dal lun. al ven.: 10:00 – 12:00 / 15:00 – 17:00 INVIARE UN FAX A 0421 83178 Servizio abbonamenti Pizza e Pasta Italiana INVIARE UNA MAIL A: abbonamenti@pizzaepastaitaliana.it L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno e dà diritto a ricevere 11 numeri della rivista. L’abbonamento andrà in corso dal primo numero raggiungibile.

Apriamo il 2024 soffermandoci, poi, sulle parole che, secondo noi, saranno pronunciate più spesso durante quest’anno; parole che appartengono già da un po’ alla narrazione del mondo pizza e della ristorazione di prossimità e parole che stanno pian piano conquistando il loro posto nelle nostre conversazioni. Non mi resta che augurarvi buon anno e, in attesa di ricevere i vostri commenti, le proposte e le riflessioni, una buona lettura. nio

PER LA PUBBLICITÀ SULLE RIVISTE: ITALIA Pizza e Pasta Italiana; U.S.A. Pizza Today, P.M.Q. TEL 0421.83148 — FAX 0421.81007


A D : S T U D I O OV E R | I M AG E BY : T RU N K S T U D I O E M ATC H S T U D I O

LINEA PIZZERIA L’ARTE DELLA FARINA IMPRESSA NEL DNA.

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pizza e pasta italiana gennaio

2024

Gli eventi del mese 11–14 gennaio

16–17

MILANO HOME

gennaio

Rho Fieramilano

Marca by BolognaFiere è l’unica fiera italiana dedicata alla marca commerciale, la grande vetrina dove si espongono i prodotti dell’eccellenza italiana a marca del distributore. La fiera è organizzata da BolognaFiere in collaborazione con ADM, l’Associazione della Distribuzione Moderna.

12–21

gennaio

18–20

ITALIAN FINE ART

gennaio

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Bergamo Ente Fiera Promoberg Opere d’arte e artigianato per investire in cultura, arredando al meglio e con classe i vostri luoghi dell’accoglienza.

gennaio

PIZZA BIT COMPETITION SUD ITALIA Pozzuoli (Na), Mepa Alimentari

gennaio

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Mobili e arredamenti per casa e ufficio con una sezione dedicata alla socialità come elemento di attrazione nel punto vendita.​ Oggetti per la tavola e la cucina per nuove esperienze conviviali. L’accoglienza come una vera e propria forma d’arte.

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20–24

MARCA

LarioFiere, Erba (Co)

La subfornitura del settore legno arredo, dalla materia prima a tutte le fasi di lavorazione e distribuzione, passando per la componentistica e il design. Punti cardine della fiera: innovazione tecnologica, sostenibilità, digitalizzazione e Industria 4.0.

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febbraio

PIZZA BIT COMPETITION SUD ITALIA

Capurso (Ba), Lavermicocca arredamenti

Per segnalare i tuoi eventi, scrivi a redazione@pizzaepastaitaliana.it

SIGEP, ITALIAN EXHIBITION GROUP Rimini

SIGEP è l'appuntamento imprescindibile per scoprire le ultimissime novità, innovazioni e tendenze del Foodservice Dolce: materie prime ed ingredienti, macchinari e attrezzature, ma anche arredamento, packaging e servizi.

30 gennaio 1 febbraio PTE

Rho Fieramilano PTE - PromotionTrade Exhibition è l’unico appuntamento annuale in Italia dedicato al mondo dell’oggetto pubblicitario, del tessile promozionale e delle tecnologie per la personalizzazione

Il professionista che si aggiudicherà la terza edizione della Pizza Bit Competition ed il relativo titolo di "Dallagiovanna Pizza Ambassador" diventerà il volto ufficiale Dallagiovanna per la pizza in Italia e nel Mondo per l'anno 2025.



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2 KEYNOTES 40 SEMINARS

12 WORKSHOPS

10 DEMOS



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pizza e pasta italiana gennaio

2024

PRIMA PAGINA a cura della redazione

Cucina Italiana nel mondo, a Luigi Cremona un riconoscimento prestigioso

Molino Grassi a Sigep 2024: stand più grande, con spazio a demo e produzione

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l 6 dicembre a Roma all’interno di Castel Sant’Angelo in occasione della Cena di Gala per sostenere la candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Culturale Immateriale dell’Unesco, sono stati premiati come “Ambasciatori della Cucina Italiana nel Mondo” Luigi Cremona, Dominga Cotarella, Alessandro Scorsone e Giuseppe Cerasa. Un commento a Caldo di Luigi Cremona: -“Fa indubbiamente piacere ricevere un premio di così alto prestigio e valore simbolico, ma fa anche più piacere vedere come la Cucina Italiana riceva l’attenzione delle più alte cariche dello Stato e della Regione.

IGEP 2024 per il Molino Grassi fa rima con evoluzione: un salto in avanti in termini di spazio – con uno stand più grande – e di appuntamenti, quasi raddoppiati. L’area al Pad. D5 stand 051 sarà infatti suddivisa in due blocchi, Demo e Produzione, animati da eventi paralleli che snoccioleranno tutti i prodotti firmati Molino Grassi in molteplici declinazioni, dolci e salate. Da un lato i momenti demo, dietro la conduzione attenta di Marco Valletta, andranno in una direzione più formativa e di infotainment; dall’altro la produzione vedrà preparare e sfornare diverse ricette, per toccare con mano e assaporare tutte le potenzialità tecniche e di resa delle farine Molino

Accettare la carica di “Ambasciatore della Cucina Italiana nel Mondo”rappresenta per me un’ulteriore grande responsabilità e sia io sia Lorenza Vitali siamo da sempre appassionati della Cucina e dell’Ospitalità del nostro Paese e di coloro che le portano avanti e le fanno amare nel Mondo. [...]E’ il momento di essere orgogliosi e lanciare un ottimo segnale per il futuro.”

Molino Naldoni: il Sigep che non puoi perdere

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n SIGEP in grande per Molino Naldoni, lo stand (Pad D5 /Stand 049) infatti propone ai visitatori la pizza di Raffaele Parisi ormai famosa in tutto il mondo, i prelibati assaggi di pasta fresca tirata al momento della sfoglina romagnola Natascia Bartoletti e le preparazioni dell’esperto di panificazione Carlo le Rose, tutti grandi affezionati delle farine Molino Naldoni. Confermati inoltre lo Chef Omar Casali di Marè Cesenatico, grande sperimentatore di materie prime d’eccellenza, che reinterpreta le ricette della tradizione romagnola con cura per la stagionalità e passione per il mare; ed il Maestro Pasticcere Sebastiano Caridi, innovativo e vulcanico che porta l’esperienza su grandi lievitati, croissanterie e l’impiego delle farine Molino Naldoni in pasticceria.


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pizza e pasta italiana gennaio

2024

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aloriani ha realizzato MAXIMO, il suo primo forno elettrico, nato con l’obiettivo di riprodurre le caratteristiche di cottura e la resa di un classico forno a legna. Gli anni di esperienza nel mondo dei forni a fiamma viva di Valoriani, sono stati uniti all’esperienza sul campo del tecnico R&S Pizza Napoletana Eduardo Ore. Dallo sviluppo della tradizionale forma a cupola Valoriani, nasce un’elegante forma estetica personalizzabile che si integra agevolmente nel contesto di ogni tipologia d’arredo. Le dimensioni ed i materiali refrattari della cupola derivano da un mirato studio delle fasi di infornata e cottura della pizza, consentendo un agevole sfruttamento di tutta la superficie della camera di cottura. Le resistenze superiori a raggiera rivestite in quarzo opalescente, insieme alle resistenze inferiori, riproducono al meglio le peculiarità della fiamma di un tradizionale forno a legna.

MAXIMO è inoltre dotato del sistema di ricircolo dell’aria RHS® Evolution. Il brevetto Valoriani crea un flusso di vapore che rende omogenea la cottura, esaltando la fragranza e lo sviluppo dell’impasto in cottura. L’utilizzo dei migliori materiali isolanti in elevati spessori, garantiscono un perfetto isolamento termico ed un risparmio energetico considerevole. Il piano in refrattario Valoriani, è composto da sei moduli per una facile sostituzione ed è disponibile in varianti pensate ad hoc per i vari tipi di cotture, dalla pizza classica alla Napoletana.


il buon pomodoro italiano

“Gli artisti della pizza”. Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Ar�s� della pizza”. Gennaio è stato dedicato al nostro caro pizzaiolo Luigi Pagano, che ci presenta la sua deliziosa pizza ''la Marinà'', preparata con il nostro ideale condimento per la regina della cucina napoletana. Questa pizza è una piccola rivisitazione di una delle pizze più an�che di Napoli: la Marinara. Semplicità, senso di appartenenza e innovazione sono le parole che meglio rappresentano la Marinà: un must have per ogni stagione.

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2024

Le parole del 2024

di Giampiero Rorato


Le parole del 2024

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T   ema affascinante che meriterebbe molta più attenzione da parte degli operatori della ristorazione – tutti – e dovrebbe essere più presente nei programmi delle Scuole Alberghiere sia statali (IPSSAR e simili) che regionali (i Centri di Formazione professionale), come anche nell’universo delle scuole di cucina private.

E soprattutto, lo sottolineo con forza, nelle tante trasmissioni di cucina delle reti televisive, spesso più attente allo spettacolo che alla corretta informazione. Possiamo tradurre la parola “equilibrio” con il termine “funzionale alle esigenze nutritive e alla salute”, oltre che capace di offrire il “piacere della tavola”. Non è però facile definire il concetto dell’equilibrio in cucina, cioè nell’alimentazione, avendo ogni persona le proprie necessità nutritive per stare bene. È comunque chiaro che una “cucina

equilibrata” deve avere alcune caratteristiche, come: essere sana, buona, nutriente, digeribile e piacevole. Oggi però, la cucina, sia in casa che fuori casa, non sempre ha queste caratteristiche perché le esigenze nutritive sono diverse da persona a persona, così come i gusti e le capacità digestive. Ed a contrastare un corretto equilibrio alimentare, creando confusione e malnutrizione, intervengono poi altri fattori. E qui riporto quanto ha scritto una giovane biologa nutrizionista, Beatrice Barolo, indirizzata ai suoi studi dalla nostra Marisa Cammarano: “Il cibo è un dialogo quotidiano tra salute e piacere, un’esperienza multisensoriale che va oltre il mero soddisfacimento delle necessità fisiologiche. L’armonia tra questi aspetti è un’arte che spesso viene sfidata nell’era digitale, dove figure carismatiche e dalle ottime abilità comunicative consigliano stili

di vita e ricette basate su esperienze personali o tendenze del momento, influenzando le scelte alimentari di giovani e adulti. Negli ultimi anni, è stato osservato un aumento della promozione di diete a bassissimo contenuto calorico, la denigrazione dei carboidrati e l’esaltazione di diete iperproteiche da parte di personaggi senza alcuna preparazione tecnica. Queste figure spesso mancano di competenze culinarie e nutrizionali ma, nonostante ciò, sostengono i vantaggi di diete estreme o di restrizioni alimentari, contribuendo allo sviluppo di una relazione distorta con il cibo e di un’alterata percezione dell’immagine corporea. Il 15 marzo, dello scorso anno, in occasione della Giornata nazionale dei Disturbi alimentari, il Ministero della Salute ha sottolineato come le proposte di modelli alimentari restrittivi, la distinzione di alimenti in buoni e cattivi e

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Le parole del 2024

l’enfasi su stereotipi di bellezza irreali possano veicolare messaggi pericolosi che, in concomitanza con altri fattori sociali, psicologici e biologici predispongono all’insorgenza dei disturbi alimentari. Ed ecco uno degli aspetti peggiori dello squilibrio in cucina. LA BUONA CUCINA PARTE DAI PRODOTTI Sappiamo bene che l’equilibrio alimentare, la corretta armonia tra salute e piacere hanno oggi molti nemici, molti di più che in passato, per la saccenza di influencer negativi, per la pressione di multinazionali dell’alimentazione, per un globalismo alimentare spesso incontrollabile. Ma un rimedio c’è. Uno degli elementi che aiutano a ottenere l’equilibrio in cucina è la qualità della materia prima impiegata. Ora è noto che l’Italia è il Paese più ricco di ottimi prodotti

agroalimentari e il buon cuoco sa che la base di una cucina sana sono gli eccellenti prodotti agroalimentari italiani. Ce ne sono tantissimi in tutte le regioni e vanno utilizzati senza far loro perdere le proprietà nutritive, vitamine e minerali compresi. Perché una cucina sana non può prescindere da prodotti assolutamente sani - i migliori sul mercato - molto meglio se di filiera corta o cortissima, sempre controllabile. Ecco una regola d’oro: scegli il meglio per avere le premesse di una cucina di alta qualità e spesso la differenza di costi fra il meglio e il normale è minima. Questa regola vale per tutto ciò che arriva in tavola: pane, pasta, riso, gnocchi, formaggi, salumi, carne, prodotti ittici verdure, vini, dolci. A proposito di pane, è cosa nota che c’è pane e pane: pane serio, prodotto da artigiani che continuano ad alzarsi di notte, che usano farine serie, che lavorano con

impegno secondo le regole codificate dai Maestri del pane, che non usano nel farlo dei preparati commerciali, mentre c’è ancora chi serve del pane da pochi soldi (quindi di scarsa qualità), magari prodotto nei Balcani e arrivato semicotto e surgelato in Italia, tenuto in frigo, tagliato a fettine e riscaldato prima di portarlo in tavola. E, come per il pane, ci sono tanti altri prodotti di scarsa qualità alimentare che contrastano fortemente con una alimentazione sana ed equilibrata. L’EQUILIBRIO DEI NUTRIENTI Per avere una cucina “equilibrata”, cioè una cucina che faccia bene, non basta che sia confezionata con prodotti di prima qualità, ben elaborati da cuochi che conoscono la materia prima; ser-


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pizza e pasta italiana gennaio

2024

Le parole del 2024

ve anche che nei piatti non ci siano delle sostanze, magari risultati secondari di cotture non perfette, che fanno male all’organismo umano. Quindi tutti i piatti di un pranzo o di una cena – cone dire, tutti i piatti preparati dal cuoco di un ristorante – devono essere sani, ottenuti da materie prime sane e da cotture perfette, senza aggiunta di elementi che possono essere nocivi (succede anche questo), usati o per nascondere difetti delle materie prime impiegate o per dare al piatto sapori più forti. In secondo luogo, un menu serio deve anche rispettare, per quanto possibile, il rapporto fra le calorie. I cuochi e ristoratori sanno bene - come i pizzaioli che hanno studiato la loro materia - che l’apporto calorico deriva da proteine (animali e/o vegetali), carboidrati (alimenti derivati principalmente da cereali) e grassi. Ciascuno di

questi elementi produce calorie che, come ci ricordano i nutrizionisti, devono essere in rapporto fra di loro in determinate proporzioni. Su questi particolare aspetto, Pizza e Pasta italiana è intervenuta più volte con la sua ottima biologa nutrizionista, la dott.ssa Marisa Cammarano, che meglio di ogni altro sa illustrare a cuochi e pizzaioli il corretto rapporto che deve esserci nelle loro preparazioni tra proteine, carboidrati e grassi. Qui, lasciando agli esperti qualificati il compito di approfondire il tema del giusto equilibrio calorico fra i tre nutrienti indicati, ricordo che i prodotti che contengono singoli nutrienti (es.: carne, pasta, olio) devono innanzi tutto essere di assoluta qualità. Ci si sta avviando sia nella ristorazione che in pizzeria, ma c’è ancora della strada da compiere e, per restare in carreggiata fino alla meta, serve studiare. Questo articolo, gentili lettori, vuole essere una cortese provocazione. quindi un invito a cuochi e pizzaioli ad impegnarsi ogni giorno per conoscere bene (e non solo per sentito dire né confidando totalmente nella parola dei fornitori), i prodotti che entrano in cucina e in pizzeria e studiare piatti e pizze in cui i citati tre nutrienti principali – proteine, carboidrati e grassi – siano fra loro in rapporto armonico. Dopodiché, si può anche dare spazio alla creatività e alla fantasia, purché le regole nutrizionali siano sempre rispettate. Lo esige l’equilibrio alimentare e quanto precede è il primo indispensabile passo per raggiungerlo nelle nostre cucine e nelle nostre pizzerie.

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Le parole del 2024

di Antonio Puzzi

Padellino, tegamino o ruoto? Sì, è chiaro a tutti che si tratta di tipologie diverse ma queste sono tutte accomunate dal fatto che da qualche anno è diventato di moda offrire in pizzeria, oltre alla pizza classica, napoletana o comunque cotta al mattone, anche un “padellino” che profuma ugualmente di storia e cultura. La cosa in sé non è di certo sorprendente, se si pensa che, per la stragrande maggioranza degli Italiani, il primo approccio con la pizza è proprio con questa tipologia. Diventa però particolarmente rilevante questo ingresso in pizzeria se ci voltiamo indietro e ci accorgiamo che, nel primo decennio del XXI secolo, questa tecnica era praticamente a rischio d’estinzione.


Le parole del 2024

UN PO’ DI STORIA La pizza al padellino viene definita da più parti come un’invenzione torinese, diversificazione di un prodotto dalla storia millenaria come la farinata, un impasto di farina di ceci cotto in un tegame e, solo in tempi recenti, arricchito da qualche condimento. Leggenda narra che i venditori di farinata e i pizzaioli più intraprendenti (questi ultimi forse emigrati dal sud dell’Italia, soprattutto – si dice – da Calabria e Sardegna), per offrire alla propria clientela un’alternativa per il pranzo durante la pausa dal lavoro in fabbrica, avessero deciso - negli anni ’20 del Novecento - di proporre una

pizza da cuocere in un tegame (il forno in cui si cuoceva la farinata aveva temperature troppo alte per la pizza al mattone e ne avrebbe bruciato il fondo), piccola, composta e soprattutto prelavorata che riducesse di molto i tempi d’attesa. Sarebbe questo il motivo del suo successo e, per estensione, del declino a cui si è assistito dagli anni ’90 del Novecento, quando è stata sdoganata la “schiscetta” anche per gli im-

piegati e i dirigenti di un’azienda, interessati ad assecondare senza interruzioni un preciso regime dietetico. A far tornare in auge il tegamino sono stati però quei pizzaioli più giovani che, dalla seconda decade del nostro secolo, hanno deciso di dare nuova vita e dignità a un prodotto ritenuto di scarsa qualità. LA TECNICA DI PREPARAZIONE TRA IERI E OGGI La prima versione della pizza al padellino prevedeva che l’impasto fosse steso in un tegamino (debitamente unto) del diametro compreso tra i 20 e i 25 cm la sera precedente il servizio. Lo stesso veniva preparato con base bianca (mozzarella fior di latte) o base rossa (pomodoro) e cotto per circa il 70%. Al momento del servizio, si aggiungevano gli ingredienti richiesti dal cliente e si portava a termine la cottura. Nella versione contemporanea, si è quasi del tutto abolita la precottura, preferendo lasciar riposare l’impasto fino al momento del servizio. In questo modo, durante questa fase di riposo che può durare anche fino

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2024

Le parole del 2024

a 24 ore, l’impasto giova di una seconda lievitazione che rende il prodotto particolarmente soffice. L’effetto dell’olio sul fondo produce sull’impasto a contatto col tegamino oliato un effetto localizzato di frittura che rende la pizza morbida e friabile al tempo stesso, unendo la sofficità e lo spessore della focaccia alla croccantezza della pizza al mattone. UNA RINASCITA CHE UNISCE LO STIVALE Senza particolare timore di smentita, possiamo dire che la rinascita del padellino sia avvenuta pressoché in contemporanea tanto nel nord quanto nel sud dello Stivale. A sud, infatti, la pizza nel ruoto – tipica delle aree rurali e della tradizione familiare – ha trovato ospitalità in pizzeria già nel 2015 ad opera di un geniale pizzaiolo e imprenditore qual è Pasqualino Rossi, titolare della pizzeria Élite di Alvignano, nell’alto Casertano. In quell’anno, Pasqualino organizza anche il “Ruoto Day” e riesce a ridare vita a una emulazione che porterà poi, in tempi più recenti, a tantissime riletture del prodotto, a partire dalle tante pizze con doppia (o

tripla cottura), il cui passaggio finale prevede l’inserimento del prodotto in un tegamino messo poi al forno. Nello stesso periodo, a Torino si cerca di riportare in auge l’antica gloria ed ecco che “Il padellino” a Corso Vinzaglio, “Dessì” in via Madama Cristina o “Da Michele 1922” in piazza Vittorio proclamano l’orgoglio sabaudo, promuovendo il loro prodotto di punta. QUALE FUTURO? Lo abbiamo già anticipato nel paragrafo precedente: la riscoperta della cottura al tegamino è giovata anche alle tante sperimentazioni contemporanee dei pizzaioli. Ne citiamo una tra tutte: la “Montanara Starita”, proposta in tutte le sue sedi, che prevede che la classica pizza fritta condita con sugo di pomodoro subisca un passaggio in forno (rigorosamente nel tegamino) prima di essere servita. E, mentre abbiamo appena festeggiato in sordina i primi cento anni di vita di questa ricetta, ci auguriamo che nel 2024 il padellino e il ruoto entrino a far parte anche di quella comunicazione enogastronomica che spesso li ha snobbati, riducendoli a “note di colore”.

