Forward. Numero 38 - 2025 Cronicità

Page 1


Vivere con una malattia cronica è come danzare con un’ospite silenziosa che non se ne va mai, ma alla quale si può insegnare il ritmo.

CRONICITÀ

www.forward.recentiprogressi.it

cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità

cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità

38

cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità

cronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicità cronicità cronicitàcronicità cronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità

cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità

La cronicità, oltre i numeri

4 Quante cose fai senza pensarci? ANNAMARIA TESTA

Rinforzi, motivazioni, imitazioni

La sfida della cronicità si gio

agenti di cambiamento

CHIARA BORGIA

12 Quanto incidono le differenze culturali?

Malattie croniche tra bisogni

Gli stili di vita per la

Osservare senza giudizi e

Cosa dice il medico, cosa

22 Il medico come guida o modello

MICHELOZZI

ANGELICA SALVADORI, MASSIMO VOLPE, ELISA ZANARDI

VERDECCHIA 26 Se l’innovazione c’è ma non arriva al paziente VIVIANA RUGGIERI 27 Malattie respiratorie, un’emergenza silenziosa 25 La prevenzione è nell’ambiente

26/27 La compliance del paziente, le prescrizioni del medico RENATO LUIGI ROSSI, MIRKO DI MARTINO

Le “care” abitudini: dove iniz Nuove vecchie abitudini per

Rompere vecchie abitudini

AMATI,

28 Ipertensione, tra invisibilità e cronicità

VALNEGRI 34 Una guida al cambiamento

DEGIORGI,

Svegliarsi presto per iniziare con calma la giornata, anticipando poco alla volta l’orario in cui si va a dormire.

iano, dove finiscono

8

Abitare le abitudini

Cura quotidiana

8 Come nascono le dipendenze MARIA MORENA, ANTONIA MANDUCA, MICHELA SERVADIO

Verso una sanità digitale efficiente: a che punto siamo?

9 Piccoli gesti che fanno la differenza LE ROUTINE

iano, dove finiscono

8 Come nascono le dipendenze

9 Piccoli gesti che fanno la differenza

sana per tutti

Una sanità che si fa vicina

tutti

15 Comportamenti appresi e consumo di massa

15 Dall’ospedale al territorio NICOLA PANZERI

salute e il benessere

senza pregiudizi

dentro i vissuti ca sul territorio di cura e diritti

21 I bambini con malattia cronica a scuola

LUCIANA INDINNIMEO

senza pregiudizi

20 E voi cosa ne pensate?

22 Il disturbo dello spettro autistico STEFANO D’ARRIGO

pensa il paziente

le cause alla radice

28/30 Come migliorare l’aderenza terapeutica

Il parto cesareo è la normalità?

COLAIS

il paziente

28/30 Come migliorare l’aderenza terapeutica

come risposta

una vita che cambia

36/37 Quel prima e dopo una diagnosi di cancro

29 La cronicità dopo il cancro SIMONA CARNIO

STEFANO MAGNO, FLORI DEGRASSI

36/37 Quel prima e dopo una diagnosi di cancro

38 Scivolare nell’abisso GIANCARLO DE CATALDO

30 Immidem, per una sanità più equa e senza confini

VALENTINA GUERZONI, ROSSELLA TOZZI, GIORGIA MAESTRI

Abitare le abitudini

Una malattia non risolta la sintetizziamo con il termine “cronicità”, ma non sempre si tratta di una cattiva notizia. È il tema affrontato in queste pagine di Forward, a cui il gruppo di lavoro ha voluto dedicare il secondo numero dell’anno.

Tra le abitudini del gruppo Forward ve ne sono alcune ormai consolidate: non cercare mai le soluzioni semplici, la frase conclusiva, la risposta scontata. Ci siamo fatti convincere che la complessità, per quanto scomoda, possa garantire un maggiore spazio a tutti quelli che lavorano al progetto e consenta di esplorare meglio ogni tematica.

In alcuni casi, la cronicità rappresenta il fallimento della cura definitiva: la malattia segna la quotidianità, imponendo una distanza costante dal pieno recupero della salute. In altri casi, però, è un successo in quanto la conquista è l’allungamento della sopravvivenza in patologie che fino a ieri erano condanne certe.

