Pizza e Pasta Italiana - Marzo 2025

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Campionato Mondiale Della Pizza p. 36

Amodio Group p. 3

Conserve Italia p. 11

Cuppone p. 9

Demetra p. 45

Fiera Di Las Vegas International Pizza Expo p. 13

Fiera Milano (Host) p. 26

Fiera Tuttofood p. 98

Gi Metal p. 57

Kuma Forni Snc p. 83

Latteria Montanari p. 75

La Torrente p. 63

Millberg p. 61

Molino Agugiaro p. 7

Scuola Italiana Pizzaioli Srl p. 69

Molino Bruno p. 25

Molino Dalla Giovanna p. 2

Molino Denti p. 95

Molino Naldoni p. 55

Molino Pasini p. 67

Molino Scoppettuolo p. 41

Mulino Padano p. 91

Forni Valoriani p. 33

Rinaldi Superforni p. 51

Sacar Srl p. 17

Sanfelici Franco p. 99

Sitta p. 35

Industria Alimentare Tanagrina p. 73

Velma p. 100

Waico p. 27

— Sommario —

Puzzi

Storie di "diamanti" Il cinema in cucina di Nio

Destinazione Futuro Verso il Campionato Mondiale della Pizza: il Pizza World Forum a cura della redazione

Bere in riferimento al nuovo codice della strada: i vini dealcolati. di Luciano Cescon

COLOPHON

Editoriale

Ame il “Sì na preta” (“sei di una bellezza granitica”) sanremese non ha fatto ridere. Ve lo dico con la leggera pesantezza che mi contraddistingue. Così come non mi ha fatto ridere ascoltare il racconto di una hostess che, in una fiera professionale, si è vista avvicinare da un distinto commerciale di un’azienda mentre era addetta al servizio di degustazione della pizza in teglia. Il “bel tipo”, ammiccante, con un doppio senso di dubbia equivocità, le ha chiesto un pezzo di pizza con queste parole: “Posso averne una fetta? Preferibilmente questa (indicando il bordo, ndr), perché a me piace il cu*o”. Ma davvero nel 2025, siamo ancora (o di nuovo) a questi livelli?

Ovviamente, non essendo una donna, posso valutare queste esternazioni solo con i miei canoni e devo dire che mi sembrano piuttosto disgustosi. Ancor di più perché avvengono quando una donna si mostra in pubblico da sola, mentre se è affiancata da un uomo questo tipo di approccio non avviene. E questo vale sia per Sanremo, dove Rose Villain era da sola su un palco e il “complimento” viene fatto a luci spente, sia per la fiera professionale, dove “l’avventore” ha approfittato di un momento di distrazione degli altri professionisti presenti allo stand per mostrare baldanzosamente la sua virilità.

È chiaro, allora, che il numero di marzo che vi stiamo consegnando è un pretesto per parlare del rapporto tra donne, pizzeria e cucina. Lo facciamo, dedicandoci a delle belle storie di pizza al femminile, ma anche entrando in quelle pellicole cinematografiche che sono riuscite ad andare oltre al racconto di una love story che nasce non appena una persona di genere femminile mette piede in una cucina abitata da maschi. E non perché ci sia qualcosa di male in un amore che sboccia ma perché è, a mio avviso, necessario superare i cliché se davvero vogliamo che questo mondo cambi.

E, ora, una piccola nota personale: non mi sentirete esaltare le differenze di genere o gettare mimose per le strade. Non credo, infatti, che ci sia superiorità da una parte o dall’altra del genere umano. Ritengo, infatti, che ritenersi superiori o inferiori solo per l’attributo sessuale che “s’indossa” sia primitivo allo stesso modo degli esempi di apertura di questo editoriale. L’otto marzo allora mi piace leggerlo come una scrittura apparsa sui muri di Roma qualche anno fa: Lotto e m’arzo. E questo vale ogni giorno, per ogni genere.

PIZZA E PASTA ITALIANA

Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura

Edito da PIZZA NEW S.p.A.

Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990

Anno XXXVI - n.3 marzo 2025 - Repertorio ROC n. 5768

DIRETTORE EDITORIALE DIRETTORE ONORARIO

Massimo Puggina Giampiero Rorato

DIRETTORE RESPONSABILE

Antonio Puzzi

PUBBLICITÀ

Caterina Orlandi

REDAZIONE

Via Sansonessa, 49 - 30021 CAORLE (VE) Tel. 0421/ 212348 - Fax 0421/81007 - E-mail: redazione@pizzaepastaitaliana.it www.pizzaepastaitaliana.it

PROGETTO GRAFICO

Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi

— Mediagraf lab

DIGITAL PUBLISHING

Maura Trolese

— Mediagraf lab

IN COPERTINA

illustrazione di Basak Saral

STAMPA MEDIAGRAF S.p.A.

Noventa Padovana (Pd)

COMITATO TECNICO E REDAZIONALE

Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.

AFFILIAZIONI INTERNAZIONALI

Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).

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NATURA AD ALTA PRESTAZIONE

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Dall’esperienza Le 5 Stagioni, nasce TipoZero Superiore, la farina ottenuta da grano 100% italiano, versatile e unica, adatta a tutti i tipi di impasto.

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Vieni a scoprire tutte le novità delle farine LE 5 STAGIONI in anteprima al Campionato Mondiale della Pizza. Parma 8-10 aprile 2025

a cura della redazione

BEER&FOOD ATTRACTION 2025: LEADER

IN EUROPA PER LA BEVERAGE&BAR INDUSTRY

Beer&Food Attraction si afferma definitivamente leader in Europa per la Beverage & Bar Industry, segnando per la sua 10 a edizione un +4% di visite totali, 600 espositori e 1.217 marchi su una superficie espositiva aumentata del 14% rispetto al 2024.

La fiera di Italian Exhibition Group (IEG) ha raccolto le tendenze del mondo foodservice, dalla filiera della birra craft e main stream alla crescita del mondo Mixology (+30% di spazio espositivo), tanto che per il 2026 è già stata annunciato ‘Mixology Attraction’, un nuovo evento dedicato al comparto cocktail.

Infine, da sottolineare il ruolo strategico in fiera del food (20% dell’offerta espositiva) come complemento all’universo Beverage, con le migliori proposte per il canale casual dining e per l’aperitivo.

SIGEP WORLD 2025, L’EDIZIONE PIÙ GRANDE E GLOBALE DI SEMPRE

SIGEP World - The World Expo for Foodservice Excellence, manifestazione di Italian Exhibition Group (IEG) giunta alla 46ª edizione, si è confermata punto di riferimento internazionale per le filiere di Gelato, Pasticceria, Cioccolato, Caffè, Panificazione e Pizza, grande novità del 2025, con 1.300 brand espositori e 138.000 mq di offerta espositiva

SIGEP World è cresciuta nel 2025 con 50 aziende in più del comparto della Pizza (in primis tecnologie come impastatrici e forni, farine, topping e basi surgelate) e ha superato gli ottimi risultati della scorsa edizione con un +14% totale di presenze, di cui +26% straniere (la visitazione più alta di sempre, da 160 Paesi). Un appuntamento di business unico che con Rimini, città sinonimo di accoglienza, ha definito un binomio vincente.

Il più versatile forno elettrico touch screen sovrapponibile.

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Appuntamento con la 50a edizione di Hospitality, dal 2 al 5 febbraio 2026.

Bilancio positivo per la 49a Hospitality tra inclusività, sostenibilità e innovazione tecnologica per l’HoReCa

Bilancio positivo per l’edizione 2025 di Hospitality – Il Salone dell’Accoglienza, la fiera internazionale leader in Italia nel settore dell’ospitalità e della ristorazione. Con oltre 20.000 visitatori, 750 espositori e 70 buyer provenienti da 20 Paesi strategici, molte le proposte per il segmento Food, anche con gli eventi nelle Food Arena e Pizza Arena. FIC insieme all’Unione Regionale Cuochi Trentino-Alto Adige, ha riproposto Nic in School per gli studenti degli Istituti Alberghieri. Di grande interesse “Pranzo a 4 mani e 2 occhi”, un progetto dell'Unione Regionale Cuochi TAA in collaborazione con AbilNova che ha visto alcuni associati con diverse forme di disabilità servire ai tavoli. Molti i concorsi, anche per gli allievi delle scuole alberghiere, tra cui quelli organizzati dall’Associazione Ristoratori Trentini: dall’arte del cocktail alle capacità in sala, fino ai contest culinari dedicati ai giovani con disabilità.

La Pizza Arena, novità 2025, ha aperto con il concorso Pizza in Équipe per proseguire con la masterclass del pizzaiolo Diego Vitagliano sul rapporto tra ingredienti, stile e territorio, e gli eventi P izza Showcooking e Pizza Consulting. L’esperto risponde, fino alla giornata dimostrativa di Pizza free from con la Scuola Italiana Pizzaioli.

Su www.hospitalityriva.it tutti gli aggiornamenti sulla fiera.

Hospitality – Il Salone dell’Accoglienza

Quartiere Fieristico di Riva del Garda

Via Baltera, 20 – Riva del Garda

Pizza in Équipe vincitori

1° classificata – Pizzeria Giropizza Vip

2° classificata – Pizzeria Il Dopolavoro 1923

3° classificata – Pizzeria Nuovo Ronche

Gli eventi del mese

2–5

marzo

RISTOREXPO

Lariofiere, Erba (Como)

L’odore incarna un’intelligenza naturale che non passa per il pensiero ma per l’esperienza diretta, creando connessioni sottili tra individuo, memoria e cultura. Ci ricorda la nostra parte più istintiva e interconnessa con la natura. E allora, nella logica di una continua ricerca ed evoluzione nel settore, può essere quella dell’odore la nuova frontiera per il prossimo futuro? Un possibile punto di partenza su cui costruire strategie e percorsi di sviluppo per la ristorazione professionale? Questo il tema di RistorExpo 2025 ristorexpo.com

7–9

marzo

FIERA AGRICOLA

San Marco Evangelista (Caserta)

Torna l’appuntamento con Fiera Agricola in Terra di Lavoro: macchinari e attrezzature, zootecnia, mangimi, energie rinnovabili eovviamente - enogastronomia. fieraagricola.org

8–10

marzo

FOOD EXPO

Atene (Grecia)

Scoprire le tendenze gastronomiche del sud-est dell’Europa è possibile grazie a questo appuntamento che porta nella capitale greca 1300 espositori ed oltre 37.000 buyers. foodexpo.gr/en/

9–11

marzo

RISTOAMARE

2025

Cagliari

L’appuntamento con una fiera internazionale del settore Ho.re. ca. a Cagliari si ripete per la sesta volta. Un’occasione imperdibile per proporre e scoprire le migliori proposte per il food service, ma anche per trascorrere un momento di aggiornamento professionale, di scambio d’idee e di arricchimento tra operatori del settore, stabilendo relazioni di valore con nuovi clienti e partner commerciali.

ristoamare.it

14–16

marzo

FA’ LA COSA

GIUSTA

Rho (Milano)

Nata nel 2004 da un progetto della casa editrice Terre di mezzo ha la finalità di far conoscere e diffondere sul territorio nazionale le “buone pratiche” di consumo e produzione e di valorizzare le specificità e le eccellenze, in rete e in sinergia con il tessuto istituzionale, associativo e imprenditoriale locale.

falacosagiusta.org

14–16

marzo

VITA IN CAMPAGNA

Verona

Dal 14 al 16 marzo 2025, Verona diventa il punto di incontro per chi vive il verde, con spazi dedicati a orti, giardini e piccoli allevamenti. Promuoviamo un approccio consapevole alla terra, favorendo la condivisione di conoscenze e l’innovazione nel rispetto dell’ambiente.abbinare.

fieradivitaincampagna.it

16–18

marzo

HORECA EXPO

Torino

Horeca Expoforum è l’unico Salone Internazionale del NordOvest Italia dedicato ai professionisti del mondo HO.RE.CA. Dopo il successo della prima edizione del nuovo format, l’evento si è posizionato come punto di riferimento per il territorio.

horecaexpo.it

23–26

marzo EXPOCOOK

Roma

Expocook si afferma come un appuntamento fondamentale per esplorare le ultime innovazioni e le tendenze emergenti nel settore del food, della ristorazionee dell’hotellerie.

expocook.org

Per segnalare fiere ed eventi, scrivi a redazione@pizzaepastaitaliana.it

5 FILM

CHE PARLANO

DI CIBO AL FEMMINILE Storie di

Di cibo e cinema si parla spesso e, in quasi tutte le pellicole, grande rilievo è dato alle storie d’amore che nascono in cucina.

Ci sono, però, film che esaltano – o semplicemente raccontano – la figura della donna nella ristorazione, senza renderla oggetto / soggetto del desiderio erotico e sentimentale di comprimari (o,

peggio, antagonisti) maschili. È davvero impresa ardua cercarli ma necessaria, soprattutto in un mese, come quello che stiamo vivendo, dove celebriamo l’opportunità di ricordare al mondo il vero valore dell’8 marzo. Che va oltre mimose e parate e che va invece – a mio avviso – riletto così, come vuole un simpatico murales apparso a Roma qualche anno fa: “lotto (e) m’arzo”, ossia “combatto e mi alzo”. Ogni giorno.

Ecco, allora, scelti per voi, 5 film che ci parlano di cibo “al femminile”, senza troppi fronzoli né indugi.

Buona visione!

“diamanti”

IL PRANZO DI BABETTE

Nella seconda metà dell’Ottocento, in un piccolo villaggio della Danimarca, vivono due anziane sorelle nubili, Martina e Philippa, figlie di un pastore protestante. Una sera, giunge da loro, Babette Hersant, cattolica sfuggita alla repressione della Comune di Parigi, raccomandata da una lettera del cantante lirico Achille Papin, corteggiatore di Philippa e suo maestro di canto, da lei allontanato subito dopo che lui si era permesso di baciarla. Babette inizia a lavorare presso di loro gratuitamente come governante e contribuisce all’attività di beneficenza. Dopo quattordici anni, Babette, vince alla lotteria diecimila franchi d’oro e tutti pensano che la donna userà la grossa somma per tornare in Francia, invece lei chiede di poter cucinare un pranzo francese in memoria

(1987) (2008)

del Decano, nel centenario della sua nascita. Affascinati dalla bontà del cibo, dall’atmosfera e dall’amore con cui i piatti sono stati cucinati da Babette, tutti diventano gioviali e felici e i ricordi riaffiorano, fino a quando Babette rivelerà una emozionante storia.

PRANZO DI FERRAGOSTO

Gianni è un uomo romano di mezz’età che trascorre le sue giornate prevalentemente tra la casa in cui vive con la madre e l’osteria che frequenta. Il 14 agosto, l’amministratore di condominio si presenta alla loro porta per riscuotere le quote arretrate e propone a Gianni l’estinzione delle stesse in cambio di un favore: ospitargli l’anziana madre, Marina, per la notte e il successivo

giorno di Ferragosto. Insieme a lei, arriverà però la zia dell’amministratore, Maria, una simpatica anziana con qualche problema di memoria e molto esperta nel cucinare la pasta al forno. Da Gianni arriverà altresì un’altra signora, la madre dell’amico e medico di famiglia Marcello, che non può mangiare diversi tipi di cibi e deve assumere una lunga serie di medicinali in momenti precisi. Da qui inizia una serie di simpatiche avventure in cui Gianni si trova coinvolto per via dei diversi caratteri e personalità delle anziane, fino a quando pranzano tutti insieme in allegria il successivo giorno di Ferragosto.

Ad eccezione di Alfonso Santagata e GianniDi Gregorio, il film è interamente recitato da attori non professionisti.

(2009)

JULIE & JULIA

La ventinovenne Julie Powell è una brillante scrittrice mancata che, per vivere, lavora in un call center della società impegnata nella ricostruzione dopo gli attentati delle Torri Gemelle. Per evadere dalla grigia monotonia della sua vita quotidiana, decide di cimentarsi in un eccentrico progetto che unisca le sue passioni per la scrittura e per la cucina: sperimentare personalmente nel giro di 365 giorni tutte le 524 ricette contenute nel celebre libro di cucina Mastering the Art of French Cooking di Julia Child e raccontare l’esperienza in un blog.

Il film segue parallelamente le vicende di Julie Powell e quelle di Julia Child in un continuo rimando tra un’epoca e l’altra. Il blog di Julie Powell diventa sempre più popolare fino a farle guadagnare un articolo sul New York Times, che attira a sua volta l’attenzione di stampa e case editrici, consentendole così di intraprendere l’agognata carriera di scrittrice.

(2012)

LA CUOCA DEL PRESIDENTE

Hortense Laborie è stata la prima cuoca donna a entrare nelle cucine dell’Eliseo. A offrirle l’occasione, fu la presidenza dell’illuminato capo di Stato François Mitterand. Laborie rimase a palazzo per due anni, tra il 1988 e il 1990. Nonostante le gelosie degli chef della cucina centrale del Palazzo, Hortense riuscì a imporsi grazie al suo carattere forte e alla sua tempra. La genuinità della sua cucina sedusse in poco tempo il Presidente ma quello che accadde dietro le quinte, nelle stanze del potere, le creò non pochi ostacoli. Il film ripercorre, dal punto di vista della cucina, le vicende di un periodo intenso della storia contemporanea.

Chiudiamo questa carrellata di racconti cinematografici con quello che dà il titolo all’articolo e che è il più recente tra i nostri “best of”. In Diamanti, il cibo si mescola all’altra eccellenza del Made in Italy: la moda. Ferzan Ozpetek realizza con un cast di sole donne protagoniste una vera e propria ballata dell’universo femminile, fuori dagli stereotipi di genere e con una delicatezza che costringerebbe anche il più “patriarcale” degli uomini a capitolare di fronte all’evidenza. Qui la cucina è matrigna, nel caso di chi – come Nina (Paola Minaccioni) – combatte ogni giorno contro un marito che vede nella moglie la sua serva. Ma, nel film, la cucina si fa “sorella”, come quella raccontata da Silvana (Mara Venier) che accoglie confidenze, angosce e desideri delle donne di una premiata sartoria per cinema e teatro. Come spesso accade, in Ozpetek il cibo resta protagonista della scena, comprimario, recita un ruolo fondamentale. E noi, tra una lacrima e un sorriso, applaudiamo con appetito.