E SE ARRIVASSE DALL’ARGENTINA? Sebbene tipicamente circoscritta alla città di Torino (al punto da essere ignota fino ad anni recentissimi fuori dalla provincia della prima capitale d’Italia), esiste una versione del tutto analoga del tegamino anche in Argentina: è la “pizza al molde”, nota soprattutto nella versione detta “fugazzeta”, composta da due strati di pasta ripiena di formaggio e con in cima cipolle bruciacchiate e altro formaggio. La fugazza con queso (formaggio) si prepara almeno dalla fine dell’Ottocento quando la introdusse, nel quartiere operaio italiano di La Boca, il panettiere napoletano Nicolas Vaccarezza. A seguirlo furono negli anni ‘30 del Novecento molte pizzerie, gestite in gran parte da proprietari e cuochi spagnoli che restarono però poco fedeli alla tradizione italiana.


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igenerare, dal latino regenerare, significato “riprodurre, generare di nuovo”. Rigenerare è una parola che nel gergo comune indica il processo di ripristino di qualcosa che è stato parzialmente danneggiato o perso. In tecnologia, la rigenerazione è un processo di ripristino delle proprietà originali di un oggetto o di un materiale. In senso figurato, rigenerare può significare recuperare forza, vigore, grandezza, dignità. La parola “rigenerare” è utilizzata in vari contesti, sia in ambito scientifico che in ambito comune ed è anche una parola particolarmente apprezzata nel lessico pubblicitario, in quanto evoca un senso di positività e speranza. In quest’ultima chiave mi piacerebbe leggere l’opportunità di trasferire il termine “rigenerato” con un’accezione positiva anche in cucina. Spesso, nell’utilizzo comune dei professionisti della ristorazione, il termine

“rigenerato” si riferisce al processo di decongelamento/ rinvenimento e successiva preparazione o riscaldamento di un piatto precedentemente cotto. LA RIGENERAZIONE IN PIZZERIA In ambito pizzeria, il rigenerare viene inteso principalmente con due accezioni: nel primo caso, si rigenera o un impasto divenuto “problematico” o per necessità dovuta ad evitare sprechi alimentari: i “panielli” meritano spesso una seconda possibilità e, nell’antica tecnica del rigenero, questo si effettua lavorando l’impasto come un normale panetto ma in modo meno vigoroso, stando bene attenti a chiudere eventuali aperture al di sotto della pallina. Infine, si tratta di avere pazienza e dare al panetto il tempo necessario a rigonfiarsi. Spesso, questo tipo di tecnica si utilizza per risolvere una lievitazione complessa a causa di qualche cambiamento clima-

tico: il rigenero, in questo caso, si fa se un impasto è rimasto troppo umido in modo tale da riattivare la lievitazione e affinché l’impasto si asciughi e prenda forza. Il secondo ambito è, a mio modesto parere, l’uovo di colombo che non ha ancora trovato una sua vera dimensione e collocazione culturale nella pizzeria tradizionale: la rigenerazione di una base pizza congelata. Ovviamente parlo di prodotti artigianali “da pizzeria” o panetteria e non dei grandi produttori industriali da anni disponibili nei banchi della GDO. A tal proposito, ricordo alcune dichiarazioni, (rilasciate in periodo Covid) del pizzaiolo Antonio Esposito, titolare della pizzeria “Il Marchese” di San Giorgio a Cremano, che affermava di aver trovato il modo di rendere fruibile dai suoi affezionati consumatori la sua pizza. Secondo Esposito, in pratica, si tratta di preparare il classico disco di pasta, abbatterlo e congelarlo per consegnarlo poi a casa al cliente il quale, spiega Esposito, “può decidere di lasciarla nel proprio

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congelatore e mangiarla quando vuole oppure scongelarla, farcirla come meglio crede e cuocerla direttamente nel suo forno di casa e mangiarla dopo cinque minuti”. Esposito ha avuto l’idea di questa nuova formula per rispondere a una necessità personale: non era possibile portare a casa una pizza decente per sua moglie, che viveva lontano dal locale. La pizza rigenerata è una pizza che viene cotta nel forno a legna della pizzeria, condita con pomodoro, olio e basilico e poi abbattuta e surgelata. Viene consegnata ai clienti in sacchetti per alimenti chiusi ermeticamente ed etichettati con la data di produzione.

Il trasporto viene eseguito nelle stesse modalità della normale delivery, in borse termiche adatte alla preservazione della catena del freddo. Questo tipo di approccio sottolineava bene i vantaggi della pizza rigenerata rispetto al classico concetto di pizza a domicilio. Innanzitutto, può essere ordinata in qualsiasi momento, anche il giorno prima. Questo consente ai clienti di avere più flessibilità e di scegliere il momento più adatto per consumare la pizza. Inoltre, la pizza rigenerata può essere condita secondo i propri gusti. Questo è un vantaggio importante, soprattutto per chi non ama le pizze già condite che si trovano normalmente nei banchi della GDO.

La pizza rigenerata può essere anche un modo per contrastare lo spreco alimentare. Una comune pizza surgelata industriale, infatti, è spesso già assemblata e quindi non personalizzabile ma la pizza rigenerata può, invece, essere condita con gli ingredienti che si hanno in casa, anche se sono pochi. Questo può aiutare a ridurre lo spreco alimentare domestico e personalizzare il gusto della propria pizza preferita, giocando con ingredienti freschi e genuini. Ci troviamo di fronte ad una visione utopistica di un progetto tanto semplice, quanto difficile da implementare? Sicuramente se si trovasse uno standard produttivo “italiano” condiviso ed accettato dalla clientela, fornire ai propri clienti una base pizza congelata, più accessibile e sostenibile sia economicamente che ambientalmente, porterebbe ad un risultato socioeconomico ad oggi difficilmente immaginabile. Ovviamente, tornati alla quotidianità post-Covid, molti lavori di ricerca in questa direzione si sono stoppati o sono stati accantonati a favore della ripresa del lavoro in pizzeria, con asporto e delivery ma sarebbe un peccato abbandonare del tutto questo

✺✺✺ bellissimo sogno della pizza congelata “di quartiere” A proposito di clientela, per eliminare qualunque tipo di scetticismo, invito i lettori a fare una ricerca online: in rete esistono dei veri e propri manuali della conservazione e della rigenerazione della pizza a domicilio, con consigli che vanno dal freezer al frigo, con tecniche di rigenerazione in forno tradizionale, ventilato, microonde, tecniche per la rigenerazione in padella… Il limite dell’utente domestico medio è più che altro l’esperienza ma a volte si trovano degli accorgimenti tanto semplici quanto efficaci. In questo senso, dare qualche dritta per conservare e rigenerare gli eventuali spicchi di pizza avanzati da una serata con gli amici potrebbe essere un buon modo per coltivare una connessione con la clientela che compra la vostra pizza a domicilio.


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LA RIGENERAZIONE PUBBLICITARIA A proposito di interazioni social e “rigenerazione” della pizza, la nota influencer Chiara Ferragni ha una storica gag legata al mondo della pizzeria: ogni volta che ne mangia una in pubblico, si fa una foto con lo spicchio in primo piano, nell’atto di gustarlo e (inizialmente solo per questione estetica) ha nel piatto una pizza intera inquadrata nella fotografia. Da questa gag sono stati generate nel tempo decine di migliaia di interazioni sul “potere della rigenerazione della pizza” della Ferragni. Potrà piacere o meno ma anche questo è un modo per farsi pubblicità e “rigenerare” un contenuto abbastanza inflazionato come la foto di una pizza. Per quanto concerne la rigenerazione del cibo, la cucina

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LA RIGENERAZIONE “GREEN” A proposito di rigenerazione, da diversi anni ci sono esperimenti anche in alcune cucine professionali che stanno sperimentando il “regrowing” nel proprio orto. Il regrowing è una tecnica (antica quanto la coltivazione dei vegetali), per ridurre gli sprechi e rigenerare gli ingredienti, facendo ricrescere alcune verdure da quelli che altrimenti sarebbero considerati scarti. Per far ricrescere la verdura, è necessario partire da un potenziale “scarto” che contenga le radici. Ad esempio, si possono utilizzare le cime dei carciofi, le foglie di insalata, i gambi del sedano o le radici di zenzero. Una volta individuato lo scarto

adatto, è necessario tagliarlo in modo da lasciare una parte delle radici disponibile per lo sviluppo. A questo punto, si può mettere lo scarto in un contenitore con dell’acqua, assicurandosi che le radici siano completamente immerse. Il contenitore va posizionato in un luogo luminoso ma non direttamente esposto alla luce solare. L’acqua va cambiata quotidianamente. Entro pochi giorni, dalle radici inizieranno a crescere nuove foglie o germogli. Quando le nuove piante saranno abbastanza grandi, si possono trapiantare in un vaso con del terriccio. Quali verdure si possono rigenerare facilmente?

✺✺✺ in un contenitore poco profondo a bagno nell’acqua. Dopo una settimana, il gambo dovrebbe iniziare a produrre nuove foglie.

Il regrowing è possibile con molte verdure diverse, tra cui le più “facili” da rigenerare sono: cipollotti, porri, insalata, sedano, finocchi, barbabietole, rape, basilico e zenzero. •

Cipollotti e porri: tagliare la parte finale a circa 3 cm dalle radici e metterla in un contenitore pieno d’acqua, cambiando l’acqua ogni giorno. Dopo 5-7 giorni, piantare la parte con le radici in un vaso con terriccio.

Lattuga: tagliare la base di una foglia di lattuga e metterla in un contenitore poco profondo a bagno nell’acqua. Dopo una settimana, la foglia dovrebbe iniziare a produrre nuove foglie.

Aglio: tagliare uno spicchio di aglio a metà e metterlo in un contenitore poco profondo a bagno nell’acqua. Dopo una settimana, l’aglio dovrebbe iniziare a produrre nuove radici.

Basilico: tagliare un pezzo di stelo di basilico e metterlo in un bicchiere pieno d’acqua. Dopo una settimana, lo stelo dovrebbe iniziare a produrre nuove radici.

Zenzero: tagliare un pezzo di zenzero e metterlo in un vasetto d’acqua. Dopo una notte, piantare lo zenzero in un vaso con terriccio. Dopo 7 giorni, dovrebbe spuntare un germoglio fuori dal terreno.

Alcuni esempi praticabili con poco sforzo possono essere anche realizzati all’interno del ristorante: •

Sedano: tagliare un pezzo di gambo di sedano e metterlo

Il regrowing, a patto di avere un po’ di spazio, è una tecnica semplice e pratica che consente di ridurre gli sprechi alimentari e risparmiare denaro ma soprattutto può diventare un’attività divertente ed educativa che può essere svolta da adulti e bambini, aumentando l’engagement e la percezione positiva legata al rinnovamento continuo ed alla cura per gli ingredienti utilizzati anche da parte dei clienti.



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di Giusy Ferraina


Le parole del 2024

Q

uante volte davanti ad un impasto di pizza, pane o lievitato sentiamo la parola idratazione? Spesso, anzi sempre, visto che l’acqua è l’elemento fondamentale degli impasti insieme alla farina e questa innesca i processi chimico-fisici rendendo possibile la formazione stessa dell’impasto e la sua struttura.

b1o MA COSA SIGNIFICA ESATTAMENTE IDRATAZIONE? Idratazióne è sostantivo femminile che genericamente indica l’assunzione di acqua da parte di una sostanza o di un tessuto; il conferimento o il ripristino del normale contenuto idrico o di umidità, mediante opportune sostanze, nei tessuti organici, nella cute o nell’organismo; in chimica, indica altresì la trasformazione di una sostanza da anidra a idrata, oppure la sua solvatazione con l’acqua. Il valore e l’effetto dell’idratazione dipendono dalla quantità di acqua che viene miscelata alla farina: è la sua percentuale a distinguere tra una pizza o un impasto ad alta idratazione o meno. E qui i pizzaioli già sanno di cosa stiamo parlando. Ma per il consumatore l’idratazione cosa rappresenta?

Per chi la pizza la mangia (e non la fa), la può riconoscere nell’elasticità dell’impasto e dal volume che si innesca nel cornicione di una tonda o nella teglia. Più acqua c’è, più l’impasto fa le bolle. E da qui, a catena, si parla di leggerezza, scioglievolezza, digeribilità: tutte caratteristiche di texture e di palato importantissime e necessarie in un impasto per un risultato finale ottimale e di qualità. Partiamo da una linea generale che vuole per le tonde al piatto un livello di idratazione compreso tra il 55% e il 70%; la pizza napoletana si attesta intorno al 65%, mentre le pizze in teglia o quelle alla pala raggiungono un livello di idratazione compreso tra il 70% e il 90% e sono caratterizzate da maturazioni prolungate e a

temperatura controllata, oltre che dalla preferenza d’utilizzo di farine deboli con un minore tenore proteico. Se più acqua comporta il raggiungimento di alti livelli di qualità e leggerezza, da qui si è scatenata la gara alla pizza più idratata: c’è stato un momento, infatti, qualche anno fa, in cui la versione della pizza contemporanea cercava di farsi spazio tra la pizza napoletana e quella più classica all’“italiana”, giocando con lunghe lievitazioni e idratazioni maggiorate rispetto allo standard. Fu un periodo di cornicioni memorabili: i famosi canotti facevano capolino in tutte le pizzerie, alveolature come trafori del Frejus stavano lì con orgoglio a confermare il grande lavoro che il pizzaiolo faceva con l’idratazione e la lievitazione;

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b1o Instagram era un concentrato di enormi alveoli e cornicioni da urlo, rigonfi e postati sui social da pizzaioli e clienti. La moda era impazzita, con il logico rischio di far vedere al mondo dei pizza lovers delle pizze anche sbagliate. Perché quando l’alta idratazione diventa un moda e non la si sa gestire con la giusta tecnica, si possono ottenere anche pizze crude, con effetto “bubble gum”, mentre se il processo viene eseguito con consapevolezza e cognizione di causa, il risultato è strabiliante: la pizza rimane identica dal primo all’ultimo morso. Un impasto della pizza ad alta idratazione eseguito a regola d’arte ci garantisce alcuni vantaggi non da poco: la pasta è leggerissima, scioglievole al morso, asciutta e vaporosa; il cornicione è indebolito, facilmente masticabile e la fetta conserva la giusta tenuta necessaria per essere sollevata e non meno importante avere un impasto digeribile. Inoltre a livello organolettico si noterà la differenza, sia di sapore che nella consistenza dell’impasto.

Attenzione però, giocare con la quantità di acqua non sempre significa ottenere un prodotto di qualità migliore. Perché la presenza di una sostenuta quantità di acqua non è direttamente proporzionale a una maggior digeribilità del prodotto, che dipende, infatti, da diversi fattori e il livello di idratazione concorre a migliorarla solo se alla base c’è una corretta lavorazione di tutte le materie prime e un rispetto dei tempi di maturazione dell’impasto stesso. La questione “H2O” non è semplice come può sembrare, perché se ci sono i vantaggi si rischia anche che un cattivo equilibrio delle varie componenti. Innanzitutto, la quantità di acqua dipende anche dalla tipologia di farina e dalla sua forza. L’assorbimento dell’acqua è infatti subordinato all’energia meccanica che si trasmette impastando, oltre che al naturale potere di assorbimento della farina. Inoltre, per la buona riuscita del prodotto finale, le grandi quantità di acqua devono essere correttamente assorbite dalla farina utilizzata. Da qui è comprensibile che non possiamo abbondare con l’acqua a caso, soprattutto se ci dilettiamo

a casa a fare la pizza e vogliamo simulare quella della nostra pizzeria preferita. E poi c’è il fattore della cottura: anche questo deve rispondere e corrispondere alla quantità di acqua presente nell’impasto. L’aumento dell’idratazione si compensa con una temperatura ben più bassa, una gestione del forno attenta e maniacale, con asciugatura accurata del prodotto a bocca di forno: così si servirà una pizza perfetta.


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Se la lavorazione di un impasto ad alta idratazione è sbagliata, l’acqua si trasforma in un’arma a doppio taglio poiché rimane “libera” nell’impasto e rende il prodotto finale pari a una massa collosa e difficile da masticare. Senza dimenticare poi il fattore cottura, che dovrà rispettare tempi precisi e avvenire al giusto calore. La contropartita rischia di compromettere totalmente la qualità del prodotto finale, ottenendo un prodotto cotto male, umido e gommoso. Ecco perché gestire l’idratazione della pizza richiede senza dubbio manualità ed esperienza, studio e ricerca per arrivare ad un prodotto finito, cotto e perfetto. Vietato invece inseguire le mode perché rischiamo di avere una pasta gommosa, che richiede una masticazione sostenuta, spesso anche dalla prima fetta. La stesura è spesso sottile nella parte centrale e quindi diviene impossibile sollevare la pizza con le mani, a causa della scarsa tenuta. Se poi, presi dall’entusiasmo e dalla voglia di gonfiare il bordo più dei concorrenti, si utilizza anche un pre-impasto per agevolare la fermentazione e l’esplosione del cornicione, siamo all’apice del “porno food”. Una considerazione necessaria da fare è che partendo da una base chimica e di “regole” da rispettare, ogni pizzaiolo sull’idratazione può gestire il suo personale impasto e definire il suo stile.

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La sperimentazione in materia pizza è tanta e il capitolo idratazione, accompagnato dalla lievitazione, è uno di quelli su cui si è cercato di sperimentare maggiormente. Ma ovviamente tutto ha un limite e quando si trova il punto di arrivo giusto, bisogna saper anche standardizzare e da qui ripartire alla ricerca di altro.Uno tra i primi a osare l’alta idratazione sulla sua pizza, cambiando letteralmente le regole del gioco, è stato Gabriele Bonci, che prende la classica pizza romana di tradizione bassa e croccante, quella che poteva essere la cosiddetta pizza del fornaro e comincia a lavorare di idratazione, arrivando a quel risultato di morbidezza con annesso “effetto crunch” che la pizza in teglia

romana oggi ha. Un successo di gusto così eclatante tanto da aprire un filone seguito da numerosi pizzaioli, che da Roma si sono moltiplicati in tutta Italia e che ha creato una scuola di pensiero e di pratica. Oggi, quando si parla di “Pizza Bonci” ci si riferisce proprio a questa tipologia di impasto che prevede pochissimo lievito e una lunga lievitazione con un’idratazione alta, pari all’80%. Questo vuol dire che le proporzioni sono fisse: l’acqua deve corrispondere all’80% del peso della farina. L’alta idratazione e la lievitazione molto lunga, di almeno 24 ore, consentono di utilizzare poco lievito (solo 3 gr per 500 gr di farina), ottenendo comunque un impasto alto, leggero e alveolato.