Tra le abitudini del gruppo Forward ve ne sono alcune ormai consolidate: non cercare mai le soluzioni semplici, la frase conclusiva, la risposta scontata. Ci siamo fatti convincere che la complessità, per quanto scomoda, possa garantire un maggiore spazio a tutti quelli che lavorano al progetto e consenta di esplorare meglio ogni tematica.

In questo numero troverete versioni sia positive che negative dei comportamenti ricorrenti. A volte parliamo dei veri e propri nemici del cambiamento; altre volte di ossessioni, deviazioni, ma anche di traguardi che fatichiamo a raggiungere per ottenere una salute migliore.

In questo numero troverete versioni sia positive che negative dei comportamenti ricorrenti. A volte parliamo dei veri e propri nemici del cambiamento; altre volte di ossessioni, deviazioni, ma anche di traguardi che fatichiamo a raggiungere per ottenere una salute migliore. Insomma il tema è un prisma a mille facce che non poteva mancare alla nostra collezione, così come alla nostra voglia di confronto.

In ogni situazione si tratta comunque di patologie e delle loro conseguenze con cui fare i conti ogni giorno, che richiedono una presa in carico continua, con interventi più complessi, e che chiamano in causa diversi ruoli e competenze.

Insomma il tema è un prisma a mille facce che non poteva mancare alla nostra collezione, così come alla nostra voglia di confronto.

Dell’importanza di questo tema si rendono conto soprattutto oggi coloro che più di tutti lo portano sulle proprie spalle: i caregiver. Sono loro a chiedere di ripensare metodi e strategie organizzative per una cura più efficace della cronicità. Un’esigenza che, nel caso di alcune malattie tra cui quelle rare, aiuterebbe anche a cogliere e valorizzare al meglio terapie spesso sperimentate solo nel breve periodo.

I numeri possono alle volte aiutarci a seguire e capire le ragioni che stanno dietro gli stili di vita e le attitudini degli operatori sanitari, ma che non sempre combaciano con le migliori prove di efficacia disponibili. Una ragione in più per capire quando e come si forma un comportamento ricorrente.

I numeri possono alle volte aiutarci a seguire e capire le ragioni che stanno dietro gli stili di vita e le attitudini degli operatori sanitari, ma che non sempre combaciano con le migliori prove di efficacia disponibili. Una ragione in più per capire quando e come si forma un comportamento ricorrente.

Bisogna poi considerare quanto, in una popolazione che invecchia come la nostra, il dover mettere in conto un periodo più o meno lungo di cura stia diventando un fenomeno sempre più frequente.

In alcune pagine del numero abbiamo cercato anche di rispolverare un linguaggio che fosse valido non solo per gli addetti ai lavori, traendo spunto da quanto abbiamo in passato sperimentato con Forward for Kids.

In alcune pagine del numero abbiamo cercato anche di rispolverare un linguaggio che fosse valido non solo per gli addetti ai lavori, traendo spunto da quanto abbiamo in passato sperimentato con Forward for

In sintesi, così come “visto da vicino nessuno è normale” anche le abitudini – a seconda di dove e come si collocano nella medicina del futuro – possono rassicurare o spaventare, con tutto quello che ci sta nel mezzo.

In sintesi, così come “visto da vicino nessuno è normale” anche le abitudini – a seconda di dove e come si collocano nella medicina del futuro – possono rassicurare o spaventare, con tutto quello che ci sta nel mezzo.

Come di consueto, in questo approfondimento troverete spunti di riflessione differenti e modi diversi di approfondire il tema della cura nella quotidianità. In tutti i contributi presentati, però, ho colto personalmente una linea comune che mi risuona in testa come uno scioglilingua e che invita a riflettere sul modello di medicina da costruire nel prossimo futuro: per aggiungere tempo alla cura ci vuole cura nel tempo (o del tempo), non solo tempo di cura.

Antonio Addis Dipartimento di epidemiologia

Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1

Antonio Addis

Dipartimento di epidemiologia

Antonio Addis

Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1

Dipartimento di epidemiologia

Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1

LA CRONICITÀ NON È SOLO UN NUMERO

Un lungo decorso, assistenza continua, assunzione permanente di farmaci: sono questi gli elementi che caratterizzano la quotidianità delle persone con malattie croniche, con un impatto rilevante sulla qualità della vita. Sono condizioni complesse e gravose, che tuttavia racchiudono anche un’importante opportunità: nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di malattie prevenibili, pur rappresentando le principali cause di morbilità e mortalità nel mondo.