CIBO

Forno con alimentazione elettrica, dalle dimensioni contenute, concepito per la cottura di 1 o 2 pizze da 33 cm

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(2024)
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Gluten free “in rosa”

Le 8 migliori pizze senza glutine fatte da donne

Alfonso Del Forno

NEGLI ULTIMI ANNI, LA PIZZA SENZA

GLUTINE HA COMPIUTO

NOTEVOLI PROGRESSI, RAGGIUNGENDO

LIVELLI DI QUALITÀ

TALI DA COMPETERE

CON LE VERSIONI TRADIZIONALI.

Questo miglioramento è dovuto all’introduzione di nuove farine sul mercato e all’impegno di pizzaioli e pizzaiole che hanno dedicato tempo e passione allo studio di impasti alternativi. In Italia, diverse donne si sono distinte in questo ambito, offrendo pizze senza glutine di altissima qualità. Di seguito, presentiamo alcune delle migliori pizzaiole italiane specializzate in pizze senza glutine e i loro locali.

Petra Antolini è la mente creativa dietro la Pizzeria Settimo Cielo, situata a Pescantina, in provincia di Verona. Con una passione radicata nella tradizione e un costante desiderio di innovazione, Petra ha trasformato la sua pizzeria in una meta amata dagli appassionati di pizza. Le sue creazioni sono note per l’impasto leggero e al-

tamente digeribile, realizzato con farine accuratamente selezionate, inclusi grani antichi biologici coltivati in Sicilia. La sua attenzione alla qualità degli ingredienti e alla tecnica di lavorazione le ha permesso di eccellere anche nel mondo delle pizze senza glutine, garantendo un prodotto gustoso e sicuro per i celiaci.

Samantha Eliana

PIZZERIA POSITANO (SALERNO)

Samantha Eliana è la pizzaiola della Pizzeria Positano, a Salerno, un locale che negli anni è diventato un punto di riferimento per gli amanti della pizza. La sua attenzione alla qualità degli impasti l’ha portata a studiare soluzioni innovative anche per il senza

glutine, creando una pizza gustosa e altamente digeribile. Nel suo locale, la filosofia si basa sulla ricerca della migliore combinazione tra impasti e ingredienti freschi e stagionali, offrendo ai clienti un’esperienza autentica e soddisfacente.

Isabella De Cham

PIZZERIA ISABELLA DE CHAM (NAPOLI)

Isabella De Cham è conosciuta come la regina della pizza fritta e ha fondato la sua Pizzeria Isabella De Cham a Napoli, nel cuore del Rione Sanità. La sua passione per la pizza l’ha portata a specializzarsi nella preparazione di pizze fritte, un grande classico della tradizione partenopea, che ha saputo

reinterpretare con estro e innovazione. Pur non essendo la pizza fritta una preparazione tipica del gluten free, Isabella ha dedicato attenzione anche a questa esigenza, proponendo varianti senza glutine per i suoi clienti celiaci, dimostrando che tradizione e inclusività possono andare di pari passo.

Rosa Citro

PIZZERIA ANIELLO MANSI (SALERNO)

Rosa Citro è una giovane e talentuosa pizzaiola che prepara pizze senza glutine nella Pizzeria Aniello Mansi di Salerno, fondata insieme al marito. Il suo percorso nel mondo del gluten free è iniziato quasi per caso, ma con dedizione e passione ha sviluppato impasti e ricette in grado di garantire un’elevata qualità delle pizze senza glutine. La pizzeria dispone di un’area

completamente dedicata al senza glutine, con forno a legna, banco da lavoro e impastatrice separata, per evitare contaminazioni. Rosa ha partecipato a diversi concorsi nazionali, ottenendo riconoscimenti per le sue creazioni gluten free, dimostrando come una pizza senza glutine possa essere buona quanto (se non meglio) di una tradizionale.

Anna Maria Marconi

LONGEVIA (PERUGIA E GUBBIO)

Anna Maria Marconi è la titolare di Longevia, con sedi a Perugia e Gubbio, due locali che hanno fatto della salute e del benessere alimentare la loro missione. Con un approccio olistico alla cucina, Anna Maria ha sviluppato un’offerta gastronomica che include pizze senza glutine

preparate con ingredienti selezionati e farine alternative, perfette per chi cerca un’alimentazione equilibrata senza rinunciare al piacere del cibo. I suoi locali sono apprezzati non solo per la qualità della pizza, ma anche per la filosofia che promuovono: nutrirsi in modo sano e consapevole.

Rosa Casulli

PIZZERIA MCROSE (PUTIGNANO, PUGLIA)

Rosa Casulli è una pizzaiola pugliese che ha saputo valorizzare i sapori della sua terra attraverso le sue creazioni nella Pizzeria McRose, situata a Putignano. Le sue pizze riflettono la tradizione culinaria pugliese, con l’utilizzo di ingredienti locali e stagionali. Rosa ha dedicato particolare attenzione

allo sviluppo di impasti senza glutine, garantendo che anche i clienti celiaci possano godere di un’autentica esperienza gastronomica pugliese. La sua abilità nel lavorare impasti alternativi e l’amore per la tradizione la rendono una delle pizzaiole più apprezzate nel settore.

Sofia Milani

ZEROZERO PIZZERIA (FIRENZE)

Sofia Milani è la talentuosa pizzaiola dietro ZeroZero Pizzeria, situata a Firenze, nel quartiere Rifredi. Con una forte attenzione alla qualità degli ingredienti e alla tradizione italiana, Sofia ha introdotto nel menu opzioni senza glutine, assicurando

che tutti possano apprezzare le sue creazioni. La pizzeria è apprezzata per la sua attenzione alla digeribilità degli impasti e per l’uso di farine alternative di alta qualità, che conferiscono alla pizza un sapore autentico e una leggerezza ineguagliabile.

PIZZERIA MATURAZIONI

Gabriella Esposito è la pizzaiola della Pizzeria Maturazioni, situata a Ottaviano, in provincia di Napoli. Specializzata nelle tecniche di maturazione degli impasti, Gabriella ha saputo conquistare il pubblico grazie alla sua ricerca costante sulla digeribilità della pizza. Nel suo locale, offre una varietà di pizze con impasti altamente maturati e realizzati con farine selezionate, tra cui opzioni senza glutine che nulla hanno da invidiare alle versioni classiche.

Un elemento distintivo di Maturazioni è la sua squadra, composta per l’80% da donne. Questa scelta riflette la visione di Gabriella sulla presenza femminile nel mondo della pizza, tanto che il suo motto, spesso ripetuto sui social, è “La pizza è femmina”. La sua presenza online e il suo impegno per valorizzare il ruolo delle donne nel settore hanno reso il suo locale un punto di riferimento per la pizza artigianale di qualità.

DONNE E INNOVAZIONE NEL MONDO DELLA PIZZA

SENZA GLUTINE

Queste talentuose pizzaiole italiane hanno dimostrato che la passione, l’innovazione e l’attenzione alle esigenze alimentari possono portare a creazioni culinarie straordinarie. Grazie al loro lavoro, la pizza senza glutine è diventata una vera e propria esperienza gastronomica, capace di soddisfare anche i palati più esigenti.

Ognuna di loro, con la propria storia e il proprio stile, ha contribuito a rendere il mondo della pizza un luogo più inclusivo e accessibile, senza mai scendere a compromessi sulla qualità.

LE PIZZE IN ROSA

LA CRESCENTE PRESENZA

FEMMINILE NEL MONDO

DELLA PIZZA, TRA

TRADIZIONE E INNOVAZIONE

di Giampiero Rorato

Oggi è risaputo: passione, studio e talento non hanno genere. Ma, per millenni, tutte le professioni fuori casa erano state riservate agli uomini. Le donne, infatti, avevano due compiti fondamentali: preparare il cibo e badare ai piccoli e agli anziani. Questa suddivisione è perdurata, salvo rare eccezioni, fino alla metà del secolo scorso, quando in Italia alle donne fu garantito il diritto di voto.

In passato c’erano state alcune scrittrici e artiste ma, per il resto, le donne si occupavano della cucina e della famiglia. Poi, dapprima negli Stati Uniti e successivamente nel resto del mondo occidentale, iniziò una progressiva rivolta femminile.

proprio negli usa si celebrò per la prima volta la Festa della Donna (28 febbraio 1909) come segno di riscatto e di apertura alle professioni fino ad allora appannaggio maschile.

Dalla metà del secolo scorso, in Italia le donne entrarono in politica, in Parlamento, nelle Università, nei tribunali e in molte altre professioni. Nello stesso periodo, la pizza – fino ad allora tipica della Campania – trovò diffusione nel Nord Italia. Dopo essere approdata negli Stati Uniti con gli emigrati campani alla fine del XIX secolo, nel Nord Italia arrivò al seguito degli operai diretti nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova (Fiat, Alfa Romeo, Ansaldo) e dei giovani meridionali di leva nelle caserme del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia. Furono le famiglie meridionali trapiantate al Nord e i militari del Sud a diffondere questa specialità, economica e gustosa, conquistando rapidamente i palati locali.

i pizzaioli

Fino alla fine del secolo scorso, nel Nord Italia come nel Sud e nelle terre d’emigrazione (soprattutto Americhe, Francia e Germania), a preparare le pizze erano quasi esclusivamente uomini. Questa professione, considerata un’arte, veniva tramandata di padre in figlio e il movimento femminista, che chiedeva parità di diritti sul lavoro, aveva inciso poco in questo settore. Nelle storiche pizzerie venete, ad esempio, erano i capifamiglia a cucinare, mentre mogli e figlie servivano ai tavoli e gestivano i pagamenti.

Negli anni ’80, a Caorle (Venezia), si sviluppò un interesse particolare per la pizza, con incontri tra titolari di pizzerie e giovani pizzaioli per migliorare il servizio e aggiornare la formula produttiva, fino ad allora importata dalla Campania. Attorno a un celebre pizzaiolo friulano con pizzeria a Porto Santa Margherita

di Caorle, il sig. Marchesin, si formò un gruppo di appassionati, tra cui il giovane Graziano Bertuzzo. Con il supporto di un docente dell’Università di Padova, questi studiosi analizzarono impasti, lievitazioni e maturazioni, dando vita a una pizza diversa da quella napoletana: lunga lievitazione (48-72 ore), assenza di cornicione e utilizzo di ingredienti freschi e locali. A Caorle nacque anche un’associazione che programmò congressi sulla pizza, a cui partecipavano quasi esclusivamente pizzaioli uomini, spesso accompagnati da mogli, fidanzate e amiche. Le donne, però, non erano ancora protagoniste nel mondo della pizza.

l’evoluzione della professione

Bisognerà attendere gli anni ’90 per vedere le prime pizzaiole. L’occasione venne con l’indizione dei primi Campionati Mondiali della Pizza, iniziati a Mesola (Romagna), poi passati a Castrocaro Terme, Viareggio, Salsomaggiore e infine, da alcuni anni, a Parma. Questi eventi, che hanno visto crescere la partecipazione da ogni regione italiana e da molti paesi esteri (USA, Giappone, ecc.), hanno segnato l’ingresso delle donne nelle competizioni.

Le prime partecipanti erano probabilmente mogli o figlie di pizzaioli ma, con l’inizio del nuovo secolo, la presenza femminile è aumentata e le pizzaiole hanno dimostrato di non sfigurare affatto nel confronto con i colleghi uomini.

l’apertura di scuole professionali di alta formazione per pizzaioli ha favorito l’accesso delle donne alla professione.

Le giovani aspiranti pizzaiole, spesso provenienti da percorsi di studi gastronomici, hanno portato innovazione e creatività in un settore ancora dominato dalla tradizione. Le nuove tecniche di impasto e l’attenzione crescente per ingredienti di qualità hanno permesso loro di distinguersi in un mercato sempre più esigente.

il futuro della pizza al femminile

Guardando al futuro, con le crescenti difficoltà economiche che colpiscono anche la classe media, si prevede un passaggio della clientela dai ristoranti alle pizzerie. Questo perché, come attesta mensilmente questa rivista, il mondo della pizza è in continua evoluzione: nuove materie prime, accostamenti innovativi, tecniche di lievitazione e cottura avanzate. Tutto ciò attrae sempre più clienti e non c’è dubbio

che le giovani donne, così come le professioniste più esperte, avranno un ruolo sempre più centrale. Anche i media hanno contribuito alla crescita della figura della pizzaiola.

Programmi televisivi dedicati alla cucina e alla panificazione, documentari e competizioni trasmesse in streaming hanno dato visibilità a molte professioniste, che oggi possono contare su un seguito di appassionati e clienti fedeli. Le prospettive per le donne nel mondo della pizza sono dunque sempre più promettenti. Se un tempo si trattava di una professione prettamente maschile, oggi le donne stanno dimostrando di poter eccellere in questo campo, grazie alla loro capacità di innovare e alla cura meticolosa per la qualità del prodotto.

il futuro della pizza sarà sempre più rosa, con una crescente attenzione alla sostenibilità e all’utilizzo di ingredienti naturali.

Le nuove generazioni di pizzaiole stanno ridefinendo il concetto di pizza, rendendola non solo un simbolo della tradizione italiana ma anche un prodotto d’eccellenza capace di soddisfare le esigenze di un pubblico sempre più attento ed esigente. Con la loro determinazione e creatività, le donne stanno contribuendo a scrivere un nuovo capitolo nella storia della pizza, dimostrando che, davvero, passione, studio e talento non hanno genere.

A ogni creazione il suo momento.

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Cinque farine, cinque tempi di lievitazione, un’unica missione: trasformare ogni impasto in un capolavoro di gusto.

Agricoltura sostenibile in rosa

di Domenico Maria Jacobone

Nel grande arazzo della storia umana, le donne hanno tessuto con sapienza i fili dell’agricoltura, tramandando di generazione in generazione una conoscenza profonda dei ritmi della terra.

Dalle prime albe della civiltà, mentre gli uomini seguivano le tracce della selvaggina, furono le mani femminili a scoprire la magia della germinazione, a comprendere il linguaggio silenzioso dei semi, a decifrare i segreti della fertilità del suolo.

Nel tessuto vibrante dell’agricoltura contemporanea, le donne continuano a tessere una nuova narrazione, antica quanto la terra stessa, eppure rivoluzionaria nella sua visione. Come custodi di una sapienza millenaria, le agricoltrici stanno ridisegnando il paesaggio alimentare globale, un viaggio che parte dalle difficoltà della terra rossa del Sahel e vola sulle Ande, riprende fiato nelle sconfinate pianure americane per giungere sui dolci pendii delle colline italiane.

Ogni solco tracciato racconta una storia di rinascita e di sapiente

gestione delle risorse.

In questo contesto, è stata portata recentemente alla ribalta da libri e film la storia della vedova Clicquot che, nel settore dell’enologia, brilla come un esempio luminoso di questa eredità femminile. Nel cuore della Champagne, regione dove i filari di vite disegnano geometrie perfette sui pendii gessosi, Barbe-Nicole Ponsardin (che conosceremo nel mondo come la “Veuve Clicquot” dell’omonima maison de Champagne), trasformò il lutto in rinascita, innovando per sempre il mondo dei vini fermentati. Il suo metodo della remuage non fu solo una rivoluzione tecnica ma una testimonianza di come l’intuizione femminile potesse sposarsi con la precisione scientifica, creando un prodotto che ancora oggi racconta di eccellenza e visione. Nel panorama dell’agricoltura mondiale, le donne stanno guidando un cambiamento rivoluzionario, portando innovazione e sostenibilità dal campo alla tavola. Come in una grande cucina, dove ogni ingrediente ha la sua importanza, queste agricoltrici stanno creando nuove ricette per il futuro della terra, combinando tradizione e innovazione con risultati straordinari. Per raccontarvi al meglio la sostenibilità in rosa, ho ana-

lizzato la sesta edizione del “Women Led Solution” dell’ONU pubblicata a fine 2024: un report sull’evoluzione agricola portata avanti dalle donne nel mondo che mi ha aperto mente e cuore ad esperienze varie e straordinarie che ho provato a condensare di seguito.

In Kenya, le donne Maasai hanno creato delle vere e proprie “banche dei semi”, conservando varietà di erbe preziose che garantiscono pascoli sani e produttivi. La loro dedizione mi ha ricordato il professionista della panificazione che custodisce il suo lievito madre: queste donne proteggono i semi che daranno vita ai futuri raccolti, assicurando la qualità delle materie prime per gli anni a venire.

Nella zona più interna del Kenya, le donne Samburu dimostrano come la saggezza antica possa sposarsi con l’innovazione. I loro orti sinergici e i sistemi ingegnosi di raccolta dell’acqua trasformano il paesaggio arido in un giardino produttivo, mentre gli argini semicircolari, costruiti con perizia millenaria, proteggono il suolo prezioso dall’erosione con un’efficacia del 60%.

In Senegal, l’Association Diaoule D’Abord è come una scuola di cucina all’aperto, dove le donne insegnano l’arte della coltivazione sostenibile.

Nei loro campi, organizzati razionalmente come fossero in una dispensa ben fornita, crescono piante resistenti alla siccità, garantendo ingredienti di qualità anche nelle stagioni più difficili. Nel Niger vicino, le donne del gruppo CERNAFA hanno trovato nella coltivazione delle cipolle la loro specialità, creando un sistema cooperativo che permette loro di acquistare terreni e attrezzature.

