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ROMA 1960, TESTIMONI OCULARI, OVVERO “LA NOSTRA OLIMPIADE”

Nota introduttiva Non è certo blasfemo affermare che i Giochi di Roma 1960 sono da considerare “la nostra Olimpiade”, in quanto l’aggettivo possessivo “nostra” si riferisce, nel suo complesso, alla categoria dei dipendenti CONI, ovviamente in primis a coloro di questi che ebbero la fortuna di essere testimoni diretti, “sul campo”, della meravigliosa avventura. Infatti, quando cominciò a ventilare l’ipotesi che la Capitale avrebbe potuto ospitare la manifestazione sportiva più importante del mondo, all’interno del nostro Ente si creò un fermento emotivo tale che, come un virus, attecchì su tutti gli operatori, a tutti i livelli, dagli operai fino ai dirigenti. C’è da dire che nel 1955 il nostro Ente non aveva un organico di professionali particolarmente numeroso, e che l’ambiente, pur serio e solenne, era caratterizzato da una atmosfera da “grande famiglia”, col Presidente Onesti nel ruolo di “padre attento e severo”. È quindi immaginabile, immedesimandosi alla situazione del tempo, a quella voglia che avevano tutti gli italiani “di tirar su la testa” dopo il terribile e doloroso dramma della Seconda Guerra Mondiale, come l’idea di poter essere in qualche modo coinvolti nella “costruzione” di una Olimpiade esercitasse su tutti, ripetiamo tutti indistintamente, una emozione ed una frenesia senza pari. È in questo contesto che si può capire come non può essere assolutamente definita “retorica” la lettera che abbiamo pubblicato all’inizio di questo volume a firma Giulio Onesti ed indirizzata a tutti i dipendenti CONI. Quella compattezza, quell’armonia, quella operosità “della nostra grande famiglia” cui il Presidente Onesti faceva orgoglioso riferimento erano aggettivi appropriati, o meglio veritieri, per rappresentare una situazione reale. 69


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