Nell’identikit delle malattie croniche – note anche come malattie non trasmissibili (noncommunicable diseases) – vanno inserite altre caratteristiche, sempre più prevalenti e strettamente interconnesse: colpiscono persone di tutte le fasce d’età, senza grandi distinzioni etniche o sociali, e sono l’esito di una combinazione di fattori genetici, fisiologici, comportamentali e non da ultimi ambientali. Sempre più studi, per esempio, documentano il ruolo dell’inquinamento ambientale nel determinare il rischio a lungo termine di patologie cardiovascolari, respiratorie e metaboliche.

La dimensione globale del problema

Nel 2021 le malattie croniche sono state responsabili di 43 milioni di decessi nel mondo; tra questi, 18 milioni hanno riguardato persone con meno di 70 anni. Malattie cardiovascolari (cardiopatie e ictus), cancro, diabete e malattie respiratorie croniche – insieme alle patologie neurologiche e a certi disturbi della salute mentale – causano quasi tre quarti dei decessi1

Tra le malattie del sistema nervoso, la malattia di Alzheimer e le altre forme di demenza rappresentano la settima causa di morte a livello

Vissuti, disuguaglianze e ostacoli

mondiale con 1,8 milioni di decessi registrati nel 2021, il 68 per cento dei quali ha riguardato le donne2

L’incidenza sociale e geografica risulta tuttavia sproporzionata: secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, nei Paesi a basso e medio reddito si verificano quasi tre quarti dei decessi per malattie non trasmissibili a livello globale.3 Si sfatano così due miti: che le cronicità siano conseguenza soltanto dello stile di vita pigro e opulento delle società più ricche e longeve, e che occorra iniziare a preoccuparsene solo dopo “una certa età”. Secondo le proiezioni demografiche più accreditate, entro il 2050 le malattie non trasmissibili saranno responsabili dell’86 per cento dei decessi a livello globale4. In base agli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, restano solo cinque anni per raggiungere uno dei traguardi dell’area Salute: “ridurre di un terzo la mortalità prematura da malattie non trasmissibili attraverso la prevenzione, il trattamento e la promozione del benessere e della salute mentale”. L’urgenza è dunque chiara: rafforzare la prevenzione e garantire un’assistenza più efficace.

Vivere con una malattia cronica: la parola ai pazienti

Per comprendere davvero l’impatto della cronicità è fondamentale ascoltare chi la vive. È questo l’obiettivo dell’osservatorio Paris –Patient-reported indicator survey – promosso dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) in 19 Paesi tra cui l’Italia, che ha coinvolto oltre 107.000 persone con almeno una patologia cronica, seguite da 1800 studi di medicina generale, di età pari o superiore a 45 anni. Il focus è proprio sulle per-

sone affette da patologie croniche, il gruppo di utenti più numeroso e in più rapida crescita nei sistemi sanitari contemporanei5

Questo osservatorio internazionale rappresenta una novità metodologica importante: mette al centro il punto di vista degli utenti dei servizi sanitari, i diretti interessati considerati “esperti” in quanto soggetti che fanno esperienza diretta della cronicità, vivendone quotidianamente difficoltà, esiti e innovazioni e sperimentando anche le novità.

Gli esiti dell’indagine rivelano una realtà complessa: l’80 per cento circa degli intervistati convive con almeno una malattia cronica, la metà con due o più, e oltre un quarto con almeno tre. Ma come affrontano questa condizione complessa e permanente? Non con particolare fiducia. I dati mostrano che quattro pazienti su dieci dichiarano di non sentirsi sicuri nella gestione della propria salute, e altrettanti dichiarano scarsa fiducia nel sistema sanitario nazionale. Poiché l’indagine si fonda proprio sul vissuto personale, conta sicuramente il fatto che quasi la metà dei partecipanti abbia riportato almeno un’esperienza negativa nell’interazione con una struttura sanitaria.