In Perù, le sorelle Machaca Mendieta sono portatrici d’acqua: hanno creato 170 laghi artificiali che forniscono acqua a migliaia di persone, permettendo di coltivare anche in periodi di siccità. In Brasile, il “Quaderno Agroecologico” è come il libro delle ricette di famiglia: le donne annotano le tecniche e gli antichi saperi di tutto ciò che producono nei loro orti, dando finalmente un valore concreto al loro lavoro quotidiano, ma soprattutto creando un documento da tramandare alle future generazioni.

A Cuba, le agricoltrici sono diventate vere esperte di tecniche innovative, come chi sperimenta nuove ricette rispettando la tradizione. Studiano il territorio e il clima, adattando le loro coltivazioni ai cambiamenti stagionali, proprio come nei ristoranti si modifica il menu seguendo la disponibilità degli ingredienti.

In India, la tecnologia Bhungroo per la gestione dell’acqua è come un sistema di conservazione all’avanguardia: permette di non sprecare neanche una goccia della preziosa risorsa, garantendo raccolti anche nelle stagioni più secche.

Nel panorama italiano, l’agricoltura femminile fiorisce con eguale vigore e creatività. In Lombardia, l’azienda Ferri/Le Zilli rappresenta un esempio luminoso di come tre generazioni di donne abbiano saputo reinventare la tradizione. Il bambù gigante, sotto le loro mani sapienti, si trasforma in un ventaglio di possibilità: dalle cannucce biodegradabili

alla farina senza glutine, ogni prodotto racconta una storia di innovazione e rispetto ambientale.

La rete “Slow Flower” italiana aggiunge un capitolo di particolare bellezza a questa narrazione. Dal Monferrato, dove Marzia Barosso nella sua Viale Flower Farm coltiva duecento specie floreali come un’artista del paesaggio. In Toscana, le sorelle Laura, Teresa e Mara Cugusi che hanno fondato “Puscina Flowers”, azienda agricola e primo studio di Floral Design completamente BIO nel cuore della Toscana. Partite dalla raccolta di fiori selvatici, graminacee e varietà spontanee, oggi coltivano oltre duecento specie e quattrocento varietà di fiori e fogliami.

Intervistando un’agricoltrice, Carola Ghivarello dell’azienda

agricola “Cascina di Francia” di Moncrivello (VC), ho scoperto una storia affascinante di amore per la terra e trasmissione del sapere da parte dei nonni, temporaneamente accantonata per seguire il sogno di diventare architetta. Durante lo studio di un bando per la ristrutturazione del casale diventato il quartier generale di “Cascina di Francia”, Carola ha risposto al richiamo di questa antica vocazione ed ha cambiato completamente ritmi e vita per diventare coltivatrice diretta. Lo studio e le tecniche più moderne apprese durante il suo percorso formativo, sono state la base per impostare la sua azienda agricola biologica adottando, ad esempio, pratiche come l’irrigazione di precisione, privilegiando il km 0 e riducendo al minimo l’uso di acqua e le lavorazioni del terreno. Da più di dieci anni utilizza compostaggio con scarti vegetali concime naturale al posto di fertilizzanti chimici, per ripristinare naturalmente la fertilità del suolo. Parlando di prodotti, Carola nelle sue composte di frutta

non aggiunge zuccheri, mantenendo intatte le proprietà organolettiche. Oltre ai suoi prodotti, vende anche quelli di altri agricoltori locali, offrendo ai clienti un ritorno ai gusti naturali ed una scelta che da sola non potrebbe sostenere. Il suo minestrone, ad esempio, varia in base alla stagione e alle verdure disponibili. Carola sottolinea come l’agricoltura offra spazio all’imprenditoria femminile, con molte aziende gestite da donne capaci e innovative. I numeri che ho raccolto testimoniano l’efficacia di questa rivoluzione silenziosa: il 31,3% delle aziende agricole italiane parla al femminile, percentuale che si eleva al 45% nel settore biologico. Nel contesto italiano, i dati delle ricerche HUN-REN e Nature evidenziano un quadro significativo dell’imprenditoria agricola femminile e del suo impatto sulla sostenibilità del settore. Le aziende gestite da donne registrano una riduzione del 30% nell’utilizzo di pesticidi e una probabilità del 40% superiore di adottare pratiche

biologiche, accompagnate da una maggiore diversificazione delle colture.

Un caso emblematico di applicazione della tecnologia è rappresentato dal progetto “Evoluzione Terra” di “New Holland Agriculture”, che supporta 15 aziende agricole femminili attraverso l’introduzione di macchinari ad alta efficienza, ottenendo una riduzione del 20% dei consumi energetici grazie all’implementazione della trattoristica di precisione e promuovendo lo sviluppo di filiere corte per il 65% delle produttrici partecipanti. Come sottolinea Daniela Ropolo di “CNH Industrial”, questo processo sta ridefinendo i modelli produttivi attraverso l’integrazione di tecnologia avanzata e competenze tradizionali.

Tuttavia, persistono significative barriere strutturali:

il 38% delle imprenditrici affronta limitazioni nell’accesso al credito, le dimensioni aziendali medie risultano inferiori del 25% rispetto alle imprese maschili, e solo il 12% dei fondi PAC è specificamente destinato a progetti femminili. Per superare questi ostacoli, sono state identificate tre linee d’intervento prioritarie: l’implementazione di programmi di formazione tecnologica mirata, l’introduzione di strumenti di microcredito agevolato per l’acquisto di terreni e lo sviluppo di certificazioni gender-sensitive per i prodotti sostenibili.

Z

Destinazione Futuro

Verso il Campionato Mondiale della Pizza: il Pizza World Forum

Quando l’intelligenza artificiale era solo una trovata pubblicitaria per bei film hollywoodiani, l’obiettivo della tecnologia era quello di ridurre il carico di lavoro umano, affidando alle macchine la parte più pesante. La domanda che, col tempo, tuttavia, l’ingegneria si è posta, con non pochi dubbi etici, è stata:

“Se le mani sono sostituibili, lo è anche il pensiero?”. A questa, noi ne aggiungiamo un’altra: le macchine possono pensare o fingere di farlo? E ancora: un robot riuscirà mai a dotarsi di problem solving sullo stile “umano”?

Forni Valoriani, da oltre 100 anni al vostro servizio

MOgni volta che vedo un pizzaiolo spostare le cassette d’impasto da una parte all’altra del locale per raggiungere il giusto “punto di pasta” o un fornaio posizionare la pizza in spazi diversi del forno o “aggiustarsi” la pizza sulla pala dopo averla stesa, con l’obiettivo di non sprecare il condimento già adagiato sul disco di pasta ma, nel contempo, rimediare a qualche imperfezione, non posso che domandarmi: tutto questo un robot sa farlo o potrà mai farlo?

A febbraio abbiamo dedicato un intero numero all’intelligenza artificiale e ad aprile portiamo a Parma, nello spazio dedicato al Pizza World Forum, un viaggio verso il futuro.

ICi domanderemo, tra pensieri e numeri: qual è il futuro della pizza?

E quello del pizzaiolo?

E quello dei nostri luoghi, in generale?

In un percorso tra reale e virtuale, in presenza e in live streaming, in un universo “possibile”, vi aspettiamo a Parma da martedì 8 a giovedì 10 aprile.

Seguiteci sulle pagine social di “Pizza e Pasta Italiana” e di “Campionato mondiale della Pizza” per scoprire gli ospiti e i temi. E richiedete subito il vostro pass di accesso.

REGOLAMENTI ED ISCRIZIONI

www.campionatomondialedellapizza.it

info@campionatomondialedellapizza.it

Il Bere

in riferimento al nuovo codice della strada: i vini dealcolati.

Ad inizio di dicembre, per limitare le stragi sulle strade, il ministero dei Trasporti ha emanato il nuovo Codice della Strada (entrato in vigore il 14 dicembre 2024) che ha inasprito le pene (sia pecuniarie e sia per i punti sulla patente) a tutti coloro che si mettono alla guida sotto effetto di alcool e stupefacenti.

Tutti noi, comuni mortali, con la necessità di utilizzare i nostri mezzi di trasporto per gli abituali spostamenti per motivi di lavoro e per coltivare i rapporti sociali, ci siamo allarmati e l’effetto lo si può notare parlando con gli addetti ai lavori (baristi, gestori di enoteche e ristoratori) che riscontrano un enorme calo nel consumo dei prodotti alcolici.

c0nsapevole

La Comunità Europea con Il Regolamento UE 2021/2117 del 2 dicembre 2021 ha introdotto regole sui vini dealcolati e parzialmente dealcolati, a condizione che i vini così ottenuti non presentino difetti organolettici e che non vi sia un incremento del tenore di zuccheri nel mosto d’uva di partenza. Parecchie aziende, soprattutto d’oltralpe, hanno iniziato a produrre vini dealcolati; in Italia, tale procedura era vietata fino al 18 dicembre scorso, quando il ministro Francesco Lollobrigida ha firmato un Decreto per mezzo del quale

si potrà produrre vino privato totalmente o parzialmente dell’alcol e le bevande così ottenute potranno essere chiamate “vino”. Il regolamento ministeriale afferma che è possibile ridurre parzialmente o totalmente il tenore alcolico dei vini, dei vini spumanti, dei vini spumanti di qualità, dei vini spumanti di qualità di tipo aromatico, dei vini spumanti gassificati, dei vini frizzanti e dei vini frizzanti gassificati; sono esclusi dal procedimento i vini Igt, Doc e Docg.

le tecniche di produzione del vino senza alcol

Il vino dealcolato si ottiene da un vino al quale, attraverso tecniche diverse, è stata rimossa la parte alcolica che si ottiene naturalmente con la trasformazione degli zuccheri dell’uva durante il processo di fermentazione alcolica per mezzo di:

osmosi inversa

Con questa tecnica si utilizza una membrana semipermeabile, per separare l’alcol dal vino, che attraverso alte pressioni permette il passaggio di acqua e altre sostanze che contribuiscono al sapore del prodotto finale, con un tenore alcolico minimo o assente.

evaporazione sottovuoto

Con questo sistema, il vino viene riscaldato, portato a temperature al di sotto del suo punto d’ebollizione ma che permettono di separare l’alcol attraverso la sua evaporazione, condensazione e rimozione.

L’alcol ha, infatti, un punto di evaporazione più basso dell’acqua e questo permette la sua trasformazione senza perdite eccessive delle altre componenti aromatiche volatili.

In entrambi i metodi, per ottenere un vino del tutto privo di alcol è necessario sottoporre l’intero volume del prodotto al processo; nel caso il procedimento venga applicato solo su una parte del prodotto che

prima viene separato e poi reinserito nel vino finale, il tenore alcolico sarà ridotto. Sottoporre il vino al processo di dealcolazione porta però a perdite nel profilo aromatico e gustativo: il vino senza alcol ha un sapore inaspettato e c’è grande ostracismo nei confronti del vino dealcolato, specie da parte di chi il vino lo produce con esperienza e passione.

L’Italia ha un patrimonio ampelografico unico e, da un po' di tempo, è iniziata la riscoperta di vitigni autoctoni antichi e dimenticati: nuove produzioni pionieristiche li hanno recuperati con l’obiettivo di apprezzarli, senza perseguire la logica della quantità a ogni costo. Ecco, quindi, che sono nati vini peculiari per profumi, sapori. Ovviamente, tra le loro componenti rientra anche l’alcol: li abbiamo appena ritrovati, non vorremmo mica perderli subito?

L’alcol contribuisce al sapore di un vino con una duplice percezione di calore e tattile al palato: il tenore alcolico dona corpo e quella sensazione vellutata che spesso chiamiamo “morbidezza”.

Quando assaggiamo un vino con un alcol percettibile, lo sentiamo più carnoso e denso al palato, quello dealcolato non ha la stessa struttura e quindi si percepirà come più liquido in bocca.

Punto di forza di questi vini non è tanto il gusto quanto il profumo: ecco perché spesso le uve scelte sono aromatiche o semi-aromatiche; per tirare le somme, i vini senza alcol sono piacevoli e invitanti quando li annusi ma poi ti tradiscono un po’ all’assaggio, specie se in loro cerchi le stesse sensazioni di un vino classico.

Resta la domanda sul perché la produzione vinicola italiana, che costituisce un importante settore economico nella nostra bilancia dei pagamenti, dovrebbe disinvestire nel vino classico e puntare su quello alcol free. Sarà il tempo a farci comprendere meglio l’andamento.

L’Oro d’Irpinia: la tradizione che diventa eccellenza

Dalla terra irpina nasce L’Oro d’Irpinia, la prima farina 100% locale, pensata per esaltare il gusto autentico della vera pizza napoletana. Frutto di una filiera corta che unisce produttori e trasformatori, questa farina rappresenta il perfetto equilibrio tra innovazione e tradizione, garantendo impasti altamente performanti e dalle eccezionali qualità tecnologiche

Una selezione esclusiva di grani irpini, coltivati con cura e passione, per offrire ai maestri pizzaioli un ingrediente di eccellenza, capace di trasformare ogni pizza in un’opera d’arte.

L'evoluzione del settore turistico-alberghiero:

LA SFIDA DELLA PROFESSIONALITÀ

Lingue, cultura e formazione universitaria: le nuove competenze per un’ospitalità di alto livello di Giampiero Rorato

GLI STUDI UNIVERSITARI

Nel settore turistico-alberghiero italiano non mancano professionisti laureati, specialmente in discipline come scienze alimentari per i cuochi. Ma una formazione universitaria non è solo una questione di conoscenze tecniche: permette di sviluppare una visione più ampia del mondo, comprendere meglio i cambiamenti in atto e rispondere alle esigenze di una clientela sempre più globale. Viviamo un’epoca di profondi mutamenti: l’Europa che si unisce passo dopo passo, le guerre ai nostri confini, l’evoluzione dell’informazione con i social che stanno rivoluzionando la comunicazione e la diffusione incontrollata delle fake news, che disorientano anche le persone più istruite. In questo contesto, la cultura diventa essenziale per orientarsi.

Ilsettore turistico-alberghiero italiano è in costante evoluzione. La globalizzazione porta sempre più turisti da tutto il mondo in Italia, rendendo indispensabile una professionalità altamente qualificata. Nei grandi alberghi delle principali città italiane, da Trieste a Palermo, la sola conoscenza della lingua inglese non è più sufficiente. Per questo, direttori d'albergo e maître devono padroneggiare più lingue per accogliere con competenza una clientela internazionale. Tuttavia, oltre alle lingue straniere, oggi è richiesta anche una solida cultura generale. Non è più sufficiente la preparazione acquisita negli istituti turistico-alberghieri o nei vari licei: serve un livello di conoscenza più elevato. I direttori d’albergo, gli operatori al ricevimento, i maître di ristoranti e tutto il personale del settore devono saper rispondere con proprietà di linguaggio alle domande dei clienti su storia, architettura, ambiente e paesaggio delle località in cui operano. Un bagaglio culturale più ampio è ormai indispensabile.

E la crescita culturale passa necessariamente attraverso l’Università.

Indipendentemente dal tipo di laurea scelto, l’Università apre la mente, potenzia la capacità di interpretare correttamente i fatti e arricchisce le competenze specifiche per ogni professione. Questo vale anche per gli operatori della ristorazione: cuochi e pizzaioli devono conoscere a fondo gli ingredienti che utilizzano per impiegarli nel modo migliore.

Non tutto si apprende all’Università ma questa fornisce gli strumenti per continuare la ricerca e ampliare le proprie conoscenze.

In un mondo sempre più globalizzato, chi opera nella ristorazione e nell’ospitalità, al pari di chi lavora in altri settori, si confronta con persone provenienti da ogni parte del globo. Una solida cultura rappresenta l’elemento chiave per emergere e diventare protagonisti. Basta una ricerca su Internet per scoprire le numerose Università italiane che offrono corsi specializzati in ristorazione e turismo. Alcuni di questi atenei vantano una lunga tradizione e hanno formato numerosi professionisti che hanno contribuito alla crescita della ristorazione italiana, avvalendosi dell’esperienza di eccellenti cuochi, direttori d’albergo e maître.

Il settore turistico-alberghiero avrà sempre più bisogno di figure altamente qualificate, arricchite anche da esperienze internazionali.

Solo così sarà possibile mantenere e migliorare gli standard qualitativi del comparto. Oggi siamo costantemente bombardati dai social, che promettono percorsi di formazione miracolosi per ogni professione. Tuttavia, la vera chiave per il successo rimane un’istruzione solida che include la conoscenza di più lingue straniere, studi universitari seri, esperienze all’estero e, soprattutto, una determinazione incrollabile nel proprio lavoro. Più alto sarà l’impegno nella formazione, maggiori saranno le soddisfazioni professionali.

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DONNE DI PERIFERIA

4 STORIE AL FEMMINILE LONTANE DALLE METROPOLI

di Giusy Ferraina

È strano come le grandi città della pizza in Italia non abbiano pizzaiole donne di riferimento. Pensateci bene: se escludiamo Napoli, dove esiste una relazione quasi genetica tra la pizza e chi la fa, tra i tanti nomi di spicco di Roma e Milano non compaiono riferimenti femminili. Strano, ma vero.

Se invece proviamo a spostarci dalle luci del centro e ci concentriamo sui contorni delle aree metropolitane, le cose cambiano. È proprio fuori dal rumore cittadino, dal traffico, dai clamori, che alcune pizzaiole hanno deciso di lavorare, rimanendo fedeli al loro territorio, a quei piccoli borghi dove sono cresciute, a quelle periferie da dove parte la loro rivoluzione. Proprio così: una rivoluzione pacifica fatta di lievito e farina, che si alimenta di passione, della forza personale di ognuna, dai valori che si portano dietro. Tutte le pizzaiole che ho conosciuto sono accomunate da un’energia positiva, hanno gli occhi che brillano e sorridono sempre, e intorno a loro si crea una sorta di magia. Il loro mondo fatto di vita di provincia, che sembra defilato dalle mode, diventa un nuovo centro di gravità e proprio loro ne sono le artefici.

