Pizza e Pasta Italiana - Febbraio 2024

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febbraio

2024 anno XXXV




4 AZIENDE

— Sommario —

Beer & Food Attraction

p. 89

Campionato Mondiale della Pizza

p. 29

Conserve Italia

p. 13

Cuppone

p. 23

Demetra

p. 21

gli eventi del mese

Di Marco Corrado

p. 29

Dr. Zanolli

p. 71

Effedue

p. 85

a cura della redazione

Fiera Ungheria

p. 98

Hotelex Shangay

p. 83

Il Granaio Delle Idee

p. 59

Italforni

p. 17

La Torrente

p. 55

Menù

p. 100

Millberg

p. 57

Molino Agugiaro

p. 11

Molino Cosma

p. 27

Molino Casillo

p. 41

Molino Dalla Giovanna

p. 73

Molino Magri

p. 3

Molino Pasini

p. 7

Rinaldi Superforni

p. 35

Sacar Srl

p. 45

San Felici

p. 99

Sirman

p. 9

Sori' Italia

p. 33

Sitta

p. 2

Mia cara pizza

Industria Alimentare Tanagrina Srl

p. 79

di Giusy Ferraina

Ventidue

p. 91

6

30

editoriale di Antonio Puzzi

8

a cura della redazione

12

pizza news

14

Quanto vale una DOP di Monica Pisciella

36 Pensare la pace in un mondo in guerra di Antonio Puzzi

Benessere animale: a che punto siamo? di Domenico Maria Jacobone

18 Eccellenze italiane di Giampiero Rorato

24

42

Glutine sì, glutine no. Fa bene o fa male mangiare senza glutine? di Alfonso del Forno


sommario

46

66

80

storie di pasta

Scinuà Il non-ristorante di putignano di Noemi Caracciolo

70

Per farla romana, ci vuole il mattarello

Pastificio Futuro, la pasta che ha il gusto della speranza

I tuberi: un viaggio sotterraneo attorno al mondo

di Noemi Caracciolo

di Caterina Vianello

storie di pasta

di Giusy Ferraina

51

Scuola Italiana Pizzaioli Scuola Italiana Pizzaioli

76

52

prodotti

86 prodotti

Elogio delle Mandorle di Caterina Vianello

ristorazione domani

Una lezione di Gualtiero Marchesi di Giampiero Rorato

58

92

La posta dei lettori storie di pizza

Ai bordi di periferia, La pizza da Gennaro

a cura della redazione

96 un libro al mese

L’invenzione della tradizione a cura della redazione

di Noemi Caracciolo

salute

Esagerare con moderazione di Marisa Cammarano

le aziende informano GAM International

p. 46

Pater Pizza

p. 58

5


pizza e pasta italiana febbraio

2024

Editoriale Antonio Puzzi

T

utto ha un prezzo: un paio di scarpe, un cellulare, il carburante, una cena, le utenze di luce e gas. Per ciascuna di tali cose – sia che si tratti di un prodotto, sia che siamo in presenza di un servizio – il prezzo finale è dato dalla somma dei costi dei singoli elementi che in esso sono inclusi. Per capire cosa intendo, basta prendere una bolletta della luce: il costo della materia prima è solo una voce e, spesso, neppure la più importante; accanto a essa, troviamo – a mo’ di esempio – gli oneri di trasporto, le spese per la gestione degli impianti e ovviamente il contributo versato allo Stato. Nel caso di una cena, invece, il prezzo finale sarà dato dalle materie prime, dai costi di ammortamento degli investimenti (dall’acquisto dei piatti alle spese sostenute per l’affitto o per l’acquisto delle mura), dai costi del personale e, ovviamente, da quelli di luce e gas che comprendono, a loro volta, le voci già elencate in precedenza. A questo elenco apparentemente infinito, si aggiunge, però, ancora un altro costo, che è forse il più importante di tutti: il valore. Quanto siamo disposti a pagare per un prodotto davvero buono? E per uno genuino? Per uno che racconta un territorio? Quanto siamo disposti a spendere per un prodotto “made in Italy”? E per una Dop? Qual è il prezzo giusto per un’eccellenza agroalimentare? Ecco, la risposta a queste domande è ciò che significa “valore” e, soprattutto, “dare valore”, che è il passo fondamentale che ciascun imprenditore deve compiere per avere un’impresa sana. Di questo (e molto altro) parliamo nel numero di Pizza e Pasta Italiana che ci accompagna lungo tutto il mese di febbraio, quello con “un giorno in più”. Un numero che si apre con un articolo che sembra essere “fuori contesto” o, come si diceva a scuola, “fuori traccia” ma che invece è esattamente la premessa necessaria a ciò di cui dissertiamo, perché si chiede: quanto ci costa questo clima di guerra nel quale siamo immersi? E perché ha senso costruire la pace, non solo dal punto di vista sociale ma anche da quello economico? Perché “come tutti gli uomini, vogliamo realizzare un piccolo, minuscolo, ma evidente miracolo” (Luis Sepùlveda, Incontro d’amore in un paese in guerra). nio

COLOPHON

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PIZZA E PASTA ITALIANA Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura Edito da PIZZA NEW S.p.A. Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990 Anno XXXV - n.2 febbraio 2024 - Repertorio ROC n. 5768 DIRETTORE EDITORIALE Massimo Puggina

DIRETTORE ONORARIO Giampiero Rorato

DIRETTORE RESPONSABILE Antonio Puzzi PUBBLICITÀ Caterina Orlandi REDAZIONE Via Sansonessa, 49 - 30021 CAORLE (VE) Tel. 0421/ 212348 - Fax 0421/81007 - E-mail: redazione@pizzaepastaitaliana.it www.pizzaepastaitaliana.it

PROGETTO GRAFICO Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi — Mediagraf lab DIGITAL PUBLISHING Maura Trolese — Mediagraf lab IN COPERTINA illustrazione di Liubov Dronova STAMPA MEDIAGRAF S.p.A. Noventa Padovana (Pd) COMITATO TECNICO E REDAZIONALE Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon. AFFILIAZIONI INTERNAZIONALI Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).

PER INFORMAZIONI, SOTTOSCRIVERE UN ABBONAMENTO O RICHIEDERE UN ARRETRATO: TELEFONARE AL NUMERO 0421 212348 dal lun. al ven.: 10:00 – 12:00 / 15:00 – 17:00 INVIARE UN FAX A 0421 83178 Servizio abbonamenti Pizza e Pasta Italiana INVIARE UNA MAIL A: abbonamenti@pizzaepastaitaliana.it L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno e dà diritto a ricevere 11 numeri della rivista. L’abbonamento andrà in corso dal primo numero raggiungibile.

PER LA PUBBLICITÀ SULLE RIVISTE: ITALIA Pizza e Pasta Italiana; U.S.A. Pizza Today, P.M.Q. TEL 0421.83148 — FAX 0421.81007


A D : S T U D I O OV E R | I M AG E BY : T RU N K S T U D I O E M ATC H S T U D I O

LINEA SOFFIO PIZZERIA QUATTRO GENERAZIONI, 100 ANNI DI STORIA, L’ARTE DELLA FARINA IMPRESSA NEL DNA.

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MOLINO PASINI


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pizza e pasta italiana febbraio

2024

Gli eventi del mese 3–5

febbraio

TASTE

Firenze, Fortezza da Basso Alla Fortezza da Basso di Firenze, l'edizione 2024 di Taste, la numero 17, si presenterà con una serie di importanti novità. Innanzitutto, l’allestimento si amplia al Padiglione delle Ghiaia, un'area centrale e strategica, che proporrà una nuova dimensione e un nuovo modo di vivere l'esperienza a Taste. Qui si concentreranno le attività parallele a quelle espositive: la Unicredit Taste Arena che accoglierà i Ring di Davide Paolini, i Talks e gli eventi in programma; il ristorante a cura di “Filippo – Ristorante a Pietrasanta”, che sarà animato da eventi e degustazioni; e infine il Taste Shop, dove acquistare i prodotti scoperti durante la visita.

5–8

febbraio

HOSPITALITY Fiera di Riva del Garda

Hospitality – Il Salone dell’Accoglienza è la manifestazione internazionale di riferimento per il mondo Ho.Re.Ca.: un hub dove gli operatori di ospitalità e ristorazione entrano in contatto con fornitori e partner e scoprono le novità per far crescere il proprio business.

6

febbraio

PIZZA BIT COMPETITION SUD ITALIA

4–6

febbraio

BIT

Allianz MiCo

Bit è la fiera internazionale del turismo in Italia. Un marketplace a supporto dell’industria turistica in Italia e nel mondo. L’unica che connette il mondo dei professionisti del settore in un contesto totalmente b2b, ma che contemporaneamente offre agli appassionati di viaggi l’opportunità di incontrare direttamente professionisti del settore provenienti da tutto il mondo.

16–18

Capurso (Ba), Lavermicocca arredamenti

Il professionista che si aggiudicherà la terza edizione della Pizza Bit Competition ed il relativo titolo di "Dallagiovanna Pizza Ambassador" diventerà il volto ufficiale Dallagiovanna per la pizza in Italia e nel Mondo per l'anno 2025.

febbraio

AGRI E SLOW TRAVEL EXPO Fiera di Bergamo

Fiera dei Territori – Agritravel e Slow Travel Expo (ATEST), in programma alla Fiera di Bergamo dal 16 al 18 febbraio 2024 (16 febbraio B2B per operatori e 16 – 18 febbraio 2024 B2C per il grande pubblico) è una manifestazione internazionale che promuove il turismo slow, outdoor e active a livello locale, nazionale e internazionale. Un’imperdibile opportunità per promuovere le bellezze che valorizzano destinazioni tra natura, arte, tradizioni e buon cibo per turisti e operatori del settore alla ricerca di percorsi autentici ed emozionali che sempre più manifestano forti legami con concetti quali qualità della vita, sostenibilità e ambiente.

17–18 febbraio

NATURAL EXPO

Fiera di Forlì

Natural Expo è una vetrina espositiva che offre una vasta scelta di proposte e di prodotti innovativi per il benessere: cosmesi naturale, alimentazione biologica e vegana, risparmio energetico, arredamento, erboristeria e medicina alternativa.

DiVINO:

24–26 febbraio

GUSTO DiVINO Fiera di Bergamo

2–3 marzo

DiVINO

Fiera di Vicenza Mercato dei Vini.


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pizza e pasta italiana febbraio

2024

Gli eventi del mese

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febbraio

SHOPPING TOURISM Milano

18–20 febbraio

BEER&FOOD ATTRACTION / BB TECH EXPO Fiera di Rimini

Beer&Food Attraction è l’evento che riunisce in un solo appuntamento la più completa offerta nazionale e internazionale di birre, bevande, food e tendenze per il settore “out of home”. Un’occasione unica per chi vuole aggiornarsi su nuove modalità e stili di consumo e cogliere le opportunità che i cambiamenti attuali ci propongono.

21–22

febbraio

HOSPITALITYSUD Napoli, stazione Marittima

HospitalitySud, alla 5a edizione, è il prestigioso appuntamento del Sud Italia per titolari, manager, personale e consulenti dell’hotellerie e dell’extralberghiero.

Il 23 febbraio 2024 torna a Milano il forum sul turismo dello shopping in Italia, la giornata d’incontro per sostenere lo sviluppo dello shopping tourism nel nostro paese e contribuire alla sua conoscenza quale fenomeno dal potenziale particolarmente elevato in Italia.

23–24 febbraio

SUMMIT HOSPITALITY Lamezia Terme

Summit Hospitality è il primo corso di formazione turistica nel sud Italia, dedicato a professionisti, gestori di strutture ricettive, imprenditori e studenti che vogliono avvicinarsi a questo mondo. Ogni anno salgono sul palco i migliori esperti italiani nel campo dell’ospitalità, con interventi distribuiti su due giornate di formazione. Per l’occasione vengono presentate le migliori strategie di digital marketing, revenue management, social media marketing e applicazione dell’Intelligenza Artificiale a tutte queste materie.

Per segnalare i tuoi eventi, scrivi a redazione@pizzaepastaitaliana.it

25–27 febbraio

SANA SLOW WINE FAIR Bologna Fiere

La fiera internazionale dedicata al vino buono, pulito e giusto. A prezzo scontato per i lettori di Pizza e Pasta Italiana. Per saperne di più, leggi il numero di gennaio 2024.

27–29 febbraio

BTM

Bari, Fiera del Levante

PTE - PromotionTrade Exhibition è l’unico appuntamento annuale in Italia dedicato al mondo dell’oggetto pubblicitario, del tessile promozionale e delle tecnologie per la personalizzazione

30 febbraio 2 marzo

PROGETTO FUOCO Fiere di Verona

Dalle stufe ai caminetti passando per caldaie, barbecue e cucine a legna e pellet: Progetto Fuoco è il momento di riferimento del settore a livello internazionale. La fiera presenta più di 800 brand a oltre 60mila visitatori provenienti da tutto il mondo.


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pizza e pasta italiana febbraio

2024

PIZZA NEWS a cura della redazione

Gourmantico, un viaggio alla scoperta dei sapori. Ventuno ristoranti gourmet Lombardi promuovono un nuovo modo di convivialità.

O

ggi presso l’Hotel Excelsior San Marco di Bergamo é stato presentato dall’Associazione Culturale Enogastronomica “Insieme”, costituita lo scorso ottobre da 21 ristoranti lombardi, il progetto Gourmantico, con lo scopo di valorizzare la cultura enogastronomica dell’alta Ristorazione, il coinvolgimento dei giovani e la ricaduta positiva in termini di immagine e consenso per il movimento della ristorazione e dell’enogastronomia. In poche parole: aprire le porte dei migliori ristoranti della Lombardia ad una convivialità alla portata di tutti. “L’obiettivo è di avvicinare il grande pubblico all’alta cucina” afferma il presidente Camillo Rota “Ogni ristorante della nostra Associazione proporrà un menù completo dall’antipasto al dolce ad un prezzo calmierato e accessibile alla maggior parte delle persone. Vogliamo che tutti possano vivere l’esperienza dell’alta cucina e coglierne le peculiarità qualitative.” Ciascun ristorante promuoverà il suo menù degustazione completo, dall’antipasto al dolce comprese le bevande, al prezzo di 75€. Da oggi sino alla fine di aprile (San Valentino e Pasqua esclusi) sul sito www.gourmantico.it è già possibile scegliere la propria esperienza. Gourmantico sarà l’occasione migliore per fare un viaggio in Lombardia, dalla scoperta dei sapori del territorio Bergamasco, ai profumi del Lago d’Iseo, passando per la Brianza, Como e la Val Chiavenna. Sarà un’esperienza unica per i foodlovers, alla scoperta di location eleganti e coccolati dalla cucina firmata dai migliori chef. Le parole d’ordine di questa nuova associazione di ristoratori sono: qualità, passione e convivialità

Festeggiare 50 anni con la “Pizza di beneficenza”. L’iniziativa promossa dal pizzaiolo Alessandro Mastromatteo che devolverà l’interoricavato della giornata all’Ospedale Bambino Gesù di Roma.

“M

angia bene, fai del bene” è il claim che il pizzaiolo Alessandro Mastromatteo ha scelto per la “Pizza di beneficenza” in programma mercoledì 17 gennaio 2024, dalle 17.30 alle 23.30 presso il Piccolo Vesuvio a Lucera (in via Napoli 35). La proposta, ideata da Alessandro per festeggiare i suoi 50 anni, prevede che l’intero ricavato della serata sarà devoluto all’Ospedale Bambino Gesù di Roma. «Ho sempre desiderato organizzare una serata di beneficenza a favore del Bambino Gesù di Roma così, visto che il 6 gennaio ho compiuto 50 anni, ho pensato di festeggiare in questo modo: lavorando di più per dire “grazie” alla vita e rivolgere un pensiero e un sostegno a chi si adopera per curare e alleviare la sofferenza di tanti, grandi e soprattutto piccini», racconta Alessandro, titolare della pizzeria Piccolo Vesuvio, che aggiunge: «Ringrazio sin da ora tutti coloro che sceglieranno di sostenere l’iniziativa».



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pizza e pasta italiana febbraio

2024

Pensare la pace in un mondo in guerra di Antonio Puzzi

Paolo Cacciari, giornalista e autore laureato in architettura, ma anche attivista nei movimenti sociali, ambientalisti e per la decrescita ha dichiarato, nel convegno “Oltre la guerra. Decrescita e Nonviolenza”, tenutosi presso l’Università di Macerata nel febbraio dello scorso anno:

«Relazioni pacifiche stabili hanno bisogno di condizioni economiche equilibrate, convenienti per tutti.

Fino ad ora né i modelli di liberalizzazione dei mercati a scala planetaria, né quelli protezionistici messi in forma dagli stati sono riusciti nell’intento di ridurre i conflitti armati. Probabilmente c’è un “baco” nel sistema economico, un difetto d’origine che rende questa economia strutturalmente inadatta alla pace. Non vorrei ripetere per l’ennesima volta il grido di dolore lanciato da papa Bergoglio: “Questa economia uccide”. Ma è l’unico capo di stato (sia pure basato su un ordinamento monarchico e patriarcale) ad aver indicato chiaramente il problema. Il conflitto di interessi è la caratteristica strutturale dell’economia di mercato capitalista. Essa si basa sulla rivalità tra le imprese per appropriarsi dei mezzi di produzione al più basso prezzo possibile (energia, materie prime, lavoro, tecnologie) e contendersi gli spazi di mercato di sbocco per le proprie produzioni».

Sono queste parole che mi hanno guidato per riflettere diffusamente sulla necessità di costruire un’economia di pace in un mondo in guerra, come proviamo a fare in queste pagine, entrando nell’economia reale del mondo della ristorazione di prossimità.Ripensare

il benessere Credo che la visione più corretta per una possibile soluzione sia quella di Francesco Gesualdi, che nel 2022 per Altreconomia scriveva: «L’unico modo per interrompere le guerre di accaparramento è ripensare il nostro concetto di benessere, riportandolo nel perimetro di ciò che ci serve senza sconfinare nell’inutile e nel superfluo. Un compito non semplice perché si scontra con le nostre pulsioni più profonde, ma con possibilità di successo se torniamo a dare il giusto valore alla sfera affettiva, sociale, spirituale e, più in generale,


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Con questo progetto, Gesualdi promuove le prime campagne di sensibilizzazione e informazione per un consumo critico in Italia.