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IL PARERE DEGLI ESPERTI Per avere qualche conferma sull’importanza dell’idratazione, al di là del suo abuso pratico e terminologico, ho chiesto a due maestri della pizza come Daniele Campana per la teglia e Marco Quintili per la pizza contemporanea. Il pizzaiolo di Corigliano, famoso per le sue teglie romane farcite di Calabria, sottolinea subito: “È importante. E la riuscita è relazionata alle capacità

più rapide e più complete. Inoltre, un panetto di 250 grammi con un’alta idratazione porta ad avere un prodotto che in percentuale avrà meno meno carboidrati, più digeribile e più leggero”. A questo punto è obbligatoria la domanda: ma i clienti quanto ne sanno di idratazione, quanto chiedono? Campana ci fa subito notare come questo sia un tema di discussione aperto tra gli avventori e “quelli della teglia”: “C’è una sopravvalutazione del concetto di idratazione che è stato molto pompato, spostando l’attenzione del consumatore su quest’aspetto e portandolo a tralasciare altre fasi e sopratutto la scelta delle materie prime per i condimenti o delle farine. Sicuramente molti pensano che sia una delle fasi della lavorazione più importante e da cui deriva un prodotto di qualità. Cosa vera, ma non al 100% perché le varie fasi di lavorazione partecipano tutte alla riuscita del prodotto ideale”. Mentre Marco Quintili assicura anche che una delle domande più ricorrenti che i suoi cienti pongono è sulle ore di lievitazione: “Si pensa in modo erroneo che più un

impasto lievita e più sia digeribile e leggero. Ma non sempre è così, dipende dalle tecniche usate. Sicuramente la qualità dell’impasto deriva dalla sua idratazione e dalla sua maturazione: più l’impasto è idratato e più si accorciano le tempistiche di lievitazione ma sono aspetti tecnici che spesso non si raccontano e i consumatori non conoscono, pertanto l’equazione più semplice è che più lievita e meglio è”. È bene dunque precisare che il significato della parola idratazione nel mondo pizza si traduce come un processo difficile da gestire. Il processo di panificazione, infatti, è composto da una serie di variabili, che solo un ottimo professionista è in grado di mantenere in equilibrio perché, al variare di un fattore, ne cambierà un altro per conservare la bontà del risultato. Da consumatori teniamolo a mente e magari, quando ci troviamo davanti a una pizza con cornicione alto, facciamo un semplice test: lasciamo raffreddare l’ultima fetta e, nel mangiarla, domandiamoci se le caratteristiche sono simili alla prima o qualcosa è cambiato.

bo delle farine che vengono usate. Se questo passaggio è riuscito, allora anche l’aspetto estetico e gustativo ne giova. Io lavoro con un 80% di idratazione e punto molto su condimenti e materie prime che a mio avviso rimangono gli elementi distintivi per una buona pizza che deve trovare sempre l’armonia dei sapori tra base e condimento”. Sull’importanza dell’idratazione è d’accordo anche Marco Quintili che ci spiega: “Una maggiore quantità di acqua velocizza i processi di lievitazione; l’innesco delle varie reazioni create dall’acqua sono



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Noemi Caracciolo


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sono giorni in cui – specialmente nel weekend – ci si alza troppo tardi per la colazione e troppo presto per il pranzo: la fame però si fa sentire, allora che si fa? Semplice, un brunch. In Italia potremmo ovviare al languorino con un bell’aperitivo ma, considerati gli sviluppi degli ultimi anni – nei quali ci siamo sempre più aperti a nuove esperienze gustative e mode – non escluderei la possibilità di optare per un “colapranzo” (scusate l’azzardo), ma in realtà è proprio ciò che significa la parola “brunch”. Un neologismo coniato nell’Ottocento e il cui primo utilizzo si deve allo scrittore Guy Beringer che lo riportò per la prima volta su una rivista di caccia, precisamente nel 1895. I dettagli storici però li vedremo più avanti. “Brunch” è il risultato della fusione di due parole inglesi: breakfast (colazione) e lunch (pranzo), un ibrido che si

consuma solitamente nella tarda mattinata della domenica e consiste in un lauto banchetto che va dai muffin alle uova, dal caffè alle insalate. Una tradizione anglosassone che si è capillarmente diffusa in America ed è approdata in Italia da pochi anni, ove non è ancora molto in voga ma è sicuramente una tendenza in crescita. Almeno è quanto riporta Bruna Baroni, esperta di consulenza, analisi e formazione nel mercato dei consumi fuori casa di TradeLab, la quale ha stimato che solo il 5% dei locali situati nei comuni con oltre 20.000 abitanti lo offre e quasi unicamente nel fine settimana. Ciononostante, ritiene il fenomeno interessante soprattutto in relazione al costo: parrebbe infatti che uno scontrino medio sia pari al valore di 13,7 € a persona. In Italia, è possibile trovare diversi posti in cui poter provare il brunch, soprattutto tra Milano e Torino ma anche tra Roma e Napoli (in numeri nettamente inferiori rispetto al Nord). Non soltanto i ristoranti e gli hotel però optano per questa formula; in realtà, è un’esperienza insinuatasi nelle case di molti italiani. I brunch non sono tutti uguali; quello invernale si differenzia sostanzialmente da quello estivo e, come per tutte le preparazioni, è importante seguire la sta-

gionalità; inoltre, è possibile prepararne di varie tipologie: americano, vegano, inglese, di pesce, un mix ecc. Non si disdegna nulla. Ma come si prepara un brunch fatto in casa? Seguendo semplici e piccoli accorgimenti: preparare un bel buffet ricco di piatti belli e colorati, spaziare dal dolce al salato, servire bevande calde e fredde (così come anche il cibo, questo – come il contenuto dei piatti – può dipendere dal genio dello/a chef), mangiare in un tempo a metà tra pranzo e colazione e, soprattutto, godersi cibo e compagnia. Certo è che in un brunch non possono mancare le classiche uova alla Benedict o strapazzate con il bacon, i french toast, i salumi, la frutta, la carne, le ciambelle (come i bagel), i club sandwich, i muffin con succhi vari, thè o caffè americano, per restare in tema anglosassone o statunitense e, perché no, qualche cocktail leggero. Ma è possibile anche italianizzare il tutto preparando brioche, graffe, croissant, insalata di riso o, perché no, una bella parmigiana di melanzane! Chi più ne ha più ne metta. Il tutto può variare ovviamente da regione a regione. La verità è che il brunch ha delle infinite potenzialità; basta dunque lasciar spazio all’immaginazione e alla creatività.

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LE ORIGINI La storia colloca la nascita di questo fenomeno nell’Inghilterra di fine Ottocento e si riferisce ai lauti banchetti che i nobili e i borghesi organizzavano in seguito alle battute di caccia. Come già accennato, fu Guy Beringer a coniare il termine quando pubblicò l’articolo “Brunch: A Peal” sull’Hunter’s Weekly, una rivista di appassionati di caccia. Lo scrittore descriveva questo rito come un momento di allegria e convivialità, affermando che fosse un’ottima occasione per rilassarsi al mattino, promuovendolo come un antidoto alle preoccupazioni della settimana (anche se molto probabilmente si riferiva a un modo socialmente accettabile per superare i postumi di una sbornia del giorno

prima) e un elisir per migliorare l’umore. Il brunch come lo conosciamo oggi e che siamo abituati a vedere più che altro sugli schermi, però, proviene da una versione statunitense. È più o meno negli anni ‘30 del XX secolo che il brunch entra a far parte della cultura di massa, più specificamente durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale, quando anche le persone “comuni” iniziano a sentire la necessità di rilassarsi la domenica. Negli anni ‘70 arriva nei grandi alberghi di New York (pare grazie al capriccio di clienti che pretendevano un’abbondante e tarda colazione) e negli anni ‘80 si diffonde progressivamente. Insomma, negli anni il brunch è arrivato anche in Europa e, come già detto, giunge in Italia a partire dalle grandi città.

NEL 2024 Il brunch oggi fa tendenza e, per quanto non sia ancora diffuso a macchia d’olio in tutta Italia, è comunque riuscito a infilarsi nelle preferenze di molti. Probabilmente non sarà una moda passeggera come tante e, se è anche vero che i relativi costi sono più accessibili rispetto a quelli di un pranzo o una cena, prima o poi dilagherà. In fondo, che lo si provi a casa, in un bar o in un hotel di lusso resta sempre un’esperienza culinaria, un momento di relax da vivere in armonia tra chiacchiere e allegria. Dopotutto, il buon cibo mette sempre tutti d’accordo. Basti pensare alle esperienze piemontesi della Merenda Sinoira o a quelle campane del pic-nic in spiaggia… Insomma, anche se non lo chiamiamo così, noi “brunchiamo” da sempre.



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DOVE VAI IN VACANZA? Partiamo dalla Valle d’Aosta. Qui, oltre allo spettacolo naturale di Cervinia e alla bellezza del capoluogo, vi invitiamo al Forte di Bard (set cinematografico di “The Avengers”) dove fino al 10 marzo sarà esposto il quadro “Ritratto di signora” di Gustav Klimt mentre dal 3 febbraio arriverà l’edizione numero 59 del “Wildlife Photographer of the Year”, la mostra-concorso promossa dal Natural History Museum di Londra.

sopra:

Forte di Bard in Val d'Aosta

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ennaio è tradizionalmente un mese dedicato alle fiere invernali dei ristoratori, almeno di quelli che non prestano servizio in prossimità delle cime innevate (ormai sempre più rare) pronte ad accogliere i turisti in queste settimane. Se, dunque, in questi giorni avete l’opportunità di prendervi qualche giorno di vacanza e siete indecisi dove organizzare il vostro viaggio “last minute”, abbiamo pensato di offrirvi un’utile guida attraverso l’Italia per godere delle bellezze del nostro Paese e delle sue tante attività culturali.

a cura della redazione


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Torino e la Mole Antonelliana

• il quadro “Ritratto di signora” di Gustav Klimt a forte bard in val d'aosta • la mostra-evento “The world of Tim Burton” a torino

qui sopra:

La Pietà Rondanini al Castello sforzesco di Milano a destra: Arco della Pace a Parco Sempione a Milano

• le mostre a palazzo reale di giorgio morandi, francisco goya, fernando botero (mi) A Milano sono ricchissime le mostre del Palazzo Reale, che vedono protagonisti Giorgio Morandi, Fernando Botero e Francisco Goya. Al Museo delle Culture (MuDeC) spazio invece a Vincent Van Gogh. Milano però merita una visita anche solo per la Pinacoteca di Brera, la Pietà Rondanini ospitata nello straordinario simbolo meneghino del Castello sforzesco, sempre che non abbiate avuto la fortuna di prenotare per tempo l’accesso a Santa Maria delle Grazie, sede del Cenacolo di Leonardo da Vinci.

gli appuntamenti

Ci spostiamo in Piemonte dove potrete scoprire la bellezza di una città ancora non sufficientemente riconosciuta nei circuiti turistici più battuti: Torino. Tra il Palazzo Reale, piazza San Carlo, la Gran Madre, il Cimitero monumentale e molte altre straordinarie architetture, la prima capitale d’Italia ci aspetta con due appuntamenti straordinari: nell’incantevole scenario del Museo nazionale del Cinema ospitato nella Mole Antonelliana, è allestita infatti la mostra-evento “The world of Tim Burton” dedicata ai lavori del celebre regista. Poco più in là delle piazze del centro, invece, nel quartiere Crocetta, trovate la Galleria d’Arte Moderna (GAM) che espone le opere di uno degli artisti più amati dell’Ottocento: Francesco Hayez.

• le opere di Francesco Hayez al GAM di Torino

• vincent van gogh al mudec di milano • la pietà rondanini al palazzo sforzesco a milano


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pizza e pasta italiana gennaio

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• Marc Chagall a Mestre

sopra:

Piazza San Marco con Palazzo Ducale a sinistra

gli appuntamenti

• Le foto di Dorothea Lange a Bassano del Grappa • Le pitture “metafisiche” di Giorgio De Chirico a Conegliano

Il Veneto ci delizia invece con Marc Chagall a Mestre, punto di partenza per la città lagunare più bella del mondo. A Bassano del Grappa, dove potrete degustare – ça va sans dire – la grappa più originale che ci sia, troverete le foto di Dorothea Lange mentre a Conegliano ci aspettano le pitture “metafisiche” di Giorgio De Chirico. Gli scatti di Robert Doisneau sono invece nella città più romantica del mondo, Verona, dove potrete “perdervi” nella bellissima storia dell’Arena, a due passi dalle case di coloro che ispirarono “Romeo e Giulietta”.

• Gli scatti di Robert Doisnea a Verona

a sinistra:

Ponte Vecchio a Bassano del Grappa


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Toscana. Cos’altro aggiungere a questo nome già di per sé evocativo? Partiamo dal 3 gennaio dove a Torre del Lago Puccini si svolgerà il concerto festoso per i 120 anni dalle nozze di Giacomo Puccini ed Elvira Bonturi. A Livorno, al Museo della Città, fino al 1° aprile, potrete trovare 15 disegni autografi e circa 70 opere di Leonardo da Vinci. A Pontremoli, il 17 e il 31 gennaio appuntamento con la tradizionale disfida dei falò: quello di san Nicolò (17 gennaio) contro quello di san Geminiano (31 gennaio), per rivivere una storica competizione medievale. In onore di Sant’Antonio Abate, Santo protettore dei pizzaioli il 21 gennaio a Buti, si svolge, a cavallo, il Palio delle contrade.

• La fiaccolata del monte lussari in friuli

Se a Capodanno avete la fortuna di essere in Friuli-Venezia Giulia, non perdetevi l’emozionante fiaccolata del Monte Lussari e lasciatevi incantare dalla bellissima Carnia. Anche il Trentino-Alto Adige, con la bellezza dei suoi monti, non lascia a bocca asciutta chi è alla ricerca di arte e cultura. A Rovereto, infatti, lo splendido Mart ospita le bellissime opere di Albrecht Dürher.

in alto: Il Mart di Rovereto a destra: Terrazza Mascagni a Livorno

L’ Emilia-Romagna – si sa – è una regione che sa come arricchire ogni stagione. Ecco dunque che, oltre ad aspettarvi al Sigep a Rimini, a Bologna potrete tuffarvi in Marca, l’unica fiera italiana dedicata alla marca commerciale, la grande vetrina dove si espongono i prodotti dell’eccellenza italiana a marca del distributore. Se volete distrarvi con un po’ d’arte, non perdetevi al Teatro Regio di Parma il 12 gennaio “Il barbiere di Siviglia”.

• le opere di Albrecht dürher al mart di rovereto (tn) • il sigep a rimini

gli appuntamenti

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• "marca", la fiera dedicata alla marca commerciale a bologna • il barbiere di siviglia al teatro regio di parma



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Roma. Arriviamo nella Capitale dove, nel quadro del programma ufficiale delle celebrazioni del centenario della nascita di Italo Calvino (1923 – 1985) le Scuderie del Quirinale ospitano dal 1° gennaio la grande mostra con più di 400 opere che intendono illustrare i caratteri e l’evoluzione dell’immaginario calviniano dagli anni di formazione e dalle prime prove agli anni della maturità artistica, fino ai tanti progetti lasciati in sospeso. Tanti però anche gli appuntamenti previsti in città per vivere questa ricorrenza, oltre ovviamente a poter godere della bellezza incantata della Città Eterna. Difficile dire cosa ci offrirà Napoli, non perché gennaio sarà privo di eventi ma perché la programmazione è ancora in via di definizione. Ne approfittiamo allora per invitarvi a fare un giro nel centro antico e nei suoi mercati, segnalandovi la mostra presso il Made in Cloister dedicata all’artista del legno francese,

Ara Starck. Dal punto di vista fieristico, interessante l’appuntamento organizzato il 23 e 24 gennaio dall’Unione Industriali Napoli e dedicato al b2b con le aziende di moda: M.IT.BRANDS – Meet ITalian Brands. Se invece sarete a Matera, vi invitiamo a non perdervi una visita al Museo nazionale della città dove è in mostra “Tiresia, il mito tra le tue mani”. La vostra meta è la Sicilia? Avrete la straordinaria occasione di visitare a Palermo, grazie al Touring Club Italiano, tre chiese solitamente chiuse al pubblico: Santa Maria in Valverde, San Giorgio dei Genovesi e la Chiesa Anglicana “Holy Cross”. Non perdetevi però neppure la Sagra del suino nero dei Nebrodi (il 5 gennaio a Longi), la Sfilata storica dei Re Magi ad Acireale (6 gennaio), “U pagghiaru” a Messina (rituale del 6 gennaio) e le tante feste dedicate a San Sebastiano il 19 gennaio. Ovunque voi andiate, insomma, buon viaggio!

• la mostra per il centenario della nascita di italo calvino alle scuderie del quirinale a roma • la mostra dedicata ad ara starck presso il made in cloister a napoli • la fiera organizzata dall’Unione Industriali Napoli dedicata al b2b • il museo nazionale di matera

gli appuntamenti

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• Santa Maria in Valverde, San Giorgio dei Genovesi e la Chiesa Anglicana “Holy Cross” a palermo

in alto: Roma a sinistra:

Matera


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Buon Compleanno AVPN! di A. P.

40 anni e non sentirli…

o, forse, sentirli tutti (e bene) per la capacità di avere dato forma e sostanza alla conoscenza di un prodotto fino a qualche tempo fa ritenuto troppo “cheap” per conquistare la critica gastronomica ma che ha invece, da sempre, avuto un posto privilegiato nel cuore del pubblico. Compie così ben quattro decenni l’associazione che promuove e tutela, con passione e senza fini di lucro, la “Vera Pizza Napoletana”, impegnandosi nel valorizzare le pizzerie affiliate, i prodotti della filiera produttiva e i corretti abbinamenti e nel sostenere un costante percorso di crescita professionale dei pizzaioli.

Qual è il segreto di questo successo? Per Antonio Pace, fondatore e presidente dell’Associazione Verace Pizza Napoletana, non ci sono dubbi: “Abbiamo messo in campo la nostra esperienza per tutelare la Vera Pizza Napoletana, condividendo la storia delle nostre famiglie, da tempo immemore legate a questo universo e portando avanti l’idea che il segreto per fare la Vera Pizza Napoletana è farla come

si è sempre fatta. L’obiettivo di difendere e rendere immediatamente riconoscibile l’identità di questo cibo speciale, salvaguardandolo dalle imitazioni, ci ha condotti a scrivere poche e semplici regole che ci siamo impegnati a rispettare e attraverso le quali abbiamo stabilito in maniera univoca come realizzare un prodotto conforme alla tradizione”.


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Fondata nel giugno 1984 dai titolari di 16 storiche pizzerie napoletane, l’AVPN conta ad oggi più di 1.000 pizzerie affiliate in 56 Nazioni; ha una sede centrale, situata a Napoli, che coordina l'attività delle 4 delegazioni internazionali (USA, Giappone, Brasile e Australia) e dei 30 Brand Ambassador presenti in Italia e nel mondo. Da oltre 20 anni l’Associazione è altresì impegnata nella formazione professionale dei futuri pizzaioli e degli imprenditori del settore: circa 500 persone all'anno studiano nelle AVPN School del mondo (Los Angeles, Atlanta, Sydney, Istanbul, Granada, 5 in Francia, San Paolo, Poznan, Kyoto, Osaka e, ovviamente, Napoli).