È quello che accade per esempio ad Aprilia, in provincia di Latina, dove una giovanissima Francesca Marcantognini fa ritorno dopo un’esperienza milanese e apre “Tema, Roma in una pizza” , una pizzeria di tradizione romana che può vantare la prima donna che si dedica alla “bassa e scrocchiarella”.

Lei, che tra i suoi miti ha i big della romanità, è riuscita in pochi mesi a concretizzare il suo sogno e dare vita ad uno spazio giovane, inclusivo e responsabile. Le riconosciamo la grande forza di volontà e la voglia di creare qualcosa di estremamente personale, in cui il territorio dell’Agro pontino diventa protagonista con i suoi prodotti.

Francesca, come lei stessa ammette, studia, osserva, prende in prestito ma poi va per la sua strada ed è così che nascono i suoi impasti con biga e la doppia stesura.

In lei abbiamo trovato l’esempio di una “generazione zeta” che rende omaggio al passato e ricerca le radici, scegliendo di stendere la sua pizza rigorosamente con il mattarello, raccontando le eccellenze di quei luoghi e facendo rivivere con guizzo creativo e personale alcuni capisaldi culinari della romanità. Intorno alla pizza e ai lievitati, Francesca, che è amante del pane e del lievito madre, ha plasmato la sua nuova vita. “Tema”, dunque, che pare essere molto apprezzato dal pubblico, è un investimento consapevole e coraggioso.

Sempre nel Lazio non possiamo non parlare di Amalia Costantini , regina incontrastata del lievito madre con “Mater” , la sua pizzeria a Fiano Romano.

“Mater” è la concretizzazione reale di un sogno, sorto per caso, dopo un corso di cucina - come lei stessa racconta - dove rimane affascinata dal “miracolo della lievitazione” e dal lievito madre.

Dal pane ai dolci, alla pizza, il passo è breve e così dopo prove di diverso genere, ricerche e altri corsi arriva il momento del grande salto. Amalia rappresenta quella categoria di donne per cui niente è impossibile: basta volerlo e impegnarsi, pur non essendo una prima donna (seppur presente nelle classifiche e nelle varie guide con grandi risultati).

Potremmo dire il contrario: quando la incontri, ti colpisce il suo sorriso timido, lo sguardo dolce e fiero e la passione che emana per ciò che fa, per ogni suo impasto, per ogni topping pensato.

Per le foto di Amalia Costantini, si ringrazia Giulio di Gregorio

Da anni si prende cura del suo lievito, così come delle persone che si siedono alla sua tavola: questa è la sua missione e il suo lavoro diventa in modo evidente un’estensione della sua casa, della sua famiglia dove si viene accolti.

Quello che ha portato Amalia Costantini sul suo territorio è sicuramente

una pizza unica, diversa da tutte le altre, leggera e croccante insieme, non solo buona ma anche sana, in cui si rispecchia la sua personalità e un rapporto profondo e rispettoso verso la natura.

Un altro bell’esempio di rivoluzione pacifica che la pizza sa fare è con Francesca Gerbasio , che opera in una

zona sconosciuta ai più.

Siamo nel Vallo di Diano, che riunisce 15 comuni nella provincia di Salerno, dove Padula con la sua Certosa e Sala Consilina sono i centri più noti. Un territorio questo ricco di biodiversità, come tutto il Cilento: Presìdi Slow Food ed eccellenze agroalimentari, su cui lei ha puntato tutto.

Sinergia è una delle parole che definiscono meglio il suo lavoro, insieme a territorio e memoria. Ogni sua pizza è la manifestazione concreta delle cose in cui

storie di pizza

crede, la semplicità dei sapori che puntano a valorizzare le cose buone che “madre natura” ci dà, la presenza di prodotti solo a filiera corta e cortissima attraverso cui è stata in grado di fare rete e costruire collaborazioni di ogni tipo con produttori, grandi e piccoli, di zona.

Olio, peperoni cruschi, salumi, formaggi, il tonno, le verdure, così come i vini, le birre e gli amari, sono tutti esclusivamente campani e tutti cercati e selezionati con cura maniacale.

La sua personale missione è far vivere e crescere questi luoghi, dare stimolo a chi

produce, promuoverli, innescare circuiti virtuosi che alimentano la voglia di fare e le economie necessarie per restare e non andare via. Fino a poco tempo è stata la pizzaiola resident de “La Pietra Azzurra” ma, da appena un mese, si è tuffata a capofitto in un suo personale progetto, ancora più grande: un agriturismo non lontano dalla meravigliosa Certosa in cui la sua rete di coltivatori, allevatori e produttori vari avrà sede ed espressione ancora più grande. C’è la campagna, c’è il ristorante, un’area eventi… e poi arriveranno anche la pizzeria e i progetti di fattoria didattica, perché i bambini e i ragazzi vanno formati ai sapori buoni e genuini. Francesca ha sempre creduto in questo ed ecco perché ci mette tutto l’impegno possibile.

Per le foto di Francesca Gerbasio, si ringrazia Marianna Savarise.

Scendendo ancora più a Sud, a Fuscaldo, piccolo centro dalle antiche origini della provincia di Cosenza, c’è Sabrina Bianco che porta con sé un grande amore incondizionato per la pizza e la Calabria. Orgogliosa della sua terra, in ogni sua creazione c’è sempre e solo lei e, così, nella sua pizzeria “Guliò” si lavora esclusivamente con prodotti coltivati nel loro orto, con vino e olio della regione.

storie di pizza

Ogni sua creazione parla calabrese, un’espressione gastronomica e creativa necessaria, riconoscimento alla bellezza e alla bontà ma anche tanta voglia di fare e promuovere un territorio che deve farsi raccontare e conoscere, esaltandone sapori autentici e tradizioni locali. Pizzaiola emergente nel 2021 per il “Gambero Rosso”, oltre alla promozione territoriale, nel suo progetto pizza c’è anche un grande contributo nel sociale: è lei ideatrice del progetto di formazione “Forni solidali”, dedicato a ragazzi affetti da disabilità che è partito da Roma, dove si è formata con Gabriele Bonci e ha lavorato qualche tempo. Anche in Calabria, Sabrina continua le attività di “Forni Solidali”, sempre più convinta che la pizza sia un potente strumento per il cambiamento sociale e l’inclusione. E prova a dimostrarlo ogni giorno.

MARIA, IL CUORE DI NAPOLI

LA FIGLIA DEL PRESIDENTE
di Noemi Caracciolo

Conoscere persone vere come Maria Cacialli è oggi davvero raro. La chiacchierata è stata un mix di emozioni, risate e riflessioni. Tutti etichettano Maria come una persona esuberante e simpatica, descrizione accurata certo ma, in realtà, c’è tanto di più.

È una Donna con la D maiuscola, tosta, capace di essere tutto: economa, cuoca, mamma e anima pulsante della tradizione di famiglia. Con passione e generosità, porta avanti l’eredità di suo padre, senza mai snaturare l’essenza della vera pizza napoletana. Una menzione particolare è da dedicare alla pizza fritta, la sua firma, amata dai napoletani e non solo. La forza di Maria è sicuramente “ll’ammore” con cui gestisce il locale ma non si ferma lì; la si vede nell’attenzione ai clienti, ai dipendenti e alla qualità, nella cucina che profuma di casa, ispirata ai gesti di sua madre. E oggi, quell’amore si tramanda ancora: i suoi figli sono già lì, dietro al bancone, ispirati da lei e dal nonno. Uno di loro ha persino la sua stessa mano. Perché certe tradizioni non si insegnano, si respirano.

Chi è Maria, questa donna così esuberante e forte?

Quella è la pazzia. È la follia che vive in me, come un po’ in tutte le donne. Maria è “la figlia del Presidente”. La figlia di uno dei maestri della pizza napoletana nel mondo. Penso che questo lo sappiano tutti. Ho aperto questo locale, insieme a mio marito, quando mio padre se n’è andato; quindi, ho deciso di dedicarlo a lui, alla sua memoria.

Cosa si prova a sapere di portare avanti una tradizione così importante? È un’eredità bella grossa.

Sai come si dice: da ogni grande potere deriva una grande responsabilità. Quindi cerco di portare avanti almeno quello che mio padre mi ha insegnato. Innanzitutto, fare un buon prodotto, una buona pizza, senza mai sfigurare e snaturare la vera pizza napoletana. Ci sono adesso le pizze contemporanee, cosa per la quale mio padre “s’è avutato sotto e ‘ngoppa” (si è rivoltato, ndr) nella tomba, una cosa per noi inconcepibile. La nostra è una pizza al piatto, bella, grande, “a rota ‘e carro, che ‘a ggente se n’annammora” (a ruota di carro, che la gente se ne innamora, ndr) ed è anche molto leggera.

Tu dici che sulla pizza ci metti “l’ammore”

ma non solo questo.

Ci metto l’amore, la passione, ci metto tutta me stessa. Non è facile per una donna intraprendere questo cammino se non hai radici forti. Perché “mo’ pure ‘o scarparo s’è miso ‘a fa’ ‘e pizze” (ora anche il calzolaio si è messo a fare le pizze, ndr), tutti pensano che ci sia un buon business nella pizza ma ci sono persone che non sanno nemmeno come iniziare e si affidano al personale. Avere una pizzeria importante come la mia, lo dico con orgoglio, è come avere una Ferrari. Se non hai un buon pilota, cosa fai? Devi essere tante cose: pizzaiolo, cuoco, quello che guarda il frigorifero, l’economo. Devi essere tante figure. Per questo, dico a chi inizia nel settore food: non è facile. Io sto dalla mattina alla sera. Per me, lavorare in cucina è come una seconda famiglia, anche se non siamo la famiglia del Mulino Bianco. La cosa più importante è lavorare con serenità, perché se lavori sereno, fai un buon prodotto; se mi metto con il fiato sul tuo collo o con la

bacchetta in mano, non si va bene più. Mio padre mi diceva sempre: una volta “ciacchi” (richiami, ndr) e una volta “medichi” (accarezzi, ndr). Io la maggior parte delle volte medico, cerco sempre di tenere un rapporto di amicizia con il personale. Bisogna anche stabilire un rapporto di fiducia con le persone. Potrei stare a casa sul divano ma sto sempre qua, perché sono la porta bandiera. Anche se ho dei figli grandi che ormai fanno loro il mestiere.

Sono la terza generazione, giusto?

Sì, e stiamo cercando di insegnare anche ai bambini di mio figlio la pizza napoletana. Io e mio marito non ci siamo ritirati, siamo sempre qui, li guardiamo da lontano. Quando scendo, la prima cosa che guardo sono le pizze. Voglio che siano sempre perfette. Ogni pizza è come un figlio per me.

Secondo te qual è la pizza perfetta?

È la pizza della tradizione. Come dice il grande maestro Antonio Pace, la pizza non tiene né padre né padrone, non appartiene a nessuno, ma appartiene al popolo napoletano.

E cosa dici a chi la stravolge?

Quelli che la stravolgono non stanno facendo una pizza napoletana. Devono dirlo chiaramente che fanno una pizza contemporanea, non napoletana tradizionale. È una cosa che io non condivido ma, se pia-

ce a loro e ai loro clienti, mangiatela pure. Nella mia pizzeria, però, troverai sempre pizze tradizionali: Margherita, Marinara. Abbiamo fatto qualche innovazione per accontentare i clienti, come la pizza con mortadella e pistacchio o la wurstel e patatine per i bambini. Vengono “carovane” di famiglie con bambini, che fai non li accontenti? Anche mio padre faceva lo stesso, anche se lo considerava una cosa da non fare ma diceva che i bambini si accontentano sempre, prima degli adulti.

Ti ha insegnato il tuo papà a fare la pizza?

Sì, ma è un mestiere per cui se vuoi imparare, ti devi mettere vicino “o masto”, diceva mio padre e rubare il mestiere, giorno dopo giorno. Finché non prende fiducia in te e ti mette ad affiancarlo, come è successo a mio padre che ha insegnato a tanti ragazzi, tra cui mio marito, che è diventato il suo braccio destro. Se viene qualcuno da me adesso e mi dice: “Marì voglio imparare a fare la pizza”, certamente non lo metto subito a farla.

Ti ricordi la prima pizza che hai fatto?

La prima pizza che ho fatto è stata una “pazzia”. A tre anni scappai di casa con pigiama e “babbucce” e raggiunsi mio padre in pizzeria. Prima, mi feci un giro per casa con carta e penna in mano chiedendo a mamma, nonna e zie: “come la volete la pizza?”. Non vedevo mai mio padre, perché adesso i pizzaioli hanno uno schema lavorativo ma prima il pizzaiolo “fa-

ticava comm’a nu ciuccio” (lavorava senza mai fermarsi, ndr), usciva la mattina e si ritirava la notte. Solo la domenica vedevo mio padre. Immagina a casa, tutte impaurite. Dissi a lui che ero andata lì per fare le pizze a tutti ma gli chiesi anche di farmi una pizza piccolina per me. Così, mi mise sul bancone e mi fece fare una piccola pizza con le mie mani. Io ero piccolina, esile, mi chiamavano “Olivia” (o Palumbella), lui aveva il macinato e me lo mise sulla pizza. Mia madre arrivò da lontano con i capelli dritti e lui le fece segno di fermarsi: “sta mangianno”. Mi accarezzò, mi baciò e me ne tornai a casa. Ero spinta dal forte amore e dal desiderio di stare con lui, proprio perché non lo vedevo mai.

Questo non ti ha fermata?

Assolutamente no. Io non so fare altro. Se mi chiudi in un laboratorio o in un ufficio “je moro” (muoio, ndr). È la mia vita questa.

Ma la pizza fritta è ciò che possiamo considerare il tuo cavallo di battaglia. C’è un elemento immancabile per la riuscita perfetta?

La mia pizza fritta è famosa per la sua sofficità, la croccantezza, l’impasto e i prodotti di alta qualità. Ma dietro c’è tanto sapere, non solo amore. Perché io posso essere la “Figlia del Presidente”, simpatica o no ma se faccio un prodotto che è una schifezza, chi ci verrebbe più? Sicuramente tutti ti hanno risposto che il segreto è “l’ammore e ‘a passione” ma, in realtà, è il

sapere, è l’arte, la manipolazione. Prima di fare l’amore “he ‘a sape’ pure comme se fa”, ci sono anche i preliminari che sono importanti: scegliere i prodotti di prima qualità, preparare l’impasto, guardare la padella, perché anche quella è una patente per una Ferrari. Perché se mi fai una bella pizza fritta e poi la butti in un olio nero, che sembra quello delle auto, che ne esce? “Nu coccodrillo bruciato”.

Cosa è cambiato nei metodi di cottura?

Noi abbiamo sempre fritto nel padellone grande, che usiamo da 50 anni. Non usiamo i macchinari elettrici, che non permettono di controllare la temperatura come il padellone tradizionale.

Tu metti l’amore non solo nelle pizze

ma anche nella cucina. Ultimamente hai creato anche dei barattolini di sughi: come ti è venuta l’idea?

Cucino tanto, sì. Io ho dedicato la pizza a mio padre e ho preparato una linea di sughi pronti che ho dedicato a mamma, che cucinava sempre in casa. Ho fatto genovese, salsicce e friarielli, pasta e fagioli con le cozze. Tutti piatti che mi ricordano la mia infanzia. Quando se n’è andata lo scorso anno, nel suo freezer ho trovato tanti barattolini. Già sapevo cosa fossero. Visto che quando cucinava lo faceva come se stesse preparando per un esercito, lei preparava questi barattolini e conservava i sughi. Io le chiedevo sempre: “mamma, scusa che devi fare con tutti sti buccaccielli?” e lei mi rispondeva: “tu, figlia mia, esci la mattina e ti ritiri la sera, io che faccio una genovese? Che mi metto a fare una cipolla solo per me? Ne faccio un chilo e mi faccio le conserve”. Questa cosa mi è rimasta impressa. Era un anno che ci pensavo. Questa è una linea studiata per la casa, poi penseremo a quella per la ristorazione.

C’è un piatto in particolare a cui sei legata?

Il piatto che mi ricorda la mia infanzia e che ancora persiste tutte le domeniche è il

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Per una sfoglia ruvida, senza grumi e incredibilmente elastica, buona come da tradizione romagnola.

È proprio alla cultura pastaia della Romagna che si ispirano le nostre farine ideali per pasta fresca, ottenute da un’attenta selezione dei grani, rigorosamente nazionali.

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ragù, “ll’addore” del ragù. Ma anche la parmigiana di melanzane o “ 'e purpettelle” (polpettine, ndr). Quando c’era il tavolone imbandito dei grandi e quello dei piccoli - ne eravamo assai - la nonna faceva “sti tiane ‘e purpette” (padellate di polpette, ndr) già dal sabato, quindi in memoria di questo ricordo e dei miei nonni, ho creato la pizza “Casa mia” con base di pomodoro, parmigiana di melanzane, polpettine e stracciatella di bufala.

E come pizza fritta invece? Qual è la tua preferita?

La classica con cicoli, ricotta, provola e pepe.

Se un cliente ti chiedesse un consiglio su una pizza, cosa risponderesti?

La pizza del pizzaiolo: una Margherita con provola e pepe, con pecorino all’uscita del forno.

E quella che preparava il tuo papà al rientro dal lavoro?

La pizza tradizionale: pomodorini, cicoli, provola e pepe. Ti posso garantire: è ‘na bomba!

storie di pizza

C’è un insegnamento di tuo padre che ti è rimasto particolarmente impresso?