Spostando il mirino sul nostro Paese6, emerge che gli italiani affetti da cronicità sono sette su dieci – precisamente il 72 per cento. Va però precisato che questa percentuale comprende una molteplicità di condizioni, con livelli di gravità e impatto molto variabili. Il primo dato degno di nota riguarda il gradimento: il 70 per cento dei pazienti italiani segnala una buona esperienza nel coordinamento dell’assistenza, rispetto al 59 per cento della media Paris. Meno positivo, invece, il quadro della condizione generale degli utenti: due terzi delle persone con cronicità si considerano in buona salute, intendendo con ciò la capacità di mantenere una funzionalità fisica accettabile, controllan-

Le malattie non trasmissibili nel mondo

2 secondi

Il 74% di tutti i decessi nel mondo sono causati da una Ncd.

Malattie cardiovascolari

Ogni due secondi qualcuno nel mondo muore a causa di una Ncd.

Cancro

90%

Con investimenti sufficienti, il 90% dei Paesi a basso e medio reddito potrebbe raggiungere entro il 2030 l’obiettivo di sviluppo sostenibile di ridurre di 1/3 le morti premature causate da Ncd.

Malattie respiratorie croniche

Diabete

1 decesso su 3 17,9 milioni di persone ogni anno

1 decesso su 6 9,3 milioni di persone ogni anno

do per esempio dolore e affaticamento (66 per cento contro una media del 70 per cento). La percentuale si abbassa leggermente se si prendono in considerazione anche umore e vitalità.

Anche le valutazioni relative alla salute mentale – misurata in termini di qualità della vita, disagio emotivo e salute sociale – si discostano di sette punti dalla media europea: il 76 per cento dei pazienti cronici italiani riferisce una buona salute mentale, rispetto all’83 per cento della media complessiva Paris5

L’osservatorio Paris evidenzia inoltre un diffuso gap di genere significativo sul fronte della salute percepita e degli esiti clinici. Le donne, pur essendo notoriamente più longeve, godono in media di una salute peggiore. Se il 74 per cento degli uomini dichiara di essere in buona salute fisica e l’86 per cento riferisce un buon stato di salute mentale, tra le donne le percentuali scendono rispettivamente al 65 per cento e all’81 per cento. Perché? Dal rapporto emerge che le donne hanno meno probabilità di riportare esiti positivi sul proprio stato di salute e tendono anche a farlo con minore frequenza, inoltre hanno meno fiducia nell’assistenza sanitaria. Lo status socioeconomico, l’età e la presenza di più patologie croniche spiegano in parte la differenza di genere, ma anche se si considerano questi fattori, il benessere delle donne rimane peggiore di quello degli uomini.

Tecnologia, alfabetizzazione e disuguaglianze digitali

Nel contesto delle malattie croniche, la capacità di accedere, comprendere e usare informazioni sanitarie è cruciale per i pazienti e per i caregiver. È la cosiddetta health literacy, che include anche la familiarità con gli strumenti digitali. Paris ha rilevato che tra le persone con

1 decesso su 13 4,1 milioni di persone ogni anno

un basso livello di istruzione sono più scarse anche le competenze digitali (e la fiducia nei mezzi tecnologici). Mentre un’istruzione sopra la media si associa a una migliore comprensione del linguaggio e conoscenza dei diversi mezzi della comunicazione. Conferisce sicurezza e familiarità anche nel saper navigare con strumenti relativamente nuovi come il fascicolo sanitario elettronico. Tuttavia, le opportunità che richiedono un livello tecnologico più avanzato restano limitate: solo il 7 per cento dei pazienti cronici riferisce di aver usufruito di una video-consulenza nell’ambito dell’assistenza primaria.

A questo si aggiunge un ulteriore limite, di tipo strutturale, particolarmente evidente in Italia: secondo l’indagine Paris, solo il 13 per cento degli ambulatori che seguono pazienti con patologie croniche è in grado di scambiare elettronicamente le cartelle cliniche, contro una media Ocse del 57 per cento.