Un nuovo modello economico e sociale Della necessità di abbandonare il consumismo è però convinto un folto movimento di intellettuali che comprende anche lo stesso Cacciari, il quale, nel già citato convegno, ebbe modo di dire: «La competizione economica performa e condiziona anche i comportamenti umani individuali e interpersonali. Il motore di questa economia è l’avidità (profitto, accumulazione, rendite) e il risultato non può che essere ostilità e antagonismo tra le persone, tra le comunità, tra gli stati. La radice della guerra – se davvero la si volesse trovare per estirpare – va ricercata nella violenza strutturale su cui si basano i modi di produzione distribuzione e riproduzione oggi trionfanti ad ogni latitudine. Un sistema mortifero, biocida. Perché genera guerre, colonizza e militarizza le menti, recide ogni

agli aspetti relazionali che la logica materialista tende a mettere in ombra». Sempre secondo Gesualdi dobbiamo pertanto abbandonare il consumismo a favore della sobrietà perché: «Il consumismo è una bestia insaziabile che ha bisogno di quantità crescenti di risorse ed energia. Un’impostazione che spinge inevitabilmente alla sopraffazione per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. Lo testimonia non solo il colonialismo, ma anche il neocolonialismo che oggi si presenta col volto dello scambio ineguale, del land grabbing, dello strangolamento finanziario. Fino a ieri la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua». Gesualdi si professa allievo di don Lorenzo Milani ed è fondatore del Centro nuovo modello di sviluppo nato nel 1985 a Vecchiano (Pisa).

relazione con gli altri diversi da sé, distrugge la biosfera, riduce gli spazi vitali di ogni specie vivente». Ecco perché, conclude Cacciari: «Per “ripudiare” la guerra è necessario inventare e praticare un’economia di pace. Un’economia disarmata, “war free”, prima di tutto. Fino ad ora l’economia bellica è stata il braccio armato dell’economia di mercato. Gli economisti della pace nel loro ottimismo ci dicono invece che sarebbe possibile ripensare l’economia togliendo il fucile dalla spalla del mercato». Una domanda, però, resta: è possibile pensare alla pace oggi in un contesto come quello che stiamo vivendo, un contesto in cui sembriamo essere coloro che adempiono alla profezia del filosofo inglese Hobbes secondo cui il peggior nemico dell’uomo è l’uomo stesso? Secondo il progetto del collettivo “Movimento europeo per un’azione nonviolenta” coordinato da Angelo Moretti, sì. Nell’ultimo articolo del decalogo dei “costruttori di pace” si legge, infatti:


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pizza e pasta italiana febbraio

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“Pensare la pace, oggi, significa prima di tutto avere un’idea di futuro desiderabile per l’umanità contro i tanti futuri distopici a cui narrazioni e rappresentazioni ci preparano da decenni. Mettere in atto nuove forme e nuove tecniche del dialogo non ha nulla a che vedere con la rappresentazione di pacifisti e nonviolenti come anime belle intente “a giocare alla pace” o a dichiararsi “neutralisti” mentre gli ucraini sono costretti a far volare i missili anticarro. Pensare la pace vuol dire prepararla con un’Europa dei cittadini, come diceva Altiero Spinelli, un’Europa dei popoli e non dei nazionalismi, come diceva Giorgio La Pira. È ora per noi di salire sulle spalle dei giganti”.

Una chiosa Come i lettori più attenti di questa rivista sapranno, sin dai primi numeri che mi sono trovato a coordinare, i conflitti pesantissimi che sono scoppiati all’indomani della pandemia da coronavirus ci hanno imposto di guardare al mondo con occhi diversi. Ho ritenuto da subito che non si potesse continuare a parlare di cibo, di ristorazione, di pizza, di identità culturali, dimenticando – o, peggio, omettendo – quanto stava accadendo intorno a noi, poco al di là del nostro naso. I messaggi pervenuti da chi è affezionato a queste pagine ci hanno confermato che avevamo ragione. Eppure, nulla è più difficile di convincere il mondo accademico a comprendere che anche una rivista che parla a pizzaioli e cuochi, ovvero a imprenditori e produttori, debba parlare di queste tematiche. Per redigere questo articolo, avevo richiesto supporto ad alcuni economisti e sociologi operanti nel mondo delle università italiane ma nessuno ha inteso offrire il proprio contributo. Credo che il problema stia tutto qui, ovvero in questa separazione totale dei saperi. È impossibile pensare di costruire la pace se intendiamo parlare esclusivamente con chi appartiene al nostro “piccolo mondo antico”.



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pizza e pasta italiana febbraio

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Eccellenze italiane

di Giampiero Rorato


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È abbastanza comune sentire nella ristorazione sia italiana che estera il ristoratore, il cuoco, il pizzaiolo esaltare i suoi piatti o le sue pizze come “eccellenti”. Aggettivo bello, rotondo, con le sue doppie consonanti che regalano un suono piacevole che si prolunga come un’eco ed appaga il commensale. Ma, innanzi tutto, cosa significa la parola “eccellente”? Fra le tante possibili risposte, quella che mi ha più convinto l’ho trovata nella Treccani: “eccellente” è il prodotto della natura o dell’uomo “che raggiunge il grado più altro, la perfezione”. Traguardo difficile, tuttavia è vero che l’uomo, al pari della natura, mira in alto, avvicinandosi alla perfezione. È possibile che la natura esprima prodotti eccellenti? Che il cuoco realizzi piatti eccellenti? Che il pizzaiolo serva ai suoi clienti pizze eccellenti? Certamente sì, sapendo però che ovunque in natura ci sono, frammisti a prodotti “eccellenti”, dei prodotti “imperfetti”: l’imperfezione, l’errore, la stortura appartengono alle cose ed è per questo che la nostra riflessione vuol saperne di più.

Prodotti eccellenti

Nel comune sentire vengono definiti “eccellenti” i prodotti migliori presenti in natura, quelli in assoluto più sani, più belli, più utili, più attraenti. Per quanto riguarda il modo ristorativo, sono considerati “eccellenti” i prodotti che permettono al cuoco di preparare piatti di alta e raffinata qualità gastronomica. Ma c’è di più: le “eccellenze” sono prodotti non facilmente reperibili ovunque – quel particolare formaggio, quel prosciutto, quel tartufo bianco, quell’olio extravergine, quel vino, quel cappero – e, proprio per questo, quando si trovano, caratterizzano in modo altamente positivo e attraente una cucina. L’Italia, come è ampiamente noto, è il Paese del mondo che ha il maggior numero di prodotti agroalimentari, in gran parte fra i migliori in assoluto dell’intero pianeta. L’Italia è “il paese dei prodotti eccellenti”, cioè di

grande e assoluta qualità, pur in mezzo a prodotti buoni ed anche mediocri e, per avere delle vere e proprie eccellenze agroalimentari, servono terreni altamente vocati, il rispetto della natura e delle sue esigenze, l’assenza di prodotti nocivi come la chimica e una seria e corretta coltivazione. In genere, si tratta di prodotti poco diffusi, presenti in aree ristrette, come la mandorla di Avola, il pistacchio di Bronte, il bergamotto della Calabria, sapendo che ogni regione italiana ha i suoi prodotti di assoluta eccellenza. Non solo, dunque, terreni vocati, perché per raggiungere una vera eccellenza dei prodotti serve anche un’agricoltura sostenibile che privilegi i processi naturali che consentono di preservare la “risorsa ambiente”, bene fra i più importanti a disposizione degli uomini.


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I prodotti del lavoro dell’uomo

Discorso analogo riguarda i prodotti alimentari frutto del lavoro dell’uomo, come formaggi, salumi, prosciutti, olio d’oliva, vino, distillati e liquori. In questi casi, per raggiungere l’eccellenza servono non solo “eccellenti” prodotti di base - latte, ma anche bovini, ovini, suini e poi olive assolutamente sane e colte al momento giusto, e così per le uve , ecc. – ma anche una “eccellente” professionalità degli operatori, oltre ad “eccellenti” attrezzature, come frantoi, impianti caseari, cantine,

distillerie, ecc. A questo proposito, si può tranquillamente affermare che l’Italia, oltre alla grande varietà di prodotti – si pensi solo alle circa 500 varietà di uve – e alla loro qualità considerata dagli esperti internazionali di grande “eccellenza”, ha degli operatori di alta (e altissima) qualità professionale, come casari, mastri oleari, vignaioli, distillatori, ecc. che il mondo spesso ci invidia e della medesima eccellenza sono anche molte industrie agroalimentari del nostro Paese.

Conoscere le eccellenze italiane Quanto abbiamo qui scritto è innanzi tutto un invito ai professionisti della ristorazione a conoscere la ricchezza delle ottime produzioni agroalimentari “italiane” (anche se ce ne sono di molto buone pure all’estero), sia tenendosi aggiornati attraverso i media di settore, frequentando corsi di aggiornamento professionale, visitando aziende agroalimentari, cantine, caseifici, frantoi, mulini, distillerie, per avere una conoscenza diretta e la più completa possibile dei prodotti che poi arriveranno nei propri ristoranti e nelle proprie pizzerie.


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pizza e pasta italiana febbraio

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In Italia di prodotti “eccellenti” – che puntano alla perfezione qualitativa - ne abbiamo davvero molti e questa rivista anche attraverso le pagine pubblicitarie ne presenta ogni mese numerosi, soprattutto le novità proposte dal mercato, essendo utile ai professionisti della ristorazione sapere che gli studi e le ricerche perfezionano e migliorano di continuo gli strumenti operativi in cucina e in pizzeria, incidendo non poco sulla qualità del prodotto che poi arriva in tavola. Come si vede, anche la pubblicità, se letta correttamente, è cultura ed è una delle forme interessanti della “formazione continua” anche di cuochi e pizzaioli.

Conclusioni

Non è compito di questo articolo scrivere il catalogo delle “eccellenze italiane”: l’importante è che ogni professionista si impegni a conoscerle, quelle vere, senza farsi ingannare da una certa pubblicità che solitamente non ha scopi formativi ma economici. Ripeto, infine, che l’Italia è uno dei Paesi leader a livello mondiale. Non per nulla la cucina italiana è apprezzata nel mondo ed è una delle colonne portanti del turismo estero che arriva nel nostro Paese. Se le eccellenze ci sono - e tante - compito di ristoratori, cuochi e pizzaioli e comunque di tutti gli addetti alla ristorazione è quello di cercarle con cura e attenzione e portarle a casa, evitando di essere ingannati dalle false eccellenze. Oltre ad aziende produttrici italiane leader a livello

internazionale, c’è uno straordinario artigianato produttivo che merita grande attenzione, segnalato anche da associazioni specializzate, serie e competenti, che merita ascoltare. Poi, come si sa, ci vuole sempre la cultura, l’impegno professionale e la passione di chi opera in cucina e in pizzeria. Cultura, impegno e passione sono condizione indispensabile per trasformare l’eccellenza dei prodotti in eccellenza dei piatti e delle pizze e far conservare alla cucina italiana i prestigiosi risultati raggiunti, che non sono soltanto bontà, gustosità, bellezza e piacevolezza ma anche un concreto aiuto allo star bene, rispettando la natura e la ricca biodiversità, purtroppo minacciata dall’egoismo e da un globalismo malamente interpretato.


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pizza e pasta italiana febbraio

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Mia cara pizza di Giusy Ferraina Quanto siamo disposti a pagare per una pizza? “Dipende dalla pizza”, è la risposta che spesso si dà. Banalmente, una pizza Margherita, per la tipologia di ingredienti presenti, non può avere lo stesso prezzo di una pizza capricciosa, di una vegetariana con verdure biologiche e di stagione o ancora di una pizza più ricercata, cosiddetta “gourmet” con pesce o prodotti dop. Di questi fattori differenziali siamo tutti consapevoli e, nel bene e nel male, sono quegli elementi di spesa presi in considerazione dal cliente per giustificare lo scontrino finale.

Il prezzo di una pizza ovviamente non si calcola solo in base al food cost ma, nel suo ricarico, spesso anche considerevole, si devono mettere in conto costi di gestione, costo del personale, affitto del locale, costo dell’energia elettrica e mettiamoci anche il marketing e la comunicazione. Insomma, il prezzo che troviamo a menu è una somma ragionata che aumenta o diminuisce in base alla geografia del locale: i prezzi nelle grandi città non saranno gli stessi dei piccoli centri di provincia, così come a Roma o a Milano i prezzi variano dal centro alla periferia. E possiamo dire con certezza che questi parametri spesso non sono presi in considerazione dal cliente medio, che guarda solo a quello che ha nel piatto. Ma quanto sa veramente di quello che ha nel piatto e quanto è disposto a pagare una pizza? Quando una pizza per un cliente diventa cara?


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La voce dei clienti Lo abbiamo chiesto a differenti “mangiatori di pizza”, tutti amanti della tonda, frequentatori di pizzerie più o meno assidui e con alcuni dai gusti anche un po’ più sofisticati o anche meglio definibili “gastrofighetti”. Ed eccovi le risposte, che riportiamo in modo diretto: “Secondo me dipende dalla pizza. Se è una Margherita classica e me la fai pagare 10 € è cara, alla fine sempre pomodoro e mozzarella è, con un food cost basso. In generale per le pizze più elaborate se si sforano i 18/20€ per me diventa cara”. (Maria Teresa) “Io sono stata disposta a pagare una pizza fino a 17€ con tutti ingredienti ricercati. E sono dell’avviso che pagare 10€ per una Margherita sia esagerato. L’elemento principe per me è la digeribilità, il condimento è secondario. Chiaramente anche il contesto conta, anche se farei l’esperienza più per un altro tipo di cucina che per la pizza”. (Ilaria) C’è poi chi ci dice: “io mangio solo Margherita, per me impasto e digeribilità contano più del condimento. A mio avviso una margherita deve costare massimo 8 euro”. “Io parto dall’experience, metto in conto la ricerca, gli ingre-

dienti e gli abbinamenti. Valuto il costo massimo di una pizza gourmet 20€ e la Margherita la pagherei massimo 13€”. (Alessandra) “Pagare una pizza Margherita classica sopra i 15€ penso sia un po’ troppo; ok la questione delle materie prime però alla fine sempre di pomodoro, mozzarella e farina si tratta. Altra questione è la pizza più ricercata, totalmente differente visto che molte si avvicinano all’alta cucina, con una ricerca di equilibrio di sapori e di nuovi ingredienti. Senza ovviamente dimenticare l’impasto che delle volte mi sembra secondario rispetto a topping, e ti capita di trovare delle pizze gustose ma poi lavorate e lievitate male”. (Martina) E infine c’è chi sottolinea che il prezzo è direttamente proporzionale al tipo di pizza e di pizzeria, come Pietro che dice: “se vado nella pizzeria sotto casa, anonima e senza pretese, mi aspetto una buona pizza ad un prezzo di 8-10 euro, se voglio una pizza di ricerca arrivo anche a 20 euro” o Giusy: “Dagli 8 ai 15 euro per pizze classiche, 12 euro per la Margherita se fatta con mozzarella di bufala, mentre per le pizze più gourmet, da degustazione la forbice può essere dai 14 ai 20 euro massimo”.


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Da quanto si legge, le opinioni riflettono la visione personale della pizza che ogni persona ha, le sue esigenze in materia e la “formazione” derivante dalle esperienze fatte o che desidera fare. È ovvio che, per chi si accontenta, una pizzeria vale l’altra ma chi vuole mangiare una buona pizza, ama le sperimentazioni o vuole provare qualcosa di nuovo cercherà la pizzeria giusta, in guida o nelle classifiche, non si meraviglierà dei prezzi alti e, seppur ritenuti cari, non ci sarà lamentela di sorta. Sempre tenendo conto delle testimonianze registrate, abbiamo una media di clienti propensi ad una spesa alta accompagnata da qualità, anche se la riflessione che sorge spontanea è che il consumatore stia cominciando a metabolizzare il concetto che una pizza realizzata con buone farine, un buon impasto (cosa che implica ricerca e studio prima di arrivare al risultato), digeribile, condita con materie prime bio, km 0 o

tipiche e con un approccio alla cucina, non è la pizza di una volta e non si può pretendere che costi 5 euro, come quando si apriva un barattolo e si condiva con olive e carciofini di bassa qualità. E questa – possiamo affermare senza paura - è già una conquista per i pizzaioli, così come è una conquista per i clienti mangiare delle pizze ben fatte e ad alta digeribilità, un tempo quasi chimera. Merito forse di una buona comunicazione fatta con la creazione di “esigenza di un’esperienza di consumo” che va soddisfatta.

Una pizza “politically correct” La comprensione della spesa non deve però far approfittare i pizzaioli, che dovrebbero mantenersi nel politically correct dei prezzi. Ecco, se la pizza non sembra essere più tanto popolare almeno che sia politically correct, evitando prezzi pazzi ed insensati che rispondono solo ad una firma o una visione life style della pizza (ricordate la querelle sulla pizza di Briatore?), tralasciando del tutto la qualità e forse anche la professionalità. Passiamo ora a vedere, o meglio a misurare, i prezzi reali a menu di alcune pizzerie, partendo proprio dalla pizza Margherita - che è la pizza più semplice nella sua composizione, con solo pomodoro e mozzarella come ingredienti - e che diventa la pizza di riferimento per una valutazione di costo medio. C’è una media nazionale, c’è un prezzo medio per città e addirittura prezzi variabili sulla stessa pizza da zona in zona.



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Banalmente, il centro è più caro della periferia e lo confermano i dati emersi da un’indagine condotta nello scorso autunno: il costo medio di una pizza Margherita a Milano nel 2023 è di circa 7,80 euro; in centro, il costo medio di una Margherita arriva a 9,40 euro, mentre spostandosi più in periferia, in zona FamagostaBarona, la stessa pizza costa 6 euro. Prezzi che, secondo la stessa indagine, sono cresciuti anno per anno: sempre in rifermento a Milano c’è un + 13% rispetto al 2022, quando lo stesso piatto costava 6,90 euro e un +16% rispetto al 2021 (quando il costo era pari a 6,70 euro). Secondo gli stessi pizzaioli che abbiamo avuto modo di sentire di recente, il prezzo giusto per una Margherita va dai 6 agli 8 euro, a seconda dei costi di gestione del ristorante. In giro per il Bel Paese è possibile trovarla anche a prezzi più alti e, in questo caso, sono le spese collaterali che influiscono sull’aumento.

A conti fatti, di questi 6 euro l’imponibile è di 5,40 più IVA: il 30% circa è il costo vivo degli ingredienti; il 25% è il costo del lavoro e un altro 25% è l’utenza (fitto, comunicazione, bollette). Il margine su una Margherita è di circa il 20%. Mentre da uno studio sui menu di alcuni dei pizzaioli più conosciuti da nord a sud, per le pizze cucinate o gourmet la forbice di prezzo va dai 14 ai 20 euro, arrivando anche ai 50 per le cosiddette pizze a degustazione. Novità, questa, degli ultimi anni che sembra prendere piede soprattutto nelle pizzerie più creative, con un cambio frequente di menu, dove si prevede la costruzione di un percorso con la condivisione della stessa pizza per i commensali in modo da poter assaggiare più cose e conoscere a pieno le creazioni del pizzaiolo o pizzaiola di turno. Una filosofia molto ristorativa che ridefinisce completamente “l’andare a mangiare una pizza”: non è

solo una questione di pizza! Oltre a quella, ci sono: una carta dei vini, abbinamenti beverage studiati, il personale, il servizio di sala, l’ambiente stesso delle pizzerie molto più curato di una volta. E poi, se si vuole dare al consumatore finale il meglio dei prodotti, senza scendere a compromessi, bisogna lavorare con i piccoli produttori di eccellenza che non hanno costi da grande distribuzione. Vi tornano i conti? Così, sulla differenza di offerta e di servizio si viene a creare una naturale targettizzazione: non esiste più la pizzeria ma ci sono le pizzerie - come si fa per gli hotel in base alle stelle - dove ognuna offre qualcosa di diverso e ha il suo target ideale che risponde per interesse, cultura e anche per potere economico.