‘O rispetto. Il rispetto per gli altri. Questo è un valore che s’è perso un poco negli ultimi tempi. E anche l’ascoltare le persone. Sai, quando incontri qualcuno e ti dice: “nun me ricere niente, vaco ‘e pressa” (non dirmi nulla, devo scappare, ndr), è brutto. Io mi trovo al centro storico di Napoli, una delle zone più belle, senza offesa agli altri quartieri, ma questo è il cuore della città. Non è stato facile, non lo è ma, se tieni il rispetto, allora gli altri rispettano te. Qualsiasi cosa tu abbia fatto nella tua vita, se con me ti sei comportato bene allora sei una bella persona. Mio padre mi ha insegnato a comportarmi bene con tutti, senza giudicare ma sempre con rispetto.

E, in qualità di donna, in un mondo che è stato quasi sempre dominato dagli uomini, come ti sei trovata?

Un altro insegnamento di papà è: “tu votta e passa” (tu spingi e passa, ndr), non chiedere mai permesso a nessuno. Quando ci sta una corsa e tu sai che devi vincere, non chiedi permesso e, allora, non dire mai: “posso passare?”. Vai avanti a tutto, raggiungi il tuo obiettivo.

Ne farò tesoro anche io. Immagino che sia stato lo stesso anche per i tuoi figli.

Sei contenta abbiano intrapreso la tua strada?

Guarda, in realtà non è che hanno preso questa strada, ci sono entrati sin da piccoli. Uno lo portavo in braccio e l’altro lo tenevo per mano. Anche loro come me non sanno fare altro. Non hanno voluto studiare ma non perché non siano intelligenti, parlano inglese, sono ragazzi perbene ed educati, però a scuola non sono voluti andare. Io ti dirò, mi dispiace che non abbiano un titolo di studio ma, per come va oggi la vita lavorativa, va bene così, sono contenta così. Dopotutto, pigliano una paga da scienziato e non solo i miei figli ma tutti i maestri pizzaioli. E ora, guardando indietro, vedo che oggi, finalmente, la figura del pizzaiolo è stata rivalutata. Oggi è paragonata a quella di uno chef. Prima i pizzaioli erano nu poco “scamazzatielli” (sottopagati e mal considerati, ndr). Ma la realtà è che hanno sempre fatto lo stesso lavoro, fatto di sacrificio e passione, forse anche più di oggi. Ora ci sono tutti questi macchinari, come le impastatrici ma una volta si faceva tutto a mano.

Oggi ti capita ancora di fare una pizza, non per te, ma per un cliente?

No. Ho passato tutto ai miei figli. A volte mi metto vicino e li guardo, anche se non ne hanno proprio bisogno. C’è mio figlio più grande che ha la stessa tempra, cervello, mani e “ammaccatura” (stesura, ndr) di mio padre. Quando si stende la pizza sul marmo, tu senti il rumore e io ho l’orecchio speciale per queste cose. Mi dirai: “Maria sei pazza” ma guarda, quando mio padre finiva di ammaccare e saliva in cucina, lo dicevo ai ragazzi e loro non ci credevano. Ma avevo ragione. Lo sentivo a orecchio “’o pacchero” (il suo modo di stendere a schiaffo, tipico della pizza napoletana, ndr). E quello di mio figlio grande è uguale.

L’8 marzo 2024 inaugurava

a Milano, nel quartiere di Brera, la seconda sede di “Eggs”, il progetto gastronomico dalla chef Barbara Agosti.

storie di pasta

Ebbene sì, la carbonara ha conquistato il capoluogo lombardo, facendone anche riscoprire origini e curiosità. Perché bisogna dire che il format ideato dalla chef e dai suoi soci, che vede la versione pilota a Roma nel quartiere Trastevere dal 2017, celebra - come recita il nome stesso - l’uovo come protagonista assoluto della tavola. Un’idea estrema, per certi versi, che ha saputo declinarsi lungo un intero menù: dalla tartare al tiramisù, passando per il Gioco dell’Ova (degustazione coreografica di sei gusci d’uovo serviti in una tipica confezione di cartone e riempiti di assaggi dagli accostamenti originali) e lo Strapazzo, una carbonara da passeggio, dando a questo alimento la dignità che merita. La trovata di puntare tutto su un unico alimento, neanche poi semplicissimo da

gestire, è stata lungimirante, in quanto soprattutto su Roma ha dato occasione di soffermarsi sulla carbonara, un piatto-icona che piace sempre e che non è solo il piatto tipico della romanità ma, come la stessa Agosti ci svela, “un vero gesto d’amore”. Attraverso questa ricetta si ripercorre la storia di una città e dei suoi abitanti, gli adattamenti, le mode e le varianti negli anni, partendo da quel lontano 1954 (l’anno della prima ricetta ufficiale della carbonara comparsa su “La cucina italiana”) e arrivando fino ad oggi tra carbocreme e zabaioni salati. Ma cosa ha di speciale “Eggs”? Per prima cosa, è stato il primo locale a creare la “Carta delle carbonare” e un menù in cui in qualsiasi piatto c’è una forma d’uovo, che sia di gallina, pesce o altro volatile pennuto.

Chef Agosti, come nasce l’idea di “Eggs”?

E che rapporto hai con le uova?

L’ idea di “Eggs” nasce dalla volontà di rendere omaggio ad un alimento che solitamente sta dietro le quinte e dargli un ruolo da protagonista. Per me, l’uovo è come il dna della cucina e, su questo concetto, è nato un menu a “tutto uovo”. Ho un bel rapporto, anche se spesso ci litigo: non si può mai dare nulla di scontato con le uova, cambiano spesso consistenza, calibro, densità; sono un alimento vivo, per cui non facile da lavorare.

Qual è l’uovo più particolare con cui hai cucinato?

L’uovo di lumaca: piccole, rare e preziose palline bianche dal forte sentore terroso, con cui ho elaborato una vellutata di patate, spuma di prezzemolo e uova di lumaca. Un piatto sicuramente molto particolare ma buono.

Tu sei di origini piemontesi: come arrivi a Roma e che rapporto hai instaurato con la città e la sua cucina?

Sono arrivata per una vacanza. Una serie di incontri mi ha fatto prendere una consulenza per un locale del centro e, di lì a poco, mi ci sono trasferita. Con Roma ho instaurato un rapporto di amore profondo e, tra l’altro, ho la fortuna di vivere a Trastevere e godermi la bellezza autentica di un quartiere storico che ricorda per molti aspetti un paesino, all’interno di una metropoli e con intorno gli scorci più belli del mondo. La cucina romana, come tutta la cucina italiana, va percepita, ascoltata, assaggiata, sentita raccontare e poi manipolata con cura e amore.

Se dici “Eggs”, pensi subito alla Carbonara ma sappiamo che questa è solo uno dei tanti piatti in carta. Chi viene da te, a Roma o a Milano, cosa deve assolutamente provare?

Sì, la carbonara ci rappresenta, ma “Eggs” è molto di più. Ci sono piatti che sono nelle mie corde: vitello tonnato con giardiniera, le polpette di bollito, i ravioli con mortadella a Roma e quelli con ossobuco a Milano, l’orecchia d’elefante, la guancia con purè al burro, nocciola e tagliatelle di frittata; insomma, è un menù piuttosto vasto e vario, anche leggermente contaminato dalle mie origini piemontesi, come si può intuire.

Tornando alla carbonara, va detto che l’unicum di “Eggs” è proprio la “Carta delle Carbonare”, una collezione di varianti di questo piatto. Ci racconti qualcosa e quali sono le più particolari?

È vero, da “Eggs” abbiamo una carta delle carbonare. I puristi storceranno il naso ma sanno che la classica è fatta come il momento storico richiede; poi, ci divertiamo a chiamare le altre varianti per colore: la verde con carciofi, quella rosso fuoco con ‘nduja e stracciatella, la nera con tartufo nero… Poi, chi non mangia la carne di maiale può assaggiare la porpora con uovo d’anatra e petto d’anatra o la puntarella rossa con gambero zest e pistacchio. E, poi, c’è la “1954”, che prende il nome dall’anno di pubblicazione della prima ricetta di carbonara in Italia comparsa sulla rivista “La Cucina Italiana” e che prevedeva pancetta rosolata con aglio, groviera, uova, pepe.

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Com’è stato accolto “Eggs” a Milano e soprattutto quanto piace la carbonara ai milanesi?

Ci hanno accolto bene, sono sorpresi dalla scelta del menù e, oltre alla carbonara, apprezzano molto la nostra meticolosa ricerca di materie prime di altissima qualità, abbinate ad una carta vini molto interessante e mai banale curata da uno dei miei soci, Alessandro Trocino.

Come chef, sei molto attenta alla selezione dei prodotti e alla sostenibilità.

Da dove arrivano le tue materie prime e quali tecniche sono importanti in cucina per ottimizzare risorse e non sprecare?

Due elementi per me importantissimi su cui ho costruito la mia filosofia di cucina. Due concetti anche correlati: sostenibilità è essere stagionali, limitare gli sprechi, trovare piccoli produttori con ortaggi e uova biologici e di grande qualità. Cerco la stagionalità anche nelle uova, dove possibile. Ad esempio, non sempre si trovano le uova di anatra ed oca, che hanno i loro periodi. Cerchiamo di lavorare gli ingredienti in ogni sua parte, fino a ricavare estratti e fondi con scarti di verdure, carni e pesci. Cerchiamo circolarità nella costruzione dei menù, utilizziamo tecniche di conservazione con stoccaggio e produzione che garantiscano ai clienti il massimo della freschezza dei nostri piatti.

Che rapporto hai con la pasta? Qual è il formato o la tipologia che più si adatta

alla tua cucina?

La amo, mi piace cucinarla e mangiarla. Un bel piatto di pasta unisce, crea condivisione, insomma è famiglia. Per le mie carbonare, utilizzo di solito le mezze maniche, mentre per la cacio e pepe mi piace lo spaghettone. Poi, utilizziamo anche il tonnarello fatto con acqua e farina per altri piatti.

Visto che la nostra intervista si trova in un numero interamente dedicato alla

pizza e alla cucina al femminile, questa

domanda è d’obbligo: com’è Barbara Agosti in cucina con i suoi collaboratori?

Pensi che in questo settore si facciano differenze di genere e manchi ancora di inclusività? La tua ricetta a tal proposito?

Sono molto istintiva in cucina ma cerco il più possibile di codificare per semplificare la vita di chi lavora con me e in modo da poter replicare sempre, mantenendo standard di qualità alti. Lascio spazio ma controllo molto, voglio avere tutto sotto controllo e sono maniacale quanto basta. Cerco il confronto aperto, tollero gli errori ma meno chi non li vede e non li corregge per mancanza di attenzione. Sulle differenze di genere, penso ci siano in cucina così come in ogni settore. Per migliorare la situazione, l’unica ricetta valida è a base di dedizione, impegno, costanza, volontà di riuscire a fare ciò che piace e farlo al meglio. Se riusciamo nell’intento e a concretizzare il nostro sogno, direi che abbiamo vinto.

il buon pomodoro italiano

“Gli tisti della pizza”.

Ogni mese, ci deliziamo con dodici straordinarie creazioni dei nostri 'Artisti della Pizza'. Per il mese di Marzo, abbiamo la magnifica pizza “Fritta contemporanea R.D.S.” ideata dal talentuoso pizzaiolo Raffaele Di Stasio. Questa prelibatezza nasce dall’eccellenza del nostro esclusivo Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino DOP, un ingrediente nobile e certificato, selezionato con cura per esaltare l’anima di una pizza fritta gourmet senza eguali. Frutto di una tradizione secolare e di un’innovazione audace, questa creazione è un perfetto equilibrio tra croccantezza dorata e un cuore morbido e avvolgente, dove il sapore naturale del pomodoro incontra la ricchezza degli altri ingredienti formando un’armonia perfetta. Ogni morso è un’esperienza sensoriale straordinaria, che eleva la pizza fritta a un livello superiore. Una fritta contemporanea R.D.S.: il gusto inconfondibile di una pizza da campione del mondo!

LA MARCHESELLA

GENA IODICE

storie di pasta

UNA CUOCA NELLA TERRA

DEL BASILE

C'era una volta, in quel di Giugliano in Campania, una ragazza di nome Luisa, che tutti chiamavano Luisella, classe 1900. Era bella. Di una bellezza genuina, abbondante come la sua generosità. Veniva da una famiglia agiata, dove non mancava nulla: terreni, istruzione, benestare. Un giorno conobbe Andrea, classe 1898, che invece, era un contadino, un uomo d'ingegno, con poco in tasca ma con una volontà di ferro. I due si innamorarono e lui, convinto che ella dovesse diventare sua moglie, andò dal padre di Luisella e, con tanto coraggio, gli disse: “ Si nun m’a date, je m’a fuje... ”. La cosiddetta “ fuitina ” sarebbe stata una vergogna per

la famiglia ma il padre di Luisella, con il cuore diviso tra orgoglio e amore, disse: “Con tutto il mio amore, mi farebbe troppo male. Dio vi benedica”. Erano due mondi diversi. Lui una persona perbene, ma senza istruzione; lei, abituata all'agiatezza. Andrea possedeva una cantina, che durante la guerra divenne un rifugio per tante persone impaurite. Lì, dove si rifugiavano e sostenevano, crearono 'na cucinella , dove Luisella preparava fasul cavere, 'nu poco 'e brodo, ‘o decotto e mele per tutti. Ad un certo punto, ad Andrea sovvenne un’idea, la guardò e le disse: “ma visto che tu cucini accussì buon, pecché nun o facimm diventà 'nu lavoro? ”

(Visto che tu cucini così bene, perché non ci trasformiamo in osti?, ndr).

Si erano già sposati, la casa c'era già e le possibilità pure: bastava aprire le finestre e lasciar entrare il profumo del cibo. E così nacque “Fenesta verde” , trattoria e osteria dal 1948. Sembra una favola de “Lo cunto de li cunti” di Giovambattista Basile, che proprio in questa città alle porte di Napoli fu scritto ma è, invece, pura realtà. Il loro cibo iniziò a farsi un nome. Il mercato ortofrutticolo di Giugliano – un tempo conosciutissimo – era un via vai continuo di commercianti, calabresi, siciliani e non solo, uomini affamati che cercavano un posto dove fermarsi.

Le due finestre verdi della trattoria diventarono un punto di riferimento. Poiché non avevano un’insegna, erano i mercanti a mandare lì i passanti: “Jate a da chesta signora”, dicevano, “’e spalle d’Annunziata (il Santuario dove è venerata la Madonna della Pace, ndr), due finestre verdi, nun ve putite sbaglià Lei è 'na bella signora, Luigella, cicciottella, e ‘o marito, don Andrea, tene 'o mellone! (è calvo, ndr)”. Erano conosciuti per la loro ospitalità e per la bontà dei loro piatti, che all’epoca erano poveri, anche solo una semplice “marenna”. All'inizio c'erano solo due stanze, poi ne arrivò un'altra. La terza, che un tempo era un giardino di pertinenza della chiesa, venne affittata e poi acquistata. Lì regnava un lungo tavolo di ferro, coperto da una tovaglia per nasconderne il brutto aspetto. Tutti mangiavano insieme, come in famiglia. C’erano convivialità, condivisione, sorrisi. Luisella era generosa. La chiamavano “a padrona”, perché a casa sua non si pativa la fame. Quando qualcuno aveva bisogno, lei allungava il pane con l'olio e diceva: “Miette 'nu poco 'e cchiù, è olio buono, fa sangue!”. Andrea, invece, aveva la testa da imprenditore.

Portava sempre “o laps”, la matita incastrata dietro l'orecchio, come i vecchi mercanti.

Non serviva chiunque, si sceglieva i clienti. Gena Iodice, la nipote degli osti racconta che il nonno spesso diceva: “nun me piacciono sti cristiani” ovvero non amava certi clienti così, se qualcuno non gli stava simpatico, cancellava il prezzo e lo alzava di 200 lire. Così sapeva che non sarebbero tornati più. La trattoria inizialmente non aveva un'insegna ma aveva un cuore grande. Un luogo dove il cibo non era solo cibo ma storia, famiglia, casa. Ancora oggi quella tradizione continua, con Gena, la sopracitata nipote di Nonna Luisella e Nonno Andrea.

Gena, adesso sei tu a portare avanti la tradizione dei tuoi nonni ma come hai iniziato?

Io non ricordo sinceramente quanti e quali sono stati i passi. Io sono cresciuta là, io vivevo e studiavo in cucina. Vicino mi ci sono messa un po’ più grandicella, ma già a 8/9 anni facevo le cose che potevano fare i bambini. Mamma la domenica chiudeva perché voleva andare a Messa, ci lasciava a casa a incavare gli gnocchi, poi faceva le fettuccine a mano e dopo ci diceva mettetele a essiccare… sulle sedie: “mi raccomando non azzeccate uno vicino a un altro altrimenti poi si spezzano”. Per la promozione in quarto ginnasio, papà mi comprò un motorino, che non sapevo portare, per andare a fare la spesa.

Come mestiere e lavoro, ho iniziato prima che mi sposassi a 24 anni, aiutando mamma ma ero in sala prima dei 14 anni. Ho avuto una formazione a tutto tondo. La cucina, però, era il luogo in cui trascorrevo l’estate, quando non andavo a scuola: ci tenevano a non distrarmi. Mamma è sempre stata contro questo lavoro, eh. Avendo lei avuto il sacrificio di portare avanti questa cosa con sua madre, diceva: “non fatelo… andate a scuola”. Papà era un operaio, lavorava di notte per dare una mano di giorno, sacrifici “a murì” (a bizzeffe, ndr). Ma tutti siamo entrati prepotentemente nell’attività, grazie alla passione e all’amore per questo lavoro.

Essere una donna nel mondo della ristorazione può essere una sfida. Pensi che le cose stiano cambiando per le donne in cucina?