Cosa conta davvero: tempo, relazione, continuità

L’indagine Paris mostra che una spesa sanitaria più elevata non garantisce automaticamente esiti migliori. O meglio: se esiste una correlazione tra maggiori investimenti e salute fisica, lo stesso non vale per l’esperienza dei pazienti con patologie croniche. A dimostrarlo sono le disparità nella qualità dei servizi. Paesi come la Repubblica Ceca e la Slovenia ottengono risultati soddisfacenti con una spesa sanitaria pro capite inferiore alla media, a differenza degli Stati Uniti che, pur investendo oltre il doppio, non si distinguono per qualità dell’assistenza. Di che cosa hanno davvero bisogno i pazienti? “I pazienti apprezzano il tempo” è il titolo di

1 decesso su 28 2,0 milioni di persone ogni anno

Modificato da “Invisible numbers”, Who 2022.

un paragrafo dell’indagine che può sembrare ovvio ma coglie un aspetto essenziale. Per chi convive con patologie croniche è fondamentale vivere l’attesa in tempi ragionevoli e poter contare su visite condotte con calma e attenzione. Conta anche la continuità: avere un rapporto stabile e duraturo con il proprio medico di medicina generale è percepito come una garanzia di cure più efficaci.

Un approccio human-centered – punto di forza riconosciuto all’Italia dall’Ocse – assume un valore strategico, soprattutto nell’assistenza primaria. È infatti associato a migliori risultati nella gestione delle malattie croniche, che richiedono la partecipazione consapevole e attiva del paziente.

1. World health organization. Invisible numbers: the true extent of noncommunicable diseases. Pubblicato il 15 settembre 2022.

2. World health organization. The top 10 causes of death. Pubblicato il 7 agosto 2024. Ultimo accesso: 24 maggio 2025

3. World health organization. Noncommunicable diseases. Pubblicato il 23 dicembre 2024. Ultimo accesso: 24 maggio 2025

4. United Nations. Chronic diseases taking ‘immense and increasing toll on lives’, warns Who. Pubblicato il 19 maggio 2023. Ultimo accesso: 24 maggio 2025

5. Oecd. Does healthcare deliver? Results from the Patient-reported indicator surveys (PaRIS). Paris: Oecd Publishing, 2025.

6. Oecd. “Does healthcare deliver? Results from the Patient-reported indicator surveys (Paris): Italy. Pubblicato il 20 febbraio 2025. Ultimo accesso: 24 maggio 2025

La cronicità nel mondo. Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno 41 milioni di persone – pari al 74% di tutti i decessi – muoiono a causa di una malattia non trasmissibile (Ncd). Le quattro principali Ncd – malattie cardiovascolari (come infarto e ictus), tumori, diabete e malattie respiratorie croniche – insieme ai disturbi della salute mentale, rappresentano una quota molto elevata di decessi e malattie a livello globale. La maggior parte di questi decessi, così come una parte rilevante della cattiva salute associata, potrebbe essere prevenuta intervenendo sui fattori di rischio comuni: comportamentali, biologici e ambientali. Fonte: Invisible numbers, Who 2022.

Diritti

Tra attese, costi e disuguaglianze

Le malattie croniche interessano il 40,5 per cento della popolazione italiana, cioè 24 milioni di cittadini, mentre le persone affette da almeno due patologie croniche sono 12,2 milioni. Dopo i 75 anni le persone che convivono con almeno una patologia cronica salgono all’85 per cento, mentre il 64,3 per cento sono quelle con due o più patologie. In base ai dati la tendenza è che nel 2028 i malati cronici saliranno a 25 milioni, mentre i multi-cronici saranno 14 milioni. Le patologie croniche più frequentemente riferite sono le malattie respiratorie croniche (6 per cento), le malattie cardiovascolari e il diabete (5 per cento) e i tumori (4 per cento); le malattie croniche del fegato, l’insufficienza renale e l’ictus (1 per cento) sono le meno frequenti.

Le malattie rare costituiscono un insieme ampio e complesso che, in molti casi, non interessa un solo organo ma attiva meccanismi complessi che coinvolgono l’intero organismo, interessando sia il corpo che la psiche. Di conseguenza, il paziente affetto da una malattia rara diventa il soggetto di molteplici specialisti, facenti parte di un’équipe con competenze molto diversificate. In base ai dati coordinati dal Registro nazionale malattie rare dell’Istituto superiore di sanità, in Italia si stimano 20 casi di malattie rare ogni 10.000 abitanti e ogni anno sono circa 19.000 i nuovi casi segnalati. Il 20 per cento delle patologie coinvolge persone in età pediatrica (inferiore ai 14 anni).