Il raggiungimento del quarantennale rappresenta un passo importante per l’Associazione e per questo si è scelto di celebrarlo attraverso un piano di attività che vedrà coinvolta anche questa rivista, in un ricco calendario di attività ed iniziative. L’appuntamento iniziale del 2024 sarà, come da tradizione, il 17 gennaio, festività che la Chiesa dedica a Sant’Antonio Abate protettore del fuoco, dei fornai e dei pizzaioli napoletani. A 7 anni di distanza dalla riscoperta, da parte del mondo pizza, della tradizionale Festa di Sant’Antuono il 17 gennaio, nato come festa cittadina, ha varcato i confini nazionali per affermarsi come Giornata Mondiale della Vera Pizza Napoletana e viene omaggiato da AVPN con il Vera Pizza Day, giunto quest’anno alla sua quarta edizione.

Il Vera Pizza Day è una maratona di 24 ore in diretta YouTube durante la quale esponenti dell’Associazione da tutto il mondo realizzeranno masterclass nella propria lingua sull’impasto, stesura e cottura della Vera Pizza Napoletana, affiancati da blogger e/o influencer con i quali avranno modo di confrontarsi, presentare nuove ricette e anche rispondere alle domande del pubblico. Saranno proposte 22 masterclass in 12 lingue diverse attraverso cui la pizza “secondo disciplinare AVPN” verrà diffusa da Oriente a Occidente. Obiettivo da battere le 743.500 visualizzazioni dello scorso anno.


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pizza e pasta italiana

g e nnaio

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Grazie alla collaborazione con Google, poi, a partire da gennaio 2024, anche l’Associazione ha un posto di rilievo sulla piattaforma “Arts & Culture” con il “Vera Pizza Experience”, il primo museo virtuale dedicato alla pizza napoletana dove saranno raccontate la storia della pizza, del disciplinare, dell’associazione, degli ingredienti, della tecnica e degli abbinamenti, così come sarà possibile spostarsi tra gli 80 ritratti di pizzaioli napoletani immortalati da Oliviero Toscani nel 2014 col progetto “Tu Vuò fa il Napoletano”.

Non volendo anticipare tutto ciò che scopriremo durante l’anno, vogliamo però concludere con una notizia che piacerà anche ai più giovani e soprattutto ai loro genitori, specie se pizzaioli: è infatti in corso di stampa Pizza Pop-up, un libro nato dalla collaborazione con la casa editrice “NuiNui” che sarà pubblicato in lingua italiana, francese e inglese con tre separate edizioni, composto da 20 pagine di cartoncino con 5 doppie pagine semplici e 5 doppie pagine con pop up per raccontare la pizza a un pubblico compreso tra i 4 a 10 anni. Come ormai ben sappiamo, la pizza, cibo prediletto di re e di mendicanti, di intellettuali e di artisti, costituisce l’emblema dello spirito partenopeo e della sua ineguagliabile inventiva: non ci resta, dunque, che celebrarla insieme lungo tutto l’anno.


Da 40 anni

a tutela della Vera Pizza Napoletana

www.pizzanapoletana.org


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e stori di pizza

UNA LEGGENDA: PINO LONGO Pino Longo è maestro d’arte bianca, istruttore e giudice del Campionato Mondiale della Pizza, da tempo immemore dedica la sua vita alla creazione di bontà. Oggi lavora presso il “Ca’ Cornera” nel Delta del Po, dove sforna pizze di ogni genere, sperimentando gusti sempre nuovi ma senza mai disdegnare la tradizione. di Noemi Caracciolo

Qual è la tua storia? Ho iniziato a 14 anni. La maggior parte dei pizzaioli dei miei tempi non voleva andare a scuola e andava in bottega. Da Foggia mi sono trasferito a Torino con la famiglia e sono andato a fare il garzone in una fabrichetta di carrozzeria. Ero l’ultimo arrivato, quindi facevo di tutto. Mi alzavo alle 6:00, prendevo tre tram e pullman e arrivavo alle 8:00, immancabilmente in ritardo e così mi toglievano la mezz’ora per dieci minuti. Nel frattempo, mio cognato, Antonio Campanella, che oggi purtroppo non c’è più e che veniva da una famiglia di pizzaioli (figlio di Gilberto Campanella, famoso pizzaiolo della Riviera Romagnola), era stato scelto come pizzaiolo – insieme a suo fratello Rocco – da una società americana in procinto di aprire una pizzeria. Un giorno passavo a trovare mia sorella a Torino e ho detto ad Antonio: “se hai bisogno di un aiuto vengo io”. In realtà l’avevo buttata lì, come una battuta.

Dopo un mese, mi chiama e mi chiede se volessi andare a fare l’aiutante. Dopo aver ottenuto il permesso di mio padre, che dovette fare una delega in quanto ero minorenne, andai in Germania. E così ho cominciato: era la fine degli anni ‘60, inizio dei ‘70. Le ore non si contavano e, poiché i minorenni non potevano girare nei locali pubblici dopo le 22:00, ho dovuto avere anche un permesso speciale per lavorare fino a mezzanotte. Nel frattempo, ovviamente non andavo a scuola, ho recuperato più avanti però. Poi ho cominciato a sostituire lui e il fratello che, dopo 6 o 7 mesi, erano tornati in Italia; a poco meno di 16 anni, io ero il capo pizzaiolo e avevo un aiutante napoletano di 23 anni. Era abbastanza strano che lui dovesse aiutare me. Dopo diciotto mesi, la società mi chiese di fare un’apertura a Copenaghen e a me sarebbe piaciuto ma mio padre voleva che tornassi in Italia. Devo dire che a Torino ho avuto belle esperienze, ho lavorato nelle migliori pizzerie e non ho mai smesso di imparare. Anche oggi che insegno non ho smesso, sono sempre curioso e mi piace trasmettere ciò che so. In una pizzeria a Torino c’era un pizzaiolo napoletano, Pasqua’, che non voleva guardassi come faceva la pizza...


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Gelosia e concorrenza in questo mestiere c’erano e ci sono ancora... È questo ad avermi dato l’input per insegnare, ovviamente dopo aver studiato il prodotto a fondo: l’ho sempre detto che conoscenza è uguale a qualità. Nel ‘72 lavoravo in una gastronomia, facevo festa la domenica e la sera, così da poter prendere la licenza media. Dopo aver lavorato in una pizzeria, mi ha cercato un amico e cliente, Gianni, il quale mi chiese se potessi aiutare suo cugino ad aprire una pizzeria ad Arabba,frazione di Livinallongo del Col di Lana, in provincia di Belluno. La prima pizzeria del posto. Il titolare, Agostino, avrebbe voluto un pizzaiolo più esperto e io ho fatto il furbetto. Gli dissi che avrei provato a sentire se mio cognato fosse stato disponibile e che sarebbe poi arrivato dopo un po’. In realtà lui stava aprendo giù a Foggia e non sarebbe mai venuto. “Nel frattempo” avrei preso io il suo posto. Alla fine, però, è andata bene. Agostino – splendida persona – mi disse: “ma sai che sei bravo, perché non resti tu?”. A quel punto gli dissi la verità, è stato un siparietto simpatico. Dopo un po’ ho

conosciuto una brigata di cuochi che lavorava sull’Isola di Albarella, un’isola privata nel Delta del Po e il cuoco disse al direttore che avrebbe dovuto lasciar perdere il pizzaiolo che aveva trovato e prendere assolutamente me, perché a detta sua ero un fenomeno! Nell’aprile del ‘73 sono andato a vedere il posto, idilliaco, d'élite, così sono diventato il primo pizzaiolo. Negli anni ho fatto anche il cameriere, perché visto che ci litigavo sempre volevo capire perché: quando lo sono diventato, poi ero io a bisticciare con i cuochi. Inoltre, a circa vent’anni viene un po’ a tutti coloro che fanno questo mestiere una crisi, vedi tutti che vanno a divertirsi e tu a lavorare. Sono rimasto li fino al ’77: a Padova ho conosciuto mia moglie in un locale, mi sono innamorato del posto e mi sono legato al Delta del Po. I titolari di Padova nel ‘79 mi hanno iscritto al Concorso Nazione di Pizzaioli al Turismart e ho vinto su 360 pizzaioli con la pizza ortolana, la prima con le verdure. Non ti dico i commenti: “ah! la verdura sulla pizza!”, era un sacrilegio per molti e, invece, primo posto. Ti dico una cosa divertente: mi avevano iscritto con il nome Giuseppe Longo e,


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facendomi da sempre chiamare Pino, quando chiamarono il nome del vincitore, io non capii che fossi io, pensai: “ma guarda un po’, ha vinto uno con il mio stesso cognome”. Mio cugino, che era con me, mi disse “Oh! Ma guarda che sei tu, vai!”. Nell’82 ho aperto il mio locale, “Flamingo”, che ha riscosso molto successo.

E dal Flamingo come è arrivato al Ca’ Cornera? Ho chiuso nel 2011 per vicissitudini che preferisco non citare e, nel frattempo, andavo a fare aperture in giro, corsi, mi tenevo aggiornato insomma. Sono stato anche alla prima scuola alberghiera che ha fatto un corso di pizza, si trova ad Adria (Ro): qui intorno mi sono creato una miriade di concorrenti. Non ho mai fatto come Pasqua’, ho sempre cercato di trasmettere l’arte, non ho mai lesinato a mettere a disposizione la mia esperienza alle nuove generazioni. Ad un certo punto Pino deve sfornare il pane, me lo fa vedere: c’è un bell’albero di Natale disegnato sopra e se ne sente il profumo anche dalla videocamera. Oltre a quello, mi mostra le sue chips di pane che serve al posto dei grissini e aromatizza con olio all’aglio e a limone: a quanto pare, c’è gente che va da lui solo per quelle. Da quel che ho potuto vedere, credo che ci andrò anche io.

Riprende…

storie di pizza Al Ca’ Cornera ci ero venuto a mangiare con la famiglia e ci è subito piaciuto. È un locale che si trova di fianco al B&B dei proprietari e che ha affrontato varie aperture/chiusure. La proprietaria mi ha proposto di prenderlo in gestione e così abbiamo aperto nel 2018. Ci vengono tutti i clienti del Flamingo e, nonostante serva la bussola per arrivarci, bisogna sempre prenotare qualche giorno prima.

Mi parli del tuo impasto? Faccio la napoletana, la romana, quella in teglia, in pala… sempre con lo stesso impasto. È un impasto base con la biga che rigenero il giorno dopo, uso farina 0 e 1, lavoro con farine “Le 5 Stagioni”. Devo dire che con un unico impasto riesco a fare diverse cose, credo che la versatilità dipenda più dalla cottura. Io ho un forno MAM legna-gas computerizzato e devo dire che mi trovo benissimo. È chiaro che la temperatura varia in base al tipo di pizza. Stessa cosa per la quantità di pasta che ovviamente cambia per la napoletana. La mia pizza ha un cornicione non troppo pronunciato ma comunque un bel cornicione.

E per gli ingredienti? Pretendo di usare prodotti di prima qualità. Tengo molto al fatto che la mia pasta debba essere ben vestita, la considero una donna: se è vestita di stracci va bene comunque ma, se è vestita bene, è meglio. Si valorizza. Al momento sta andando molto bene la pizza con il granchio blu: base crema di radicchio di Chioggia al posto del pomodoro, ciliegine di mozzarella, pomodori ciliegini a fette, polpa di pomodoro, zucchine à-la-julienne, spruzzata di olio piccantino, una chela e, all’uscita, spruzzata di olio al limone. Poi la pizza dedicata ai Lunatici, una coppia di simpaticoni di Rai Radio 2, ai quali ho dedicato una pizza in seguito a un dibattito sulla demonizzazione di alcuni ingredienti: base crema di carciofi, porcini e fior di latte o bufala, all’uscita salmone affumicato.

Quindi sei aperto alla sperimentazione e all’innovazione. Sono un innovatore che tutela la tradizione; facendo il giudice di gara ai mondiali, vedo cose improponibili.

Tipo? Salsiccia e frutti di mare: un’accozzaglia. La prima domanda che faccio ai tavoli è: “ma la proponi nel tuo locale?”. La risposta di solito è: “no”. Una pizza del genere, magari con tartufo e ostrica, la dovresti far pagare almeno 100 € ma il prodotto dev’essere accessibile.

Credo che la semplicità vinca sempre. Hai un massimo di ingredienti? Quattro al massimo; esagerando, con le spezie, arrivo a 5. Per esempio, ho la Tonno Rosso, che non faccio più con l’omonimo pesce in quanto protetto: base bianca pomodorini e fior di latte, all’uscita tonno pinna gialla, stracciatella e cipolla caramellata. Un’esplosione di gusto che ti inebria.


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Come sei arrivato al Campionato mondiale della Pizza? Ho partecipato a diverse gare per la napoletana Stg. Nel 2004 Antonio Pace – un amico – con il quale abbiamo fondato l’associazione APES ratificata nell’81 mi chiama e mi chiede di andare a fare il giudice a una gara tra pizzaioli napoletani. Io invece gli propongo di andare come concorrente. Lui mi fa: “Guarda che sono tutti napoletani”; e io: “E allora? Che fa? Io sono pugliese”. Preparo l’impasto qua e me lo porto giù, cuocio una prima pizza e la mangio per fame e per provare il forno; credimi, aveva un sapore completamente diverso. Ero basito. Allora, preparo la pizza per la gara e su 80 concorrenti arrivo secondo. Ernesto Cacialli (Pizzeria del Presidente) arriva primo per soli 3 punti. Per me è come se avessi vinto: dal Nord a Napoli arrivo secondo, per me un bel successo!

Io credo sia positivo che il nostro

E proprio in merito al mestiere

prodotto sia apprezzato e conosciuto

del pizzaiolo lei è in prima linea...

all’estero ma gli Italiani dovrebbero

L’Apes che ho fondato con Pace ha creato tanti proseliti, tanti associati si sono distaccati per creare una loro associazione. Io le chiamo “associazioni di condominio”, bastano 2-3 pizzaioli, cercano sponsor, tirano un po’ di soldi e poi spariscono. Per questo motivo, è importante la qualifica professionale del pizzaiolo. Qua s’inventano la professione senza sapere cosa stanno insegnando o usando. Il Senatore Bartolomeo Amidei ha presentato un DDL a riguardo già anni fa ma poi è cambiato il governo e adesso lo ha ripresentato. Sta andando avanti. Bisogna solo calendarizzare e rifare tutto l’iter. Per gli approfondimenti ti consiglio di parlare con lui.

Quali sono state

essere quelli che s’impegnano di più

le tue soddisfazioni

nell’imparare quest’arte.

più grandi?

Il problema di questi ragazzi è che vogliono fare un corso, magari breve e subito guadagnare. Quelli che studiano Giurisprudenza, dopo devono fare un praticantato e sono tutelati, i ragazzi che vogliono imparare questo mestiere no. È un dramma. Gli stage sono stati sminuiti dallo sfruttamento mentre dovrebbero servire a insegnare. Inoltre, solo un mese di stage è coperto, il resto pesa sulle spalle del titolare, costa un patrimonio e il tempo è troppo poco per un insegnamento e una valutazione adeguati. Oggi la maggior parte pensano: “chi me lo fa fare di andare a lavorare”, hanno tutto ma la passione arriva dai 14 ai 18 anni, dopo manca l’entusiasmo.

Le provo ogni sera quando il cliente lascia il piatto vuoto, la soddisfazione del cliente è la mia. L’unica nota stonata è il tempo, mia moglie è gelosa della pizza, dice che l’ho trascurata per lei e ha ragione. Nella vita però c’è sempre qualcosa che si perde. E mi dispiace tra l’altro che oggi i ragazzi che si impegnano di più siano stranieri, non italiani. Ai mondiali ho visto dei giapponesi seguire il disciplinare della pizza napoletana Stg in maniera impeccabile; se non avessero sbagliato la cottura di qualche secondo avrebbero vinto loro, eh. Hanno fame di conoscenza.

Come si potrebbe ovviare a questo problema? Dando la possibilità a chi riceve in struttura di non avere un peso, di poter dare il giusto compenso agli stagisti ma senza dover poi spendere il doppio dei contributi. In Italia più assumi e più paghi.

su questa sollecitazione di pino longo inauguriamo la rubrica “la posta dei lettori” a pag. 108


20 24.01 Rimini 2024

26 - 30.01.2024 Frankfurt am Main


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sto r di ie pizz a

DOMENICO VOLGARE, FUZION, TORINO di N.C.


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“Nei momenti di follia escono fuori cose pazzesche… storie bizzarre che ti fanno andare a casa con il sorriso. Ogni tanto diventa difficile classificarmi. Se dovessi mettermi un’etichetta non saprei, sono fusion ma sono anche altro. Passo dall’essere un contadino all’essere un pazzo che mette in infusione le zuppe!”

Parole di Domenico Volgare, proprietario di Fuzion, locale nel quale ha luogo un incontro alquanto inusuale tra la cucina mediterranea e quella asiatica. Chi lo avrebbe mai detto che sushi e pizza potessero convivere diventando l’uno il contenitore dei sapori tipici dell’altro? Una mossa audace quella di Volgare ma che ha dato vita a un connubio di sapori davvero unici, molto apprezzati in quel di Torino.

Ritengo che la tua cucina sia molto interessante: è particolare il connubio tra cucina mediterranea e orientale, dicci un po’ di più. È qualcosa di un po’ bizzarro, passami il termine. Dieci anni fa l’idea era quella di creare qualcosa che non fosse già stato visto e che mi rendesse in qualche modo unico. La ricerca è stata abbastanza semplice: non ho cercato di distinguermi ma di fare ciò che sentivo e che mi piaceva fare. La mia fortuna è stata proprio quella di non guardare gli altri e non pensare: “adesso va questo, faccio questo”, no. Nonostante non abbia seguito le mode, dopo dieci anni siamo ancora qua. Nel mondo food e pizza, è tutto molto veloce: tante cose hanno il loro momento di gloria e in qualche modo passano; io, nel mio piccolo ho fatto ciò che volevo, spesso anche andando contro tutto e tutti. L’anno scorso, per esempio, ho deciso di iniziare a fare anche il contadino. Due anni fa è nata la “Masseria Petruliva” e ci sono arrivato grazie a due cose: la prima

riguarda i miei nonni; la seconda invece, essendo una persona che non si accontenta, è che ho voluto creare dei miei prodotti. I nonni, sia paterni che materni, erano braccianti agricoli e hanno vissuto nei campi; nonna ha raccolto pomodori per trent’anni. Non erano grandi proprietari terrieri ma con tanti sacrifici sono riusciti a comprare qualche pezzettino di terra. Venendo a mancare loro, questi terreni rischiavano di andare perduti e io non volevo, mi sarebbe dispiaciuto troppo. Essendo appunto una

persona che non si ferma, ho pensato: “ho un’attività, perché non autoprodurmi determinate cose?” e così, in un momento di riflessione e pazzia, mi sono attivato. Ho messo su un progettino, sono partito due anni fa con il pomodoro e quest’anno ho avuto anche il mio olio in bottiglia e la mia farina. Dalla Puglia a Torino. L’idea iniziale era produrre solo per il ristorante ma oggi vendo i miei prodotti ai clienti che, assaggiandoli, ne restano estasiati e così è nato un nuovo business.