Io ho 57 anni. Gli anni brutti per le donne, che non erano proprio accettate, ci sono stati. Una volta all’anno andavo a Mantova per portare la cucina napoletana; una volta, con un caro amico di Slow Food scomparso da poco, Gilberto Venturini, “mi permisi” di scontrarmi con questi signori, che erano più di 100. Arrivò un applauso ma non sapevano che ci fosse una donna dietro a tutto quello che avevano mangiato. Quando mi presentarono dicendo “arriva lo chef”, l’applauso era fortissimo, poi però rallentò quando videro una donna. Ero più bianca della divisa. Il mio pensiero è che in passato nelle cucine non si voleva la donna perché non era vista bene ma anche per il fatto che comportava tanti sacrifici: noi lavoriamo quando gli altri si divertono. E noi donne dobbiamo fare le mamme, le imprenditrici, le cuoche, le nonne e all’epoca risultava pesante. Ma, come dice la mamma di un’amica: “sogliono i saggi adattarsi ai tempi”. Io non mi abbatto. A Mantova, dunque, dissi: “le donne hanno sempre avuto un grande ruolo nelle cucine; le nonne, le mamme, le perpetue… un ruolo che è sempre appartenuto alle donne, la storia ce lo insegna, si ricordano queste figure nelle nostre memorie. Ci avete mandato in prima linea a fare la guerra sulla luna e nella cucina non ci volete?”. Partì un applauso che non ti dico. Avanti a 120 persone.

Sei una cuoca dell’Alleanza Slow Food, Chiocciola della guida “Osterie d’Italia”.

Cosa significa per te Slow Food?

È stato il movimento che mi ha cambiato la vita. L’ho conosciuto grazie a un incontro casuale, di un grande della pasta: Antonio Marchetti, che all’epoca presidente della cooperativa dei pastai gragnanesi. Io già sapevo qualcosa sul movimento ma non era come oggi che per sapere basta un click. Per prima cosa, andai a Terra Madre a Torino perché dovevo capire, sono passati oltre 20 anni. Andammo con il pullman. È diventato il mio credo. Lì, Carlo Petrini già all’epoca parlava della figura dell’oste, dell’incarnare il suo credo nelle piccole realtà locali ed è una cosa nella quale mi sono molto rivista. Ho avuto la chiocciola dalle sue mani (qui l’emozione si fa davvero viva, ndr). A quei tempi, eravamo in pochi a credere in questa cosa, pian piano inizi a capire, dentro di me sapevo che tutto quello che lui diceva era quello che io volevo: esprimere che Giugliano era famosa per il capocollo, la mela annurca, la pesca, il profumo… lui ci ha dato la forza. È stato una guida. Al primo “Terra Madre” io c’ero e non esistevano i telefonini; allo sventolio dei cappellini dei cuochi di tutto il mondo, fu una cosa meravigliosa. È una cosa impressa nella mia mente, tante persone di lingua diversa accomunate dal cibo. Bellissimo.

Ti ha cambiata, certo, il cibo è un linguaggio universale. Com’è il rapporto con i produttori locali e come scegli gli ingredienti?

Sono scelti in base alle ricette che sono molto tradizionali, che ben venga l’innovazione, ma tradizione sempre. Non sempre riusciamo a seguire la stagionalità. La minestra maritata, lo stoccafisso e il baccalà, la scarola alla carrettiera, il migliaccio di carnevale, tutta la tradizione di mia nonna, mamma, nun se movono (sono fisse, ndr). Mio figlio mi dice sempre: “Quando muori tu la minestra non la fa più nessuno”. Sono un po’ fissata, la devo fare solo io, perché se non la lavi, sciacqui bene, sa di terra, ho le mie fisse. Ho un rapporto di fiducia con il produttore locale: quando muoiono questi, sono problemi seri. Per esempio, ho il signore che mi porta solo i friarielli perché voglio le cime. Quando, prima del 2000, usavo il fagiolo a formella a 10.000 lire al kg, mio padre mi diceva che io fossi pazza perché nessuno lo avrebbe capito e io gli rispondevo che con una bella scarola e fagioli glielo avrei fatto capire. Lui insisteva e, così, gli feci cambiare idea con una grande pasta e fagioli. Oggi sta a 12€ al kg ma lo compro ancora. Noi sceglievamo realmente chi ci doveva dare il carciofo, la minestra: era un rapporto fondato sulla fiducia di quella persona, perché a me doveva dare il meglio, io dovevo fare la qualità come mia nonna.

I tuoi figli proseguiranno nella tua strada?

Non lo so, una domanda da un milione di dollari. Forse il secondo. Il mio primo figlio è un chirurgo. Hanno sempre lavorato con me e, al contempo, studiato, come ho fatto io. Mi hanno sempre dato una mano e continuano a farlo. Poi, c’è anche mio marito Tommaso, che è un agronomo e mi ha sempre aiutata tantissimo, cosa che ho sempre sfruttato per l’approvvigionamento dei prodotti. Quando nessuno parlava di DOC, DOP, ecc., io già sapevo cosa fossero. L’amore e la passione sono andati avanti in me e le mie sorelle e – all’inizio – anche in mio fratello, che poi ha cambiato strada. Però noi femmine siamo rimaste in cucina. Se finiscono le femmine, finisce “’a Fenesta verde”, dice una mia amica.

marzo

Oltre ai piatti, l’ospitalità è un elemento fondamentale nella ristorazione. Come riesci a creare quell’atmosfera familiare che fa sentire i clienti a casa?

Ne abbiamo fatto un punto di forza. Dove non arrivo io, arrivano i miei collaboratori, allegri, professionali.

I clienti si devono sentire accolti. Lascia che i clienti chiedano di Gena, però… se non c’è Gena io spero che dicano: ma non ci stanno manco Francesco o Antonio? (i suoi figli, ndr)

Se dovessi descrivere la tua cucina in poche parole, quali sceglieresti?

Istintiva, fatta di cuore, tanta passione, di qualità. Ci piace mangiare bene. Nelle nostre case abbiamo sempre mangiato bene, quindi se uno viene da me e mangia bene a casa sua, deve farlo anche qua. Deve trovare un quid che possa essere una nota caratterizzante di una diversità. È una cucina di grande tradizione. Poi, per ultimo, l’innovazione coniugata alla tradizione, però sai, come una cosa consequenziale, se prima il salmone lo marinavano con l’aceto, adesso lo marino a secco e se il risultato è buono, allora va bene.

Quindi, nuove tecniche ma senza stravolgere i gusti.

Assolutamente. Chi si siede da noi vuole comunque trovare equilibrio nel piatto. Poi, i PC si inceppano, figurati le menti umane: possiamo sbagliare anche noi ma cerchiamo di non farlo.

C’è un piatto che senti particolarmente

rappresentativo della tua storia e del tuo percorso?

L’ho anche espresso in un film fatto da Slow Food Napoli, “Cucinì”: i mezzanelli lardiati, il piatto del cuore.

In questo piatto, c’è il ricordo di questa bambina che non arrivava alla cucina e alla quale il papà - fuori dal comune - diede un grande coltello in mano per battere il lardo insieme alla cipolla.

Era una cosa per la quale si perdeva tempo, oggi si mette “nella macchinetta” ma all’epoca si faceva a mano. Non arrivavo nemmeno al banco ma lo dovevo fare così recuperavano tempo. In inverno il lardo si solidifica, papà diceva: “mettilo vicino al fuoco e torna lardo”. È un ricordo che mi è rimasto impresso. Il mezzanello lardiato lo facciamo con un buon ragù di carne, formaggio, basilico; è lungo ma non difficile.

Proponimi un menu che mi faresti assaggiare.

Antipasto di terra: parmigiana di melanzane, gateau di patate con salsiccia, friarielli e provola, un po’ di pancetta come la faceva mio padre (e anche io, con la cotica), una frittata di cipolle. La pancetta la mettiamo su uno gnocco fritto mantovano.

Primo: Mezzanelli lardiati perché se vieni per la prima volta, “t’aggia fa o battesimo” (devi essere iniziata, ndr).

Secondo: baccalà fritto con scarola alla carrettiera (cruda, condita al momento con sale, olio e limone, peperoncino), in inverno va sempre sulle nostre tavole.

Dolce: dipende dal periodo. Nel periodo di carnevale ti direi il migliaccio. O la millefoglie scomposta crema e amarena o un grande tortino con la melannurca.

UN PASTICCIERE IN CUCINA

di Noemi Caracciolo

HA DETTO:

“LA COSTIERA

AMALFITANA È UN

POSTO DI SOGNO

CHE NON SEMBRA

VERO”: MAI ALTRA AFFERMAZIONE È STATA PIÙ REALE

DI QUESTA.

La lunga serie di curve che ne precedono il raggiungimento e dietro alle quali si nasconde – ogni volta come se fosse la prima – una poetica visione, è probabilmente la strada più bella che si possa mai percorrere. Tra limoni e scalinate, laddove cielo e mare sembrano fondersi, c’è Minori, un piccolo borgo ricco di storia e soprannominato il narciso della Costiera per la particolarità di cui veste. Qui, tra storia e tradizione, spicca il nome di Sal De Riso, maestro pasticcere di cui ormai è impossibile non conoscere l’identità e i cui dolci sono rappresentanti del nostro Bel Paese in tutto il mondo.

Sal De Riso, tra profumo di limoni, dolcezze e tradizioni, lo scorso anno ha ben pensato di aprire un ristorante adiacente alla sua pasticceria a Minori, progetto che avrebbe preso vita anche prima, se non fosse stato per la pandemia del 2019, nasce così: “Sal De Riso Gourmet – ristorante, bistrot, pizza e musica”.

In effetti, su queste pagine, proprio nel 2023, abbiamo raccontato di quella che sarebbe stata una deliziosa apertura. Per un curioso e simpatico caso, il locale – che alla fine ha aperto – ha cambiato nome.

«Spesso mi prendo in giro da solo. Inizialmente chiamai il locale inserendo la parola Gourmet, consapevole del fatto che in italiano significa “buongustaio”. Mio malgrado ho poi scoperto che per molti, quasi per tutti in realtà, significa ‘fine dining, stellato, mangio poco e pago assai…’. Dunque, un po’ di tempo dopo, una signora proveniente dalla Florida che viene a trovarmi ogni anno, venne con il figlio e mi disse di non esser venuta prima perché all’albergo presso il quale alloggiava le avevano detto: ‘no, non andate da Sal De Riso, perché è gourmet!’. Ecco, in Florida significa “stellato”. Il giorno dopo feci come Checco Zalone nel film, quando con la scala toglie l’insegna “ristorante

italiano”: tolsi immediatamente Gourmet, lasciando solo ‘ristorante, musica e bistrot’. Io sono italo-napoletano, ritengo sia meglio tradurre le mie idee e passioni in lingua napoletana, ce capimmo meglio! (ci capiamo meglio, ndr). La mia stella sono i clienti. Per esempio, amo inviare le torte a casa della gente, ogni settimana leggiamo tante lettere ricevute da amici, fidanzati o parenti, scegliamo la storia più bella e a quella persona dedico un dolce, che gli viene consegnato direttamente a casa», racconta Sal De Riso.

Il locale si presenta semplice, dominano il bianco e il rosso che vuole richiamare il corallo, quindi il mare ma anche la femminilità, elemento che sicuramente non manca grazie all’elegante tocco di Nerina De Nunzio, la quale – oltre ad occuparsi dei dettagli – gestisce le risorse umane e fa da cavia nell’assaggio di piatti e dolci. Spiccano quadri molto particolari, statuine di Caruso, ceramiche e maioliche vietresi.

Al primo piano troviamo una sala accogliente, una vetrata che dà sul lungomare e una cucina a vista, mentre, a quello sottostante, un’altra sala arricchita da un bellissimo tavolo in legno – utile a degustazioni o riunioni – e una fornitissima cantina, molto caratteristica, che conta ben 235 proposte e che con quelle da dessert arrivano a 260. Nelle immediate vicinanze troviamo un’ulteriore cucina, dedita alla pulizia e la preparazione dei prodotti – di mare o di terra – che poi arriveranno su per essere cucinati.

un risottino trasformato in arancino con crema di noci su pesto Cetarese: noci, pinoli e alici sottosale. A seguire due antipasti, una parmigiana di pesce bandiera con basilico e fonduta di Provolone del Monaco DOP e una bruschetta con stracciata vaccina, polipetti veraci in cassuola e olive nere.

«La proposta prevede mare e terra. Usiamo prodotti locali e da pescatori locali. Tutte cose di tradizione napoletana. Di innovazione ci interessa ben poco, siamo dell’idea che un piatto ben presentato e con prodotti di qualità, lasci un ricordo in chi lo mangia e questa è la cosa importante. Finora abbiamo agito così e “cavallo che vince non si cambia”. Il menu che proporremo oggi non è il solito, saranno degli special: piatti preparati con prodotti che troviamo di giorno in giorno. C’è proprio una pagina dedicata nel menu. Stamattina abbiamo trovato i polipetti veraci e così ci è venuta in mente la bruschetta. Idem per il primo piatto: paccheri con calamaretti e pomodorini del Vesuvio», racconta Giovanni Cozzolino. Lo chef napoletano – formatosi con Cannavacciuolo – ha iniziato la sua carriera a Ravello negli anni 2000, insieme a Anthony Genovese (attualmente chef patron di un ristorante a Roma con due stelle Michelin) che, innamoratosi della costiera, non è più andato via, fino ad arrivare al ristorante di Sal De Riso.

E, tra calamarelle e polipetti, abbiamo degustato un vino bianco dalle cantine San Francesco a Tramonti, il “Per Eva”, composto da tre uve: Falanghina campana, Ginestra di Furore e Pepella, un grappolo a bacca bianca di Tramonti.

Il ristorante propone anche la pizza, da un impasto fatto da Sal De Riso stesso, come la Pizza Amalfi, base bianca con provola, prosciutto crudo, limone affettato e stracciata di mozzarella di bufala o la Pizza del Marinaio, con olive, capperi, alici e origano. «L’impasto lo porto io da Tramonti, uso una farina ricca di germe di grano e fibre solubili. Una selezione studiata per il panettone, che poi ho messo anche nella pizza. Abbassa il picco glicemico del 50%. Faccio una lievitazione di 24h più altre 12h.

NON È UN CLASSICO IMPASTO NAPOLETANO; LA PIZZA INFATTI HA IL CORNICIONE PIÙ PRONUNCIATO ED

È PIÙ CROCCANTE, LA COTTURA

È PIÙ LENTA –CIRCA 2 MINUTI E MEZZO – E AD UNA TEMPERATURA

DI 380°.

LA FARINA DÀ

UN BELLISSIMO

PROFUMO GRAZIE

AL GERME E

C’È LA PARTE NUTRIZIONALE

LEGATA ALLA

FIBRA. LA STENDO

CON LA SEMOLA»,

DICE SAL E, IN EFFETTI, HA

RAGIONE: LA PIZZA È PROFUMATA, SAPORITA E

L’IMPASTO SI

PRESENTA POROSO E LEGGERO.

Ma quali sono le maggiori richieste? I piatti tradizionali, come gli gnocchetti con colatura di alici di Cetara o gli ‘ndunderi minoresi: gnocco fatto con ricotta e farina e ragù napoletano, che solitamente si prepara il giorno di Santa Trofimena, protettrice di Minori, ma anche quello che sembra essere il cavallo di battaglia del ristorante, il risotto alla pescatora o il polpo arrosto servito con pomodorini semidry essiccati al forno a 80° con timo, aglio e origano, su crema di patate preparata con base di rosso d’uovo e latte e porro fritto e… ovviamente i dolci.

Dal ristorante al bistrot i piatti viaggiano veloci, così come le richieste dei dolci, per i quali Sal De Riso, insieme alla capo pasticcera Daniela e tutta la brigata di cucina, prepara una carta apposita per il ristorante.

Dolci che il maestro non abbina in base alle pietanze ma in base alla stagionalità, eccezion fatta – ovviamente – per le sue creazioni più celebri: la delizia al limone, la ricotta e pera e il soufflè al limone (che – a dispetto di quanto si potrebbe pensare per come si presenta – è una vera nuvoletta). Capita spesso che i clienti vogliano alzarsi dal ristorante e andare a scegliere il fine pasto nella pasticceria.

Così, anche il mio pranzo non poteva che concludersi in dolcezza ovviamente, ma lascio la descrizione di quanto ho assaggiato al mio ospite: «In questo momento stiamo proponendo una ciambellina tiepida di tortino di noci, cuore di crema al nocino, servito con gelato alla vaniglia e accompagnato da una confettura di fichi bianchi, lamelle di fichi freschi e melassa di fichi», un’esplosione di gusto. Le proposte però non finiscono qui: «Si può scegliere un Mont Blanc con cuore di zabaione, crema di castagne naturale e panna montata, servita con granella di meringa. O anche il soufflé al limone e una pasta sfoglia con crema. La nostra proposta però non esclude nessuno, ci sono dolci senza glutine, senza lattosio o i semplici sorbetti».

Insomma, una proposta estremamente ricca, che promette un’esperienza a 360°: visiva, olfattiva e gustativa e, soprattutto priva della paura di mangiare bene, ma senza mangiare affatto!

LA BIRRA

la rivoluzione

di Alfonso Del Forno
Illustrazioni di Giulia Serafin

LA BIRRA

Luana Meola

– Birra Perugia (Perugia, Umbria)

Originaria di Paestum, in provincia di Salerno, Luana Meola ha iniziato il suo percorso nel mondo enologico, conseguendo la qualifica di sommelier a Roma. La sua passione per la birra è nata proprio durante le degustazioni di vini, quando ha scoperto le prime birre artigianali italiane. Affascinata, ha deciso di approfondire questo universo, iscrivendosi al Master Universitario in Tecnologie Birrarie all'Università di Perugia. Dopo gli studi, insieme a un gruppo di amici, ha riportato in vita nel 2013 la storica Fabbrica della Birra Perugia, fondata originariamente nel 1875. Sotto la sua guida, il birrificio ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il titolo di "Birrificio dell'Anno" nel 2016. Le sue creazioni, come la "Calibro 7", un'American Pale Ale ben luppolata, riflettono un equilibrio tra tradizione e innovazione, valorizzando le radici storiche del marchio e l'attenzione alla qualità.