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Quanto vale una Dop? Analisi del rapporto economico Iswmea 2023 di Monica Pisciella

Nel 2022, il valore alla Maria Chiara Zaganelli, Direttore Generale Ismea, ha aperto la preproduzione del settore sentazione del rapporto facendo leva su alcune peculiarità dell’anDOP IGP STG ha superato nata in corso: «In un contesto macroeconomico sfavorevole e instai 20 miliardi di euro, con un bile, le nostre produzioni DOP e IGP hanno continuato a esercitare incremento del 6,4% rispetto il loro impatto positivo, contribuendo ad attrarre flussi rilevanti all'anno precedente. A questo di turismo enogastronomico, diffondendo la reputazione della si aggiungono i 10,5 miliardi qualità agroalimentare italiana e mantenendo vitale il tessuto di euro di valore aggiunto, socioeconomico di aree rurali spesso interne. Un potenziale che che rappresentano il 20% del ha continuato a espandersi con la crescita del numero di nuovi ricovalore aggiunto complessivo del noscimenti, che hanno allungato la lista dei prodotti. settore agroalimentare italiano. In questi anni il sistema delle IG ha dimostrato una grande È quanto emerge dal rapporto capacità di adattamento agli shock e ai nuovi condizionamenti economico Ismea Qualivita ambientali, leggendo per tempo i segnali dei possibili impatti di 2023 che analizza l’andamento fenomeni in atto e la necessità di reagire con nuove strategie. In delle produzioni certificate. particolare, il settore ha iniziato a misurarsi con una trasformazioIn termini produttivi, il settore ne culturale notevole, aprendosi all’innovazione per difendere la ha registrato una produzione di propria capacità competitiva: pur preservando i fattori costitutivi oltre 14 milioni di tonnellate di della distintività legati a disciplinari produttivi rigorosi e al loro prodotti, con un incremento del radicamento territoriale, molti marchi DOP e IGP hanno utilizza3,6% rispetto al 2021. to la tecnologia per rendere i processi produttivi o distributivi più flessibili e capaci di rispondere a

mutamenti di mercato e a vincoli ambientali. Sul fronte della sostenibilità, la sfida della transizione ecologica, fortemente stimolata dalla UE con la strategia Farm to Fork (F2F) (il piano decennale messo a punto dalla Commissione europea per guidare la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente, ndr) e con la nuova programmazione della Pac, è stata raccolta dalle produzioni di qualità. Nel comparto vinicolo, ad esempio, ha trovato grande diffusione la conversione all’agricoltura biologica; più in generale, molte produzioni DOP e IGP hanno accelerato l’adozione di innovazioni digitali, favorito l’interlocuzione tra


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Consorzi di tutela per lo scambio di buone pratiche e accolto la revisione dei disciplinari nell’ottica di affrontare criticità esogene al processo produttivo, come quelle climatiche. Più in generale, è ormai ampiamente diffusa la consapevolezza che il successo di un marchio IG si basi sulla capacità di coniugare il riconoscimento della denominazione di origine a un progetto». Volendo approfondire i diversi ambiti nei quali queste affermazioni trovano conferma, è interessante cominciare dal dato sull’occupazione:

il settore DOP IGP STG occupa oltre 890.000 persone, pari al 13% dell'occupazione totale del settore agroalimentare italiano, con un dato in costante incremento anno per anno.

A proposito di crescita, non si può parlare di produzioni agroalimentari certificate senza citare il territorio italiano. Il complesso mondo delle certificazioni DOP IGP STG è presente in tutte le regioni italiane, con una particolare concentrazione nel Nord Italia. Le regioni del Nord-Est, infatti, rappresentano il 39% del totale delle produzioni DOP IGP STG, seguite dal Nord-Ovest con il 30% e dal Centro con il 23%. Questo

dato dovrebbe essere di stimolo per l’aumento della produttività nel Sud Italia, che rappresenta un territorio con amplissimi margini di sviluppo di prodotti certificati, sebbene ancora inespresso. Approfondendo non solo la produzione ma anche i canali distributivi attraverso i quali i prodotti raggiungono i consumatori, non stupisce che la GDO rappresenti il principale canale di distribuzione delle produzioni DOP IGP STG, con una quota del 60%. Seguono il canale della ristorazione con il 25% e quello specializzato, con il 15%. E questo a riprova di quanto anche la proposta di prodotti certificati stia aumentando nel contenuto, ma anche nell’apprezzamento da parte di consumatori sempre più attenti ai loro acquisti agroalimentari certificati, sempre più spesso reperibili nei menù dei ristoranti.


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la tutela delle produzioni locali e favorire le esportazioni di prodotti di bassa qualità. Il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (MIPAAF) ha espresso la sua preoccupazione per la riforma proposta e ha chiesto alla Commissione Europea di apportare modifiche.

Analisi dei dati

Venendo alle preferenze dei consumer, il trend di consumo prodotti DOP IGP STG in Italia, nel 2022 è cresciuto del 5,5% rispetto all'anno precedente e la tendenza di crescita è positiva sia per i prodotti alimentari che per quelli vitivinicoli.

Criticità e priorità Il rapporto evidenzia alcune criticità che il settore DOP IGP STG deve affrontare, come la concorrenza internazionale, l'aumento dei costi di produzione e la necessità di innovare i processi produttivi. Tra le priorità del settore, si evidenziano la promozione dei prodotti DOP IGP STG sui mercati internazionali, la valorizzazione delle produzioni locali e la sostenibilità ambientale. Inoltre, la Commissione Europea ha proposto una riforma del sistema delle Indicazioni Geografiche (IG) dell'Unione Europea. La riforma, che dovrebbe essere approvata entro il 2023, mira a modernizzare il sistema e a renderlo più efficace. Il settore delle denominazioni tutelate italiane è preoccupato per alcuni aspetti della riforma proposta. In particolare, i produttori italiani temono che la riforma possa ridurre

L'analisi dei dati del rapporto Ismea-Qualivita 2023 consente di evidenziare alcune tendenze del settore DOP IGP STG. Innanzitutto, il settore è in continua crescita, sia in termini di valore economico che produttivo: questa crescita è trainata da una serie di fattori, tra cui la crescente attenzione dei consumatori alla qualità e alla sicurezza alimentare, la valorizzazione delle produzioni locali e la promozione dei prodotti DOP IGP STG sui mercati internazionali. In secondo luogo, il settore è un importante motore per l'economia italiana, poiché genera un altissimo valore aggiunto ed occupando migliaia di persone. Il settore è particolarmente importante per le regioni del Nord Italia, dove è concentrata la maggior parte delle produzioni DOP IGP STG. Le filiere più importanti sono quelle del vino (4,5 miliardi di



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euro di valore alla produzione nel 2022), dei formaggi (3,3 miliardi di euro) e dei salumi (2,2 miliardi di euro). Infine, il settore è in continua evoluzione, con la necessità di innovare i processi produttivi e di promuovere i prodotti DOP IGP STG sui mercati internazionali. Il settore DOP IGP STG è strategico per l'economia italiana, in continua crescita e con un importante impatto sul territorio.

Prospettive future Le prospettive future del settore DOP IGP STG sono positive, in quanto si trova in una fase di crescita e innovazione. Tuttavia, è necessario nel breve periodo affrontare alcune sfide, tra cui la concorrenza internazionale, l'aumento dei costi di produzione e la necessità di innovare i processi produttivi. Per superare queste sfide, si rendono necessari investimenti nella promozione dei prodotti DOP IGP STG sui mercati internazionali, nella valorizzazione delle produzioni locali e nella sostenibilità ambientale. Con queste strategie, il settore DOP IGP STG può continuare a crescere e a rappresentare un importante motore per l'economia italiana.

Principali risultati del XXI Rapporto ISMEA Qualivita 2022 • Il settore delle denominazioni tutelate italiane, DOP e IGP, ha superato la soglia dei 20 miliardi € di valore alla produzione nel 2022 (+6,4% su base annua), assicurando un contributo del 20% al fatturato complessivo dell’agroalimentare italiano. • All’interno del settore, il comparto cibo sfiora i 9 miliardi € (+9%), mentre quello vitivinicolo supera gli 11 miliardi € (+5%). • L’export DOP IGP ha raggiunto quota 11,6 miliardi € (+8% sul 2021), rappresentando il 19% del giro d’affari all’estero dell’agroalimentare nazionale. • La filiera del cibo realizza 4,7 miliardi € di fatturato evidenziando un +6% in un anno e un +66% nel decennio, per effetto soprattutto del recupero dei mercati Extra-UE (+10%). • Il comparto vino sfiora i 7 miliardi €, registrando una progressione del +10% sul 2021 e +80% rispetto al 2012 (+116% considerando solo i vini DOP). Le DOP e IGP vinicole rappresentano a valore quasi il 90% delle esportazioni delle cantine italiane. • Le quattro regioni del Nord-Est concentrano da sole oltre la metà (55%) del valore nazionale delle DOP e IGP, con Veneto ed Emilia-Romagna che si confermano le prime regioni in assoluto per valore economico, mostrando una crescita di quasi il +6% sul 2021. • Il comparto del cibo DOP IGP sfiora i 9 miliardi € di valore all’origine (+9% la crescita annua, +33% il trend in dieci anni) per un fatturato al consumo finale che supera i 17 miliardi € (+6%). • L’export del comparto raggiunge 4,6 miliardi € ( +6% su base annua e +66% sul 2012), grazie soprattutto al recupero dei mercati Extra-UE (+10%). • La produzione di vino imbottigliato DOP IGP, dopo il forte balzo nel 2021, si attesta a 26 milioni di ettolitri nel 2022, in ridimensionamento sull’anno precedente (-4%). • I dati in valore indicano invece, sulla base delle stime aggiornate, una crescita per l’imbottigliato (+5% a 11 miliardi €) e per lo sfuso (+13% a 4 miliardi €). • Tra le prime dieci denominazioni per valore, nove fanno registrare una crescita rispetto al 2021. • A fronte di volumi esportati simili al 2021, gli introiti crescono del 10%, arrivando a sfiorare i 7 miliardi € nel 2022, per un trend del +80% rispetto al 2012 e risultati positivi soprattutto per i vini DOP (+12%) e in particolare per gli spumanti (+21%). • Le vendite dei principali prodotti IG a peso fisso e variabile nella GDO hanno oltrepassato nel 2022 i 5,4 miliardi € (+3% su base annua), con una dinamica più sostenuta per il cibo (+5,6%) rispetto al vino (-2,5%) che risente della ripresa del fuori casa. • I dati relativi ai primi nove mesi del 2023 indicano un ulteriore balzo in avanti del +10% della spesa alimentare nella GDO, a fronte di un incremento lievemente più contenuto per gli acquisti di prodotti a marchio DOP e IGP (+8%).


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Benessere animale: a che punto siamo? L’indagine di Animal Equality

di Domenico Maria Jacobone

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na nuova inchiesta documentata dal team investigativo di “Animal Equality” mostra come milioni di vitelli separati dalle loro madri subito dopo la nascita vengano “maltrattati” dall’industria lattiero-casearia. Con 128 litri pro capite consumati in media ogni anno, il Messico è il quindicesimo Paese al mondo per consumo di latte e la sua produzione è in aumento. Ma negli allevamenti messicani (e in quelli di tutto il mondo) produrre latte significa privare i vitelli del nutrimento delle loro madri e mutilarli in modo efferato per favorire il loro sfruttamento. L’inchiesta di Animal Equality L’inchiesta di “Animal Equality” ha documentato le condizioni di vita di vitelli e mucche in un allevamento lattierocaseario in Messico. Le immagini raccolte sono scioccanti e mostrano come questi animali siano sottoposti a sofferenze indicibili.


37 Le mucche sfruttate

I vitelli maschi nati nell’industria lattiero-casearia vengono uccisi quando sono ancora dei cuccioli perché non possono produrre latte e la loro razza è poco utilizzata dall’industria della carne. In Italia, nel 2022, sono stati macellati 544.557 vitelli sotto gli 8 mesi, spesso allevati con alimentazione artificiale per avere carni più chiare e meno ricche di ferro. Le vitelle, invece, vengono mutilate senza anestesia in modo che non sviluppino le corna. Questa procedura provoca dolore acuto e forte stress e può avere conseguenze a lungo termine se la ferita si infetta. Come mostrano le immagini documentate in Messico, questa mutilazione eseguita senza anestesia non sempre viene cauterizzata per contenere eventuali emorragie. Dopo il taglio delle corna, le femmine vengono utilizzate per sostituire le mucche che, stremate dai cicli di gravidanze forzate continui, non sono più in grado di produrre latte.

L’aspettativa di vita di una mucca in natura è di circa 20 anni ma nell’industria lattiero-casearia questi animali vengono uccisi dopo 3-4 o, nella migliore delle ipotesi, 5 anni dalla nascita, quando non sono più considerati produttivi. La produzione di latte richiede infatti che questi animali vengano ingravidati regolarmente, in modo che i vitelli possano essere allontanati e il loro latte destinato al consumo umano. Questi cicli di sfruttamento costante sfiniscono presto le giovani mucche, vittime spesso di malattie e infezioni. Tra le malattie più comuni di cui può soffrire una mucca allevata, se ne rilevano principalmente tre, spesso mortali. Le principali malattie, per ordine di importanza sono: l’inedia metabolica (che si verifica quando una mucca non può consumare abbastanza cibo per stare al passo con gli sforzi fisici richiesti per la mungitura doppia quotidiana e quindi deve attingere alle riserve del proprio corpo), la mastite (un’infezione della mammella derivante dalla mungitura continua che provoca la secrezione di pus) e la zoppia (provocata dalle condizioni innaturali in cui sono allevate le mucche). La situazione in Italia In Italia, si producono quasi 13 milioni di tonnellate di latte. Secondo i dati Eurostat, il nostro Paese è tra i primi quattro Stati europei dove se ne produce di più ma questo significa che probabilmente 2,8 milioni di mucche vengono costrette ogni anno a gravidanze forzate per permettere la produzione di latte, con gravi ripercussioni sulla loro salute. Si stima inoltre che in Italia il 4,5% delle mucche venga ucciso ogni anno mentre è ancora incinta: si tratta di quasi 130.000 mucche, un dato che supera la media europea. La denuncia di Animal Equality “La nostra inchiesta denuncia un sistema comune in tutto il mondo, Italia compresa: le mucche sono considerate dall’industria come


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macchine per la produzione di latte, poco importa che vengano sfruttate in modo estremo. Le violenze continue a cui sono sottoposte, l’allontanamento brutale dai loro cuccioli e le condizioni di reclusione che subiscono per tutta la loro vita ci mostrano chiaramente un meccanismo di produzione insostenibile, frutto di logiche inaccettabili.

Scegliere alternative vegetali significa smettere di finanziare un’industria che si basa su abusi e prevaricazione”, dice Matteo Cupi, Vicepresidente di “Animal Equality Europa” nell’ultimo comunicato stampa diramato a dicembre 2023. La scelta vegetale Secondo “Animal Equality” la scelta di consumare alternative di origine vegetale al latte bovino potrebbe essere un’opportunità etica. L’utilizzo di questi surrogati, sempre più disponibili e con gusti

accettabilmente vicini al prodotto animale, permetterebbe di evitare di contribuire allo sfruttamento degli animali negli allevamenti intensivi lattiero-caseari. Sicuramente, lo sfruttamento dell’allevamento intensivo e delle conseguenti produzioni alimentari sarebbe argomento di cui “parlare con” ed informare chiaramente il consumatore. Tuttavia, in Italia mi preme rilevare che si diffondono le buone pratiche di aziende che hanno scelto modalità di allevamento sostenibili e rispettose della salute animale, i cui prodotti possono essere consumati “a cuor leggero”, ovvero senza temere maltrattamenti di sorta. L’estremismo della scelta di consumare esclusivamente prodotti di origine vegetale che sempre più si va delineando in questo periodo, in quanto tale, non trova il mio accoglimento, mentre forse sarebbe il cercare di bilanciare il consumo di prodotti di origine animale e vegetale nel rispetto di un’alimentazione completa ed equilibrata, come suggerito in altri articoli da colleghi specializzati in nutrizione, anche su queste pagine.


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Glutine sì, glutine no. Fa bene o fa male mangiare senza glutine? di Alfonso Del Forno

Il dibattito sull'inclusione o esclusione del glutine dalla dieta, da alcuni anni, è diventato un argomento centrale nel mondo dell'alimentazione. Per affrontare in maniera corretta questo argomento, è necessario fare due precisazioni fondamentali: definire i benefici del glutine e capire in cosa consiste una dieta senza glutine.


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Il glutine, una proteina presente in alcuni cereali come frumento, orzo, farro e segale, è noto per la sua capacità di conferire elasticità e struttura agli impasti. Tuttavia, non è considerato un nutriente essenziale. A differenza delle proteine presenti nella carne, nel pesce o nei latticini, il glutine non offre una vasta gamma di aminoacidi essenziali.

Quali sono i benefici del glutine?

Il glutine è principalmente responsabile della coesione delle componenti amidacee del chicco di cereale. La sua presenza negli alimenti consente di ottenere impasti elastici e viscosi ed è comunemente utilizzato nell’industria alimentare come additivo per le sue proprietà addensanti. Tuttavia, non esiste una necessità biologica di

consumare glutine, poiché altre fonti proteiche offrono una gamma più ampia di nutrienti essenziali. L’industria alimentare ha selezionato, negli ultimi decenni, varietà di frumenti con quantità sempre più elevate di glutine, per la sua caratteristica di coadiuvante tecnologico, non come elemento nutriente.

Cosa comporta una dieta senza glutine?

La dieta senza glutine non va intesa come sostituzione dei prodotti a base di frumento con alternative prive di glutine. Include infatti una vasta gamma di alimenti naturalmente privi di glutine come legumi, carne, pesce, formaggi, ortaggi, verdure e altri cereali come riso, mais, quinoa, sorgo, miglio e amaranto. Questi alimenti costituiscono la base di una dieta senza glutine, offrendo una varietà di nutrienti essenziali. Falsi miti portano spesso a pensare che una dieta senza


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glutine sia associata a prodotti sostitutivi ad alto contenuto di zuccheri e grassi. Tuttavia, la realtà è diversa: negli ultimi anni, l’industria alimentare ha compiuto sforzi significativi per migliorare la qualità nutrizionale dei prodotti senza glutine. Ciò ha portato a un’ampia gamma di alternative più bilanciate e nutrizionalmente simili ai prodotti contenenti glutine. A livello mondiale, più della metà della popolazione segue naturalmente una dieta senza glutine, basata su cereali come riso e mais. Questa pratica, diffusa in molte culture, offre una varietà di opzioni alimentari che non dipendono dal frumento, fornendo un’ampia gamma di nutrienti. I benefici di una dieta senza glutine partono dall’ampliamento delle opzioni alimentari. Una dieta senza glutine, se ben bilanciata e varia, può offrire vantaggi come l’introduzione di una più ampia varietà di cereali nella propria alimentazione. In paesi come l’Italia, dove il frumento è predominante, questa diversificazione potrebbe portare ad arricchire il nostro regime alimentare e, nel contempo, bilanciarlo.