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Mi hai raccontato dell’ultima vetta raggiunta ma come hai iniziato? Sono nato come pizzaiolo. Quando avevo 12 anni, i miei genitori avevano in gestione una pizzeria al paese, in Puglia, io mi ci sono ritrovato dentro. A quell’età avevo entusiasmo e forza: ho studiato, sperimentato e sbagliato tante volte. Sono quasi del tutto autodidatta, non ho mai avuto un vero maestro. Dopo sei o sette anni, quando i miei genitori hanno chiuso la pizzeria – il paesino era di soli 2000 abitanti – per un momento ho pensato di tenerla io ma mi mancava qualcosa, volevo girare e osservare. Sono un ex musicista e per questo sono sempre stato un po’ artista, ho sempre voluto conoscere e sperimentare. Una volta arrivato a Torino, ho iniziato a lavorare come magazziniere ma non ero soddisfatto. Ho girato tanto, tra Veneto, Trentino, ancora Puglia… finché nel 2014 mi sono fermato. Durante i miei viaggi ho provato diverse esperienze, anche in cucina ovviamente. Ovunque andassi, prendevo qualcosa e mi mettevo a disposizione per fare qualunque cosa. Ho fatto una bella gavetta, diciamo. Il passaggio fondamentale è stato quello di andare a Milano: prima di questa esperienza sono stato sempre vincolato al volere dei titolari, alle loro idee. Per dirtene una: in Trentino ho cercato di spiegare che la pizza napoletana (io amo Napoli, ci vado almeno due o tre volte all’anno) sarebbe stata il futuro; in prima battuta, la titolare mi ha ascoltato, lasciandomi spazio per agire. Prendevo la mozzarella da Agerola, cercavo farine napoletane ecc., andava tutto molto bene, finché ad agosto, il momento dei turisti, la titolare ha ben pensato di propormi di non avere più certi accorgimenti – tipo la mozzarella da Agerola – perché “tanto i turisti non capiscono niente”. Il discorso ruotava tutto intorno all’economia ovviamente ma non mi stava bene. Tornando a Milano, mio cugino mi disse che un amico aveva aperto una pizzeria al taglio che andava molto bene ma che il pizzaiolo era andato via senza lasciare la ricetta. Allora mi fa: “perché non vieni e provi a riprodurre quella ricetta? Altrimenti la rifai da zero”, quella è stata la svolta. Per la prima volta avevo la possibilità di “fare da me”.

l’idea di mettere insieme

Così ho aperto il ristorante e questo ovviamente ha comportato dei cambiamenti: quando hai un’attività, dev’essere tutto impeccabile perché i clienti giustamente hanno altre pretese.

certi ingredienti?

So che il tuo sushi è particolare perché

Ho conosciuto un ragazzo thailandese e mi sono innamorato dei valori della sua cucina del sud-est asiatico, completamente diversa da quella giapponese. Ho comprato libri, cercato botteghe che vendessero prodotti particolari, mi sono appassionato. Così ho pensato: “perché non unire queste due cucine e farle diventare qualcosa di unico?”. Ho iniziato a sperimentare sulle pizze a Milano e alla gente piaceva. Nel frattempo, i miei proprietari volevano spostarsi a Valencia, io non volevo seguirli, così sono tornato a Torino. Lì nasce “Fuzion” che all’inizio era uno street food. Volevo che la pizza parlasse orientale e il sushi italiano, giocando al contrario, come se fossero due contenitori.

in qualche modo c’entra anche il vino…

Ma come ti è venuta

Ma perché pizza e sushi insieme? Quell’amico di cui ti parlavo mi ha trasmesso l’amore per il sushi: all’inizio è stato con me e quando è andato via ho deciso di continuare. Ho pensato di prendere 10 ingredienti orientali, 10 italiani e creare diversi piatti. All’inizio erano 5 ricette di pizza e 5 di sushi. Le persone poi potevano creare gli abbinamenti che volevano ma, a volte, si scocciavano e mi dicevano: “fai tu”. La cosa funzionava e, dopo due anni, avevo alzato la qualità, il range non era più adatto allo street food. Anche perché i clienti mi dicevano: “sì, tutto bello e buono ma non posso prenotare un tavolo, la pizza è buonissima ma la servi nel cartone, la birra artigianale nella plastica… è il momento di fare un salto di qualità”.

Non volevo ricercare i prodotti ma conoscerli più a fondo, così ho iniziato a farmi anche le salse in casa, come la sriracha, originaria thailandese, che è a base di peperoncino, aglio, aceto e zucchero. Nella dispensa avevo già tutti gli ingredienti, dovevo imparare solo la tecnica e l’ho fatto. Stessa cosa per il sushi, è un contenitore mediterraneo: riso piemontese, carne cruda, ‘nduja, mozzarella di bufala, guanciale di Norcia.


Il sushi è tenuto insieme da una bagna di aceto di riso, sale e zucchero: è nato come piatto povero e, quando è arrivato in città, i ricconi gli hanno dato un tocco in più con il sakè, per dare sapore. Quello usato oggi però è paragonabile al nostro vino a buon mercato, per intenderci. Ciononostante, ha un costo pari a quello di un nostro buon vino perché è solo di importazione. Essendo una roba oscena, io ho cercato un’alternativa locale: è nata così l’idea di fare sushi al Moscato d’Asti DOCG. Il costo è lo stesso ma hai un prodotto di qualità con forma e sapore, fruttato, dolce e buono. Sono la ricerca e la comprensione che oggi continuano a ispirarmi e questa passione mi dà sempre nuovi stimoli, ogni tanto dovrei tirare il freno a mano.

E per l’impasto della pizza? Nonostante l’impasto napoletano sia buonissimo, non dev’essere troppo carico di ingredienti: oggi si guarda molto alla digeribilità. Una pizza napoletana tradizionale non poteva funzionare bene e così sono dieci anni che lavoro sul mio impasto. Ad oggi ha 100 ore di lievitazione, uso farina tipo 2 che, fino allo scorso anno, il molino Bongiovanni produceva solo per me.

storie di pizza

Da quest’anno ho iniziato a coltivare il mio grano e lavoro con un mulino più piccolo. Ho costruito le caratteristiche da zero. Uso lievito madre e ho lavorato anche sull’acqua. Il mio impasto è molto idratato e, poiché buona parte della pizza è acqua, ne ho provate diverse: oggi uso la Lauretana, che è la più leggera d’Europa, ha un ph particolare, favorisce lievitazione e digeribilità. L’obiettivo è arrivare a una farina fatta al 100% con il mio grano ma per ora è un progetto sperimentale. Non è così semplice, esistono milioni di semi. Per ora è una buona farina ma manca un po’ di proteine, vorrei riuscirci dal prossimo anno.

Quindi definiresti la tua cucina “fusion”? No. la mia cucina è di ricerca, è creativa. Sono stato bravo a non superare il confine del comfort food: nonostante da me mangi una pizza più particolare, stai mangiando comunque pizza e ti senti a casa. Ho trasportato un piatto thailandese, il Pad Thai fatto con tagliatelle di riso, pollo, gamberi e una salsina fatta di arachidi e varie altre cose, sulla pizza. Chi la mangia mi dice che ricorda la Thailandia ma che comunque assapora la pizza e si sente a casa. Il mio è un impasto adatto a ricevere qualsiasi condimento. Anche il sale è “pensato”: la prima cosa che il cervello percepisce quando si mangia è la sapidità, allora ho studiato anche quello. Ho pensato che potesse appesantire e, dopo aver provato 100 sali, ho trovato l’integrale di Trapani che dà una buona sapidità ma non appesantisce. Per me il contatto con i clienti è fondamentale: il locale conta 20 coperti, non sono da 200 pizze a sera e posso passare anche ore a parlare con i miei clienti. È importante.


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Tre ingredienti che non possono mancare nella tua dispensa? Il pepe di Sichuan, un prodotto orientale la cui peculiarità è quella di essere un pepe che non è un pepe. Viene classificato così ma ne ha solo le sembianze: quando lo triti, lascia una nota agrumata che dà un’apertura pazzesca a qualsiasi piatto, lo metto anche sulla farinata. Poi c’è una maionese giapponese che è molto delicata rispetto a quella che conosciamo e la produco sempre io. E infine il pomodoro pelato.

Se venissi da te e ti chiedessi di propormi un menu dicendoti di essere

storie di pizza

aperta a tutti i gusti? Ti proporrei un menu degustazione. In primis due antipasti: black farinata di ceci neri, sale di Trapani e pepe di sichuan e un fritto o delle Orientali, strisce di pasta della pizza fritte, servite con salsa a base di arachidi e curry thailandese o delle classiche frittelle di alghe di mare, preparate con alghe nori coreane servite con pomodoro e ricotta salata. Proseguirei con tre assaggi di sushi: uno di verdura, che cambia in base alla stagione; uno di carne cruda e uno di pesce (ne abbiamo solo due).

Ancora, due pizze, una delle storiche come la Snooky, con maionese giapponese e una nata l’anno scorso, la Regina Himiko, cioè una Margherita con mozzarella di bufala e pomodori al cui interno metto del miso giapponese (pasta di fagioli di soia fermentata che ha un gusto umami molto particolare). Pizze semplici ma che, aggiungendo una sola cosa, tipo un cucchiaino di miso, possono farti provare un’esperienza gustativa unica. Finirei poi con un dolce: faccio anche i lievitati; per esempio, te ne farei assaggiare uno con arancia costiera, cioccolata fondente e peperoncino coreano oppure un tiramisù con caffè vietnamita, in base a ciò che abbiamo. Per finire, un digestivo che ho inventato io: lo Zio Pho, una zuppa alcolica. Una sera, prima del Covid, sono entrato in cucina e sul fuoco c’era questa zuppa che proponiamo servendola con prodotti italiani: il profumo era inebriante. È un piatto alla cui base c’è un mix di spezie e così ho pensato ci stesse bene un digestivo. Ho un caro amico sul Gargano che fa i liquori, si chiama Rocco; gli ho proposto la cosa, inizialmente era un po’ basito… oggi lo vendo. È un digestivo che viene usato come tale e come ingrediente per i cocktail. Nei momenti di follia escono fuori cose pazzesche.


Capolavoro napoletano Una pizza napoletana dall’impasto leggero e dal cornicione ben alveolato, 100% “Made In Italy”.

L’hai sempre sognata? Da oggi esiste e si chiama Smorfia®, una miscela unica di soli e selezionati grani italiani, eletta farina per pizza napoletana di tradizione dai pizzaioli più esperti e approvata dall’Associazione Verace Pizza Napoletana.

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AGROFFICINA

IL RACCONTO DALLA TERRA AL PIATTO di Giusy Ferraina


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Siamo in Romagna, terra opulenta, gustosa e goduriosa; siamo esattamente nel cuore di Rimini, difronte a Castel Sismondo, seduti ai tavoli di Agrofficina, un locale dall’atomosfera familiare, dove la natura ci racconta tante cose attraverso i piatti in menu. Uscendo dalla città, c’è un’azienda agricola, quella della famiglia di Anna Chiara Leardini, ideatrice di questo format, motore e fonte di ispirazione di questo progetto, che potremmo definire di agro-ristorazione o - come lo definisce lei stessa - di “ristorante naturale” in cui vivere un’esperienza di gusto nuova, in cui il sapore si miscela con il racconto della terra e dei suoi prodotti. La terra e la natura sono il filo conduttore

delle storie che qui si scrivono o - per meglio dire - si cucinano e si assaggiano. Insomma, in questo posto si concentrano le passioni di Annachiara Leardini: architettura (è lei che ha curato il design del locale) e cucina, voglia di accoglienza e un sano ritorno alle origini.

Vi definite un ristorante naturale: che cosa significa? La mia famiglia ha da sempre un’azienda agricola con vendita diretta. Venendo da una famiglia contadina, ho voluto dare questa matrice al mio ristorante che non è vegetariano ma prettamente vegetale, dove i piatti in carta sono costruiti su ciò che coltiviamo. La mia idea è quella di dare un’impronta naturale all’elemento vegetale come linea e protagonista della mia cucina, un approccio culturale che vorrei fosse diffuso e condiviso e non una tendenza o un’offerta dovuta.

Qual è la filosofia di Agriofficina, che già nel nome ci dice tanto? Come indica il nome stesso, puntiamo sulla trasformazione attraverso le mani di ciò che arriva dal campo: una commistione tra la terra e la cucina. E questo percorso che parte dalla terra e arriva nel piatto mi piace raccontarlo, spiegarlo. Il racconto del cibo e il suo messaggio più


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Che posto ha la pasta nel vostro ristorante?

intrinseco, che va al di là dell’esperienza gustativa, è la nostra filosofia. Il mondo del cibo sta cambiando e noi dobbiamo imparare a comprenderlo. Penso sia questo aspetto che ci ha fatto guadagnare la menzione nella guida Slow Food.

Da Agriofficina c’è molta attenzione allo “spreco zero” e al riuso. come siete organizzati?

Tre parole per descrivere la tua cucina. Spontanea e genuina, perché così sono io e penso che la mia cucina mi somigli. E poi “intima”, perché è una cucina che porta con sé tutte le mie esperienze e che ti fa sentire in una dimensione rassicurante e domestica.

Che rapporto avete con la materia prima e come cercate di valorizzare il lavoro di produzione e selezione stagionale che fate? Partiamo da quello che c’è in campo, anche se a volte proviamo a fare il percorso inverso, ovvero coltivare ciò che ci serve per fare un piatto. Lavoriamo con la stagione e non solo in cucina ma soprattutto lavoriamo molto per istruire le persone su ciò che la stagione ci regala. Nella nostra azienda agricola non ci sono serre, è tutto a irraggiamento diretto e questo comporta maturazioni differenti in base all’esposizione e poi anche presenza o assenza delle varie colture. Per non parlare poi della biodiversità: c’è molto da raccontare su cosa c’è in natura e far comprendere anche come tutto evolve. Per esempio, noi produciamo 8 tipi di pomodori, che presentiamo in menu semplicemente conditi con l’olio di nostra produzione, per esaltarne il sapore senza coprirlo.

Per la pasta c’è molto rispetto della tradizione romagnola e non può essere diversamente: il territorio offre tanto e lo esige. Per noi la pasta è per lo più fatta in casa: gnocchi, strozzapreti, passatelli, tagliatelle e lasagne. Mi piace, però, sottolineare che c’è anche una stagione per la pasta: se ci pensate bene, una pasta farcita, ruvida o dalla sfoglia importante ovviamente non è una pasta estiva. Per l’estate usiamo una pasta di grano duro con base integrale, che ha la capacità di pulire il palato, meno pesante e si adatta a dei condimenti più freschi e leggeri.

Devo dire che raramente rimane qualcosa e questo mi rende molto felice. Spesso siamo noi a guidare i commensali sulle quantità da ordinare, proprio per evitare rimanenze. In cucina siamo sempre stati “a spreco zero” e propensi al riciclo e al riutilizzo degli scarti, siamo attenti alle questioni ambientali, a cui si sommano anche quelle economiche. Il mio pensiero è che ciò che viene vista come eccedenza di un prodotto non deve essere considerato uno spreco ma qualcosa che può e deve diventare qualcos’altro. E oggi dovrebbe essere un approccio scontato per ogni ristorante. Le polpette, per esempio, sono sono il piatto must del riciclo: le facciamo con il pane avanzato e con le foglie dei vari vegetali, così come otteniamo salse e brodi dalle varie foglie esterne. Inoltre, in questo periodo stiamo sperimentando le fermentazioni e proviamo anche a riutilizzare quello che rimane come organico da compostaggio in campo.

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LE FARINE

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LE BASI


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Qual è il tuo piatto preferito, quello che cucini Quali sono i piatti del territorio e della tradizione che avete in carta o che reinterpretate? Se penso alla pasta, mi viene subito in mente la nostra tagliatella con ragù di cavolfiore. Lavoriamo il cavolfiore come la carne, tagliato al coltello, con l’aggiunta di salsa e una lunga cottura. Questo piatto per me è una reinterpetazione in chiave vegetale della tradizione. Così come lo sono le lasagne vegetariane con zucca e cavolo cappuccio o i passatelli di farina di castagne in brodo di funghi con crosta di parmigiano e pino silvestre dell’entroterra.

con maggiore piacere? Forse potrebbe sembrare un ossimoro ma il mio piatto del cuore è l’insalata - forse perché mi somiglia nella sua pluralità e ricchezza - e quando parlo di insalata per me significa mettere insieme un mix di vegetali selezionati: il crudo e il cotto, una parte essiccata, semi, frutta e ortaggi e una serie di macerazoni e condimenti diversi. Per esempio, quella che ho elaborato da poco prevede cavolo riccio, cavolo essiccato, miglio della Valmarecchia soffiato, melone bianco in osmosi con tamarindo, zucca marinata oleosa, rapa in marinatura acetica, citronette con polpemo e bergamotto, mela abbondanza. Insomma, la mia insalata nasce da una visione differente.

storie di pasta

E il piatto più richiesto? Sicuramente, cambiando il menu ogni mese, i piatti che richiedono con costanza sono le lasagne in tutte le forme e le polpette vegetali.

Qual è il vostro rapporto con i clienti? Cosa trovano da voi e cosa volete offrire? Un rapporto che definirei famliare e diretto. Da noi si vive un ambiente raccolto e rilassante e spesso la gente ci dice che si sente un po’ come a casa. Vogliamo essere una variante al ristorante tradizionale, quello storico e abbondante. Noi vogliamo far capire che con buone tecniche e buoni prodotti si può dar vita a una cucina alternativa, gustosa, bilanciata e salutare.

Facciamo un gioco.. Hai mai pensato la tua cucina sulla pizza? Quale delle tue ricette si presterebbe meglio? Molti dei nostri antipasti di verdura sarebbero dei condimenti perfetti per le pizze: mi viene in mente il nostro “Cavolo pack choi” con olio alle nocciole, granella di nocciole tostate, cipolla con caramello salato, crema di pecorino e mizuna rossa.


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E N O I Z A R O T S I R LA A S A C I R FUO

ORME, F I D ZZA E H C C I ONI I Z I UNA R D A DI TR , E R U T E DI CUL NE CH I C U C E DI NVIDIA I I C DO IL MON

di Giampiero Rorato


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olte cose stanno cambiando nella ristorazione fuori casa, anche con decise riqualificazioni e interessanti miglioramenti qualitativi che è bene conoscere. Per iniziare quest’anno la nostra rubrica, credo possa essere utile capire le diverse tipologie di “cibo fuori casa”. Suddividerei così le più comuni e diffuse nei seguenti sei grandi gruppi:

1. IL CIBO PORTATO DA CASA

Come panini o simili, specie per gli studenti; un tempo c’erano i “gavettini” che portavano con sé molti operai e impiegati che lavoravano in attività industriali lontane da casa, come ben sanno i più anziani.

2. I TRAMEZZINI E SIMILI, OFFERTI DA BAR E LOCALI

3. LA RISTORAZIONE COLLETTIVA Ospedali, scuole, fabbriche.

5.

4. I RISTORANTI E LE TRATTORIE: DAGLI STELLATI ALLE VECCHIE OSTERIE CON CUCINA

LE PIZZERIE

6.

GLI AGRITURISMI

Tutti questi settori meritano un serio approfondimento, anche perché legati a: tradizioni locali, di cui sono spesso l’espressione; situazioni economiche; scelte politiche. Per ora vorrei limitarmi a riflettere con voi sugli ultimi tre citati e cioè ristoranti, pizzerie e agriturismi, che sono i classici luoghi quasi sempre frequentati per libera scelta dei consumatori.


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Ristorazione domani

I T N A R O T RIS E I R O T T A R E T In questo gruppo vanno inclusi anche molti locali aperti per lo più a mezzogiorno, o perché convenzionati con industrie locali dove pranzano velocemente impiegati e operai o perché vi sostano i camionisti e, molto meno, gente di passaggio. In genere, praticano il “prezzo fisso” per un menu prefissato di pochi piatti, che consentono ai titolari un guadagno molto contenuto, compensato però dal numero abbastanza consistente di avventori. Si tratta in genere di locali a gestione famigliare o quasi, in genere senza ingenti spese per il personale, trattandosi dei componenti la famiglia. Generalmente i piatti sono buoni, con un primo – quasi ovunque pasta o pasticcio – abbondante e un secondo di carne con pane, verdura e caffè finale. Queste trattorie non sono tutte uguali e il menu offerto segue anche le tradizioni locali che variano da

regione a regione. Si tratta comunque di locali di ristorazione che i “clienti” sono quasi obbligati a frequentare, anche perché legati a contratti stipulati dai loro datori di lavoro con i titolari delle trattorie. Lo stesso vale per i “camionisti” che si ritrovano volentieri nelle ormai solite trattorie, dove trovano un cibo che risponde alle loro esigenze, così come i costi. In genere, il cibo è buono e abbondante e l’ambiente consente una sosta più lunga, anche per rispettare il codice della strada. Poi, ci sono le tante belle trattorie di paese, presenti anche nelle città, che sono i luoghi solitamente più importanti per la conservazione delle tradizioni gastronomiche locali e ci sono i ristoranti più lussuosi, di cui scriveremo più avanti.