Monica Castagnero

– Birrificio Castagnero (Rosta, Torino)

Nel torinese, Monica Castagnero ha preso le redini di un birrificio che affonda le sue radici nella tradizione familiare, ma con una visione orientata all’innovazione. Il suo progetto, portato avanti insieme al marito Mattia Soster, punta sulla qualità della filiera e sull’integrazione di ingre dienti insoliti, come uva, mele, lamponi e cacao, per creare birre che raccontano il territorio con un tocco di creatività.

Ersilia D’Amico – Birrificio del Vulture (Rionero in Vulture, Potenza)

Biologa di formazione, Ersilia D’Amico ha seguito il richiamo della birra artigianale, avviando un birrificio in una regione, la Basilicata, dove questa cultura era ancora

Elisa Lavagnino

– Taverna del Vara (Maissana, La Spezia)

In Liguria, Elisa Lavagnino ha creato un progetto che fonde tradizione e innovazione. Il birrificio Taverna del Vara nasce dalla volontà di valorizzare la biodiversità locale, utilizzando materie prime come castagne, miele e lamponi. Un lavoro che si estende oltre la produzione, coinvolgendo attivamente la comunità con degustazioni e visite guidate al luppoleto. Molto interessanti le produzioni di Italian Grape Ale.

Lucia Del Vecchio – Birrificio 5+ (Trento, Trentino-Alto Adige)

Nel 2015, a Mattarello, una frazione di Trento, Lucia Del Vecchio e Massimo Plotegher hanno trasformato la loro passione per l'homebrewing in una realtà professionale, fondando il Birrificio 5+. Il nome rappresenta le quattro materie prime fondamentali per la birra—acqua, malto, luppolo e lievito—più un quinto elemento essenziale: la passione. Lucia si dedica alla produzione di birre artigianali di alta qualità, con un'attenzione particolare all'inclusione, alla cooperazione e alle scelte ecologiche. Tra le loro creazioni spiccano la "Double IPA", premiata come prima classificata al concorso "Solo Birra" nel 2020, e la "Saison", vincitrice del "KUBO Beer Award" nel 2018.

Carla Orgiana –

Birrificio Mascagni (Quartu Sant'Elena, Sardegna)

Originaria di Orroli, Carla Orgiana ha scoperto la passione per la birra durante gli studi in Scienze dell'Alimentazione a Perugia. Dopo essersi specializzata come birraia artigiana a Padova e aver lavorato in vari birrifici, è tornata in Sardegna, dove ha co-fondato il Birrificio Mascagni insieme a Marcello Piroddi nel 2022. Il birrificio si distingue per la produzione di birre ispirate alla musica, come la "Mascagnotta", una Pacific IPA dal carattere intenso.

Il futuro della birra è anche femminile

Le donne stanno riscrivendo le regole della birra artigianale in Italia. La loro capacità di innovare, valorizzare il territorio e creare connessioni tra il mondo agricolo e quello brassicolo sta portando un contributo essenziale alla crescita del settore. In un momento di sfide e trasformazioni, il loro lavoro dimostra che la birra non ha genere: ha solo storie da raccontare e sapori da scoprire.

Claudia, Giulia e Francesca Lami

– La Mi' Birra (Empoli, Toscana)

Nel cuore della Toscana, le sorelle Claudia, Giulia e Francesca Lami hanno unito le loro competenze per dar vita a La Mi' Birra, un birrificio artigianale che esprime l'essenza della loro terra. Claudia, laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari, crea ricette che fondono tradizione e innovazione. Giulia, con una formazione in cinema d'animazione e fotografia, cura la comunicazione e l'immagine del brand. Francesca, cosmetologa, sviluppa prodotti cosmetici biofunzionali utilizzando composti organici derivati dalla lavorazione della birra. Insieme, le sorelle Lami offrono birre artigianali di alta qualità, rispettose della salute e dell'ambiente.

Dalla gallina al tonno: le uova sulla pizza Come n'Uovo

È nato prima l'uovo o la Margherita?

Pensare all’accostamento pizza e uova può sembrare, nel migliore dei casi, stravagante; nel peggiore, una pessima soluzione, in grado di rivaleggiare con ananas e arte arditezze. Eppure, se la pizza all’ananas è stata sdoganata, anche le uova meritano una seconda possibilità. Come sempre, la cifra in grado di trasformare una semplice somma (uovo su pizza) in un boccone gradevole al palato è la creatività ben governata, lasciando da parte sperimentazioni volte a stupire e basta. Quindi, se inizialmente il pensiero è corso immediatamente ad una pizza Margherita cui sia stato aggiunto a fine cottura un uovo, che possa cuocere in forno mantenendo il tuorlo bello morbido, ebbene, è il caso di sforzarsi un po’ di più.

Le uova sono un ingrediente solo apparentemente semplice: a seconda di una serie di elementi “collaterali”, infatti, consentono di spaziare moltissimo. Il differente grado di morbidezza di tuorlo e albume, per esempio, può essere un elemento su cui giocare, esattamente come si fa in cucina con il tuorlo intero all’interno della pasta fresca o accostato al tartufo. La forchetta che affonda aprirà così la scena, appunto, al vero protagonista: l’uovo. E, ancora, l’utilizzo del tuorlo sodo, magari trattato come se fosse grattugiato, può rendere elegantissimo un condimento, magari giocando tono su tono, con ingredienti che richiamano il giallo, come ad esempio la zucca in crema o i pomodorini gialli, oppure privilegiando i contrasti, con il cavolo nero – magari in chips croccanti - o gli spinaci o le cime di rapa.

Rossini: un nome, un perché

Uovo significa, inoltre, maionese e pensare ad una maionese golosa, magari con l’aggiunta di toni sapidi o piccanti in più, da aggiungere in gocce o piccoli tocchi all’uscita dal forno, non è poi così assurdo. C’è chi poi ha riletto la classica carbonara in versione pizza e ne ha fatto un’opera con ingredienti gourmet: guanciale piacentino, crema di uovo, Pecorino romano Dop e pepe macinato fresco. La sfida è, dunque, quella di pensare fuori dagli schemi. In ogni caso è bene sapere che esiste una pizza che, pur essendo da molti considerata un azzardo gastronomico ai limiti dell’immangiabile, per altri è addirittura un tratto identitario. Si chiama pizza “Rossini”, è fatta con maionese e uova sode ed è diventata il simbolo della città di Pesaro. Le origini sono incerte ma, secondo alcune fonti, cominciò a essere servita nella pasticceria aperta da Aldo Montesi nel 1958 nella centrale via San Francesco, poi gestita dal figlio Giorgio, a partire dal 1971.

Pare che inizialmente la versione fosse quella di una pizzetta da colazione o aperitivo: il successo fu tale da diffondersi nei locali cittadini ed essere proposta come pizza. Identitaria e geografica, della “pizza Rossini” è difficile dire con precisione che territorio abbracci senza essere considerata un piatto di dubbio gusto: si trova in buona parte della provincia di Pesaro e Urbino, anche se più ci allontana da Pesaro più è rara. Salendo verso nord, a volte arriva fino in Romagna mentre a sud il limite sembra coincidere con Senigallia. A Pesaro, in ogni caso, è diventata una sorta di cimento e di piatto firma: non solo per gli ingredienti in aggiunta ma soprattutto per la maionese, che diventa il vero sigillo apposto dall’autore, pizzaiolo o fornaio che sia.

E le altre uova?

Finora abbiamo parlato di uova e certamente immaginiamo che ogni lettore abbia pensato solo ed esclusivamente alle uova di gallina. Eppure, ci sono altre uova di cui poter parlare e, soprattutto, delle quali potersi servire in cucina. Il riferimento va ovviamente alla bottarga da una parte e al caviale dall’altra. Ovario di muggine o di tonno, salato, essiccato e stagionato, la bottarga è un ingrediente forse inconsueto sulla pizza ma capace di impreziosirla non solo per il suo valore ma soprattutto per il gusto e la resa al palato. Aggiunta su Margherita appena sfornata, oppure su basi bianche arricchite da crema di zucchine, da carciofi, da cipolle o accostata al pecorino per giocare su diversi livelli di sapidità o andare a contrasto con toni delicatissimi come quelli di mozzarella o burrata, la bottarga è veramente un tocco da maestro, che può fare la differenza.

Analogamente, il caviale: se c’è chi ne ha fatto un ingrediente pensato per stupire e per far diventare la pizza un emblema di lusso, è pur vero che lo stile è come sempre nelle dosi e nella misura. Si va allora da chi ha giocato con l’eleganza e ha accostato il caviale a fiordilatte di Agerola, erba cipollina, storione affumicato e ricotta, chi ha proposto accostamenti creativi come quello a ricciola, caco e cipolla, chi – da maestro – ha reso omaggio a Cipriani con un carpaccio di manzo, mozzarella di bufala, olio al pepe rosa e caviale o l’ha accostata a burro e salmone, in una semplicità che vince. I più arditi, infine, hanno puntato al glamour: ecco, allora, caviale, uova di quaglia, uova rosse di salmone, panna acida e una spolverata d’oro alimentare a 23 carati, oppure oro commestibile in fogli e caviale, per un lusso da 2000 euro. Chiudendo salendo di livello, un assaggio da circa 10.000 euro conta tre differenti tipi di caviale, gamberoni rossi di Acciaroli (Cilento), aragosta di Palinuro, cicala del Mediterraneo, mozzarella di bufala campana biologica DOP. Non vi diremo di chi è l’idea, però…

I grandi classici in rosa La dolcezza ha nomi di donna

Se marzo è il mese dedicato alle donne, la storia della pasticceria dimostra di guardare oltre, con storie di dolci ispirati o creati da donne che hanno letteralmente attraversato i secoli. Abbiamo

Pavlova

È dedicata alla ballerina russa Anna Pavlova, una delle più apprezzare danzatrici dell’epoca, una torta che è simbolo di raffinatezza e leggerezza. La storia narra che attorno al 1926 la ballerina fosse in tour tra Australia e Nuova Zelanda, quando alloggiò in un hotel di Perth: qui conobbe il pasticcere Berth Sachse, che si innamorò di lei e che, anni dopo, quando venne a sapere della sua morte, la volle omaggiare creando un dolce che simboleggiasse leggiadria ed eleganza. Ecco allora la meringa, a ricordare la leggerezza con cui la Pavlova volteggiava sul palco; la panna, che secondo alcuni richiama il colore preferito della donna e il suo tono algido ma che, secondo altri, ricorda la notte in cui, scesa dal treno che la portava in tour sotto una tormenta, la neve cadde lieve sul suo mantello. La frutta, in particolare frutti di bosco e quindi con toni rossi accesi, simboleggerebbe il male che colpì la ballerina. Una storia romantica, drammatica, con la contestazione che accompagna ogni creazione celebre: alcuni studiosi sostengono la paternità tedesca, americana o inglese – con altri nomi ovviamente - della torta, della quale esisterebbero oltre centocinquanta varianti registrate prima del 1926.

Torta mimosa

Classico immancabile dell’8 marzo, è un dolce che nella forma ricorda il fiore omonimo: è un pan di Spagna bagnato generalmente con Grand Marnier, maraschino, marsala o succo di ananas, farcito di crema pasticcera o diplomatica e ricoperto di panna o crema chantilly e pan di Spagna spezzettato. Fu creata alla fine degli anni ’50 da Adelmo Renzi, ristoratore di Rieti, titolare dell’insegna “Ristorante del Teatro Flavio”. Nel 1962, Renzi la portò a Sanremo per un concorso di pasticceria: la torta, dedicata a un fiore nella Città dei Fiori, conquistò la giuria e, successivamente, il grande pubblico. La ricetta originale utilizzata da Renzi, tuttavia, non è mai stata rivelata.

Zuppa inglese

Strati sovrapposti di pan di Spagna o savoiardi inzuppati nell’alchermes, alternati a crema pasticcera e crema al cioccolato, la zuppa inglese ha una storia articolata che porta a origini emiliano-romagnole, toscane o napoletane. Nacque probabilmente a Ferrara nel XVI secolo alla corte degli Estensi, come rielaborazione del trifle inglese. La base sarebbe stata la bracciatella mentre allo sherry sarebbero stati sostituiti rosolio e alchermes.

Nel ‘700, ecco il pan di Spagna, mentre crema pasticciera e cioccolato avrebbero sostituito la panna. Secondo altri, le origini sono toscane e risalgono all’800, quando la governante di una famiglia inglese residente a Firenze avrebbe preparato un dolce con biscotti avanzati ammorbiditi nel vino dolce, crema pasticcera e budino di cioccolato. Infine, le origini parmigiane: ai tempi di Maria Luisa d’Austria, ad inizio ‘800, il credenziere di corte Vincenzo Agnoletti nella sua opera, il “Manuale del cuoco e del pasticciere di raffinato gusto moderno”, parla di una “zuppa inglese”, da realizzare “come il marangone” (un antico dolce originario di Mantova) con l’aggiunta di rum e meringa come tocco finale. Insomma, diverse ipotesi e qualche contaminazione per un dolce che oggi è simbolo della tradizione italiana.

Torta tenerina

Detta anche “torta regina del Montenegro” o “Montenegrina” in onore di Elena Petrovich del Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III, è tipica del ferrarese. Si prepara con cioccolato fondente, tuorli montanti con lo zucchero, burro, farina e gli albumi montati a neve. La sua caratteristica, che la rende inconfondibile, è la crosticina croccante che contrasta con il cuore tenero e cremoso. In dialetto ferrarese veniva anche chiamata “Torta Taclenta” o “Torta Tacolenta”, che in italiano significa appunto appiccicosa, proprio per la sua consistenza interna umida e morbida.

Torta della nonna

Cavallo di battaglia dei ristoranti degli anni ’80 e ’90, è una torta di origini aretine o fiorentine, composta di pasta frolla ripiena di crema pasticcera e coperta di pinoli e una spolverata di zucchero a velo. Secondo alcuni, nacque per una scommessa da parte di Guido Samorini, cuoco e ristoratore fiorentino: la versione più diffusa vuole che alcuni clienti, stanchi dei dolci che la cucina del ristorante proponeva, chiesero al cuoco una torta che fosse in grado di sorprenderli per la settimana successiva, quando si sarebbero presentati per la novità. Samorini realizzò questa torta, semplicissima eppure in grado di conquistare i palati. C’è tuttavia una seconda ipotesi, che si legge nelle pagine di Pellegrino Artusi, il quale ipotizza che la torta della nonna esistesse già molti anni prima: “...trovai il dolce ai pinoli e alla crema pasticciera un pasticcio gradevole, una frolla povera”.

Tarte Tatin

Grande classico francese, è una torta di mele capovolta, con mele caramellate nel burro e nello zucchero prima della cottura. La torta prende il nome dalle sorelle Stephanie e Caroline Tatin (vissute attorno alla seconda metà dell’800), titolari di un ristorante (peraltro ancora esistente sotto il nome di Hôtel-restaurant Maison Tatin) a Lamotte-Beuvron, nella regione CentroValle della Loira: una domenica, mentre preparavano una torta di mele per i clienti, una delle sorelle dimenticò di porre la pasta brisée alla base della torta, lasciando caramellare così le mele nel burro e nello zucchero. Per rimediare all’errore sistemò la pasta sopra il composto ottenuto e poi capovolse il tutto in un piatto. I clienti apprezzarono e la torta divenne il capolavoro della pasticceria francese che oggi conosciamo.

Brownies

Non esattamente una torta ma decisamente uno dei dessert più golosi, non solo in ambito casalingo ma anche nelle caffetterie, nelle pasticcerie e anche in pizzeria. Deve la sua creazione a Bertha Palmer detta Cissie, nata nello stato del Kentucky e trasferitasi a Chicago a seguito del marito, il facoltoso Potter Palmer, titolare del “Palmer House Hotel”. Appassionata di cucina e dotata di estro creativo, pare abbia inventato i brownies nel 1893 durante il meeting del “World’s Columbian Exposition”, quando le venne chiesto di occuparsi del catering dell’evento. Coadiuvata dai suoi collaboratori, mise a punto una ricetta di un dolce al cioccolato goloso, simile ad un piccolo pezzo di torta e che si potesse consumare anche durante un pranzo al sacco. Venne chiamato “Palmer House Brownie”, conteneva noci ed era ricoperto di glassa alle albicocche.

Ancora oggi il dolce viene servito ai clienti del “Palmer House Hotel”. Il nome non venne usato nei libri di cucina o nelle riviste dell’epoca e la prima volta che la parola brownie venne usata in un’edizione cartacea fu per descrivere un dolce che apparve nel 1896 in un libro chiamato “Boston Cooking - School Cook Book” di Fannie Farmer, come riferimento alle torte di melassa fatte singolarmente in stampi da cucina. Le prime ricette note pubblicate per un moderno brownie al cioccolato apparvero in “Home Cookery” (1904), “Service Club Cook Book” (1904), “The Boston Globe” (1905) e nell'edizione del 1906 di “Fannie Farmer”. In queste ricette, il brownie è più morbido e simile ad una torta. Nel 1907, il brownie comincia ad assomigliare alla versione odierna, con una ricetta apparsa nel “Lowney's Cook Book” di Maria Willet Howard: con un uovo in più e più cioccolato, il dolce divenne più morbido, ricco e decisamente più goloso.