Il rapporto di Cittadinanzattiva

I dati contenuti nel XXII Rapporto sulle politiche della cronicità e delle malattie rare di Cittadinanzattiva sono il risultato di una survey, svolta nel 2024, alla quale hanno preso parte 102 associazioni di pazienti, oltre 3500 persone affette da patologia cronica o rara e 590 caregiver familiari su tutto il territorio nazionale. L’intento è rappresentare, soprattutto alle istituzioni, quanto quotidianamente vivo-

Il Rapporto di Cittadinanzattiva

no i pazienti cronici e rari e i loro caregiver, e come la carenza di servizi, o la loro inefficienza o come troppo spesso accade la difformità dal punto di vista quantitativo e qualitativo sul territorio rendano non esigibile il diritto alla cura, il diritto a una qualità di vita migliore ma anche il diritto a mantenere la qualità di vita acquisita. Avendo sempre a riferimento, il principio costituzionale e i valori fondanti del nostro Servizio sanitario nazionale, il titolo scelto per questo Rapporto, “Diritti sospesi”, deriva dal fatto che il diritto alla cura dei cittadini con malattia cronica e rara è reso precario, instabile o addirittura interrotto da una serie di politiche lasciate a metà o di misure sospese nelle maglie delle procedure, nei tempi via via più lunghi per le decisioni, negli ostacoli che le istituzioni tendono troppo spesso a frapporsi. Succede così che non solo quanto previsto e contenuto nelle norme non venga poi tramutato in azioni concrete, reali e tangibili in grado di fornire risposte ai bisogni di salute, ma che troppe norme restino sospese, appunto, o definite nei principi generali senza la loro declinazione attuativa.

L’attenzione alla prossimità delle cure non si esaurisce costruendo solo nuove infrastrutture e strutture, ma è necessario che queste ultime dialoghino tra loro.

Il Rapporto mostra chiaramente che le persone con patologia cronica e rara ad oggi non rappresentano ancora una vera e concreta priorità per le politiche pubbliche sociosanitarie in Italia nonostante l’incidenza, la diffusione, l’impatto sulla qualità della vita, sulla sfera lavorativa della persona malata e di chi la assiste, famiglia in primis, sui redditi familiari e sul bilancio della sanità pubblica e dei servizi

socioassistenziali. Quello che mostra il Rapporto è che bisogna rafforzare la medicina del territorio anche con l’utilizzo di tecnologie digitali che consentano una presa in carico e un monitoraggio a distanza dei pazienti, ma al contempo è da rinsaldare la cultura dell’interazione e la collaborazione tra i professionisti sanitari, nel rispetto di ruoli e competenze che restituisce valore alle professioni sanitarie diverse da quelle mediche e che consentono una presa in carico complessiva della persona e non più della malattia. Quindi l’assistenza sociosanitaria comprende le prestazioni necessarie a soddisfare il bisogno di salute del cittadino, anche nel lungo periodo, a stabilizzare il quadro clinico, a garantire la continuità tra le attività di cura e quelle di riabilitazione, a limitare il declino funzionale e migliorare la qualità della vita della persona, associando alle prestazioni sanitarie anche azioni di supporto e di protezione sociale. L’attenzione alla prossimità delle cure non si esaurisce costruendo solo nuove infrastrutture e strutture, ma è necessario che queste ultime dialoghino tra loro e siano interconnesse con la rete ospedaliera e in maniera uniforme su tutto il territorio, oltre a essere in grado di gestire e prendere in carico i pazienti cronici e rari. La prossimità delle cure, oggi più che mai, esige un sostanziale rafforzamento del personale sanitario. Mancano medici di medicina generale, mancano pediatri di libera scelta, mancano specialisti, mancano infermieri.

Le criticità del sistema

Per eliminare o almeno limitare le disuguaglianze esistenti e consentire l’accesso alle cure occorre intervenire in maniera strutturata e continuativa sul recupero delle liste di attesa e l’aggiornamento costante dei livelli essenziali di assistenza (lea). La mancanza di un costante e progressivo aggiornamento dei lea contribuisce attivamente a creare disparità tra i cittadini residenti in Regioni diverse in

Tiziana Nicoletti, responsabile del Coordinamento associazioni malati cronici e rari di Cittadinanzattiva.