E I R E Z

Z I P LE

Come si sa, esiste in Italia un esercito di cosiddetti “esperti” gastronomici, spesso (ma non sempre) realmente “esperti”, che viaggiano tutto l’anno avanti e indietro per l’Italia per visitare locali, con l’obiettivo di compilare le numerose Guide dei luoghi di ristorazione. Ebbene, da alcuni anni

in queste Guide trovano spazio sempre maggiore le pizzerie, segno che sono diventate locali importanti, che lavorano bene e dove si mangiano delle ottime pizze, sia tradizionali che creative. E che si tratti di locali molto importanti, dove si fa ricerca, dove si sperimenta, dove si ha gran cura del

locale, deve c’è crescente professionalità dei pizzaioli e del personale di sala, dove la spesa è abbastanza contenuta, lo dimostra ogni mese anche questa rivista – oltre ai tantissimi clienti – per cui le pizzerie in Italia sono diventate, ormai da tempo, il principale punto di riferimento del “mangiare fuori casa”. Chi scrive segue questo mondo dagli anni ‘80 del secolo scorso, quindi da quasi quarant’anni e ne ha visto - e anche raccontato su queste pagine - l’enorme progresso qualitativo, tanto che la pizza è ormai entrata dalla porta principale anche nei ristoranti più prestigiosi. Di questo dobbiamo essere consapevoli e avremo modo di capire non solo i motivi dello straordinario successo ma anche - leggendo ogni mese le pagine di questa rivista, le interviste con tanti pizzaioli e operatori del settore, gli approfondimenti sui singoli prodotti agroalimentari che entrano nelle pizzerie - di capire le tante ampie strade che si aprono alle pizzerie “italiane” di qualità, sia in Italia che nel mondo.



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GLI

I M S I R U T I R

AG

Quello degli agriturismi è un settore ristorativo che non ha alle spalle una lunga storia ma che in questi ultimissimi decenni è andato imponendosi in tutta Italia in modi e forme più diverse. Riservandomi di approfondire meglio in seguito la conoscenza e le prospettive di questo settore, mi interessa ora sottolineare come negli ultimi anni, in particolare dopo la crisi pandemica, gli agriturismi abbiano

iniziato una loro accelerata evoluzione, costringendo molti locali, rimasti fermi al passato, a chiudere i battenti. Gli agriturismi sono delle realtà ristorative dalle caratteristiche uniche, molto ma molto diverse da ristoranti, trattorie e, chiaramente, da pizzerie; hanno, nel grande mondo della ristorazione fuori casa, uno spazio proprio; non sono concorrenziali e servono soprattutto a trattenere molte

E N O I Z A R O RIST A R U T L E CU Queste tre forme di ristorazione fuori casa – ristoranti, pizzerie e agriturismi - sono un valore non solo alimentare, non rappresentano solo un importante servizio alla collettività e al turismo ma, raccontando nei piatti la tradizione alimentare dei paesi e delle regioni italiane, sono una pagina aperta sulla storia e sulla cultura italiana. L’Italia non ha una cucina unica ma un pa-

trimonio enogastronomico straordinario unico al mondo che racconta la storia e la civiltà del nostro Paese e degli abitanti delle singole regioni, delle aree transfrontaliere, dei luoghi abitati da secoli da minoranze linguistiche (occitane, francesi, tedesche slovene, albanesi, catalane, ecc.). Sono cucine che si basano sui prodotti originari del territorio e su quelli arrivati nel corso dei secoli (come frumento, olio e vino dal Vicino Oriente; spezie dal lontano Oriente, stoccafisso e baccalà dai mari del Nord,

famiglie nelle aree agricole, sia di campagna che di collina; conservano la cucina della tradizione rurale e rappresentano, se sono agriturismi seri, un valore aggiunto non solo alla ristorazione fuori casa ma al turismo internazionale, dal momento che ormai in ogni agriturismo, come nelle pizzerie, come nelle malghe di montagna, arrivano sempre anche dei turisti stranieri.

riso dall’Asia; mais, patate, pomodori, peperoni dell’America centro-meridionale; ecc.), il tutto elaborato secondo gusti e culture locali, per cui la cucina è davvero il più completo libro che racconta la storia, la cultura e la civiltà del nostro Paese. Per questo, la cucina italiana è realmente un patrimonio dell’umanità, che merita la protezione dell’Unesco (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura) alla quale è stata candidata.



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Dal 25 al 27 febbraio 2024, a BolognaFiere, arriva Slow Wine Fair, la tre giorni dedicata al vino buono, pulito e giusto. a cura di Silvia Ceriani, Slow Food Italia www.slowfood.it

S

ul sito della manifestazione, www. slowinefair.it, è possibile prenotare le Masterclass in programma e registrarsi alle conferenze online, accedere alla lista delle oltre 500 cantine già presenti nel catalogo della fiera e votare il proprio “locale del cuore” per il Premio Carta Vini Terroir e Spirito Slow. La selezione delle cantine, che aderiscono al Manifesto del Vino buono, pulito e

giusto, e l’assaggio sistematico delle loro bottiglie per poter partecipare alla fiera consente di offrire ai buyer e al settore HoReCa, oltre che agli appassionati, un’offerta omogenea e di altissimo profilo che non ha pari. Infine, le decine di occasioni di assaggio con le Masterclass e gli incontri in programma nelle Arene offrono una possibilità di approfondire i temi più attuali del mondo del vino.


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Mettiamo al centro la fertilità del suolo La terza edizione dell’evento si focalizza sul tema della fertilità del suolo, e sulla sua importanza, dal punto di vista agricolo ma non solo. Un vino prodotto preservandola, non è soltanto buono da bere, ma porta con sé valori come la tutela della biodiversità, la difesa del paesaggio agricolo e la salvaguardia delle risorse. È un vino che, al tempo stesso, afferma l’importanza che, attorno alle cantine, si diffonda la cultura – e non la moda – del vino. Un vino autentico, riflesso del territorio di riferimento, senza sofisticazioni e compromessi.

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A questo proposito dichiara Federico Varazi, vicepresidente di Slow Food Italia: «Grazie alla vita nel suolo ogni vino rappresenta al meglio il significato della parola terroir. In quei primi 30 centimetri di terra si conserva il 30% di tutta la biodiversità terrestre, un universo di simbiosi e interrelazione tra microrganismi, funghi e radici che consente alle viti di esprimere aromi specifici esclusivi. Ma il suolo è in grande pericolo. L’emergenza ambientale che lo riguarda è fra le più sottovalutate. Il 70% di tutti i suoli europei è in uno stato di cattiva salute a causa delle attuali pratiche di gestione, dell'inquinamento, dell'urbanizzazione e degli effetti del cambiamento climatico. Anche l’agricoltura ha le sue responsabilità. Il suolo, come il cibo, deve essere considerato un diritto da garantire a tutti invece che una merce di scambio che sempre più spesso trasforma terreni agricoli e naturali in aree artificiali. Un’edizione ricca di contenuti e un messaggio chiaro: il diritto per tutti ad un suolo “sano da bere”, “da coltivare”, “da abitare” e “sano da vivere”».

Un’opportunità per tutta la community di Pizza e Pasta italiana: Slow Wine Fair offre a tutta la community di Pizza e Pasta italiana l’opportunità di accedere all’evento fruendo di un importante sconto sul biglietto di ingresso.

Dalla homepage, cliccate sul pulsante codici sconto, e inserite il codice SWF24G923NSS. Potete accedere all’evento al costo di 15€.

Slow Wine Fair è organizzata da BolognaFiere e SANA, da un’idea di Slow Food. #SlowWineFair2024


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Lo zucchero o gli zuccheri? di Caterina Vianello

Usato quotidianamente, demonizzato, sostituito, nell’antichità adoperato come medicina: poche sostanze come lo zucchero hanno attraversato la storia gastronomica – ma anche e soprattutto economica e sociale – dando origine a scontri accesi, con fazioni contrapposte.

Il motivo probabilmente risiede nel fatto che da sempre l’uomo ha subito la fascinazione esercitata da questo ingrediente, capace (esattamente come il sale) di accendere i sapori e modificare gusto e consistenza dei piatti. Gli usi dello zucchero in cucina, infatti, vanno ben oltre i dolci: bilanciatore di acidità, conservante naturale, stimolante - se ben dosato - del palato, lo zucchero è un protagonista di primo piano. In generale se ne parla al singolare ma sarebbe più appropriato usare il plurale, non solo perché – banalmente, come ormai abbiamo ben imparato – esso si ricava sia dalla canna che dalla barbabietola ma anche perché le tipologie sono diverse a seconda della lavorazione. Non da ultimo, anche frutta, alberi e altre piante possono essere utilizzate per ricavare zucchero.


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Cerchiamo quindi di capirne di più. Sostanza dolcificante ricavata dalla canna da zucchero (Saccharum officinarum), prende il nome dal sanscrito sarkara, cioè sabbia o ghiaia, riferito probabilmente all’aspetto in cristalli; la pianta è spesso descritta e illustrata come canna melis, cana melle, cioè “canna del miele”, mutuata dall’arabo qasab al-sukkar, cioè canna da zucchero. Originaria della Papua Nuova Guinea, si diffuse prima nelle zone dell’Estremo Oriente (Filippine, Indonesia e India) poi in Persia, quindi, sulla scia dell’espansione islamica dall’Egitto alla Spagna meridionale in Sicilia nel IX secolo. Con le crociate, la coltivazione ed il commercio si diffusero ancor di più ma l’enorme fabbisogno idrico che richiede la coltivazione spinse a cercare nuovi e più redditizi mercati. Fu la scoperta dell’America a rappresentare un discrimine e a togliere definitivamente alle coltivazioni “europee” il predominio, che fu spostato invece nelle colonie, nelle quali venivano impegnati gli schiavi provenienti dall’Africa. La possibilità di produrre maggiori quantità di zucchero ne abbassò contestualmente il prezzo: da prodotto di lusso, utilizzato come marcatore di censo (e anche nella farmacopea), lo zucchero divenne un prodotto di massa, ingrediente fondamentale non solo nell’arte della pasticceria ma anche come esaltatore di tè, caffè e cioccolata. Diverse le sorti dello zucchero da barbabietola, invece: se le prime osservazioni circa la possibilità di ricavare dalla pianta uno sciroppo risalgono alla metà del 1500, ci vollero circa due secoli (complice anche il blocco continentale imposto da Napoleone ai prodotti inglesi) per avviare una produzione parallela e concorrenziale. Se le origini sono diverse, medesima è la composizione chimica: la molecola del saccarosio è sempre costituita da due monosaccaridi, glucosio e fruttosio.

A cambiare, allora, è il livello di raffinazione. Durante la fase di centrifugazione del succo sia dalla canna che dalla barbabietola (poi fatto cristallizzare per ottenere i grani solidi), si ottiene anche un secondo liquido di colore scuro: la melassa. Quella della barbabietola ha un sapore piuttosto sgradevole e viene eliminata mentre quella della canna può essere utilizzata per aromatizzare: in genere le percentuali sono piccole (3-5%) ma sufficienti per aggiungere note aromatiche di caramello e/o liquirizia alla dolcezza generale. Se quindi lo zucchero di barbabietola è presente in commercio solo raffinato, quello di canna può subire vari gradi di raffinazione, dando origine a varie sottotipologie (quelle dei vari zuccheri “bruni” - brown sugar - e più diffusi negli Usa, il cui colore varia dal giallo ambrato al marrone chiaro, a seconda del residuo di melassa). Se si leggono spesso termini come “grezzo”, “raw sugar”, “integrale”, è bene sapere che non esiste una legge che ne regolamenti l’impiego: si tratta in pratica di termini commerciali e non di definizioni certificate. In generale si può affermare che “grezzo” indichi un prodotto parzialmente raffinato (contiene dal 5 al 10% di melassa) mentre “integrale” quello ottenuto attraverso un semplice processo di spremitura, bollitura ed essicazione della canna da zucchero. Grezzo e integrale hanno una consistenza umida e lievemente appiccicosa e cristalli più grandi rispetto allo zucchero bianco, elementi di cui tenere conto sia nella conservazione sia in fase di realizzazione di dolci. Proponiamo di seguito una guida per orientarsi.


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Zucchero bianco Ricavato sia dalla canna che dalla barbabietola raffinate al 100% è detto anche zucchero semolato. Pressoché inodore e caratterizzato da granelli fini, ha colore bianco brillante e sapore dolce e intenso. Ha una lunga durata di conservazione e, se tenuto correttamente in un luogo fresco e asciutto, può mantenere la sua qualità per anni senza perdere le sue caratteristiche organolettiche. È uno degli ingredienti più versatili in cucina e, oltre ad essere usato come dolcificante, può dare consistenza, texture e stabilità a preparazioni come dolci da forno, creme e meringhe. Cotto, diventa caramello, per il quale si devono raggiungere i 160170°C per il caramello chiaro, 170-180°C per quello scuro.

Zucchero a velo Deriva dalla macinazione dello zucchero semolato fino a ottenere una polvere di colore bianco, impalpabile. Spesso viene aggiunto dell’amido per evitare la formazione di grumi dovuti all’umidità. In genere si trova in commercio nella versione vanigliata, cioè aromatizzato alla vaniglia.

Demerara Deve il nome ad una regione della Guyana, storicamente famosa per la sua produzione. È un tipo di zucchero di canna contenente il 3-5% di melassa, che viene reintrodotta alla fine del processo dopo che si è ottenuta una raffinazione completa del saccarosio. Non si può quindi definire uno zucchero grezzo a tutti gli effetti, anche se ha una complessità aromatica leggermente superiore a quella dello zucchero bianco, con note di caramello. Il colore è marrone chiaro o dorato e i suoi cristalli sono più grandi e più grossolani rispetto allo zucchero bianco, caratteristica che conferisce una leggera croccantezza. È particolarmente indicato per preparazioni in cui si desidera ottenere un sapore più intenso e una leggera nota caramellata. Proprio per la consistenza della grana, tende a solidificarsi e formare grumi con il tempo: meglio quindi conservarlo in un contenitore ermetico.

Turbinado Si differenzia dal precedente per il fatto che la melassa non viene reintrodotta successivamente al processo di raffinazione completa ma mantenuta (sempre in percentuali pari a circa il 3-5%) direttamente durante la lavorazione. Dopo la bollitura, il succo di canna viene centrifugato in turbine, processo da cui deriva il nome: in pratica si tratta dell’ultimo grado di raffinazione dello zucchero grezzo prima che diventi zucchero bianco completamente raffinato. Si presenta in cristalli di dimensione media, leggermente più grandi del saccarosio puro, di colore dorato-ambrato. L’aroma ricorda vagamente il miele e il mou, mentre il sapore è più leggero e caramellato rispetto a Muscovado e Demerara. È molto diffuso negli USA. Impiegato per le preparazioni casalinghe alle quali si vuole dare una spinta in più.



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Muscovado o Mascobado Appartenente alla famiglia degli zuccheri integrali, è originario delle Filippine ma la sua produzione è diffusa, in genere, nel Sud-Est asiatico e nelle Mauritius. Viene prodotto spremendo la canna da zucchero e bollendo i succhi, usando tradizionalmente come combustibile per la cottura i residui legnosi della stessa canna e lasciando evaporare il composto così ottenuto. Umido, denso e aromatico, ha una consistenza simile a quella della sabbia bagnata e contiene circa il 5% di melassa. Ha sentore leggermente affumicato, note di liquirizia, di terra e di frutta matura e si presta bene alla preparazione di biscotti e salse barbecue.

Panela In pratica è l’analogo sudamericano del Muscovado. In America latina assume varie denominazioni: Panela è il nome diffuso in Colombia, oltre che in Ecuador e Venezuela, Piloncillo quello in Messico, Chancaca in Perù, Bolivia e Cile, Tapa de dulce in Costa Rica e Nicaragua. Dopo la spremitura della canna da zucchero e la bollitura del succo, viene concentrato per evaporazione – esattamente come il Muscovado – e successivamente versato in stampi rettangolari, dove cristallizza in panetti (da cui deriva il nome), che vengono venduti interi o macinati. Il colore è bruno e l’aroma particolarmente intenso. La consistenza non raggiunge mai lo stadio di polverizzazione massima, ma rimane umida e granulosa.

Jaggery o Gur È l’equivalente indiano del Panela, con lo stesso analogo procedimento. Ha consistenza “cerosa” e friabile e sapore leggermente speziato che richiama il dattero. È al centro di alcuni rituali religiosi Indù legati alla sfera nuziale.

Rock Sugar Si chiama “zucchero di roccia” o “caramella di roccia” (rock candy): è formato da grandi cristalli che si formano miscelando zucchero e acqua in una soluzione che, una volta raffreddata, aderisce alla superficie. In pratica, è una specie di lecca-lecca, originario dell’India e della Persia; in Iran, si usa per dolcificare il tè. È diffuso anche in Olanda, dove viene cotto nel pane e in Cina, dove si usa in alcuni piatti salati e per dare alle carni un gusto morbido e un aspetto lucido e goloso. Vale la pena inoltre citare il fruttosio, presente nella frutta, nel miele e nei vegetali, che rispetto al saccarosio ha un potere dolcificante superiore e il glucosio, con potere dolcificante inferiore. Infine, una menzione a parte una serie di altre tipologie meno utilizzate ma non meno interessanti: lo zucchero di palma (da Indonesia, Malesia e Thailandia), proveniente da palma da cocco o dalle palme di varietà “Arenga pinnata” (palma da zucchero), dal colore biondo dorato-scuro intenso e impiegato per dolci a base di cocco e, soprattutto, Pad Thai; lo zucchero di dattero, ottenuto riducendo in pasta i frutti giunti allo stadio finale della maturazione, essiccando il composto e riducendolo in polvere. Molto raro, a causa delle difficoltà produttive, è infine lo zucchero d’acero, che può essere reso in sciroppo o zucchero solido.



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LA BIRRA

Illustrazioni di Giulia Serafin

Le parole del 2024

di Alfonso Del Forno


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Il

2024 si annuncia come un anno di trasformazione per il mondo della birra artigianale, dove il connubio tra tradizione e innovazione si fonde in un’esperienza sensoriale e sociale unica. In questo contesto, alcune parole chiave emergono come i pilastri fondamentali di questa rivoluzione birraia: semplicità, convivialità, prodotti del territorio, filiera italiana, reperibilità e gastronomia.

Semplicità che incanta Nel panorama della birra artigianale del 2024, la semplicità rappresenta un ritorno alle origini, un vero e proprio omaggio alla purezza degli ingredienti e alla maestria nella loro combinazione. Si tratta di birre che abbracciano una filosofia minimalista, senza compromettere la complessità dei sapori. In un mondo in cui la tecnologia e la complessità delle ricette possono dominare, la birra artigianale riscopre la bellezza della semplicità. Gli ingredienti di alta qualità vengono messi in primo piano, consentendo ai sapori naturali di brillare senza soffocare il palato con eccessive aggiunte. Questo approccio non solo rende le birre più accessibili anche ai neofiti, ma permette anche agli intenditori di apprezzare la raffinatezza e la genuinità di una birra artigianale.