La “moda” del gluten free

Mangiare senza glutine viene spesso definita una moda, denigrando tutti quelli che mangiano senza glutine in assenza di patologie, che richiedono necessariamente questo regime alimentare. Ma chi lancia le accuse dimentica due fattori importanti. Il primo è di natura salutistica: se si definiscono i prodotti senza glutine dannosi per la salute del non celiaco perché ricchi di grassi e zuccheri, non capisco perché questo consiglio a non consumarli non debba essere esteso anche ai celiaci.


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Si pensa forse che loro possano correre il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete solo per sostituire il glutine? L’altro elemento è di natura commerciale. Se non ci fossero stati così tanti consumatori a mangiare senza glutine in Italia (21% della popolazione - dati Eurispes 2023), oggi sul mercato non ci sarebbe questa vasta scelta di alimenti senza glutine. Basta fare un giro tra gli scaffali di un supermercato per vedere quanta offerta è disponibile oggi.

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Per farla romana, ci vuole il mattarello

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rovate a digitare su PIZZA PUTTANESCA - MIRKO RIZZO

Google “pizza stesa con

il mattarello”, tra i primi risultati leggerete: Perché la pizza non si stende con il mattarello? Un impasto steso con il mattarello può diventare troppo sottile e fragile; inoltre, la pizza lavorata con questo strumento tende a ritirarsi su sé stessa e diventare secca durante la cottura. La pizza al mattarello è la pizza storica di Roma: bassa, sottile e “scrocchiarella”, con il condimento steso su tutta la superficie e i bordi bruciacchiati. Per ogni romano di qualsiasi età questa è - ed è sempre stata - “la pizza”, prima dell’invasione della napoletana e dell’esplosione della contemporanea. E in questa tipologia di pizza si ritrova l’identità con la città e il suo popolo, si trova la storia di una Roma di quartiere: basti pensare a pizzerie come “Ai Marmi” a Trastevere o “Remo a Testaccio”, che hanno ispirato le nuove generazioni di pizzaioli e si trovano anche e soprattutto le storie di famiglia e i ricordi di momenti felici e croccanti.

CAPRICCIOSA DI MARE - LUCA PEZZETTA

Ora, chi lo spiega a Google che la pizza romana secondo tradizione si stende al mattarello e che, seppur sottile, non è fragile e non si ritira su sé stessa? Provate a parlare con un pizzaiolo romano doc e scoprirete che tra la pizza e il mattarello a Roma c’è una lunga e profonda storia d’amore. L’una richiama l’altro come strumento imprescindibile, come elemento tecnico capace di conferire caratteristiche estetiche, di consistenza e di sapore differenti. E, per farla a mestiere, ci vuole grande capacità e sicuramente tanta passione, come quella di molti pizzaioli moderni che hanno puntato sulla tradizione, riscoprendo questo tipo di pizza come la pizza del futuro.

(Ph. Romanogmt)

Dopo anni di trionfo della “nuova pizza”, di nuovi impasti, cornicioni alti e di una napoletanità strabordante, la pizza romana riesce a tornare in auge e rimettersi sotto i riflettori. Forse i pizzaioli - e anche noi mangiatori di pizza - a quella pizza sottile hanno preferito le nuove sperimentazioni, le versioni gourmet e soprattutto gli impasti alveolati, “scioglievoli” e digeribili. Per mettere fine a questo lungo periodo di distrazione dalla romanità, nel 2018 fu steso il “Manifesto della Pizza Romana” che in sintesi descrive così la pizza romana tonda (perché di pizza romana ci sta anche quella in teglia): “La nuova pizza romana è una pizza bassa con una consistente nota croccante. È condita fino al bordo. Il disco deve essere di circa 30 centimetri di diametro, non ci sono tracce di farina sul bordo o sulla base”. Il documento sintetizza nei suoi 10 punti l’essenza di questo prodotto: dagli ingredienti necessari alle caratteristiche estetiche e organolettiche che una vera pizza romana dovrebbe avere dalla storia all’impasto, passando per il condimento, la spianatura e la cottura.


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Se, in origine…

PIZZA AROTA

Se, in origine la pizza tonda, al piatto, è nata con materie di qualità bassa e una lavorazione veloce (massimo 4 ore di lievitazione) per poter contenere i costi ed essere accessibile e popolare, da questo momento in poi della pizza romana si punta a tenere il buono, a valorizzarne le caratteristiche tecniche e di gusto puntando a un’evoluzione della specie attraverso la messa in pratica delle competenze acquisite su farine, idratazioni e lunghe lievitazioni che rendono il prodotto migliore, digeribile, fragrante. Si assiste ad un movimento della pizza romana che vuole non solo sopravvivere ma imporsi nel futuro, tornare a essere pizza di riferimento di una città, mattarello incluso. Il mattarello è l’arma vincente di molti pizzaioli che scelgono la pizza romana, quella fatta come una volta e che esige la stesura dell’impasto

Sami El Sabawi rigorosamente a mattarello e non a mano. Non solo una scelta stilistica ma una vera dichiarazione d’amore per la tradizione. E questo è il primo aspetto che si evince da un giro di domande fatte ad alcuni dei pizzaioli a Roma che hanno puntato sulla pizza della città e sul mattarello. E sono molti quelli che ti dicono che se stendi a mano la pizza non è propriamente romana ma diventa una sua variante, diversa anche nel gusto. Come ci spiega Luca Pezzetta, pizzaiolo di “Clementina” a Fiumicino: “Il mattarello uniforma l’impasto togliendo ogni presenza di aria, creando in cottura non solo croccantezza ma conferendo anche un sapore differente”. Mentre nelle pizze stese a mano, seppur sottili, in cottura si possono creare delle piccole bolle che danno un aspetto estetico e una consistenza diversi.

Tra i primi a “rispolverare” il mattarello c’è Sami El Sabawi, un nome non proprio romanissimo ma che di Roma e della pizzeria di famiglia dove è nato e cresciuto ha respirato ogni cosa: “La prima pizza con cui ho avuto a che fare è stata proprio la pizza romana e, nonostante le varie esperienze fatte in giro per la città, il primo amore non si scorda mai. Così, quando ho inaugurato il progetto di “A Rota Pizzeria Romanesca” ho voluto riproporre la pizza romana secondo tradizione. Non poteva essere diversamente. E per “tradizione” intendo la pizza stesa con il mattarello. Sono stato il primo a riportare di nuovo in auge questo utensile di cucina, dopo che per molto tempo la pizza romana è stata stesa a mano, proprio perché si pensava che il mattarello rovinasse l’impasto”. Ovviamente Sami, come molti altri pizzaioli di oggi, in quella che è la pizza di ieri ha portato le conoscenze e le tecniche contemporanee e, come sottolinea: “Se vogliamo parlare di innovazione o di rivisitazione, quella per me si traduce come il portare la pizza romana ad essere un prodotto di qualità, fatta con farine selezionate, lievitazione lunga fino a 48 ore, un’idratazione più alta, con una consequenziale digeribilità del prodotto, che diventa oggettivamente migliore e più buono in tutti i sensi. Un impasto così si deve poi sposare con il gusto del condimento e saperlo tenere e gestire nella sua struttura sottilissima.


Anche nel condimento cerco di essere più classico possibile: nessuna esagerazione ma poche variazioni creative e stagionali con cui mi diverto”.

Dopo Sami, di pizzaioli tradizionalisti ne sono venuti altri e - bisogna riconoscerlo - tutti giovani. La pizza stesa col mattarello conquista le nuove generazioni e da qui nasce un vero movimento, un filone di valorizzazione non secondario che ha portato di nuovo sotto i riflettori la pizza romana, che sempre più spesso ritroviamo nelle classifiche e nelle guide con grandi risultati.

Luca Pezzetta

CLEMENTINA - VEGANA GOLOSA

Dello stesso pensiero è Luca Pezzetta, altro enfant prodige dei lieviti, che si è sempre dilettato con grani, farine, lievito madre e pizze di ogni formato, per poi legarsi nella sua nuova avventura a Fiumicino alla pizza stesa a mattarello, proprio come la faceva suo nonno.

“Per me la pizza romana è fatta unicamente al mattarello: un prodotto senza mattarello non si può definire romano e poi con le mani non si riescono a replicare quelle caratteristiche, anche di gusto, che dà il mattarello. E deve essere ovviamente cotta nel forno a legna, che regala ai bordi quella “sbruciacchiatura” riconoscibile. Scegliere di lavorare seguendo la tradizione per me significa riconoscere e dare valore ai pizzaioli storici di Roma e al loro lavoro.

Nelle loro pizze c’è la “romanità”, c’è la storia e tutto ciò non si può tradire. Noi abbiamo apportato nuove tecniche di impasto, nuove conoscenze, abbiamo migliorato il prodotto ma, alla base, ci deve essere il rispetto delle caratteristiche formali di quella che è la pizza romana”.

Altra voce è quella di Gabriele Tomassetti, pizzaiolo di “Svario”, anche lui giovanissimo e che, dopo aver esplorato diverse strade, ha trovato nella pizza a mattarello la sua radicata connessione con Roma. “La pizza per me è molto più di un semplice piatto: è tradizione e custodisce i ricordi legati all'infanzia, quando andare a mangiare la pizza era un rituale sacro, una ricorrenza o qualcosa da festeggiare. Quando abbiamo dato vita a “Svario” non ho avuto dubbi, volevo un luogo – o meglio un rifugio dove posso esprimere al massimo la mia visione della pizza romana. La pizza romana per me è ancora stesa con il mattarello e ogni giorno mi impegno a preservare quelle antiche

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usanze che ci accompagnano da generazioni. Poi, ricerco la modernità nell'uso di topping più ricercati e innovativi con cui mi diverto a giocare, anche se la cucina romana di tradizione è la mia fonte di ispirazione e sono convinto che sia proprio questa fedeltà alle pratiche culinarie tradizionali a permetterci di raggiungere il successo che godiamo nel mondo della pizza oggi”

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Gabriele Tomassetti

Voce fuori dal coro è quella di Mirko Rizzo che dichiara subito:

Mirko Rizzo

“Ho scelto la pizza stesa al mattarello per una questione stilistica; mi piace l’effetto laminato, il disco sottile, uniforme e croccante che diventa la base per raccontare la mia città in tutti i sensi. Non ne ho mai fatto un discorso di tradizione, se devo trovare un legame con il passato lo ricerco nella memoria, nei ricordi che ho della pizza, del suo sapore, di quel momento condiviso con i miei genitori. Ricordo l’odore della pizzeria e del forno a legna, la “sbollatura” della pizza, la croccantezza sotto i denti.

Ecco, tutto ciò mi suscita emozione ed è quella che ricerco e cerco di portare nelle mie pizze. Di mio ci ho aggiunto la tecnica personale, i nuovi processi acquisiti; sarebbe impensabile oggi fare un impasto come quello di dieci anni fa”. Da “L’Elementare”, la pizzeria di Mirko che ha più sedi a Roma, la pizza rispetta i canoni classici, anche nella farcitura: poche scelte, molto basiche e che riprendono le ricette tipiche romane come fiori di zucca e alici, la puttanesca, il saltimbocca, la trippa, le polpette. “E qui – come ci fa notare Mirko posso dire che la tradizione vince e a ispirarla è la cucina di nonna”


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L’ALTRO VOLTO DELL’ECCELLENZA di Giuseppe Lucia Master Istruttore

Oggi a Roma A Roma, le pizzerie di pizza romana negli ultimi due anni si sono moltiplicate in modo esponenziale, nascono più frequentemente nuovi progetti e format che mettono la tonda romana come regina del menu. Non tutte sono pizze stese al mattarello, pertanto per una logica di identità e storicità il termine di pizza romana sarebbe (specie secondo i tradizionalisti) preso in prestito. Che sia romana o variazione dell’originale, stesa al mattarello o stesa a mano, la cosa più importante da mettere in evidenza è che si sta delineando un percorso lungo che porterà lontano questo tipo di pizza. Ci sono buone mani nel panorama dei pizzaioli più famosi ed emergenti che stanno lavorando con qualità e grandi risultati e anche buone idee, sperimentazioni e creatività sui topping che catalizzano l’attenzione da parte dei clienti e della stessa stampa. La pizza tonda romana potrebbe diventare la pizza del futuro? Forse sì! Da quanto si osserva, ha tutti i numeri per arrivare ad essere un lievitato riconosciuto a livello nazionale, che rientra a pieno titolo nell’universo pizza senza essere considerata

Mi chiamano “Zio Giglio”: è il nome che mi ha dato un bambino e che ho deciso di far diventare il mio “nome d’arte”. Ho voluto legare questo nome al mio personale progetto di lavoro e di vita, non finalizzato solo a impastare, bensì a creare prodotti che abbiano un’anima. Per me quell’anima è data, oltre che dagli ingredienti di prima scelta che adopero nel mio locale, anche dai produttori dai quali mi rifornisco, ovvero ragazzi che lavorano sul territorio e cooperative sociali che impiegano persone che si stanno riabilitando al lavoro. Ecco perché in ogni prodotto che propongo c’è per me un senso di riscatto, perché racconta la voglia di riprendersi in mano la propria vita. Questo per me vuol dire “eccellenza”. Le scelte che compiamo ogni giorno ci rendono ciò che siamo e io credo che le mie mi consentano di andare oltre il mestiere del panificatore, del “comune pizzaiolo”, non perché mi ritenga più bravo di altri ma perché i ragazzi con cui lavoro, alcuni dei quali affetti da malattie genetiche, riescono a rendere la produzione, l’accoglienza dei clienti e la vendita dei prodotti i momenti più gratificanti delle mie giornate. Stare accanto a quei ragazzi, coordinati insieme ad Alessandra De Bellis, nell’orario di lavoro, gioire per le loro conquiste e consolarli per qualche piccola sconfitta, rende ciò che faccio un progetto magico, che mi rende ancora più cosciente dei miei limiti e delle mie potenzialità. Ecco, sento di poter dire che questo percorso rappresenta, per molti aspetti, un’esperienza continua e gratificante di formazione sul campo, quella che oggi viene definita “training on job”. In qualità di Master istruttore della Scuola Italiana Pizzaioli, conosco bene il valore della parola “formazione” e auspico quindi di potere offrire quotidianamente il mio contributo nella creazione di percorsi formativi democratici e inclusivi, che permettano a chiunque di trovare il proprio posto nel mondo. In questo particolare momento storico, credo sia necessario aggrapparsi a quanto di bello la società ci può offrire: io lo faccio con i sorrisi dei miei ragazzi.

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I D E EZION

L A N U

O R E I T L A GU I S E H C R MA di Giampiero Rorato


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Un

giorno di non molti anni fa, il grande cuoco milanese e sapiente maestro di cuochi Gualtiero Marchesi (1930-2017), tenendo una lezione agli allievi cuochi di una Scuola Alberghiera (IAL di Aviano, PN), disse loro che nella vita professionale il punto di partenza è la capacità di realizzare bene la “cucina della nonna”. L’affermazione colpì l’uditorio molto attento ma lo stesso faticò a percepirne il significato che Marchesi si affrettò a spiegare. La nonna – ricordo a memoria le sue parole – conosceva molto bene i prodotti che usava, le verdure dell’orto che lei stessa coltivava; gli animali del cortile che lei stessa allevava; i prodotti che acquistava nella bottega del paese di cui sapeva l’origine, le caratteristiche e gli usi migliori. E allo stesso modo - disse allora Marchesi – voi aspiranti cuochi per prima cosa dovete conoscere benissimo i prodotti che usate quando preparate i piatti per i vostri clienti, sapendo scegliere i migliori. La verdura deve essere sana, fresca, di stagione, meglio se prodotta vicino a voi, quindi di filiera corta; l’olio extravergine dovete sceglierlo personalmente dopo aver visitato diversi frantoi (ce ne

sono in tutte le regioni italiane); così i formaggi e così le carni, per le quali dovete avere un macellaio di fiducia e per il pesce un fornitore anch’esso serio e bravo che vi sappia dare tutte le informazioni sul prodotto che vi vende. Diceva che un bravo cuoco comincia realizzando i piatti tradizionali di casa sua, quelli tramandati dalla nonna, così impara il modo di conservare e poi elaborare i vari prodotti, il modo di cuocerli, sapendo che le cotture attuali sono spesso diverse da quelle del passato e spiegava perché. La sua lunga e affascinante conversazione, con precisazioni e risposte puntuale agli studenti che alzavano la mano per chiarimenti, si concludeva così: “Prima di inventare dei piatti vostri, servono lungi anni di apprendistato, di esperienze magari anche all’estero presso ottimi ristoranti e dovete continuare a studiare per conoscere le novità delle tecniche operative, visitando anche le grandi fiere di settore e potete considerarvi cuochi veri solo quando dei cuochi di serie esperienza e provata capacità vi diranno che siete pronti.”


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Il grande maestro è stato ed è ancor oggi una colonna fondamentale della cucina italiana. Nato in una famiglia di ristoratori, prima di aprire nel 1977 un proprio ristorante in via Bonvesin de la Riva a Milano, aveva frequentato la Scuola Alberghiera di Lucerna ed era andato ad arricchire e perfezionare le sue conoscenze gastronomiche e la sua tecnica operativa a Roanne, in Francia, nel leggendario ristorante dei fratelli Troisgros, fondatori della nouvelle cuisine. Da Milano nel 1993, si trasferì ad Erbusco, in Franciacorta, dove aprì il ristorante “L’Albereta” e nel 2004 fu nominato Rettore della celebre Scuola ALMA di Colorno (Parma), una Scuola di Alta Cucina che da anni prepara nuove qualificate leve per la ristorazione

I R E P A S I italiana. Personalità di grande cultura ed esperienza professionale, Marchesi diceva che le prime cose che un aspirante cuoco deve sapere è tutto ciò che riguarda la materia prima impiegata in cucina: caratteristiche nutrizionali, origine storica, presenza nella cucina locale, usi migliori, accostamenti più interessanti, ecc. Ed aveva pienamente ragione, poiché non si possono usare con competenza, correttezza e proprietà i prodotti se si conoscono in modo solo approssimativo. E affermava che una esatta conoscenza del loro valore nutritivo aiuta molto a preparare piatti sani, salubri e piacevoli, e la capacità di preparare piatti sani, nutrienti, belli e piacevoli è il segno di una cucina matura.

Ma non basta. Marchesi, che amava attingere a quanto di meglio trovava sul mercato, voleva conoscere accuratamente la storia di un prodotto arrivato da lontano; come era impiegato nel luogo di origine; con quali altri prodotti si abbinava meglio, ecc. come dire che per realizzare una buona cucina è necessario conoscere la storia di ogni prodotto impiegato, la sua origine, la sua tradizione alimentare e gastronomica. E solo se possiede queste conoscenze un cuoco può essere protagonista a tutto tondo nel suo ristorante e, salutando in sala i clienti, come sta diventando sempre più un’apprezzabile tradizione, può dar loro puntuali risposte sul suo lavoro, sui piatti che prepara e sui prodotti che impiega.


il buon pomodoro italiano

“Gli artisti della pizza”. Ogni mese, ci deliziamo con dodici straordinarie creazioni dei nostri 'Ar�s� della Pizza'. Per il mese di febbraio, abbiamo la magnifica pizza “La Passione Toscana” ideata dalla talentuosa pizzaiola Luiza Achitei. Questa prelibatezza è realizzata con il nostro esclusivo “Pomopizza”, pensato appositamente per la regina della cucina napoletana. Un'auten�ca opera d'arte culinaria, che unisce sapori tradizionali a un tocco moderno, rendendola perfe�a come pasto completo. Può essere accompagnata da una birra ar�gianale di qualità, per un'esperienza gastronomica unica e indimen�cabile.