Alimentazione e malattie cardiovascolari

a cura della Dott.ssa

Marisa Cammarano, biologa nutrizionista

Le

malattie cardiovascolari costituiscono un gruppo molto ampio di patologie e sono la principale causa di mortalità nei paesi sviluppati (più del cancro). L'alimentazione può influire sulla rigidità e la struttura dei vasi tramite una serie di meccanismi legati alla patologia aterosclerotica, alla colesterolemia, alla glicemia ed all'ipertensione. Ogni tratto del sistema cardiovascolare, dal cuore ai vasi presenti nei diversi organi, può esserne colpito. La conseguenza principale è il mancato arrivo di ossigeno agli organi colpiti (cuore oppure cervello). I fattori di rischio per le malattie cardiovascolari sono: età e genere (uomini con più di 40 anni, donne dopo la menopausa), peso corporeo, ipertensione, fumo di sigaretta, diabete. Per questo, è molto importante osservare un corretto stile di vita. La salute e l’efficienza dell’uomo dipendono in gran parte dall’alimentazione, che contribuisce a costruire, rigenerare, mantenere il corpo ed a fornire l’energia indispensabile al buon funzionamento dell’organismo.

Mangiare troppo ed in maniera non corretta può causare sovrappeso, ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, diabete, e quindi aumentare il rischio di malattie cardiovascolari e tumori. Mangiare lentamente aiuta a mantenersi in forma e riduce il rischio di sovrappeso e obesità: assaporare i cibi e masticare a lungo permette ai recettori del gusto di inviare al cervello il "messaggio di sazietà". L’ampia varietà di cibi di origine animale e vegetale costituisce il fondamento di un’alimentazione sana e bilanciata.

dolci

1-2 volte a settimana

condimenti

2-3 cucchiai di olio al giorno

carne 2-3 volte a settimana

pesce 2-3 volte a settimana legumi 3 volte a settimana

uova 2 a settimana formaggio 2 a settimana

latte e yogurt

2 porzioni al giorno (preferire il latte scremato e lo yogurt magro)

2 porzioni di pane al giorno

1 porzione di pasta o riso al giorno (preferire quelli integrali)

frutta e verdura cereali

Aumentare il consumo di frutta fresca, verdure ed ortaggi di tutti i tipi, privi di grassi e ricchi di vitamine, minerali e fibre. Aumentare il consumo di legumi, come fagioli, piselli, ceci, fave e lenticchie. I legumi rappresentano una fonte preziosa di proteine e sono privi di grasso: per questo possono sostituire la carne. Aumentare il consumo di pesce. L’effetto protettivo è dovuto al tipo di grassi contenuti nel pesce (omega-3) che riducono il rischio di malattie cardiovascolari. Mangiare pesce due o tre volte alla settimana. Privilegiare gli oli vegetali, in particolare l’olio extravergine di oliva e gli oli di semi (di mais, di girasole), limitando il consumo di grassi di origine animale come il burro, il lardo, lo strutto e la panna, che contengono elevate quantità di grassi saturi. Ricordare che gli oli hanno un alto valore energetico. Privilegiare le carni magre, come pollo e tacchino (senza pelle), vitello e coniglio, limitando il consumo di carni rosse e grasse. È buona norma eliminare il grasso visibile e non raccogliere il grasso di cottura. È preferibile la cottura alla griglia, alla piastra o al vapore, limitando tutti i piatti che necessitano di salse ricche di grassi. Non consumare carne tutti i giorni. Limitare il consumo di insaccati, come salsicce, wurstel, salame, mortadella. Preferire i salumi magri, come prosciutto crudo, speck, bresaola, ricordando comunque che possiedono un alto contenuto di sale. Limitare il consumo di formaggi, preferire i formaggi freschi a basso contenuto di grassi come la ricotta di mucca.

I formaggi non vanno mangiati alla fine del pasto, ma vanno considerati sostitutivi della carne o del pesce. Ridurre il consumo di dolci, perché questi alimenti sono ricchi di grassi e zuccheri. Preferire i dolci fatti in casa, purché preparati con grassi vegetali ed in quantità moderate. Limitare il consumo di dolci di produzione industriale. Privilegiare gli alimenti ricchi di amido, come pane, pasta, patate, polenta, cercando di utilizzare prodotti integrali ricchi di fibre. Questi alimenti hanno un alto valore energetico ma non contengono elevate quantità di grasso. Limitare il consumo di cibi con elevato contenuto di colesterolo, come le uova, a non più di due volte a settimana. Fanno parte di questa categoria anche le frattaglie (cervello, fegatini, rognone). Limitare il consumo di sale, perché aumenta la pressione arteriosa. Ridurre il sale aggiunto agli alimenti sia durante la cottura che prima del consumo, sostituendolo con spezie ed erbe aromatiche. Prestare attenzione al sale contenuto nei cibi confezionati (formaggi, pane, cibi in scatola, insaccati, alimenti conservati sotto sale, sott’olio o in salamoia). Limitare l’uso di bevande zuccherate, preferendo spremute e succhi di frutta non zuccherati. Controllare il consumo di bevande alcoliche: non più di 2-3 bicchieri di vino al giorno per gli uomini e 1-2 per le donne, tenendo conto che una lattina di birra o un bicchierino di liquore possono sostituire un bicchiere di vino. Vino e birra, consumati durante il pasto purché in quantità moderata, possono ridurre il rischio di infarto e ictus. L’alcol aumenta la pressione arteriosa e danneggia il fegato. Pertanto non è indicato in coloro che hanno la pressione elevata. Ricordare che l’alcol interferisce con i farmaci e può provocare effetti indesiderati.

Una alimentazione corretta ed equilibrata, sullo stile della dieta mediterranea, è in grado di regolare la maggior parte di questi fattori di rischio tramite il giusto apporto dei seguenti nutrienti:

• I grassi alimentari: seconda del tipo e della quantità dei grassi della dieta si ottengono variazioni sui livelli di trigliceridi e di colesterolo, sia totale che HDL e LDL. La prevalenza dei grassi insaturi rispetto ai saturi non solo diminuisce la colesterolemia, ma diminuisce anche l'aggregazione delle piastrine e quei fattori infiammatori che sono alla base dello sviluppo delle malattie cardiovascolari.

• Le proteine: diete troppo ricche di proteine animali comportano un aumento di rischio di malattie cardiovascolari, esattamente all'opposto delle diete ricche di proteine vegetali.

• Carboidrati e zuccheri: Diete troppo ricche di zuccheri liberi o con una quantità di carboidrati eccessiva rispetto ai fabbisogni, con un elevato indice glicemico, possono portare ad un aumento dei trigliceridi, con relativo aumentato rischio di insulino resistenza, sovrappeso, obesità e non in ultimo di diabete.

• La fibra alimentare: la ricchezza di fibra di una dieta, spia di corretto apporto di frutta, verdura, legumi e cereali integrali, comporta una diminuzione di glicemia e colesterolemia, con una conseguente diminuzione del rischio cardiovascolare.

• Sodio: il rischio di ipertensione arteriosa può essere ridotto da un'alimentazione di tipo mediterraneo, con poco sale aggiunto e con elevate quantità di frutta e verdura, che apportano invece che sodio il suo antagonista naturale, il potassio.

• Antiossidanti: frutta e verdura sono ricchissime anche di molecole protettive, in grado di prevenire e combattere lo stress ossidativo e diminuire il rischio cardiovascolare.

• Vitamina B12, acido folico e vitamina B6  sono i requisiti per il mantenimento di bassi livelli di omocisteina plasmatica, un noto fattore di rischio per le malattie cardiovascolari.

Nessuno di questi punti, da solo, è in grado di esercitare un'azione preventiva, ma presi nella loro globalità, proprio come succede in un'alimentazione di tipo mediterraneo, possono efficacemente prevenire e contrastare i fattori di rischio delle malattie cardiovascolari. Questa azione di prevenzione, inoltre, dovrebbe essere intrapresa già in giovane età. Infatti, l'aterosclerosi si sviluppa nel corso di parecchi anni, e si è visto che le basi di questa patologia affondano già negli anni dell'adolescenza. Mantenere il peso nell'ambito della normalità e seguire una dieta basata prevalentemente su prodotti di origine vegetale è il modo migliore per invecchiare sani.

La recensione del mese

Per segnalazioni, potete scrivere all’indirizzo redazione@pizzaepastaitaliana.it

La recensione

“Cameriere inqualificabile:

Buona cena, bella location, peccato che il cameriere sia completamente fuori luogo, maleducato al massimo, indisponente e sopratutto svogliato al limite dell’imbarazzo. Dispiace perché il buon ristorante viene messo in cattiva luce da gente che con tutta probabilità, ha sbagliato mestiere”.

Recensione lasciata su Tripadvisor per un locale di Torino nel mese di dicembre 2024.

Il commento

Il mondo del food è un complicato universo ricco di sfaccettature, tra le quali spiccano le esperienze di chi le vive. È vero che ogni esperienza lascia un’impronta ma non sempre quella che lascia è positiva. Un pasto, che sia una cena, un pranzo o una colazione, può essere rovinato non solo dalla qualità del cibo o dell’ambiente ma anche dall’atteggiamento di chi è al servizio. Un cameriere svogliato, scortese e indisponente può trasformare un’uscita piacevole in un momento di disagio, spiacevole.

Ma è giusto pretendere sempre un sorriso? È evidente che il mestiere del cameriere (o di chiunque altro lavori a contatto con il pubblico) imponga una continua capacità di trasmettere cordialità, anche quando stress, problemi personali, malumore, stanchezza e clienti esigenti sembrano rendere difficile mantenere questa attitudine. Chi lavora nel settore è consapevole che il servizio richiede sempre un atteggiamento positivo ma è anche vero che nessuno è immune da una giornata difficile. Da una parte, chi sceglie questo mestiere è consapevole di dover affrontare giornate in cui le energie sembrano esaurirsi, eppure il servizio richiede una presenza costante, un “atteggiamento da vetrina” che renda l’esperienza del cliente piacevole e rassicurante. D’altro canto, il cliente si aspetta un trattamento che comprenda anche empatia e rispetto. Quando questo non accade, sopraggiunge la delusione e spesso si manifesta con giudizi secchi come “ha sbagliato mestiere”.

È facile incolpare il cameriere per la sua apparente mancanza di professionalità, dimenticando che non è un robot ma un essere umano. Il dilemma diventa ancora più complesso se si considera che, in molti casi, la pressione dei turni, la mancanza di supporto e persino la maleducazione degli stessi clienti (non si fa di tutta l’erba un fascio, chiaramente) contribuiscono a creare un ambiente di lavoro tossico. Il “falso sorriso” imposto come standard diventa così una maschera.

Un po’ di comprensione (reciproca) potrebbe migliorare l’esperienza di entrambi. Se il cameriere non sorride, forse non è per mancanza di cortesia ma perché, come tutti, ha diritto a una giornata “no” (non si discute il fatto che, effettivamente, possano esserci persone davvero maleducate).

E un po’ di gentilezza da parte del cliente potrebbe trasformare una situazione di disagio in una relazione più umana (non è forse questo il senso di “essere umano”?).

Un concetto estendibile a tutti coloro che “stanno dall’altra parte”: dai camerieri ai proprietari, dall’addetto all’accoglienza o ai cappotti, e così via. Il proprietario – dal canto suo – ha la responsabilità di monitorare queste dinamiche, prendendo sul serio le lamentele e cercando soluzioni per migliorare le condizioni di lavoro, la formazione del personale o semplicemente appoggiare moralmente il dipendente.

Alla fine, la questione non è tanto trovare un equilibrio perfetto, quanto riconoscere la complessità del lavoro a contatto con il pubblico. Il cameriere, pur dovendo sforzarsi di offrire un servizio impeccabile, non può essere privato del diritto a una giornata difficile. Allo stesso tempo, i clienti, pur essendo legittimi nelle loro aspettative, potrebbero trarre beneficio da una maggiore comprensione delle pressioni di chi li serve. In questo scambio, la vera sfida sta nel non cadere nella trappola del giudizio superficiale ma nel riconoscere che, dietro ogni sorriso – o sua assenza – c’è una storia di impegno, fatica e, talvolta, umana fragilità.

LE AZIENDE INFORMANO

INDUSTRIA MOLITORIA DENTI S.R.L

Via Rosario Livatino, 3/A Borzano Albinea (RE) ITALY

Tel: +39.0522350085

email: info@molinodenti.it

Dario Vernengo, tecnico di Molino Denti, propone una ricetta per la realizzazione di pizza classica con Pizza&Madre, la nuova referenza della linea Infibra. Si tratta di una farina che si adatta perfettamente a impasti diretti e indiretti, garantisce un ottimo sviluppo, struttura e scioglievolezza al morso e dona al prodotto finito un gusto unico e inconfondibile con note aromatiche tipiche della fermentazione

Z58 | PIZZA CLASSICA CON PIZZA&MADRE

Farina Infibra tipo 1 W 380

INGREDIENTI

PROCEDIMENTO

→ 1. Iniziare con l’impastare la farina Infibra Pizza&Madre, il lievito di birra e 2500 g di acqua in prima velocità.

→ 2. Una volta ottenuto un impasto liscio e omogeneo aumentare la velocità e inserire a filo la restante parte di acqua e alla fine il sale.

→ 3. A questo punto, fare riposare l’impasto per 30 minuti in massa.

→ 4. Procedere spezzando panetti da 250-280 g, mettere a 4 gradi per 24 ore.

→ 5. Lasciare in apretto fino al raddoppio del volume della pasta.

→ 6. Procedere alla cottura.

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Lievito madre essiccato con fermenti lattici vivi e germe di grano tostato, semplicità d’uso e un’etichetta pulita che valorizza la qualità. Perché il futuro della panificazione è già qui.

Editore: Modernist Cuisine

Anno: 2024 (edizione italiano)

Prezzo di copertina: 130 dollari

Bread

at Modernist Home

a cura della redazione

Nthan Myhrvold, classe 1959, ha un passato da capo dell’ufficio tecnologie di Microsoft. Abbandonata

quell’avventura nel 2000, si è concentrato su articoli scientifici per riviste internazionali e progetti dedicati allo sviluppo della scienza ma, dal 2011,

ha impegnato quasi tutte le sue risorse nello studio e nella divulgazione della tecnica gastronomica, rivelando una straordinaria passione per l’Italia. Il suo primo libro, Modernist Cuisine, che dà anche il nome alla casa editrice, è stato premiato come “libro dell’anno” ma le sue opere, da quel momento, sono diventate delle vere e proprie enciclopedie che offrono informazioni di base e approfondimenti a tutti coloro che intendono avvicinarsi a una branca specifica della gastronomia. Accompagnato dallo chef Francisco Migoya, Myhrvold ha dato vita qualche anno fa a uno splendido libro con dettagliato corredo fotografico dedicato al pane fatto in casa. Tradotto in Italiano nel 2024, Modernist Bread at Home è il risultato di oltre quattro anni di ricerca indipendente sui principi, i metodi e la scienza della panificazione, raccolti in un solo volume di 420 pagine. Qui troverete tecniche, ricette e consigli.

Modernist Bread at Home rende la panificazione accessibile anche ai meno esperti. I capitoli di questo libro sono incentrati sulle tecniche di lavorazione, le apparecchiature e le ricette più adatte per fare il pane in casa. Con un formato per le ricette decisamente facile da seguire, oltre 60 procedimenti passo per passo e più di 1100 foto, questo libro rende alla portata di tutti la preparazione del pane.

Modernist Bread at Home presenta oltre 160 ricette per fare il pane largamente sperimentate e facili da seguire. Con questo libro, potrete imparare a preparare il pane rustico di lievito madre, il tradizionale pane magro francese, il leggerissimo pane per sandwich, il soffice pan brioche, il pane di segale, la challah, le focacce, i bagel, i bao, e molto altro.

Della stessa casa editrice, segnaliamo anche i 5 volumi di Modernist Breade quelli di Modernist Cuisine, i 3 volumi di Modernist Pizza e la più agile pubblicazione Modernist Cuisine at Home. Per scoprirli tutti, è possibile visitare il sito modernistcuisine.com

NON SOLO GENERE: IL FUTURO È NEL SOCIALE

di Enrico Bonardo, Direttore commerciale e marketing di Scuola Italiana Pizzaioli

Negli ultimi anni, la presenza femminile nel mondo della pizza ha registrato una crescita significativa, segnando un cambiamento importante in un settore tradizionalmente dominato dagli uomini. Secondo stime recenti, in Italia si contano quasi 9.000 donne pizzaiole, rappresentando circa l'11% del totale dei professionisti del settore. Questa percentuale, seppur ancora minoritaria, evidenzia un enorme progresso rispetto al passato e si avvicina, ad esempio, alla rappresentanza femminile nelle cucine dei ristoranti stellati. A livello globale, infatti, le chef donne costituiscono circa il 4% degli oltre 3.300 ristoranti stellati in 28 Paesi. In Italia, la situazione è leggermente più favorevole: su 367 ristoranti stellati, 45 sono guidati da donne, pari a circa il 12%. La crescente partecipazione delle donne nel settore della pizza è testimoniata anche dal numero di concorrenti femminili al Campionato Mondiale della Pizza. Dal 1992 al 2024, sono state 330 le donne a partecipare alla competizione, con un incremento significativo negli ultimi anni. Questo trend indica come la figura della donna in pizzeria non sia più una novità, ma stia diventando una componente normale e integrata in un ambito storicamente maschile. Si tratta di un ulteriore passo avanti verso la parità di genere, ma l'obiettivo dell'inclusione oggi va oltre le "quote rosa". Si punta a nuovi orizzonti, come dimostra l'esperienza di PizzAut, le pizzerie gestite da ragazzi autistici. Questo progetto sottolinea l'importanza di creare nuove opportunità lavorative per persone con diverse abilità, promuovendo una cultura inclusiva e valorizzando le competenze di ciascuno, soprattutto attraverso una professione vera e propria. la crescente presenza delle donne nel settore della pizza e l'emergere di iniziative come PizzAut evidenziano un cambiamento culturale significativo. L'inclusione non riguarda più solo la parità di genere, ma abbraccia una visione più ampia, riconoscendo e valorizzando la diversità in tutte le sue forme all'interno dell’universo pizza.

www.scuolaitalianapizzaioli.it info@scuolaitalianapizzaioli.it

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Pizza e Pasta Italiana - Marzo 2025 by Pizza e Pasta Italiana - Issuu