Convivialità nel bicchiere La birra artigianale nel 2024 diventerà il fulcro di esperienze sociali coinvolgenti e autentiche. Le birrerie non sono più semplici locali dove bere ma autentiche piazze, hub sociali in cui la gente si riunisce per condividere più di un semplice bicchiere di birra. Si creano legami autentici, si scambiano storie, si condividono passioni e si coltivano amicizie. L’atmosfera rilassata e accogliente delle birrerie artigianali diventa uno spazio di condivisione e di scoperta, dove la birra diventa un catalizzatore di connessioni umane.


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LA BIRRA

Prodotti del territorio e FIliera italiana Un altro aspetto distintivo della birra artigianale del 2024 è la profonda connessione con il territorio italiano. I birrai si impegnano a selezionare con cura ingredienti provenienti da filiere locali, valorizzando le materie prime italiane e sostenendo l’economia locale. Questo impegno non è solo una questione di sostenibilità ma è anche una celebrazione delle tradizioni e delle risorse uniche presenti in diverse regioni italiane. Utilizzare ingredienti locali non solo aggiunge carattere e unicità alle birre, ma racconta anche storie di territori attraverso l’aroma e il gusto di ogni sorso.

Reperibilità e accessibilità

Unione tra birra

per tutti

e gastronomia

Un’evoluzione significativa nel mondo della birra artigianale del 2024 dovrà essere la maggiore reperibilità delle produzioni artigianali. Le birre di alta qualità non sono più confinate solo alle birrerie specializzate o ai locali esclusivi; esse stanno raggiungendo, invece, uno spazio più ampio, grazie a un aumento della distribuzione in supermercati, enoteche e locali. Questo incremento dell’accessibilità consente a una vasta gamma di consumatori di esplorare e apprezzare la diversità delle birre artigianali italiane, ampliando il mercato e contribuendo alla diffusione della cultura birraia.

La birra artigianale del 2024 si posizionerà sempre più al centro della scena gastronomica. Non è più semplicemente una bevanda da abbinare al cibo ma diventa parte integrante dell’esperienza culinaria. I birrai collaborano con chef e sommelier per creare abbinamenti perfetti tra birra e piatti, esplorando la versatilità della birra e la sua capacità di accrescere e amplificare i sapori. Si tratta di un connubio in continua evoluzione, in cui la birra diventa un’arte da gustare e sperimentare insieme ai piatti, contribuendo a creare esperienze gastronomiche coinvolgenti e memorabili.



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gennaio pizza e pasta italiana

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Mille e più di mille: storia ragionata degli agrumi L’inverno è indiscutibilmente la stagione degli agrumi: una famiglia numerosissima di frutti, nata grazie alle molteplici ibridazioni, che hanno consentito lo sviluppo di moltissime varietà a partire da un numero limitato di prodotti originari, che si conta sulle dita di una mano.

Se oggi chiamiamo così le specie coltivate del genere Citrus L., piante della famiglia delle Rutacee (sottofamiglia delle Auranzioidee) e i loro frutti, che sono di sapore più o meno agro, in passato il termine “agrume” indicava ortaggi acri al gusto, come cipolle e simili.

di C.V.


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Ricomincio da

tre

Dagli ultimi studi, è emerso che la quasi totalità degli agrumi è il risultato di incroci di sole tre specie: il cedro, il mandarino e il pomelo (o pummelo). Il cedro proverrebbe dal nord-est dell’India e della Birmania (Myanmar), il pomelo dal sud-est della Cina, dall’Indocina (Laos, Cambogia e Vietnam) e dalla Malesia, il mandarino dal sud-est della Cina. Da queste tre specie sarebbero nate tutte le altre, arrivate a noi in epoche diverse e attraverso viaggiatori, scambi commerciali, conquiste o doni diplomatici. L’antichità classica conobbe soltanto il cedro, al quale Teofrasto diede il nome di “pomo di Media” o di Persia (pur non catalogandolo come frutto commestibile) e i Romani quello di “Citrus” o “Malum citreum”, per confusione col “Cedrus”, albero completamente diverso. Da quell’epoca in avanti, e fino al I secolo per la precisione, non si riescono ad avere riferimenti storici precisi e la storia ci pone davanti a ibridazioni già compiute, come quelle che danno origine a limone e all’arancio amaro. Le ipotesi più attendibili affermano che l’arancio amaro proverrebbe dal sud dell’Himalaya, dal nord-est dell’India e dal Nepal, il limone dal nord dell’India e probabilmente dal sud-est della Cina e dal nord della Birmania.

Sì,

ma quando si mangia? Per molti secoli gli agrumi non vennero considerati commestibili ma confinati nel mondo della medicina o catalogati come piante ornamentali: bisognerà aspettare il XVI secolo per cominciare a vederne un impiego alimentare, non certo allargato come quello odierno, bensì inizialmente confinato alle sole classi aristocratiche. Un ruolo fondamentale nella diffusione degli agrumi si deve agli Arabi nel X secolo. La prima varietà di arancia a diffondersi nel Mediterraneo è quella amara: dall’India all’Oman, alla Siria, alla Palestina, all’Egitto e all’Iran. Tra i primi giardini di agrumi merita una citazione il “patio de los naranjos” creato per la moschea di Cordoba e quello analogo della moschea di Siviglia, mentre le prime testimonianze di aranceti in Sicilia risalgono all’XI secolo. La prima arancia era un frutto molto diverso da quello odierno: frutto rotondo, grande come una piccola zucca, color rosso vivo e con la buccia increspata. Aveva poca polpa ed era molto acida. Cinque secoli dopo, l’arancia era ancora un frutto assai particolare: il vero discrimine si deve al ruolo dei portoghesi che introdussero in Europa l’arancia dolce. Arrivata a Lisbona nel 1498 con le navi di Vasco de Gama dall’Estremo Oriente, da lì si sarebbe diffusa nel vecchio continente: un dono cui è rimasta traccia nel nome visto che in arabo l’arancia si chiama burtuqall, in rumeno portokale, in albanese portukalli, e, in napoletano, purtuallo.


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Per quanto riguarda il limone, già nel secolo XI, sempre grazie agli arabi d’Andalusia, se ne contano varietà diverse per forma, colore e gusto così come in Sicilia, dove il frutto nel XIII secolo è già sistematicamente coltivato. Le testimonianze storiche riferiscono che gli agrumi arrivarono in America alla fine del XVI secolo, come riferisce Bartolomeo de Las Casas nella sua “Storia delle Indie”: un ruolo particolare nella diffusione si deve ai missionari gesuiti, che diffusero gli agrumi in gran parte del Sud America. L’arrivo in Florida, per lungo tempo uno dei paesi più forti nella produzione, risale al periodo compreso tra il 1513 e il 1565 (grazie alle colonie dei missionari francescani): da lì si diffusero in Georgia, Carolina del Sud e, più tardi, a partire dal 1769, in California, grazie ai colonizzatori e missionari spagnoli. L’introduzione in Brasile, oggi al vertice della produzione mondiale - assieme alla Cina - avvenne tra il 1530 e il 1540.

La fioritura commerciale

Dal punto di vista commerciale, dovettero tuttavia passare diversi secoli prima di arrivare ad una forma sistematica di coltivazione degli agrumi, destinata al consumo e in grado di interessare diversi Paesi nel mondo. In Italia, il periodo in cui la produzione comincia a diventare consistente dal punto di vista agricolo è quello verso la fine del XVIII secolo in Sicilia e verso la metà del XIX nel Napoletano. Sia nell’isola, che in Calabria e in Campania, coltivazioni considerevoli vennero introdotte tra il 1850 e il 1860, aumentando rapidamente tra il 1870 e il 1890, man mano che si andò sviluppando il commercio di esportazione degli agrumi verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America. In generale, il XIX secolo vede una profonda trasformazione dell’agrumicoltura, compiendo il passo dalla coltivazione ornamentale a quella economica: più o meno nello stesso periodo in cui in Italia si adotta un approccio commerciale, anche la Spagna vede nascere i primi impianti. E lo stesso avviene oltreoceano: l’Ottocento è il secolo in cui si “scopre” la varietà Bahia o “Washington Navel”, pietra miliare dell’agrumicoltura commerciale, destinata a segnare gusti e ibridazioni successive. Se infatti le arance ombelicate (quelle cioè che hanno una piccola protuberanza alla parte opposta del picciolo) erano note nel XVII secolo, la “Washington Navel” si differenzia da subito dalle altre per essere di qualità notevolmente migliore e senza semi.


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Incrociamo le...

specie!

La storia degli agrumi insegna che varietà che crediamo abbiano secoli di vita alle spalle sono in realtà assai recenti e frutto dell’intervento dell’uomo: tornando per un momento ai primi tre frutti originari da cui sono derivati tutti gli altri, basterà ricordare che l’arancio (dolce e amaro) è nato dall’incrocio tra il pomelo e il mandarino; il limone deriva da quello tra il cedro e l’arancio amaro, mentre il pompelmo - per il quale le prime citazioni, che riportano il nome di “forbidden fruit” ovvero frutto proibito, provengono dal reverendo e naturalista Griffith Hughes in “The Natural history of Barbados” (1750) - deriva da quello tra pomelo e arancio dolce. Oggi la famiglia degli agrumi conta su un numero amplissimo di esemplari e il nostro paese vanta delle eccellenze assolute: l’arancia di Ribera, a marchio Dop; quella del Gargano e quella Rossa di Sicilia, entrambe a marchio Igp e dei veri e propri gioielli locali come l’arancio Biondo di Scillato, quello biondo del Piceno, l’arancia Firrindolu, l’arancio tardivo di San Vito, il biondo tardivo di Trebisacce, la Staccia, l’arancia bionda sorrentina… Analogo discorso per mandarini e clementine, anche se qui è necessaria una precisazione. Indicato a volte come tangerino e clementina, il mandarino è uno dei tre progenitori da cui sono derivati tutti gli agrumi che conosciamo: il nome fa riferimento sia al frutto, sia alla pianta e pare sia un calco dallo svedese mandarin apelsin, ovvero “mela cinese”. Tangerino rimanda invece al porto di Tangeri in Marocco, un tempo luogo di

stoccaggio degli agrumi. Anche se spesso è usato come sinonimo di mandarino, in realtà si tratta di una specie ibrida (Citrus x tangerina) con alcuni caratteri derivati da pomelo e arancio dolce. Anche clementine e mandarini non sono sinonimi: il Citrus x clementina è anch’esso un ibrido tra mandarino e arancio amaro (anche se alcuni sostengono dolce) distribuito in tutta l’area mediterranea, dal Sud Italia al Nord Africa. Ne esistono tre varietà principali: senza semi, clementine (con un massimo di 10 semi) e Monreal (con più di 10 semi). L’Avana è la varietà di mandarino più coltivata in Italia, in particolare in Sicilia e Calabria. Vera delizia, utilizzata sempre più in pasticceria, è il Tardivo di Ciaculli, profumatissimo Presidio Slow Food della provincia di Palermo, coltivato nell’area della Conca d’Oro, tra le borgate di Ciaculli e di Croceverde Giardina e il cui nome deriva dal periodo di raccolta. Nell’universo “clementine”, vale invece la pena citare due eccellenze a marchio Igp: la prima arriva dalla Puglia ed è la Clementina del Golfo di Taranto, dalla polpa priva di semi, sapore intenso e aromatico e buccia liscia arancione con sfumature verdi, mentre la seconda giunge dalla Calabria e si chiama proprio Clementina di Calabria: ha colore arancione scuro, polpa molto aromatica e quasi priva di semi.


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La gradevolezza del gusto di un prodotto potrebbe essere definita come la capacità di quel cibo di evocare un senso di piacere e godimento quando viene mangiato, una sorta di “ricompensa edonica” (legata al piacere).

Palatabilità e pericoli a cura della Dott.ssa

Marisa Cammarano, biologa nutrizionista


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P

uò essere, quindi, considerato un sinonimo di appetibilità, fattore che dipende in gran parte dalle preferenze dell’individuo, anche se alcuni fattori come gusto, consistenza, olfatto e aspetto influenzano fortemente il fatto che un alimento sia considerato desiderabile, appetibile o, appunto, palatabile. Le persone tendono a mangiare grandi quantità di un cibo appetibile prima di decidere che sono “piene” di quel particolare alimento, anche se, purtroppo, quelli più appetibili non sono sempre altamente nutrienti. Infatti, assumono, spesso, i connotati di confort food più che le caratteristiche che ci si aspetterebbe da un nutraceutico: un alimento “appetibile” apporta, solitamente, un intenso senso di piacevole soddisfazione, agendo sulle aree cerebrali del piacere. Talvolta questo fenomeno può indurre “dipendenza”, in quanto attiva il desiderio di rinnovare l’esperienza, una situazione spesso riconosciuta coscientemente come “voglia”. In genere sono coinvolti in questi meccanismi i circuiti neurali dopaminergici che, proprio in considerazione del piacere come ricompensa, tendono a ripetersi quando si presentano gli stessi stimoli associati al cibo, agendo da potenziamento condizionato dell’alimentazione, in particolare per il consumo di cibi palatabili che sono ricchi di zuccheri semplici e grassi. Anche se il livello di appetibilità percepito è soggettivo, in quanto dipende dalle preferenze personali, esistono diversi fattori che influenzano la palatabilità degli alimenti che, per quanto suggestionati dalle preferenze individuali, in una certa misura, ne contraddistinguono le caratteristiche; uno dei più ovvi è il

sapore o il gusto del cibo: questo include le sensazioni di base come salato, acido o dolce, nonché i condimenti, in quanto molte persone godono di sapori complessi con diversi componenti e li trovano più appetibili di gusti troppo insipidi o semplici. Un altro fattore importante è la consistenza degli alimenti ed il modo in cui si sentono in bocca; l’aroma o l’odore del cibo condiziona anche l’appetibilità: se il cibo ha un buon odore, attiva il sistema gustativo, stimolando così l’appetito e preparandolo a godersi l’alimento ben prima che venga dato il primo morso. Anche l’aspetto è importante: se il cibo sembra appetitoso, aumenta il piacere dell’esperienza del mangiare; un altro fattore importante, che influenza la desiderabilità del cibo, è se il piatto ha odore, sapore e aspetto “come dovrebbe”, ovvero che soddisfi le aspettative organolettiche o visive, coincidendo con ciò che immaginiamo o prevediamo. Gli alimenti ad alta palatabilità, contengono nella loro composizione una percentuale elevata di zuccheri, grassi,

sale e farina raffinata. Hanno la particolarità di creare dipendenza nella persone, una volta che sperimentano il piacere di provarli. Allo stesso modo che le droghe, gli alimenti altamente palatabili attivano sostanze chimiche nel nostro cervello che provocano una sensazione di piacere e di soddisfazione, che potrebbe avere come conseguenza il consumo compulsivo degli stessi. Questo si deve al fatto che provocano una sensazione di bisogno quando assunti diverse volte senza mai arrivare al senso di sazietà. La palatabilità è legata al funzionamento delle vie di gratificazione e ricompensa nel cervello. Per questo motivo, molti alimenti processati includono componenti che ne aumentano la palatabilità, con lo scopo di fomentarne il consumo, indipendentemente dalle conseguenze nocive per la salute che possono avere. Facciamo un gran parlare di come le linee guida alimentari, ora promuovendo un consumo troppo alto di carboidrati, ora demonizzando i grassi a torto, siano responsabili dell’obesità della gente. Ovviamente, questo non è vero. Non esiste un nesso causale tra le raccomandazioni alimentari delle linee guida ed il fatto che noi ingrassiamo, per una serie di motivi: le linee guida esistono da prima dell’ultimo ventennio, quando l’obesità è cresciuta in modo esponenziale; mangiare più carboidrati e meno cibi grassi come raccomandano le attuali linee guida non causa aumento di peso, dunque la piramide della dieta mediterranea con il suo 60% di carboidrati e la sua carne una tantum non spinge le persone a mangiare peggio; semmai, lo stile di vita occidentale ha peggiorato non solo la nostra dieta mediterranea, ma ha anche


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Tale sinergia si raggruppa in tre combinazioni: caratterizzato la nostra alimentazione, peggiorandola. Il consumo incontrollato di alimenti ad alta palatabilità da parte di un’importante settore della popolazione che soffre di problemi di obesità e sovrappeso, per esempio, ha attirato l’attenzione dei ricercatori nel campo della Nutrizione e della Salute. Un recente studio pubblicato dalla rivista “Obesity”, rivela importanti scoperte per quanto riguarda la composizione degli alimenti che sono catalogati come ad alta palatabilità. Si è scoperto, infatti, che il fattore determinante è la sinergia tra gli ingredienti presenti in un alimento, ed è questo che li rende più appetitosi.

1. Grassi e sodio, presenti negli hot dog, pizza e bacon (> 25% kcal di grassi, ≥ 0,30% di sodio in peso) 2. Grassi e zuccheri semplici, frequenti nei dolci, merendine e gelati (> 20% kcal di grassi,> 20% kcal di zuccheri); 3. Carboidrati e sodio, dei biscotti salati, patatine fritte e pop corn (> 40% kcal di carboidrati, ≥ 0,20% di sodio in peso); È stato, anche, dimostrato, per assurdo, che il 5% degli alimenti ad alta palatabilità sono prodotti commercializzati come a basso contenuto di grassi, zuccheri, sale o calorie.

Ci sono molti pericoli nel consumo di alimenti troppo palatabili: • Meno nutritivi Frequentemente, scegliamo di non consumare prodotti nutritivi perché non hanno questa caratteristica sensoriale che stimola l’appetito. • Meno sazianti La miscela dei composti presenti negli alimenti ad alta palatabilità attiva le risposte del sistema di ricompensa del nostro cervello e ci porta a mangiare senza controllo, ignorando i segnali di sazietà.

• Creano dipendenza Il consumo di questo tipo di alimenti crea dipendenza, fattore che svolge un ruolo importante nello sviluppo di obesità e sovrappeso. La maggior parte degli alimenti iperpalatabili inoltre, vengono processati a livello industriale e l’assunzione di questi può provocare il rischio di soffrire di malattie cardiovascolari, coronariche e cerebrovascolari. Nella maggior parte dei casi gli effetti negativi legati al consumo di alimenti iperpalatabili si manifesta a lungo termine. È per questo motivo che molte persone impiegano molto tempo per rendersi conto del danno che provocano, e dopo risulta più difficile eliminare le cattive abitudini alimentari. Per evitare questa situazione, uno degli aspetti più importanti è quello di educare la popolazione ad informarsi sui rischi impliciti legati al consumo di questo tipo di alimenti a discapito di altri. È consigliabile, quindi, informarsi sul contenuto nutrizionale degli alimenti ed evitare il consumo di quelli che hanno un effetto nocivo sulla salute, oltre al fatto che provocano carenze per mancanza di nutrienti.

Quali ingredienti evitare? • Glutammato monosodico Si tratta di un esaltatore di sapidità che inibisce la sensazione di sazietà ed induce a mangiare compulsivamente, oltrepassando le proprie necessità e capacità. • Zucchero Gli zuccheri nei pasti sono nocivi in quanto non vengono metabolizzati allo stesso modo che quelli contenuti naturalmente negli alimenti. • Grassi animali e oli di semi Si consiglia di consumare alimenti con olio extravergine di oliva senza sottoporli ad alte temperature.


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Come bilanciare dolce e salatonella pizza Gluten Free? di Alfonso Del Forno

Nel vasto universo culinario, l’analisi sensoriale rappresenta un’arte affascinante e complessa. L’esperienza gustativa, con la sua variegata sinfonia di sapori, odori e consistenze, costituisce il nucleo stesso della gratificazione derivante dal cibo.