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LA

E N O I S S E OF

PR

Quando Marchesi venne alla Scuola Alberghiera di Aviano sapeva bene chi avesse di fronte, tanti ragazzi che non avevano mai visto prima una cucina, parecchi immigrati dai Paesi balcanici; ma anche figli di titolari di trattorie, felici di trovarsi di fronte a un cuoco famoso per carpirne qualche segreto. E Marchesi seppe accontentarli tutti, parlando della cucina italiana, di quanto fosse importante e amata anche dai buongustai stranieri, per cui le ragazze e i ragazzi che vogliono diventare cuochi non basta che conoscano le cose prima illustrate, perché un vero cuoco ama la cucina, si appassiona al suo lavoro, è orgoglioso del titolo di cuoco e se c’è questo amore, questa passione e questo orgoglio si può davvero diventare bravi cuochi richiesti dalle grandi cucine sia in Italia che all’estero.

La professione del cuoco è impegnativa, spesso non ha orari ma regala tante belle soddisfazioni ed è per quanto ho scritto in questo articolo che ritengo fondamentale che in tutte le Scuole e gli Istituti Alberghieri entrino dei bravi cuochi professionisti non certo per insegnare ciò che stanno giù apprendendo bene dai loro docenti, ma per far conoscere la vita vera dei cuochi che devono

dedicare alla loro professione il meglio di sé, senza ambire a fare i divi televisivi, facendo illudere troppi giovani che pur amano la professione. Gualtiero Marchesi è stato un buon maestro e leggere quanto ha scritto nei suoi libri aiuta a diventare cuochi all’altezza dei tempi nuovi e ad avere una vita dignitosa, ricca di conoscenze e di soddisfazioni.


BORN TO BURN

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LE AZIENDE INFORMANO

Pater® Pizza: la rivoluzione dei fermenti lattici in pizzeria PATER® PIZZA Il Granaio delle Idee Srl Via Trento, 7 35020 Maserà di Padova - Padova - Italy info@igdi.it

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I

l Granaio delle Idee, azienda specializzata nella ricerca e sviluppo, produzione e commercializzazione di miscele clean label per panificazione, pasticceria e pizzeria, ha lanciato sul mercato una nuova miscela: Pater® Pizza. Pater® Pizza contiene i fermenti lattici vivi e i lieviti tipici della microflora originale del lievito madre ed è un prodotto rivoluzionario perché, grazie alla sua formulazione unica ed innovativa, permette di racchiudere - per la prima volta sul mercato - le caratteristiche e le funzionalità del lievito madre in pasta in una miscela disidratata. Pater® Pizza è la soluzione ideale per i maestri pizzaioli che desiderano migliorare sensibilmente la qualità del prodotto finito. I benefici sono infatti molteplici: • Scioglievolezza unica, apprezzabile fin dal primo assaggio • Sapori e aromi avvolgenti, tipici del lievito madre, che arricchiscono l’esperienza gustativa • Migliore masticabilità

Inoltre, Pater® Pizza è una miscela clean label, ovvero senza ingredienti di origine chimica, che può essere utilizzata per la produzione di tanti prodotti, come pizza classica, pizza napoletana, focaccia ligure, focaccia romana e altro ancora. Il dosaggio consigliato è del 10% sul peso della farina, da aggiungere agli ingredienti della propria abituale ricetta: farina, acqua, sale e lievito di birra. I fermenti lattici vivi e i lieviti contenuti in Pater® Pizza hanno un potere gasogeno ridotto, così come quelli del Lievito Madre in Pasta: per questo, è sempre necessario aggiungere il lievito di birra nella quantità abitualmente utilizzata. Pater® Pizza è un prodotto che può essere combinato con un’infinita varietà di farine ed è disponibile in paper bag da 5 Kg.



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Esagerare con moderazione a cura della Dott.ssa

Marisa Cammarano, biologa nutrizionista


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Il via, a Natale con i tuoi, lo danno i pranzi ed i cenoni e poi, per festeggiare capodanno con chi vuoi, in un batter d’occhio si finisce con l’Epifania che tutte le feste si porta via… ma non per molto, visto che Carnevale rincara la dose con chiacchiere e castagnole a volontà!

In

senso dietetico, significa che da domani si chiudono le gozzoviglie del Carnevale. Anche se questa è una situazione che capita spesso, ovvero quella dei buoni propositi intralciati da qualche occasione golosa. A parte Natale, Carnevale, Pasqua e compleanni vari, ogni giorno, infatti, abbiamo a disposizione grandi quantità di cibo e migliaia di ragioni per utilizzarlo o anche abusarne. Un collega che festeggia una promozione, un amico che si sposa, un anniversario, S. Valentino, una laurea, ecc... ma anche un litigio col partner, ansia per una serie di preoccupazioni, insonnia, solitudine, insoddisfazione, rabbia repressa e tanto altro ancora. Tante situazioni, dunque, che possono dirottare chi è

a dieta. Ecco che il cibo, da sostegno per la vita e momento di piacere da condividere, assume tutto un altro ruolo, può diventare, quindi, una valvola di sfogo, consolatorio, di conforto, sedativo, ansiolitico e antidepressivo. Un rifugio. Molto è racchiuso in quel non saper vivere i propri pensieri ed emozioni in modo diverso e doverli per forza comprimere o sedare attraverso il cibo. Alcune persone piuttosto che arrabbiarsi quando ricevono un torto e farsi valere con chi ha recato loro un danno, si rimpinzano di cibo. Altre persone quando sono molto tristi invece di piangere o cercare di capire quali siano le cause di quell'emozione, si consolano mangiando. E così via. Chi più chi meno, funzioniamo un pò tutti così. Il primo passo è riconoscere quali siano i meccanismi che innescano il rivolgersi al cibo e pian piano trovare delle soluzioni alternative. Ci vuole davvero molto tempo per scardinare il processo, che con molta probabilità si ripete ciclicamente da anni e con cui si è imparato a sopravvivere. Si, perché nonostante sia un comportamento disfunzionale, ha una sua parte di utilità nel proteggere il soggetto da emozioni o pensieri altrimenti non tollerabili. In questi casi, la soluzione non è seguire più ferreamente una nuova dieta ma cercare, all'opposto, di essere maggiormente comprensivi verso se stessi. Può essere molto utile imparare a sperimentare quelle emozioni che spaventano così tanto, provando a viverle e basta, per esempio. Altre volte invece, si può semplicemente concedersi una coccola col cibo, nella consapevolezza di quanto sta accadendo e senza farsi sopraffare dal senso di colpa né trasformando il piccolo "sgarro" in


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un'abbuffata fuori controllo. Molte persone non riescono a vivere "la dieta" come un percorso, fatto di salite, discese, buche e pianure. Seguire con successo un percorso la cui finalità è una modifica fisica e mentale, a lungo termine, non significa essere perfetti, essere rigidi, essere infallibili. Questa è una visione irrealistica della dieta. E della vita, più in generale. Quando cadiamo, per quanto male faccia, ci rialziamo sempre in piedi, più o meno velocemente, perché restare fermi per terra non è la nostra condizione ideale. Con la dieta è la stessa cosa: aver ecceduto durante le feste di Natale, qualche chiacchiera di troppo a Carnevale, questi momenti sono solo delle piccole pause che non meritano di essere erette a tragedia e/o fallimento della dieta e della propria vita. E' proprio quando si desidera imparare a mangiare meglio che bisogna accettare di fare pace con il cibo e costruire un nuovo equilibrio. La soluzione, quindi, sta proprio nel cedere a qualche tentazione e viverla in modo totalmente nuovo e diverso. Nello sperimentare una sana ma moderata indulgenza, fatta di piacevoli concessioni e priva di connotazioni di colpa. La vera conquista dovrà essere imparare a mangiare un solo cioccolatino, non sperare di non toccarne mai più uno, perché se così si suole fare, alla prima difficoltà si mangerà tutta la scatola, anziché fermarsi in tempo.

Alcuni consigli che permetteranno di gustare senza pensieri le bontà del carnevale

• Consumare in abbondanza verdura particolarmente ricca in fibre per rallentare l’assorbimento intestinale degli zuccheri. Iniziare ogni pasto con una ricca porzione di insalata mista per la salute del nostro apparato digerente. • Non esagerare con i carboidrati come pane e pasta e prediligere il frumento integrale a quello raffinato. • Portare in tavola piatti ricchi in proteine derivanti per esempio da pesce, carni e formaggi magri, legumi, uova, etc. • Scegliere accuratamente le materie prime per la preparazione dei dolci: non solo farine biologiche o integrali, ma anche zucchero grezzo, che non contiene tracce di contaminanti provenienti dai processi di raffinazione. • Espiare i "peccati di gola", è sempre possibile far seguire alle abbuffate delle sane, rigeneranti e rilassanti passeggiate in compagnia di parenti e amici.


63 • Gli alimenti fritti sono da mangiare ogni tanto, Carnevale viene una volta all'anno, si può mangiare un fritto senza farsi problemi, meglio però se in olio extravergine di oliva, perché non è solo un problema di colesterolo, importante valutare la qualità degli ingredienti, l'alimento da friggere ed il tipo di olio adoperato (alto punto di fumo e buona qualità di grassi), della modalità della cottura ma soprattutto della frequenza e della quantità che si consuma. NB: Si è sempre sconsigliato di consumare cibi fritti perchè associati ai rischi cardiovascolari a causa dei grassi che possono condurre all'aumento del colesterolo, della pressione sanguigna e dell' obesità. Invece, uno studio pubblicato su British Medical Journal, indica che mangiare cibi fritti non è necessariamente negativo per la salute per quanto riguarda i problemi cardiovascolari, a patto di usare l'olio extravergine di oliva.

Consigli per una salutare frittura • ridurre gli alimenti da friggere in piccole dimensioni per abbreviare i tempi di cottura; • asciugare bene gli alimenti prima di immergerli nell’olio; • scaldare l’olio senza mai superare i 180°C; • non friggere cibi freddi o congelati, portarli, cioè, prima a temperatura ambiente; • cercare di mantenere costante la temperatura di frittura; • scolare bene la frittura e asciugarla su carta assorbente • non salare né zuccherare durante la frittura • non riutilizzare mai lo stesso olio per friggere.


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SCINUÀ

stor di ie past a

IL NONRISTORANTE DI PUTIGNANO di Noemi Caracciolo


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Nel centro storico di Putignano, c’è un locale nel quale il tempo sembra essersi fermato: Scinuà. Quest’ultimo è gestito da Luigi Pugliese, il quale è spinto dall’unico desiderio di far sentire il cliente a casa. È proprio per questo motivo che sui social e alle persone presenta il suo “non ristorante” così: “Scinuà dove la cucina…” e prosegue “cucina territoriale ed essenziale”, lasciando spazio a immaginazione e curiosità, all’amore per la sua terra e alla bellezza dei sapori autentici di un tempo. Luigi è nato a Putignano nel 1979 e ha frequentato l’istituto alberghiero di Castellana Grot-

Quando è nata la tua passione

te diplomandosi nel 1998.

per la cucina? La passione è lentamente cresciuta nel corso degli anni. Sono stato fortemente condizionato dalla vita domestica della mia famiglia: guardavo sempre mia nonna e mia madre cimentarsi nella preparazione dei manicaretti fatti in casa. Usavano gli ingredienti più disparati che mio nonno portava dalla campagna. Negli anni, ho fatto diverse esperienze lavorative che mi hanno permesso di capire quale fosse la mia strada e grazie alle quali, soprattutto, ho trovato la mia dimensione.

Quale storia si cela dietro al nome “Scinuà”, cosa significa? Scinuà nasce nel febbraio del 2013 in pieno Carnevale, dopo quasi due anni di gestazione. Il locale si trova in pieno centro storico, tra le mura di quella che una volta era una vecchia osteria con cantina. Un luogo che soprattutto gli anziani del paese hanno vissuto. Il nome altro non è

che la pronuncia esatta dello “Chinoise” (termine francese), un colino in acciaio a forma conica utile a noi cuochi per filtrare intingoli, fondi di cottura e salse. Il termine ci piaceva perché sembrava accattivante e credevamo potesse essere una diversa nota suonata su un pentagramma un po’ addormentato e piatto, qual è il nostro paese. Penso che Scinuà abbia rappresentato un nuovo inizio per Putignano. Quando abbiamo aperto, nel centro storico c’erano soltanto un bar,


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una macelleria e una merceria. Siamo riusciti a portare tanti giovani nel borgo antico, i quali, a loro volta, hanno deciso di investire nel centro storico. Negli anni a seguire, sono nate altre realtà enogastronomiche, tutte splendidamente funzionanti. Oggi, insieme a tanti colleghi, abbiamo portato questa realtà a un buon livello. “Scinuà”, tra l’altro, rappresenta perfettamente il nostro stile di cucina.

Cioè? E quanto siete legati al territorio? Lo stile è basato sulla reinterpretazione dei piatti della nostra memoria, filtrati rispetto a ciò che riteniamo lontano dal nostro punto di vista. Siamo fortemente legati al nostro paese, al nostro territorio e alle persone che lavorano la terra. Prediligiamo l’uso di ingredienti poveri, convinti che rappresentino il trampolino delle nostre idee. Ci tengono in vita insomma.

Tre parole per descrivere la tua cucina. Spontanea e genuina, perché così sono io e penso che la mia cucina mi somigli. E poi “intima”, perché è una cucina che porta con sé tutte le mie esperienze e che ti fa sentire in una dimensione rassicurante e domestica.

storie di pasta

Ci sono dei piatti che ritieni vi rappresentino di più? Un piatto particolarmente rappresentativo si chiama U’Ndondr. Il nome ricorda un antico rito carnascialesco putignanese e nasce dall’urgenza di comunicare il forte senso di appartenenza alla città. Consiste in una fetta di caciocavallo di masseria grigliato sulla brace a carboni,


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servito con un gelato preparato da noi al gusto di olio extravergine di oliva e farinella, completato con fettine sottili di capocollo e gocce di cotto di fichi. È un piatto goliardico, come lo è il Carnevale per noi putignanesi. È in pratica un gioco di contrasti, che adoro e che è sempre presente nel nostro menù. Poi c’è la Patata di Polignano cotta sotto la cenere, scavata e farcita con le migliori cime di rapa di stagione, un filo d’olio e, per completare, l’immancabile spolverata di farinella. Rappresenta la pulizia estetica, l’essenzialità appagante della ricerca della semplicità. Infine, nel nostro menù sono immancabili: la guancia di vitello brasata al vino con la sua salsa e le verdure di stagione ripassate, la trippa soffocata e, cioè, cotta in pignata con abbondate cipolla e il midollo alla brace.

E per il Carnevale avete in mente qualcosa di speciale?

Ho notato che sui social non vi definite

Sicuramente le Brasciole di asino al sugo da servire con le orecchiette rigorosamente artigianali. Nel periodo di Carnevale sono immancabili.

“ristorante”, come mai? Per come la vedo io, questo termine limita la libertà di azione, nel senso che favorisce uno schema prestabilito che, a mio parere, è un po’ fuori tempo. La nostra è una “casa”, in cui vogliamo far vivere un’esperienza autentica e sincera, fatta da uomini

e donne che ci mettono l’anima. La famiglia per noi è tutto, i clienti sono tutto per noi. Vogliamo vivere il nostro lavoro con il massimo dell’umanità possibile, ci sentiamo “old style”. Dal lunedì al venerdì ci dedichiamo ai nostri clienti, il sabato e la domenica invece li dedichiamo a noi stessi, così da poter dare poi il meglio agli avventori. Scinuà è aperto, infatti, tutti i giorni dal lunedì al venerdì, a pranzo e a cena mentre è chiuso nei weekend: una scelta controcorrente ma davvero degna di nota.


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storie di pasta

PASTIFICIO FUTURO,

LA PASTA CHE HA IL GUSTO DELLA SPERANZA. di Giusy Ferraina


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«Non abbiate paura di diventare artigiani di sogni e di speranza. I sogni più belli si conquistano con speranza, pazienza e impegno, rinunciando alla fretta… Anche se sbagli, potrai sempre rialzare la testa e ricominciare, perché nessuno ha il diritto di rubarti la speranza».

Queste le parole di Papa Francesco, quando nel 2013 fa visita per la prima volta al carcere minorile di Casal Del Marmo a Roma. Era un Giovedì Santo e, dopo il rito della lavanda dei piedi ai minori reclusi, il Pontefice raccomanda: «Non lasciatevi rubare la speranza». Da questa frase, il seme di un’idea e di un progetto che ha visto la luce a novembre del 2023 con l’inaugurazione del Pastificio Futuro, una micro-azienda artigianale dove oggi lavorano proprio i giovani detenuti. A dare vita a questo progetto di speranza sociale è Gustolibero Società Cooperativa Sociale Onlus, con il sostegno della Conferenza episcopale italiana e di Caritas Italiana e in sinergia con la Direzione dell’Istituto Penale Minorile Casal del Marmo, il Centro della Giustizia Minorile Lazio-AbruzzoMolise, il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità.

“È stato un percorso burocratico e di ristrutturazione lungo e complesso, ma che alla fine è diventato realtà – ci racconta Alberto Mochi Onori, Presidente di Gustolibero. L’invito di speranza del Papa per noi volontari a Casal del Marmo è stato l’ennesimo incoraggiamento a fare qualcosa di più e di utile che potesse aiutare i ragazzi durante il loro percorso di detenzione e anche dopo, una sfida per noi e una bella avventura per loro”. Facendo i conti tra burocrazia, stato dell’immobile e ristrutturazione, ci sono voluti 10 anni per inaugurare il “Pastificio Futuro”, che già nel nome racchiude la sua visione positiva. Possiamo dire però che le parole del Santo Padre non sono cadute nel vuoto e che da un edificio in disuso all’interno del carcere minorile è stato costruito, quasi da zero, il laboratorio artigianale, sito in via Giuseppe Barellai 140, con entrata autonoma. Ed è stato proprio Papa Francesco il primo a varcare la soglia del pastificio, ospite


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speciale ed esclusivo qualche mese prima dell’inaugurazione ufficiale avvenuta lo scorso 10 novembre, alla presenza del cardinale Angelo De Donatis; del segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Baturi; del sindaco Roberto Gualtieri e del presidente della Regione Lazio Francesco Rocca. Inaugurazione alla quale hanno partecipato tre chef romani: Andrea Pasqualucci, Luciano Monosilio e Arcangelo Dandini che per l’occasione hanno cucinato i loro primi piatti del cuore tipici della cucina romana.