E, quando si parla di pizza, la fusione di dolcezza e sapidità diventa un’orchestrazione di gusto che richiede un’attenzione particolare quando si opta per una versione senza glutine. Nella creazione di una pizza senza glutine, si apre una dimensione sensoriale diversa e intrigante. Le farine alternative, prive di glutine e spesso ottenute da mais, riso, grano saraceno o altre fonti, presentano una composizione di amidi e zuccheri differente rispetto alle farine tradizionali. Questa specificità conferisce alla base della pizza una nota intrinsecamente più dolce, un dettaglio da considerare attentamente nel delicato equilibrio dei gusti. Gli amidi presenti in queste farine possono accentuare la dolcezza mentre gli zuccheri, molto spesso aggiunti negli impasti, contribuiscono ad enfatizzarla ulteriormente. Questo aspetto richiede una sensibilità particolare nell’arte di cercare l’armonia tra la dolcezza predominante e la necessità di contrastarla con sapori salati e intensi.


LE AZIENDE INFORMANO

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Per contrastare questa dolcezza e mantenere un equilibrio, diventa imperativo scegliere con cura gli ingredienti salati per la composizione della pizza senza glutine. Formaggi stagionati, come il Parmigiano Reggiano o il pecorino, offrono una sapidità decisa mentre prosciutto crudo, acciughe, olive o salumi dal sapore pronunciato rappresentano una percon legnami fetta controparte dolcezza esclusivamente della a Linea Dori nasce nel 1950, fon- per larealizzati noningredienti trattati chimicamente e la lavoraziobase Ha senza data da Cesare Dori. unaglutine. storia Questi viene effettuata senza l’uso di colle, o non solo di contrastano lanedolcezza ma romantica che profuma pane qualsiasi altro prodotto nocivo che venga al palato, e di legno, che affonda aggiungono le sue originicomplessità in agustativa contatto apcon gli alimenti. I prodotti creandonel un’esperienza una piccola bottega artigiana centro pagante e bilanciata. dedicati all’infornamento sono accomstorico Roma, dove ogni pezzo veniva pagnati da certificato di idoneità. Inoltre, realizzato a mano con legni selezionati tuttiTuttavia, gli articoli destinati ad entrare in e e stagionati. Fabio Dori, figlio di Cesare, il bilanciamento tra dolce contatto gliè alimenti sono amando il lavoro del padre, ha portato salatocon non solamente unalavabili questione a mano, grazie allaingredienti. finitura alimentare avanti la sua piccola bottega trasformandi scelta degli L’utilizzo certificata con vengono trattati. La dola in un’azienda. La Linea Dori, ad oggi, sapiente dicui erbe aromatiche fresche, Linea Doriil3000 srl è in costante è leader nella progettazione e produzione come rosmarino, l’origano,aggiornail timo mento tutte può le esigenze degli operatodi attrezzature professionali per panifici o ilper basilico, offrire strati di prori dell’Arte garantendo il massimo e pizzerie. Tali attrezzature, apprezzate in fonditàBianca e freschezza al palato, contridellabuendo professionalità con unaprodotto tutto il mondo per loro unicità, robustezulteriormente bilanciarecertificato e idoneo alle normative vigenti, za e funzionalità, vengono costruite con i gusti contrastanti e ad arricchire e ISO9001. La sua missione è quella di macchinari all’avanguardia nel rispetto di GMPl’esperienza sensoriale. migliorarsi sempre e di portareun nelprofuturo antiche tecniche di lavorazione, usando L’olio d’oliva extravergine, la sua tradizione Made in Italy attraverso legnami che provengono da foreste ecotagonista spesso sottovalutato, può l’impegno della terza generazione, Fabiosostenibili con programmi di rimboschisvolgere un ruolo cruciale nel bilanla e Camilla Dori. mento. I suoi prodotti in legno vengono

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ciare i gusti. Il suo leggero amaro e il retrogusto piccante aggiungono profondità e contrasto alla dolcezza della base senza glutine, arricchendo ulteriormente l’esperienza gustativa complessiva. Inoltre, l’introduzione di condimenti come cipolle caramellate, peperoni grigliati o pomodori secchi può non solo apportare una nota dolce alla pizza ma anche contribuire a un’esperienza sensoriale più intensa quando combinata con gli ingredienti salati. La fase di cottura riveste un ruolo cruciale nella realizzazione di una pizza senza glutine perfetta. Una base senza glutine richiede un trattamento specifico: temperature di cottura leggermente inferiori e tempi di preparazione adeguati sono essenziali per garantire una consistenza perfetta e un bilanciamento ottimale dei sapori.

Il segreto per una pizza senza glutine straordinaria risiede nell’abilità di combinare sapientemente dolcezza e sapidità, scegliendo con cura gli ingredienti e lavorandoli insieme con maestria. È un’arte culinaria che richiede sensibilità, creatività e una profonda conoscenza dei sapori. La pizza senza glutine offre un’opportunità unica per esplorare l’equilibrio sensoriale tra dolce e salato. Sfruttare appieno questa possibilità richiede una selezione attenta degli ingredienti e una padronanza culinaria che esalta le sfumature dei gusti contrastanti. Con attenzione e dedizione, è possibile creare una pizza senza glutine che non solo delizierà i sensi ma diventerà un’esperienza gastronomica memorabile per ogni commensale.



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Il mestiere del pizzaiolo: proposta di legge

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Sembrerebbe impensabile che una figura come quella del pizzaiolo – storicamente e culturalmente significativa – non sia stata ancora riconosciuta ufficialmente in qualità di professione, eppure è così. A chiederci di trattare l’argomento è stato un nostro lettore, il pizzaiolo Pino Longo. Abbiamo allora girato la sua domanda al legislatore, intervistando il Senatore Bartolomeo Amidei, originario di Rovigo e grande appassionato di pizza, il quale, da anni ormai si batte per i pizzaioli di tutta Italia.

Quest’ultimo ha infatti presentato – per la seconda volta – un disegno di legge atto a ergere i diritti dei pizzaioli e qualificarne le capacità. Trattasi del DDL S. 385 (“Disciplina dell’attività, riconoscimento della qualifica e istituzione del registro nazionale dei pizzaioli professionisti”) presentato in data 1° dicembre 2022 e attualmente in attesa di esame. L’iniziativa del Senatore è volta a riconoscere una figura professionale che negli anni non è mai stata inquadrata ma che dovrebbe esserlo già solo per il fatto che i pizzaioli sono artefici del prodotto italiano più famoso al mondo. SENATORE, È DAL 2016 CHE STA COMBATTENDO PER LA FIGURA DEL PIZZAIOLO: COM’È INIZIATA?

È nata per caso, quando l’amico pizzaiolo Pino Longo mi ha sottoposto l’esigenza di riconoscere il pizzaiolo, che ancora oggi è una figura fantasma nel panorama lavorativo, non ha un inquadramento specifico. Ritengo sia assurdo non riconoscere a una figura così importante una qualifica professionale, specialmente in un contesto di 127.000 imprese che operano nel settore pizza e con un indotto, sia in termini occupazionali che economici, altissimi. È facile che in un’impresa ci siano 2 o 3 addetti e si arriva a 3-400.000 unità, che non sono poco. Rispetto al fatturato, siamo di fronte a 15 miliardi di euro, si arriva a 30 miliardi in un anno coinvolgendo l'indotto, con una produzione di otto milioni di pizze al giorno.


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Sono numeri che snocciolo per dare solo l’idea del business economico e occupazionale al quale ci riferiamo. Per non parlare dell’assetto ugualmente importante legato al ruolo che il pizzaiolo ha avuto, ha e avrà nel mondo. Una figura che non fa solo pizze, non solo ha esportato il prodotto più conosciuto al mondo – pizza e made in Italy contestualmente – ma anche cultura, italianità e la dieta mediterranea. La cultura non è assolutamente secondaria. Immaginiamoci il pizzaiolo napoletano che, per la sua storia, la sua forma mentis, vive e lavora con connotati a volte folkloristici, popolari, perché porta con sé la storia della sua terra e l’ha diffusa in tutto il mondo. NON A CASO LA SUA ARTE È DIVENTATA PATRIMONIO IMMATERIALE DELL’UMANITÀ.

Esatto, e non è poco. Questo sta a significare quanto importante sia. COSA ACCADREBBE SECONDO LEI SE QUESTA FIGURA PROFESSIONALE FOSSE RICONOSCIUTA PRIMA ALL’ESTERO E POI IN ITALIA?

È questo l’altro aspetto per cui mi sto adoperando. Sarebbe assurdo pensare che fosse riconosciuta prima in Egitto, in Cina, Spagna o in qualsiasi altro Paese del mondo. Noi italiani non potremmo mai perdonarcelo. Noi, che abbiamo inventato la pizza e ne abbiamo fatto un prodotto di eccellenza, uno stile di vita. Come quando ci si dà un appuntamento “a mangiar la pizza” e poi non mangi la pizza però lo hai detto, è un modo di dire che permea le nostre abitudini quotidiane e il nostro stile di vita, il modo di parlare. Poi c’è necessità di fare chiarezza, soprattutto visti i volumi di fatturato. Chi produce la pizza deve avere anche le dovute caratteristiche professionali di chi sia stato preparato a creare il prodotto per eccellenza del made in Italy. Non è una cosa banale. La pizza necessita di una lievitazione, dell’utilizzo di farine particolari, di determinati tempi di cottura e di tutti quegli aspetti legati all’igiene in termini di HACCP. Sostanzialmente, bisogna fare chiarezza in merito a come si deve preparare un prodotto buono che mangiano tutti. Il pizzaiolo

va concretamente formato, istituendo un registro nazionale dei pizzaioli professionisti e attraverso il conseguimento di un attestato, il DSPPE (Diploma di Stato Professionale Pizzaiolo Europeo), in seguito a corsi specifici nell’ambito scolastico – ovviamente professionale – di concerto con il Ministero delle Imprese e il Ministero della pubblica Istruzione. COME MAI HA DOVUTO PRESENTARE DUE VOLTE IL DDL?

La prima volta è scaduta la legislatura nel momento in cui è passato in commissione, c’è stato un tentativo di ripresa da un altro parlamentare non andato a buon fine e adesso me lo sono ripreso. AL MOMENTO L’ITER È STATO ASSEGNATO MA NON È ANCORA INIZIATO L’ESAME: CHE TEMPI PREVEDE?

Spererei di iniziarlo a febbraio, fine gennaio. QUALI SONO I LATI POSITIVI CHE QUESTA NUOVA POSIZIONE LAVORATIVA PORTERÀ AL MONDO DELLA PIZZA?


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pizza e pasta italiana gennaio

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La novità è che finalmente entrando in una pizzeria si sarà soddisfatti. Non sempre lo si è, ma la soddisfazione a volte non è legata alla soggettività quanto al fatto che non si adottino certi criteri e accorgimenti fondamentali. Per esempio, i tempi di lievitazione: spesso mi trovo davanti pizze che sono crude o magari surgelate, buttate lì così. NEGLI ULTIMI ANNI LA FIGURA DEL PIZZAIOLO È MIGLIORATA E CRESCIUTA MOLTO MA È SEMPRE STATA BISTRATTATA RISPETTO AD ALTRE FIGURE COME LO CHEF PER ESEMPIO. PERCHÉ SECONDO LEI?

Diciamo che il pizzaiolo rispetto allo chef ha una caratteristica in più: tante volte è imprenditore della sua attività, mentre il secondo è dipendente; poi sembra che la cucina presenti più piatti elaborati, apparentemente almeno: per me non è così. Fare una buona pizza non è affatto semplice, intanto necessita sempre di fantasia e del connubio di ingredienti che si combinino bene tra loro.

DUNQUE, VEDE IN MANIERA POSITIVA IL FUTURO DELLA PIZZA E DEL PIZZAIOLO?

certo disinteresse nel ricercarne una qualifica professionale certificata e riconosciuta.

Assolutamente. I numeri crescono continuamente, è un prodotto del quale non si può fare a meno.

MI DICE QUALI SONO I PUNTI SALIENTI DEL DDL S. 385?

VISTO CHE ORMAI CE NE SONO TANTI, PORREBBE DEI LIMITI AI “TIPI” DI PIZZA?

Sono convinto che ai gusti non si possa porre limiti. La pizza va bene comunque, meglio se rispecchia i gusti ma onestamente non porrei alcun limite al tipo di pizza. PER QUALE MOTIVO LA FIGURA DEL PIZZAIOLO NON È STATA QUALIFICATA RISPETTO A TUTTE LE ALTRE?

In effetti c’è stato un po’ di disinteresse. Tanti sono passati dal fare il pizzaiolo prima di intraprendere altri lavori, come cameriere o cuoco… questo “spirito dell’arrangiarsi” – che forse parte anche da una cultura prettamente napoletana – ha portato a far sì che ci fosse un

L’obiettivo è la qualifica professionale che deve passare attraverso un corso di formazione. Quest’ultimo è importante perché bisogna conoscere le caratteristiche della pizza. Poi 25 ore dedicate alla formazione sulla lingua, non molte, le cose basilari, una parte dedicata all’HACCP ma la maggior parte delle ore devono essere dedicate alla manualità e al “come” si costruisce una pizza: ingredienti e caratteristiche organolettiche sono fondamentali. Poi, credo ci sia un aspetto che forse non tutti percepiscono, cioè la consapevolezza dell’importanza dell’attestato: quando ti qualifichi, hai un valore aggiunto da proporre al consumatore. ALL’ELABORAZIONE È ARRIVATO ATTRAVERSO IL CONTATTO DIRETTO CON I PIZZAIOLI?


Si. Ho girato tutta l’Italia e tantissime pizzerie. In questo percorso, ho scoperto tutti i tipi di pizze ma soprattutto ho apprezzato la cultura del pizzaiolo. Io amo il pizzaiolo, proprio per com’è, per il suo stile di vita: gira il mondo, apre pizzerie in tutto il mondo, è davvero un qualcosa di bello. È TANTO BELLO QUANTO STRANO SENTIRE TUTTO CIÒ DA LEI CHE È DI ROVIGO.

Me lo sento dire spesso. Uno di Rovigo come me è super partes e quale cosa migliore di una persona che non ha alcun condizionamento di appartenenza a regioni di cui la pizza è storicamente una peculiarità quasi innata? Io sono in grado di valorizzare tutti, senza distinzioni. SENATORE, QUAL È LA SUA PIZZA PREFERITA?

Diciamo che cambio gusto ogni volta.

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PIZZA RE-GENERATION di Enrico Bonardo, direttore commerciale e marketing di Scuola Italiana Pizzaioli

La rigenerazione del cibo è ormai diventata un’azione quotidiana per innumerevoli persone: basti pensare all’utilizzo di prodotti surgelati, precotti o disidratati nella propria cucina. Anche la rigenerazione della pizza è ormai diventata una pratica molto diffusa nella ristorazione, anzi possiamo dire essere diventata fondamentale per un buon numero di pizzerie. Sicuramente, lo stile della pizza è la prima discriminante per poter sfruttare la catena del freddo e il rigenero; non a caso, le pizzerie in stile contemporaneo o Napoletano lavorano esclusivamente la pizza espressa, preparata e cotta al momento. Stili come la tonda classica, la pala romana, la teglia o il padellino sono sicuramente più versatili e maggiormente idonei a precotture, abbattimento termico e rigenerazione al momento del bisogno. Per quanto riguarda la qualità, ad esclusione del pensiero di qualche purista dell’arte bianca, questo tipo di produzione non è inferiore alla pizza espressa, anzi permette di codificare una o più ricette per poterle replicare nel tempo. A tal proposito, i primi ad abbracciare questo innovativo sistema produttivo sono stati proprio i due estremi del mercato: la pizzeria gourmet e l’industria. Sono i primi ad aver compreso quanto la performance dell’impasto e la costanza qualitativa del lievitato fossero importanti per poter soddisfare la propria clientela che, per certi versi, risulta simile nel ricercare la qualità rivolgendosi a un maestro pizzaiolo anziché ad un determinato brand. Altresì hanno attivato una nuova opportunità commerciale: fornire basi lievitate da personalizzare a bar e ristoranti sprovvisti di attrezzature o spazi per produrre la propria pizza. Un elemento importante da tenere in considerazione quando si parla di rigenero è la sostenibilità sia a livello umano, andando ad ottimizzare le ore di lavoro, sia a livello ambientale, con una notevole riduzione degli sprechi. Questa nuova generazione di pizzaioli, orientata ad una costante formazione professionale, ha migliorato la propria filiera produttiva adattando un modello industriale ad una produzione artigianale. La ricettazione dell’impasto resta l’unico elemento che differenzia questi due mondi, poiché mai come in questo settore la legge dei piccoli numeri permette di gestire l’alta qualità.

www.scuolaitalianapizzaioli.it info@scuolaitalianapizzaioli.it


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UN LIBRO AL MESE

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a cura della redazione

assaggiatrici Autore: Rossella Postorino Anno di edizione: 2018 Edizioni: Feltrinelli Pagine: 288 Prezzo di copertina: 19 euro

di Rossella Postorino



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UN LIBRO AL MESE

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critto nel 2018, anno in cui ha vinto il Premio Campiello, questo romanzo di Rossella Postorino è stato uno dei libri più amati dalla compianta scrittrice sarda Michela Murgia. Protagonista del racconto è Rosa Sauer, che incontriamo nella stanza in cui consuma i suoi pasti e che ci accoglie con la frase: “Da anni avevamo fame e paura”. Siamo nell’autunno del ’43 quando, per sfuggire ai bombardamenti su Berlino, Rosa arriva a GrossPartsch, un paese vicino al quartier generale di Hitler. Insieme ad altre nove donne del villaggio, viene subito reclutata per assaggiare – ogni giorno per tre volte al giorno – le gustose pietanze destinate al Führer, così da accertarsi che non siano avvelenate.

Ispirandosi alla storia vera di Margot Wölk (assaggiatrice di Hitler nella caserma di Krausendorf), Rosella Postorino si chiede che cosa significhi essere umani e come fare a restare tali, in una condizione totalmente fuori da ogni umana comprensione, come quella sviluppatasi al tempo del nazifascismo.

Come Rosa, i lettori si trovano in bilico sul crinale della collusione con il male, della colpa accidentale, protratta per l’istinto – spesso antieroico – di sentirsi, nonostante tutto, ancora vivi. E la domanda che alla fine resta a chi legge queste pagine è: “Fin dove è lecito spingersi per sopravvivere?”. L’autrice, Rossella Postorino, è nata a Reggio Calabria 46 anni fa ma è cresciuta a Imperia e vive attualmente a Roma. La sua prima opera è edita da Einaudi quando ha appena 26 anni in un’antologia di storie “al femminile”. Il romanzo “Le assaggiatrici” è stato tradotto in oltre 30 lingue e, oltre al Premio Campiello, ha ottenuto diversi altri riconoscimenti, quali il Premio Rapallo, il Premio Chianti, il Premio Lucio Mastronardi Città di Vigevano, il Premio Pozzale Luigi Russo, il Premio Wondy e, per l’edizione francese del romanzo (La Goûteuse d’Hitler), il Prix Jean Monnet. Il suo ultimo romanzo è “Mi limitavo ad amare te”, edito sempre da Feltrinelli, vincitore al Premio Asti d’Appello 2023 e finalista al Premio Strega 2023. Come ogni bel libro che si rispetti, anche da “Le assaggiatrici” fu annunciato sin dal 2019 un film che avrebbe dovuto avere la regia di Cristina Comencini. Il film però nel 2021 è passato nelle mani di Silvio Soldini, anche se le riprese non sono ancora iniziate. Perché consigliare “Le assaggiatrici” su queste pagine rivolte a un pubblico di professionisti? Perché il 27 gennaio ricorre la Giornata della Memoria, quella in cui facciamo - per l'appunto - memoria del genocidio ebraico avvenuto tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40 del secolo scorso. E quanto è accaduto non può e non deve essere dimenticato.



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