Ma come funziona la selezione e la retribuzione di questi ragazzi?

storie di pasta

Che cosa rappresenta Pastificio Futuro? “Questo pastificio è un laboratorio artigianale e formativo sotto tutti i punti di vista - ci racconta Alberto Mochi Onori. Qui si impara come si lavora, come si fa la pasta, come si fanno il marketing e la comunicazione del prodotto, con l’aiuto di tecnologi alimentari, chimici e volontari della nostra Cooperativa che da anni si occupano delle storie del carcere di Casal del Marmo. Allo stesso tempo, i ragazzi che abbiamo scelto per lavorare qui sono seguiti da educatori, che li sostengono in questo percorso, che è un percorso di crescita, una sfida con loro stessi e la società.

I ragazzi qui si trovano di fronte alla responsabilità del loro ruolo ma anche al rispetto di regole che non sono solo quelle del carcere; c’è un carico emotivo non indifferente e, conoscendo le loro fragilità, che sono quelle che li hanno portati a delinquere, cerchiamo in tutti i modi di supportarli e affrontare con loro ogni difficoltà”. Attualmente, al “Pastificio Futuro” lavorano quattro ragazzi: una interna del carcere e altri tre ex-detenuti, ora presso i servizi sociali. Tutti regolarmente assunti con contratto e retribuiti secondo la Legge ”Smuraglia”, che - come ci ha spiegato il presidente della Onlus - persegue l'intento di favorire l'attività lavorativa dei detenuti e prevede dei finanziamenti per le imprese e le cooperative sociali che assumono o svolgono attività formative nei confronti dei detenuti, fino alla fine della pena o entro i 18 mesi dalla sua conclusione.

“Sono tutti regolarmente retribuiti per il lavoro che svolgono e inquadrati secondo il contratto nazionale delle cooperative sociali. Ci sono prima due settimane di prova, superate le quali si passa ad un contratto a tempo determinato per sei mesi, che può diventare anche annuale. La retribuzione è necessaria, rappresenta l’impegno che da ambo le parti ci assumiamo ed è un modo per far capire loro che il lavoro è un’opportunità importante e capace di disegnare una quotidianità lontano dalla delinquenza. Vogliamo evitare che domani, fuori dal carcere, possano tornare a delinquere. Per quanto riguarda la selezione, i ragazzi vengono scelti dagli educatori in base al percorso interno al carcere (tempo trascorso, comportamento, caratteristica di pena, ecc) e poi presentati a noi dell’associazione che, lavorando già come volontari internamente all’istituto di pena riusciamo a capire chi è più idoneo al ruolo. La nostra non è una valutazione di capacità fisiche o di competenze nel settore ma puramente di maturità e responsabilità nella gestione del lavoro e delle regole. Mentre i ragazzi esterni che arrivano da comunità ci vengono proposti dai servizi sociali e vengono “assunti” sulla base di un classico colloquio che tiene sempre conto dei criteri che usiamo per gli interni”. Il “Pastificio Futuro” vanta 500 metri quadri di superficie, una pressa che può produrre fino a 220 kg all’ora di pasta e 4 essiccatori ed è un’azienda che potrebbe occupare fino a venti ragazzi. Questo l’obiettivo che si pone il team di Gustolibero, insieme ai volontari e al cappellano


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FATTO IN ITALIA, AMATO NEL MONDO.


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dell’istituto minorile che hanno lavorato alla realizzazione di questo laboratorio. “Le macchine che abbiamo, che ci sono state donate da Esselunga e che in futuro potrebbe diventare un nostro canale commerciale (ci stiamo lavorando) possono a pieno regime quindi con almeno 20 dipendenti - produrre fino a 1,5 tonnellate al giorno di pasta, 9 tonnellate a settimana che si traducono in 18.000 pacchi da mezzo chilo di pasta. Chi lavora e lavorerà nel pastificio sarà impegnato nella produzione della pasta ma soprattutto nel suo confezionamento. Abbiamo scelto un confezionamento del tutto manuale, dal riempimento e chiusura del pack all’etichettatura”.

stori e di pasta

Quali sono gli obiettivi di Pastificio Come vivono i ragazzi questa novità?

Futuro che vi siete posti o imposti?

La vivono bene e con grande entusiasmo. Per loro è una opportunità grande per il domani e ne sono consapevoli, così come sono consapevoli della responsabilità che hanno. Ecco perché noi ci teniamo ad affiancarli, ad essere attenti alle loro esigenze per far facilitare l’approccio al lavoro, ad una condotta di vita diversa e affinché riescano a portare a termine quanto hanno iniziato.

“Per prima cosa arrivare alla produzione massima, con il massimo impiego di ragazzi e questo sarà possibile se ovviamente aumenterà la domanda. In questi primi mesi abbiamo prodotto e commercializzato 12.000 pacchi di pasta ma dobbiamo fare di più. Altro obiettivo che ci sta a cuore è quello che, una volta terminato il percorso all’interno del laboratorio, i nostri ragazzi continuino a lavorare dall’esterno per “Pastificio Futuro” come commerciali e addetti alle vendite. In questo modo riusciremmo a creare un circuito virtuoso di autosostentamento economico e gestione dell’azienda. E poi confesso che mi piacerebbe avviare un progetto di confronto con le scuole di Roma, far venire in visita i

ragazzi al Pastificio per spiegargli non come si produca la pasta ma come si manda avanti un progetto sociale, far capire cosa vuol dire stare dall’altra parte. Perché diciamo la verità il carcere minorile non è Mare Fuori. A proposito di vendite e di pasta prodotta, sono 11 i formati di Pastificio Futuro (penne e mezze penne, paccheri, fusilloni, maccheroni, mezze maniche, calamarata, caserecce, sedanini e ditalini rigati), realizzati tutti con semola di grano duro di origine laziale e molto presso il “Molino Conti” a Castel Madama, trafilatura in bronzo e lenta essiccazione. Un prodotto 100% artigianale e regionale. Tutti i pacchi di pasta sono acquistabili sullo shop on line che trovate su www.pastificiofuturo.it o direttamente presso lo shop all’interno del Pastificio. Inoltre, trovate il Pastificio Futuro anche sui social (Fb e IG), gestiti da una delle loro ragazze che ha il compito della comunicazione e promozione. Un progetto che merita di avere sostegno ed un futuro - non solo follower - affinché possa continuare a dare quel futuro e quella speranza auspicata da Papa Francesco.



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Maurizio Del Buono è custode delle storie di Napoli e della tradizione a essa correlata: grazie a più di un secolo di storia, la pizzeria “La Pizza Da Gennaro”, nel popolare quartiere di Secondigliano a Napoli, è entrata a far parte dell’UPSN (Unione Pizzerie Storiche Napoletane) “Le Centenarie”.

Ciononostante, sul menù non manca l’innovazione. Nella storica pizzeria, infatti, convivono letteralmente due generazioni che, grazie all’umiltà e alla preparazione di Maurizio e all’estro del figlio Claudio, danno vita a un connubio perfettamente equilibrato e organizzato tra il vecchio e il nuovo. Un occhio strizzato al futuro e l’altro fermamente ancorato al passato.

stor ie di pizza

AI BORDI DI PERIFERIA

LA PIZZA DA GENNARO di Noemi Caracciolo


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Maurizio, raccontami la storia della vostra famiglia dall’Ottocento a oggi. Con mio figlio Claudio siamo alla sesta generazione. La storia è iniziata con il padre del mio bisnonno che non era proprio un pizzaiolo ma si cimentava nel preparare la pizza. Lui faceva il “pizzicagnolo” che, all’epoca – fine Ottocento – vendeva salumi e pezzi di pizza. La nostra famiglia, originariamente Dello Buono, poi divenuta Del Buono a causa di un’errata trascrizione all’anagrafe, è legata a quel Generoso Dello Buono che dichiarò Umberto Dello Buono figlio suo e di una Mattozzi, nome che a Napoli è fortemente legato all’imprenditoria legata alla pizzeria e alla ristorazione tradizionale. Nel Novecento nacque Generoso, figlio di Umberto, anche lui dichiarato con la testimonianza di un Mattozzi. È proprio con loro che nasce la mia storia, nel 1903, quando il mio bisnonno mise mio nonno a lavorare presso di loro nella pizzeria Mattozzi di Piazza Carità (ancora oggi attiva ma di proprietà della altrettanto celebre famiglia Surace, ndr). Poi mio nonno si trasferì a Secondigliano e da quel momento siamo qui.

Ricordi la prima pizza che hai preparato? Era nel ‘76, in un giorno di apertura della pizzeria. Venne un pittore che, parlando con mio padre, chiese una pizza “abbondante di sale” e io ero solito metterne sempre di più. Il problema è che non sapevo che, con questa espressione, si intendesse in gergo “abbondante formaggio”, così feci una pizza immangiabile. Di fronte alla pizzeria c’era una caserma e gli alunni facevano richieste assurde: a quei tempi preparavo solo Margherita, Marinara, cose semplici. Loro volevano la pizza con la panna, che tra l’altro nemmeno esisteva. Al suo posto c’era un liquido che portavano da fuori, stava nel cartone come quello del latte e si coagulava nel forno. Oppure chiedevano la pizza con l’aceto, la barbabietola o il Gorgonzola: all’epoca a noi Napoletani veniva da dire “e comme puzza”, ma lo usavamo lo stesso. Quindi si può dire che già in quegli anni facevamo “pizza gourmet”. Mio padre mi aprì una pizzeria a Masseria Cardone, un quartiere di Secondigliano, quando avevo solo 14 anni. Non è che mi piacesse lavorare, però mi piaceva fare la pizza e poi - parliamoci chiaro - vedevo il guadagno e allora mi conveniva. Noi siamo stati anche i primi a chiudere di domenica a dispetto di quanto qualcuno sostiene. Mio padre decise di chiudere il 23 novembre a seguito del terremoto


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dell’80. Oggi siamo aperti perché i miei figli preferiscono così ma io resto comunque di festa, per abitudine. Dopo aver chiuso la mia pizzeria nel rione, mi trasferii in quella di mio padre a 22 anni, quando mi sono anche sposato.

Secondigliano è un quartiere napoletano non proprio “facile”, per così dire e voi siete li da una vita ormai:

storie di pizza

mostra le sue chips di pane che serve al posto dei grissini e aromatizza con olio all’aglio e a limone: a quanto pare, c’è gente che va da lui solo per quelle. Da quel che ho potuto vedere, credo che ci andrò anche io.

avete mai pensato di spostarvi?

Quindi il tuo papà ti ha insegnato…

Secondigliano potrebbe essere difficilissimo per chi non lo vive e chi lo vede dall’esterno ma in questo luogo, oltre alla mia famiglia, ci sono tantissimi bravi commercianti. A fianco a me c’è un arrotino dal 1883, vengono persone da tutta Napoli e provincia. Io non ho mai pensato di spostarmi, queste sono le mie origini. La maggior parte delle persone viene da me a mangiare la pizza da fuori Secondigliano. Spero che anche i miei figli scelgano di restare; ben venga che aprano anche altrove, certo. Io comunque resto qua. Ho iniziato a 13 anni, ora ne ho 62. A Secondigliano ho un ottimo rapporto con tutti, non appartengo chissà “a chi” o “a cosa”, sono semplicemente Maurizio il pizzaiolo, come mio padre. Ad un certo punto Pino deve sfornare il pane, me lo fa vedere: c’è un bell’albero di Natale disegnato sopra e se ne sente il profumo anche dalla videocamera. Oltre a quello, mi

Sì. Una volta ci ho litigato: andai a lavorare da Giulio a Piazza del Gesù che non sapeva fossi suo figlio. Restai lì una sola settimana e lui chiamò mio padre dicendogli: «fai venire quel ragazzo, com’è bravo!», però non faceva per me. Ero piccolo e per arrivare da lui alle 8:00 dovevo alzarmi alle 7:00, non mi andava. Poi prima i pizzaioli venivano pagati a ore. Nel ‘98 sono stato all’Ippodromo di Agnano e, durante le corse, facevamo circa 800 pizze. Oltre queste esperienze, ho lavorato sempre solo con mio padre.

E tuo figlio? I miei figli si sono diplomati ma uno fa le pizze, una gestisce la sala e l’altra viene ogni tanto. Io faccio scuola di pizza ai ragazzi dell’alberghiero di Scampia (uno dei migliori della provincia di Napoli, ndr) e con i ragazzi mi diverto tantissimo.

Mi chiamano “Maestro” e io gli ripeto sempre che non sono un professore, sono solo Maurizio. Per prima cosa, insegno a fare la pizza con le mani: spero diventino imprenditori e proprietari ma non devono essere soggetti alle macchine. Se domani mattina l’impastatrice non funziona, devono saper fare 10 litri a mano. Come si faceva prima. Devono sapere tutto della pizza. Io oggi lo faccio ancora, mi diverto. Certo, ben venga l’innovazione ma, come si dice, il progresso può diventare regresso. La pizza però è sempre la stessa, per me è fatta di quattro ingredienti: acqua, sale, farina e lievito.

Quindi cerchi di insegnargli a cavarsela da soli. Diciamo che insegno loro a gestire l’ambiente pizza. Non critico nessuno, però se io che faccio pizza da 50 anni non finisco mai di imparare, come si può farlo con 40 o 60 ore di corso? Io li definisco “meccanici pizzaioli”. Senza bilancia non possono andare avanti. Prima si guardava la temperatura della pasta, ora vanno a peso. Mio figlio è innovativo sugli ingredienti ma l’impasto è quello. L’acqua poi dovrebbe anche bollire per togliere gli additivi non a norma ma difficilmente si fa. Prima, comunque, l’idratazione si chiamava “punto di pasta” e ogni pizzaiolo aveva il suo. Ora c’è idratazione al 75%, al 68% ecc… ma per me contiua a chiamarsi il “punto di pasta”. Inoltre, l’assorbimento della farina, se usi quella ottima, è sempre lo stesso. Io, per esempio, uso solo ingredienti italiani.

Quindi il tuo è un impasto tradizionale. Sì. Sempre stato e sempre sarà. Salemme in un discorso ha detto: «A Napoli ci stavano 7/8 pizzaiuoli e nun s’a tiravano (non se la tiravano, ndr)… mo’ fanno lievitare le pizze 24 o 48 ore; da quando ci sta il lievito madre fanno la gara a chi fa lievitare di più; dicono “il mio impasto sta lievitando da tre giorni”, ua’, ma non li tieni i clienti? Non se le mangiano ste pizze? Cresceno sulamente? (Lievitano soltanto?, ndr)». Ti dico la verità: avendo contatti con persone dello spettacolo – forniamo pasti per i set cinematografici e per il teatro – gli scrissi una mail complimentandomi per ciò che diceva. Io, ad esempio, l’impasto lo faccio la mattina


77 per la sera. Prima la doppia lievitazione si chiamava “’a pizza screscetata” ma io seguo sempre il disciplinare Stg, anche per il forno. Uso faggio e quercia. Determinate cose le pretendo: per esempio, ancora taglio il fior di latte con la stecca e premo i pomodori a mano. I miei collaboratori no. Determinati prodotti come i funghi champignon sono sempre freschi. L’innovazione con creme e cremine si adatta più a mio figlio.

C’è una pizza che ritieni simbolo della vostra storia? La Bruschetta. Mio padre aveva molti clienti giovani e uno gli disse di essersi scocciato della solita pizza. Così papà ne preparò una che era più una focaccia, molto fresca, con insalata mista, fior di latte e olive nere. Nel tempo sono state fatte delle aggiunte con rucola, radicchio, c’è chi la chiede con il prosciutto crudo… ma è sempre la Bruschetta, la chiedono tutti e la mangiano il 99,9% dei clienti: focaccia con insalata mista, bocconcini di bufala, pomodoro fresco, olive verdi, sale e olio. Molto semplice. Papà la fece per il Dottor Aldo Schiassi, ex direttore del Santobono a Napoli e lui gli disse: “mi avete fatto una pizza spettacolare”. Se poi dovessi consigliare una pizza a qualcuno, lascerei fare a mio figlio. Io sono per le cose semplici tipo bianca con provola e un po’ di ricotta o Margherita con un’ombra di pomodoro o pomodoro del piennolo ma non quello giallo. Non mi piace, sembra un’albicocca! Lui invece va per la crema di questo, di noci, la parmigiana di melanzane e cose così, ha sicuramente più idee.

Come mai “La pizza da Gennaro” e non semplicemente “Pizzeria da Gennaro?” Pizzerie ce ne stanno un sacco, la pizza è un’altra cosa… perciò La pizza da Gennaro.

La vostra pizzeria fa parte dell’associazione “Le Centenarie”, siete dunque custodi delle storie di Napoli, ma soprattutto della tradizione. Come coniugate quest’ultima con l’innovazione? Io e Cafasso (cugino di Capasso) siamo gli unici “fuori zona”, nel senso che gli altri si raggruppano quasi tutti nel centro di Napoli: Trianon, Michele, Gorizia, Starita, Mattozzi, Umbertos al

Vomero, Umbertos che ora sta a Gaeta, Gennaro a Port’Alba… è una cosa molto bella. Io e mio figlio ci dividiamo, anche se l’impasto è sempre lo stesso, cambiano le guarnizioni semplicemente. Abbiamo due banchi diversi; a volte, ancora oggi, quando chiedono una pizza particolare, io mi rivolgo a Claudio e dico: “com’è fatta questa pizza?”. Convivono letteralmente due generazioni, io per dirti uso ancora carta e penna per prendere gli ordini. Alcune richieste sono più sofisticate e altre no. Poi, ci sono cose che non facciamo più perché non si può, come la pizza con i cicinielli. Anche se alcuni, per esempio, vogliono la pizza con le alici fresche: ce le portano e noi gliele mettiamo sulla Marinara.

Quali sono le più grandi soddisfazioni che avete avuto in questi anni? Sono tante. Io non faccio TikTok o cose del genere, ho vergogna proprio. Però la mia miglior pubblicità sono i clienti, persone anche in vista che però non pubblicizzo mai. I miei figli vorrebbero che mettessi le foto sulle pareti del locale con tutti quelli che passano di qui ma io non voglio assolutamente. Litigo con loro per questo. Per me sono clienti e come tali li conosco, non come personaggi. Per farti qualche esempio, Ruotolo il giornalista era cliente di mio padre, così come Schifani e parecchi che


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venivano addirittura con la scorta ma che noi non sapevamo nemmeno chi fossero. Molte persone dello spettacolo. Da me è fisso Adriano Pantaleo: viene una volta alla settimana e mi menziona sempre. Una volta sono stato a Cortona a fare le pizze con Cannavacciuolo e Ramaglia, mi divertii tantissimo. Sono stato presidente della prima edizione del Boss delle Pizze e siamo in “50 top pizza” ancora oggi dal 2019: dell’ultima edizione non ho ancora attaccato lo stemma! Sono i miei figli che devono fare la storia! (ridiamo)

A proposito di storia… le pareti del locale ne sono piene.essere quelli che s’impegnano di più nell’imparare quest’arte. Sì, hai visto. Quello voglio affiggere. Mio padre è stato anche un grande costruttore di forni, ha portato il primo forno a Kyoto in Giappone, così come ha mandato lì il primo pizzaiolo, un ragazzo di Frattamaggiore. Io ho anco-

ra tutta la documentazione. La nostra è un’arte che si è sempre tramandata di padre in figlio, solo mio nonno lavorò dai Mattozzi prima della Prima guerra mondiale. Da Del Buono Umberto, il mio bisnonno; a Generoso, papà di mio padre; a Gennaro, mio padre, a me, a Claudio… e poi chissà, per ora ci sono nipotine femmine e la prima già si diverte un po’…

Negli ultimi anni ci sono stati tanti cambiamenti: quanto vedi di positivo e quanto di negativo? Di positivo c’è l’intelligenza dei pizzaioli. Prima non eravamo particolarmente intelligenti, si lavorava senza studiare. Adesso lo studio è profondo e che ben venga, però ci sono troppe cose che non mi trovano d’accordo. Per esempio, in merito ai forni a gas e a legna: il forno basta mantenerlo pulito e seguire delle regole. Prima si puliva con la scopa di paglia bagnata, magari alcune panetterie antiche lo fanno ancora. Oggi i forni sono provvisti di abbattitori di fuliggine, la legna viene lavata ed essiccata, non bisogna usare quella con resina; ecco perché si usano faggio, quercia o magnolia. Basta avere delle accortezze e si può tranquillamente andare avanti con la tradizione attenendosi al Disciplinare di produzione della Pizza napoletana Stg. Mio padre ha combattuto tanto per l’artigianalità, per il lavoro di creazione con le mani. L’innovazione è ok, ma se andassimo nel deserto con i quattro ingredienti della pizza e avessimo un forno, noi centenari potremmo fare la pizza, gli altri no. Il pizzaiolo può fare un po’ di tutto, anche il rosticciere o il panettiere, per esempio. Non viceversa. Fare il pizzaiolo è una cosa che viene da dentro.


CI TROVATE A

CIBUS PARMA


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febbraio pizza e pasta italiana

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I tuberi: un viaggio sotterraneo attorno al mondo Uno degli errori più comuni, quando si guarda al mondo vegetale, è quello di dare per scontati prodotti che utilizziamo quotidianamente, magari iscrivendoli tutti indistintamente nella stessa categoria. Accade così, per esempio, che il “mondo sotterraneo”, che pur presenta un altissimo grado di biodiversità, sia considerato come una somma di ingredienti che “nascono sotto terra”, senza conoscerne le differenze: ecco che allora i tuberi finiscono per essere confusi quando invece meriterebbero di essere trattati dando loro il giusto ruolo. Prima di fare una carrellata sui principali protagonisti di questo mondo, facciamo

chiarezza sulle caratteristiche botaniche, che sono la base di quelle gastronomiche e dell’uso in cucina, di prodotti che hanno rappresentato spesso dei veri e propri universi culinari attorno ai quali sono stati costruiti sistemi gastronomici e culture. Innanzitutto: tubero, radice, rizoma o bulbo? Cerchiamo di capirne di più. La radice è la parte della pianta grazie alla quale avviene l’assorbimento del nutrimento (acqua e sali minerali) dal terreno. In genere le radici hanno una struttura formata diversamente a partire da più tessuti, che a loro volta hanno forme diverse. Ecco perché alcune radici hanno

di Caterina Vianello


81 un uso alimentare: sono le tuberiformi, che si distinguono perché sono costituite da un corpo succulento e ingrossato che serve alla pianta per raccogliere le sostanze di riserva se il terreno ne è scarso. Sono una fonte importante quindi di sali minerali e vitamine e sono composte per lo più da acqua: questa caratteristica le differenzia dai tuberi, che invece sono fonte di carboidrati e che di fatto sono l’alimento che ne è più ricco dopo i cereali. Sono infatti la parte che contiene il nutrimento della pianta: i tuberi, insomma, fanno parte del fusto, nonostante si trovino sottoterra (non tutti: ci sono anche tuberi che si trovano fuori dal terreno e prendono il nome di tuberi aerei). Anche i tuberi assolvono ad una funzione di riserva ma le sostanze accumulate sono diverse, essendo appunto sostanze glucidiche come amido e inulina (oltre che una porzione di acqua).

Lo scopo è quello di far sopravvivere la pianta nei periodi invernali. La differenza fondamentale tra radici e tuberi, dal punto di vista botanico, è la capacità vegetativa, in pratica quella di far generare una nuova pianta: dai germogli delle patate possono nascere nuove piante, cosa che non avviene – per esempio – con le carote. Dal punto di vista gastronomico, la differenza fondamentale è legata alle sostanze nutritive che apportano all’alimentazione umana: se le radici sono ricche principalmente di acqua e sali minerali, i tuberi riescono a soddisfare esigenze nutrizionali fondamentali grazie al contenuto di glucidi, sotto forma di amido. L’esempio più significativo è quello della patata, attorno alla quale il Sudamerica ha creato un complesso sistema gastronomico e che, importata in

Europa – prima con scopi ornamentali – ha finito per essere uno degli alimenti più consumati al mondo, passando dallo scopo fondamentale di combattere la fame a quello di arricchire la tavola contribuendo a dare gusto e godimento. È bene inoltre distinguere i tuberi dai rizomi, fusti striscianti e sotterranei che si sviluppano orizzontalmente rispetto al terreno, che hanno foglie e parti nodose, oltre a radici e, nella parte superiore, gemme da cui originano i germogli: esempi perfetti sono zenzero e curcuma. Ultima distinzione è quella tra tuberi e bulbi ovvero i germogli della pianta, gruppo che vede aglio e cipolla a fare da portabandiera. A differenza dei tuberi, i bulbi non hanno una buccia ma uno strato detto “tunica”.

Ogni bulbo è formato da più tuniche, che si sviluppano una all’interno dell’altra e confluiscono nel girello, un fusto molto accorciato. Esistono vari tipi di bulbi ma tutti sono caratterizzati dal restringimento nella parte superiore (da cui si generano le foglie) e nella parte inferiore (punto di congiunzione degli “strati”). I bulbi si rinnovano per tutta la durata del ciclo di vita della pianta, gli strati più esterni, infatti, lasciano il posto a quelli sottostanti. Fatte queste premesse, andiamo ora alla scoperta dei principali tuberi in cucina.


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Patata Non servirebbero presentazioni per il prodotto alimentare che ha probabilmente la storia più lunga e conosciuta, che dall’America l’ha portato in Europa. Solo in Italia ne esistono ben 36 varietà da Nord a Sud, classificate in base alla pasta (bianca, dalla polpa chiara e farinosa, adatta per purè e gnocchi; gialla, dal colore più intenso, con polpa compatta e poco farinosa, perfetta per essere fatta arrosto, lessata e fritta; pasta gialla e buccia rossa, con polpa soda, da mangiare al forno o al cartoccio; novella, raccolta a maturazione non completata, con polpa soda, ideale per essere bollita, arrosto o alla brace, purché consumata con la buccia), mentre nel mondo sono oltre 5000. È la terza coltura alimentare più consumata al mondo, preceduta da riso e grano. Il consumo coinvolge più di un miliardo di persone e la produzione globale supera i 300 milioni di tonnellate. La Cina è il principale produttore, con una quantità che si aggira intorno alle 70 tonnellate l’anno. Seguono India, Russia e Ucraina.

Topinambur Originario del continente americano, ha un nome botanico ben chiaro Helianthus: dal greco helios, sole, ed anthos, fiore, ad indicare secondo alcuni la somiglianza dei fiori al disco solare o addirittura al girasole stesso. Altri leggono quel “fiore del sole” come riferimento alla tendenza di alcune piante di questo genere a girare sempre il capolino verso il sole. Il nome specifico invece deriva dal latino tuberosus, a forma di tubero, rimandando alla radice ipogea. Sui soprannomi ci si avventura in un viaggio attorno al mondo: girasole del Canada, patata del Canada, rapa tedesca, carciofo di Gerusalemme. Ha forma irregolare, assomigliando allo zenzero: ha una sottile buccia beige mentre la polpa è di colore bianco-giallastro fino al rosso chiaro, dolce, dal sapore che ricorda il carciofo mentre la consistenza è simile a quella della patata. È povero di amidi, ma ricchissimo di inulina. Ha visto un lento declino dopo l’arrivo della patata ma la presenza in alcuni piatti della tradizione culinaria (specie piemontese, che lo vuole intinto nella bagna cauda) e la riscoperta in corso da qualche decennio, lo vede oggi attore di primo piano di grandi piatti. È un po’ complicato da lavare e sbucciare, a causa delle sue protuberanze ma dà grandi soddisfazioni, sia crudo sia cotto. In insalate o come antipasto, condito con succo di limone per evitare che si annerisca, cotto e bollito, può essere trasformato in zuppa o purè. Tagliato a rondelle, si può conservare sottaceto per la preparazione di giardiniere di verdure. A tocchetti, esattamente come le patate, in forno con il rosmarino, è un perfetto accompagnamento per arrosti.


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Oca Da non confondere con il celebre volatile, il suo nome preciso è ossalide tuberosa. Originaria degli altopiani andini, dove viene coltivata in quote superiori ai 3.000 metri, ha forma allungata che va dal giallo al viola al nero. Il sapore è acidulo e leggermente piccante e la consistenza è croccante, come quella della carota. In cucina, trova impiego cotta al forno, stufata, bollita o fritta, come ingrediente per zuppe. Diversamente dalle patate, anche le foglie e i giovani germogli sono commestibili come verdura fresca.

Mashua

Taro

Simile al precedente, con il quale tende ad essere confuso, il Tropaeolum tuberosum è tipico della regione andina del Sudamerica. Si trova in Perù, Bolivia ma soprattutto Ecuador, dove viene coltivato soprattutto nelle province centrali di Pichincha, Cotopaxi, Tungurahua e Bolívar. Le varietà sono diverse, con un colore della pelle che varia dal giallo chiaro ad un colore rossastro, fino al nero intenso o viola. Il tubero ha una lunghezza che varia dai 5 ai 15 cm e può essere consumato fresco, con sapore piccante o dopo essere stato essiccato al sole, un procedimento messo in atto dalla popolazione locale per concentrare gli zuccheri e conferire così un sapore più dolce. La consistenza è particolare, con crosta croccante e cuore tenero.

Originaria dell’Asia e diffusa in molte parti del mondo, dall’Africa al Sudamerica, questa pianta appartiene alla famiglia delle Araceae e il suo nome scientifico è Colocasia esculenta. Si coltiva proprio per le radici tuberose commestibili, ricche di amido e importante fonte di nutrimento in molte parti del mondo. Cresce bene su terreni umidi e fangosi ed è spesso coltivato in risaie o in terreni alluvionali. La radice si cucina in molti modi diversi: bollita, fritta (le chips sono una variante interessante rispetto alle solite patatine fritte), purè, al forno a cubetti, essiccata e trasformata in farina per la produzione di pane o biscotti. Il sapore è leggermente dolce e “terroso”, simile a quello della patata dolce ma con una consistenza più densa e fibrosa. È ricca di carboidrati, fibre, vitamine e minerali. Una carrellata in giro per il mondo permette di capirne la grande versatilità: in Cina può essere utilizzata in piatti salati, come il ripieno dei ravioli oppure per insaporire dolci e bevande; a Taiwan le palline di taro, mangiate con lo sciroppo, sono un dolce tipico; in Giappone può essere mangiata al posto del riso o cotta nel brodo di pesce. In Grecia – dove si chiama eddos o patata dei tropici – è resa in zuppa, mentre in Costa Rica, Repubblica Dominicana e Colombia, una volta bollita, si può saltare a tocchetti in una padella con rosmarino fino a raggiungere la doratura.



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Elogio delle mandorle di Caterina Vianello

Originario dell’Asia Centrale, il mandorlo (Prunus dulcis) è un albero dalle origini antichissime, che appartiene alla famiglia delle Rosacee e più specificatamente al gruppo delle Drupacee. La mandorla non è altro che il suo frutto, una drupa – appunto composta da mallo e semi: il mallo è la parte esterna mentre i semi sono le mandorle che si presentano racchiuse in un guscio legnoso. Diffuso dalle zone originarie inizialmente

in tutto bacino del Mediterraneo e poi negli Stati Uniti, nei Paesi asiatici ed in Australia, in Italia oggi viene coltivato soprattutto nelle regioni meridionali, come Sicilia e Puglia che, fino alla metà del secolo scorso, hanno avuto il primato mondiale nella produzione di mandorle e che rimangono le aree territoriali più vocate. Ci sono però anche altri luoghi in grado di regalare autentici gioielli dal punto di vista gustativo ed organolettico.


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I numeri Prima di intraprendere un viaggio gastronomico tra le regioni d’Italia, ecco qualche numero, per farsi un’idea su produzione e consumo. A livello mondiale sono più di 400 le cultivar differenti e sono i Paesi del Mediterraneo quelli che presentano una più elevata riserva di biodiversità: in Italia e in Spagna sono infatti più di 100 le varietà diverse. I dati ci dicono che la coltivazione del mandorlo nel nostro Paese è oggetto di un rinnovato interesse. Secondo l’Istat, dal 2013 al 2020, la produzione è passata dalle 75.300 tonnellate (con 54.400 ettari) alle 84.600 tonnellate (con 55.500 ettari) mentre dal 1970 al 2012 la produzione era diminuita dalle 230mila tonnellate alle 90mila tonnellate (con ettari da 296mila a 68.500 ettari), confermando quindi un trend in ripresa, complice anche un incremento nei consumi di frutta secca: nel primo semestre del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, la vendita di mandorle sgusciate è cresciuta del 15,6% a volume e del 12,7% a valore.

Puglia Se già Plinio, in epoca romana, riteneva che in Puglia si raccogliessero le mandorle migliori, la fama oggi non è affatto smentita. La mandorlicoltura era molto diffusa in provincia di Bari e l’influenza sulla conformazione del paesaggio agrario e la cultura popolare è stata notevole: ricco è il patrimonio di canzoni contadine pugliesi che raccontano le lunghe e faticose operazioni di smallatura compiute dalle donne. È nel territorio del comune di Toritto, al confine tra pre-Murgia e Alta Murgia che si sono sviluppate le cultivar autoctone migliori, i cui nomi rimandano a illustri cittadini torittesi del passato: “Filippo Cea”, “Genco”, “Tuono”, tra le altre. La “Filippo Cea” ha un profilo organolettico ben riconoscibile. Coltivata dalla prima metà dell’Ottocento – originaria della zona di Grumo - si diffuse ben presto in tutta la Puglia. È una varietà dalla fioritura tardiva, capace di sfuggire i periodi più freddi dell’anno e garantire una produzione ricca. I frutti presentano un guscio particolarmente duro mentre i semi sono in numero doppio. È croccante e dal grande calibro ed ha un sapore elegante e burroso, con un alto contenuto in olio e acidi grassi polinsaturi e bassissima acidità. È particolarmente

apprezzata dai produttori di torrone di qualità e dai pasticceri per la sua pastosità ma anche in cucina da grandi soddisfazioni. La “Genco” è una varietà a maturazione medio-tardiva; i suoi alberi sono rustici, resistenti alla siccità e ad elevata produttività. Le mandorle sono piccole, di forma sferoide-amigdaloide, con sutura ventrale aperta e sutura dorsale rilevata. Il guscio è di colore avana, duro, con superficie liscia e pori piccoli. Il sapore è medio. La “Tuono” è il frutto di piante poco vigorose e con un portamento espanso. Ha una maturazione medio-

precoce con una produttività elevata. La mandorla ha medie dimensioni, con guscio di colore marrone chiaro e rugoso. La “Falsa Barese” è una cultivar diffusa nel sud-est della provincia di Bari. L’albero è mediamente vigoroso, a fioritura tardiva e produttività buona. La mandorla ha dimensioni medie, forma sferoidaleamigdaloide e guscio duro, superficie rugosa e pori grandi e radi. I semi hanno forma e dimensione media, ellittica, di colore marrone scuro, superficie rugosa e venata. È una varietà che ben si presta alla produzione di granella e pasta.


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Sicilia Terra d’elezione per la coltivazione del mandorlo, la Sicilia vede due zone in cui la coltivazione è particolarmente vocata. Una è quella della Sicilia centromeridionale, con un patrimonio varietale vastissimo e notevoli differenze da un territorio all’altro. L’altra è quella della Sicilia sudorientale forte di varietà come la “Pizzuta”, la “Fascionello” e la “Romana”, che fanno riferimento a quella di Avola. Con la denominazione “mandorla di Avola”, infatti, si fa riferimento ad una produzione che racchiude le tre cultivar sopra citate, coltivate in origine proprio nella zona del territorio avolese, in provincia di Siracusa. Ognuna di queste cultivar ha caratteristiche particolari, sia per sapore che per forma. La “Pizzuta” ha forma allungata e appuntita, schiacciata, guscio di colore rosso cuoio, duro, liscio e dai pori molto piccoli. Le note aromatiche sono straordinariamente ricche, rotonde e delicate: non a caso è la più pregiata nella pasticceria di altissima qualità e nella confetteria. La “Fascionello” ha forma tondeggiante e si distingue per la consistenza morbida ed il sapore dolce e delicato.

La Romana – che prende il nome dalla famiglia avolese Romano ed è chiamata anche “Corrente d’Avola” - è caratterizzata da una insolita forma irregolare spesso simile al triangolo e spesso è “gemella”, cioè il suo guscio accoglie due semi. Proprio per la sua irregolarità, è impiegata in pasticceria – con note ricche e piene - ma non in confetteria. Queste tre varietà hanno una fioritura precoce, di fatto in pieno inverno, consentendo di crescere solo nelle zone di marina e di bassa collina, dove sono molto rare le gelate tardive. Ecco perché l’areale di produzione è limitato alle province di Siracusa e Ragusa. Della zona della Sicilia centromeridionale, vale la pena ricordare la “Vinciatutti”. Si tratta di una varietà che deve il nome alla sua grande capacità produttiva e Barrafranca è il comprensorio oggi più importante per la coltivazione. Ha forma a cuore e una particolare dolcezza. E non vanno dimenticate anche le varietà Cavalera, Ferragnes, Giardinello, Don Pitrino, Nivera e Cuva

Femminella, varietà recuperata piuttosto recentemente. Un accenno rapidissimo alla pasticceria siciliana è immancabile. Ereditando dagli Arabi l’arte della lavorazione delle mandorle con albume d’uovo e miele, raccogliendo influenze dai Normanni, dagli Spagnoli, dai Francesi, mescolando tradizioni nobili, popolari e religiose, la pasticceria siciliana vede una serie di delizie che è obbligatorio assaggiare. Ecco allora la pasta reale (che, a differenza del marzapane mitteleuropeo, è lavorata a crudo), la martorana (riproduzione fedelissima di frutti o di ortaggi), i dolcetti da riposto (miniature di frutta e di ortaggi più piccole della martorana impreziosite da zucchero cristallino), le conchiglie (a forma di capasanta e ripiene di marmellata di cedro), il torrone, i mustazzuoli (a forma di esse e fatti di pasta di miele farcita di mandorle tritate e miele di arancia), gli amaretti, i faccioni di Noto, i biscotti e ovviamente la cassata.

Calabria Protagonista della regione è la mandorla di Amendolara, per la quale il Comune dell’Alto Jonio Cosentino ha avviato la procedura di riconoscimento del marchio Dop, dopo che già nel 2019 è stato assegnato il marchio De.Co. (Denominazione Comunale). Le varietà su cui si punta sono la “Pizzuta di Amendolara”, la “Mezza Mollese” e la “Mollese Piccola”.grana, tende a solidificarsi e formare grumi con il tempo: meglio quindi conservarlo in un contenitore ermetico.


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Sardegna Fonte di reddito per molti agricoltori, coltivato da antica data, il mandorlo in Sardegna ha visto le prime coltivazioni specializzate nei primi del ‘900, soprattutto nelle zone di Cagliari e nell’agro di Sanluri. Cuore della produzione è la mandorla (mindula o mendula, in dialetto) Cossu, coltivata in particolare nel comune di Quartu Sant’Elena. Ha buona produttività e costanza di fruttificazione. I frutti hanno dimensione media, forma ovata, con guscio chiaro ad intensità di colore media, con pori scarsi, duro e mandorla piccola e di forma ellittica. Il sapore è dolce. Le caratteristiche organolettiche la rendono adatta oltre che per il consumo diretto (tostata o cruda), soprattutto per il comparto dolciario tradizionale (torrone, amaretti, gueffus, candelaus, ecc.).

Abruzzo L’Abruzzo vede nella mandorla di Navelli una sua eccellenza produttiva. La zona di coltivazione comprende la fascia collinare e le valli integrate dell’Altopiano omonimo, in provincia dell’Aquila e situato all’estremità delle propaggini sud-orientali del massiccio del Gran Sasso d’Italia. Per le popolazioni contadine della zona, la coltivazione era legata alla necessità di integrare il mandorlo con le produzioni esistenti, in modo tale da avere oltre ai frutti anche del legname che avrebbe potuto essere utilizzato nelle attività domestiche. La mandorla di Navelli, prodotto agroalimentare tradizionale (PAT)

riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, non si identifica con una varietà ben precisa poiché la riproduzione delle piante è sempre avvenuta attraverso la selezione dei frutti dalle migliori piante già insediate nella zona. Il frutto ha forma medio lunga, guscio duro e un sapore molto gradevole. La maturazione è tardiva e avviene tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre. La raccolta si effettua manualmente seguendo la vecchia tradizione: dopo la maturazione, aiutandosi con lunghe aste di legno, i rami vengono battuti per far cadere le mandorle, poi raccolte in reti poste al di sotto degli alberi. Il prodotto ottenuto viene poi trasportato nei magazzini dove viene pulito e selezionato. Anche la conservazione è fatta in modo tradizionale: dopo la pulitura, le mandorle vengono poste per 3-4 giorni all’aria per completare l’essiccazione; poi, si possono conservare in magazzini asciutti sia in cumuli che in sacchi di juta. In pasticceria, si utilizzano per realizzare i pepatelli, dolci tipici della provincia di Teramo, in modo particolare delle zone montane. Conosciuti anche come i papatìlle, sono piccoli biscotti piatti preparati con farina integrale, miele, scorza grattugiata d’arancia, mandorle di Navelli e pepe, che conferisce loro un gusto acceso e assai particole.



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redazione@ pizzaepastaitaliana.it

Lorenzo Rancati “Buongiorno, ho 21 anni e sono uno studente di scienze motorie e scienze dell'alimentazione, da sempre appassionato di biochimica, nutrizione e cibo. Ho sviluppato per un molino della mia zona un innovativo prodotto per pane e pizza a ridotto contenuto di carboidrati e alto in proteine e fibre. Tutto derivante dal chicco di grano. Utilizzando un particolare amido resistente, è possibile ridurre indice e carico glicemico, garantendo quello che sarà sempre più ricercato, ovvero il giusto connubio tra gusto e salute. Già molte pizzerie lo hanno in menù in tutta Italia e anche illustri pizzaioli: il mio non è un interesse commerciale verso la farina, il mulino o le pizzerie ma intendo poter usare il mondo della pizza e della panificazione come vettore per una dieta sana ed equilibrata. Mi piacerebbe rendere pubblico quello che è iniziato come un gioco e che si è trasformato oggi in qualcosa di concreto e tangibile. Nonostante sia giovane e con ancora tutto da imparare, ho già le idee chiare sul futuro e su come muovermi per cercare di soddisfare le esigenze di un consumatore sempre più bisognoso di un corretto stile di vita!”

Lorenzo è un giovane studente e innovatore molto tenace che, grazie alla sua forte passione, ha sviluppato un prodotto a basso contenuto di carboidrati e alto in fibre e proteine, con l’intento di sopprimere l’idea secondo la quale mangiare sano non significhi non mangiare bene (o non mangiare affatto). Il Low carb hi pro è un mix utilizzabile nel mondo della pizza e del pane già in commercio e che, a parere di Lorenzo (e non solo), è destinato a rivoluzionare il concetto di “stile di vita sano”.

LORENZO RACCONTACI CHI SEI E COME TI SEI APPASSIONATO ALLA BIOCHIMICA, SEI MOLTO GIOVANE EPPURE SEMBRI AVERE LE IDEE GIÀ BEN CHIARE...

Ho 22 anni e sono di Bubbio, un comune della provincia di Asti in Piemonte. Attualmente studio Scienze dell’alimentazione e scienze motorie e mi sono diplomato in chimica, biotecnologie e alimenti. Al di là del percorso scolastico, mi sono sempre personalmente interessato alla biochimica e a tutto ciò che riguarda il mondo


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della nutrizione e degli alimenti perché a me piace proprio mangiare, è un piacere. Ero desideroso di mettere in pratica quello che studiavo. Questo mi ha portato a bruciare le tappe e ad essere un po’ precoce. Sono fortemente convinto che un legame tra la sana alimentazione e l’attività fisica è fondamentale. Mi sono interessato di conseguenza allo studio di soluzioni che potessero essere applicabili al mondo della pizza e del pane, al fine di usarli come vettore per una sana alimentazione. Pane, pasta e pizza sono presenti sulla tavola tutti i giorni e più volte al giorno e questo ha sicuramente un forte impatto. PARLIAMO DI QUESTO PRODOTTO CHE HAI SVILUPPATO PER PANE E PIZZA A RIDOTTO CONTENUTO DI CARBOIDRATI, ALTO IN PROTEINE E FIBRE. DICCI, COME TI È VENUTA L’IDEA?

Ho usato l’amido resistente, nient’altro che un amido naturalmente presente in piccole quantità nel grano e in molti altri cereali e che non viene assorbito dal nostro organismo. Un carboidrato che si comporta come una fibra e può quindi abbassare l’indice e il carico

glicemico. Per mantenere stabile la glicemia, non sono importanti solo le fibre ma anche le proteine perché sono quelle che ci danno anche uno stimolo alla sazietà, ci soddisfano non tanto in termini di appagamento ma proprio di sazietà fisica. Io ho utilizzato le proteine del lievito, uniche vegetali che hanno un bassissimo impatto ambientale ma che comunque apportano tutti gli aminoacidi essenziali. Molti che seguono una dieta vegana hanno il problema che le proteine vegetali non sono complete come quelle animali, questa nuova proteina del lievito è completa di tutti gli aminoacidi essenziali. L’amido resistente ha la particolarità che ci permette di mangiare fibre senza quasi accorgersene perché ha impatto sul gusto. In merito alla lavorabilità, poi, l’impasto ottenuto ha un risultato per molti aspetti simile a quello di una farina normale. Un pizzaiolo e un panificatore possono creare così un prodotto funzionale dal punto di vista nutrizionale ma che sia anche bello da vedere, con un’ottima alveolatura e buono di gusto. Ho voluto sfruttare questo mondo soprattutto perché può facilmente arriva-

re a tutti e mandare un vero messaggio di un’alimentazione sana e corretta. QUINDI SOSTANZIALMENTE PARLIAMO DI UNA FARINA

Non è proprio una farina, è un mix. Non deriva solo dalla macinazione del grano ma da un insieme di ingredienti funzionali che comunque si trovano nella farina. Ovviamente, i celiaci non possono mangiarlo. Quando si lavorano gli amidi resistenti, bisogna aumentare un po’ il glutine per mantenere tutte le caratteristiche che rendono bella una pizza, alveolata e leggera. SEI PARTITO DAL GRANO, ALLORA.

Dagli aspetti più funzionali del chicco di grano. L’amido resistente ultimamente è il focus di tutto il mio studio ma anche di quello di una importante comunità scientifica, proprio perché è un modo di far mangiare fibre alla popolazione senza che se ne accorgano. Un prodotto integrale non è così buono o bello e la sfida è proprio di crearne uno bello da vedere, buono da mangiare e funzionale. È nato un po’ per gioco ma, specialmente da qualche settimana a questa parte, mi sta dando grosse soddisfazioni.


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QUALI BENEFICI UN PIZZAIOLO O UN PANETTIERE TRARREBBERO DALL’USARE UN IMPASTO FATTO CON IL TUO PRODOTTO PIUTTOSTO CHE UN ALTRO?

Sicuramente andrebbero incontro a tutte quelle esigenze che ha il consumatore moderno. Ecco, una cosa che mi fa davvero piacere è questa: oggi le persone sono sempre più attente a un discorso di corretta e sana alimentazione. Forse però c’è anche il rovescio della medaglia: tutti si sentono un po’ nutrizionisti e divulgatori scientifici improvvisati; quindi, c’è anche il lato negativo della cattiva informazione. Io credo che il pizzaiolo o panettiere, realizzando il pane o la pizza con questo prodotto, possa non solo soddisfare il cliente, ma anche differenziarsi sul mercato. Oggi non tutti hanno ancora una visione abbastanza ampia da accettare certe innovazioni, però credo fortemente che da qui a qualche anno sarà una cosa sempre più diffusa. COM’È STATO L’APPROCCIO NEL PRESENTARLO?

Innanzitutto, c’è un mulino che me l’ha prodotto. Ho cominciato nelle pizzerie e nei panifici della mia zona (parliamo di centri che hanno tra i 600 e i 5000 abitanti). Io ero un po’ scettico, in quanto questi prodotti si discostano dalla tra-

dizione della pizza classica ma, contro ogni mia aspettativa, sono stati proprio i pizzaioli di Napoli a interessarsi al mio prodotto. Oggi lo si trova li, in Sicilia, Emilia-Romagna… quasi in ogni regione d’Italia c’è almeno una pizzeria che lo usa e, forse, quelli che pensavo essere più tradizionalisti sono quelli che hanno una visione più ampia. Vedono infatti come la pizza sia una cosa che deve arrivare a tutti ed è di tutti. Anche chi sta a dieta deve goderne. Questo è quello che mi ha aiutato nel proporlo. Non è tanto facile spiegare a chi non è competente o del settore quali siano i benefici nutrizionali: bisogna trovare esempi molto semplici. QUANTO TEMPO FA HAI ULTIMATO IL PRODOTTO E QUANTO CI HAI MESSO?

Circa cinque mesi fa. Ci sono arrivato dopo studi e prove di diversi mesi. Ho provato anche in casa con l’aiuto di mia madre e delle mie zie, in modo molto rudimentale s’intende. Questo perché dovevo credere che fosse un prodotto facile da usare, a prova di “stupido”, nel senso che se fossi riuscito io, che non ho mai fatto il pane in vita mia, allora un pizzaiolo con anni di esperienza avrebbe potuto creare un qualcosa di davvero bello. Ho fatto tanta ricerca sulla materia prima e ho dovuto contattare diverse aziende che producono questi ingredienti con processi particolari. Non è stato facile, perché giustamente vendono a grandi aziende con grandi numeri. Sono stati incuriositi però dalla richiesta di un ragazzo così giovane. QUALI SONO GLI INGREDIENTI ESSENZIALI DEL TUO MIX?

Una percentuale di farina di grano tenero che apporta carboidrati nelle giuste proporzioni, amido resistente di frumento, fondamentale per abbassare indice e carico glicemico e modulare l’assorbimento dei carboidrati e infine le proteine dal

lievito, ovvero proteine vegetali contenenti tutti gli aminoacidi essenziali. Molto importante è il basso impatto ambientale: vengono prodotte da scarti di lavorazioni industriali e dunque vanno nell’ottica di un’economia circolare. PENSI CHE LA TUA PROPOSTA SIA DEFINITIVA O CREDI CHE POSSA O DEBBA ESSERE MIGLIORATA?

Assolutamente non definitiva. Voglio lanciare un messaggio molto importante. L’applicabilità e lo studio di farine provenienti da alcune varietà di grani che naturalmente apportano questo amido resistente sarà proprio la sfida del futuro. Aprirà le porte a quello che a me piace chiamare lo “Slow carb”, oggi conosciuto come “Low carb” che per me è riduttivo, nel vero senso della parola. Penso vada quasi a demonizzare i carboidrati, che per certi versi sono importanti e insostituibili. Poi si discosta anche dal canone di Dieta mediterranea. Il concetto di filosofia “slow” vuol dire avere i giusti carboidrati in base al proprio fabbisogno, il giusto apporto di proteine e fibre che rallentino


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l’assorbimento dei carboidrati. Ora, è realizzato su una base che ricorda molto il gusto dei multicereali, anche con qualche seme, che non piace a tutti. Lo “slow carb” è invece una versione bianca più applicabile e con un gusto un po’ più neutro. Prevedo di ultimarla per fine gennaio. QUALCUNO TI HA AIUTATO O ISPIRATO?

Ci tengo a ringraziare il team di ricerca e sviluppo di Grandi Molini che, in un’ottica puramente formativa e di ricerca, si è interessato ad approfondire il discorso dell’amido resistente. Per il resto, sono un po’ saccente, però tutto ciò che so l’ho imparato per mio conto e penso anche di aver pestato i piedi a qualche tecnologo di spicco italiano, che magari si è visto intimorito da un ragazzo così giovane interessato a tutto ciò. Non credo abbia senso, però. Io lo dico che non sono ancora nessuno e non faccio concorrenza a nessuno. Poi, ciò che io studio è scienza: che senso ha tenerla per sé? Bisogna farla conoscere. Ciò che mi fa davvero piacere è che questo

mio interesse ha incuriosito molti e credo che questo sia dovuto soprattutto al fatto che sia insolito trovare un ragazzo che si cimenta nel fare il “piccolo chimico”. Una cosa molto importante per me è questa: è partito un progetto che vede partecipi le scuole. Inizieremo subito in Piemonte e poi forse in tutta Italia: i ragazzi giovani sono influenzabili e possono portare questo messaggio a casa. Di mia spontanea iniziativa, oltre al settore alberghiero che mi hanno proposto, sono andato anche in tutte quelle scuole che hanno una base scientifica tipo biotecnologia, chimica ecc. C’è anche la possibilità di far comprendere che lo studio può dare libero sfogo alle idee: non è che se uno fa il chimico deve andare per forza in un laboratorio e fare ciò che gli si dice. GUSTOSO, SALUTARE E SOSTENIBILE… QUANTO È STATO DIFFICILE ARRIVARCI?

Una delle difficoltà è stata proprio quella di ricercare l’amido. Classico esempio è

la patata cruda: l’amido è in una struttura cristallina e compatta non digeribile ma, una volta cotta, gelatinizza e si digerisce; così, la patata cotta ha un indice glicemico alto. Stesso principio della pasta al dente. È anche vero che la maggior parte degli amidi non resiste alla cottura, come quello della tapioca o di alcune varietà di mais. È stato importante cercare un amido che resistesse alla nostra digestione. Poi, è ancor più difficile capire come mantenere il prodotto lavorabile: sostituendo parte della farina, togli anche un po’ di glutine, che sostanzialmente rende panificabile un prodotto. Bisogna giocare un po’ con le percentuali per creare un prodotto funzionale e mantenere determinate proprietà. Provando e riprovando, sono giunto a un prodotto bilanciato. NEL TEMPO POTRÀ ADATTARSI AL SENZA GLUTINE?

Ho diverse idee e progetti in cantiere: a breve usciranno anche dei biscotti a basso indice glicemico. In questo campo, però, è un po’ difficile, ci vorrà del tempo. Oggi il prodotto è applicabile a biscotti e dolci, però come lavorabilità è più incentrato su pane e pizza; a breve sarà sicuramente più versatile.


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UN LIBRO AL MESE

L’invenzione della tradizione A cura di: Eric G. Hobsbawm e T. Ranger traduzione italiana di: E. Basaglia edizione italiana: Einaudi, 1987 Pagine: 303


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el numero che avete appena letto, una delle parole più ricorrenti è stata sicuramente “tradizione”. Spesso, però, dietro al termine tradizione, cerchiamo di trasmettere altre parole, talvolta più complesse da comunicare e legate al concetto di autenticità, genuinità, autoctonia. Concetti il più delle volte ostici perché forieri di molteplici aspetti critici legati soprattutto al fatto che l’autoctonia è un mito e che la genuinità non di rado porta con sé il timore di scarsa attenzione alle norme igienico-sanitarie. Ecco, dunque, che arriva in soccorso il rifugio della tradizione. Anche questa parola però è spesso difficile da definire. Secondo uno dei più importanti storici del Novecento, Eric G. Hobsbawm, infatti: «Le “tradizioni” che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta». Le “tradizioni inventate” sono quelle pratiche che pretendono di inculcare valori e norme di comportamento in virtù di una ipotetica continuità con il passato. L'invenzione di tradizioni va però distinta da un differente processo, consistente nel far "partire" o "dare principio" a una nuova tradizione, senza però rivendicarne antiche origini. Entrambe partono dallo stesso concetto, ovvero dal fatto che ogni società ha accumulato una riserva di materiali in apparenza antichi: per rinsaldare vincoli nazionali, per connotare più marcatamente la fisionomia di partiti o di ceti o per attenuare quel senso di insicurezza che si poteva avvertire guardando a un futuro di radicali innovazioni.

Questa sorta di ingegneria sociale e culturale ha caratterizzato l’affermarsi delle nazioni moderne, che hanno cercato di legittimare la loro più recente storia cercando radici nel passato più remoto. E, a dire il vero, anche nell’antichità le cose non andavano molto diversamente: basti pensare ai miti di Romolo e Remo o di Enea. Solo le più “oneste” hanno provato invece a dare inizio a una nuova tradizione senza farsi scudo con un presunto passato. Le tradizioni inventate possono essere di tre tipi: - quelle che rafforzavano la coesione sociale o l'appartenenza a gruppi e a comunità, reali o artificiali; - quelle che davano legittimazione e fondamento a istituzioni, status, gerarchie sociali o rapporti di autorità; - quelle il cui scopo principale era l'inculcamento di credenze, di sistemi di valori, di habitus mentali e culturali, di codici convenzionali di comportamento. In una piacevole analisi critica del testo, lo storico Peter Burke si è chiesto: Dato che tutte le tradizioni si evolvono, è possibile o utile tentare di discriminare le antiche "genuine" dalle false? E noi, dopo questa lettura, riusciremo a usare un po’ meglio il termine “tradizione”?

a cura della redazione


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