Diagnosi in ritardo, cure frammentate, costi a carico delle famiglie e forti disuguaglianze territoriali: è quanto emerge dal XXII Rapporto di Cittadinanzattiva sulle politiche della cronicità e delle malattie rare. Un’indagine su oltre 3500 pazienti e 590 caregiver che racconta un’Italia dove il diritto alla salute resta troppo spesso incompiuto. Il 30 per cento dei malati rinuncia alle cure per ragioni economiche, e uno su quattro riceve la diagnosi dopo oltre dieci anni. Che cosa chiedono i pazienti? Che cosa cambiare?

termini di accesso alle prestazioni sanitarie, mentre allo stesso tempo fa sì che il nostro Paese risulti poco ricettivo nei confronti delle innovazioni nel campo della medicina e nel portare servizi sempre più rispondenti alle mutate necessità della popolazione e a costi accessibili.

Ancora una volta la prevenzione e le liste di attesa continuano a essere le principali criticità che le persone segnalano come le più gravi del nostro Servizio sanitario nazionale. Problemi che inducono ancor di più i cittadini a destreggiarsi, ingegnarsi e arrabbiarsi per non rinunciare alle cure e spesso costringendoli a una mobilità sanitaria. È indiscusso il fatto che le risorse economiche sono indispensabili per far fronte a tali criticità ma, forse, è necessario che vengano accompagnate da una serie di cambiamenti e miglioramenti al fine di mettere in atto azioni efficaci anche per reagire ai problemi delle liste di attesa. La sfida da affrontare si giocherà sulla capacità di mettere al centro della governance sanitaria la salute dei cittadini, percorrendo una strada di sviluppo equo, tempestivo, partecipato e sostenibile. I pazienti chiedono maggiore attenzione verso le condizioni di fragilità – di tipo sociale, economico e psicologico – garantendo lo stesso grado di assistenza a tutti i cittadini, a prescindere dal luogo di residenza. È inoltre più che urgente adoperarsi per il pieno riconoscimento dei diritti e delle tutele dei caregiver familiari.

Riassumendo, quelli che seguono sono alcuni dei punti essenziali, senza una pretesa di completezza, di una necessaria rivisitazione del nostro Servizio sanitario nazionale.

• Individuare i bisogni prioritari di ogni territorio per l’elaborazione dei piani di salute territoriale che si attui attraverso il potenziamento della prevenzione, della sanità territoriale e delle cure primarie; le scelte devono essere il frutto di un confronto costante con le organizzazioni civiche e le associazioni di pazienti.

• Maggiore attenzione verso le condizioni di fragilità, di tipo sociale, economico e psicologico, garantendo lo stesso grado di assistenza a tutti i cittadini e il passaggio da una medicina concentrata solo sul singolo a una medicina di comunità.

• Aggiornare con cadenza periodica e ravvicinata, finanziare e monitorare i lea su tutto il territorio. Applicare il decreto di nomina della nuova commissione lea.

Prevedere verifiche sistematiche e periodiche sul recupero delle liste di attesa rendendo trasparenti le informazioni sui modelli organizzativi applicati, sulle tempistiche e sui criteri di priorità.

• Individuare e attuare modalità per affrontare la carenza del personale sanitario e far sì che questo sia sempre più pronto a fornire risposte adeguate alla comunità.

• Aggiornare il Piano nazionale della cronicità e monitorare il raggiungimento degli obiettivi previsti.

• Dare piena attuazione alla legge 167/2016, “Disposizioni per l’avvio dello screening neonatale per la diagnosi precoce di malattie metaboliche ereditarie”; emanare i provvedimenti attuativi previsti dal Testo unico sulle malattie rare, n. 175 del 2021, al fine di garantire la piena operatività; monitorare la realizzazione del Piano nazionale malattie rare.

• Approvare una normativa nazionale in tempi brevi che riconosca il ruolo e i diritti del caregiver familiare.

La cronicità in Italia

40,5%

degli italiani ha almeno una malattia cronica

85%

degli over 75 ha almeno una malattia cronica

64,3%

degli over 75 ha due o più malattie croniche

22,9%

delle persone con malattia cronica ha atteso dai 2 ai 10 anni per ottenere la diagnosi

sospesi

Cronicità e digitalizzazione. Sostenibilità e inclusione

Nel contesto attuale, la digitalizzazione rappresenta uno snodo cruciale per il futuro del Servizio sanitario nazionale (Ssn): non solo come strumento tecnologico, ma come leva strategica per affrontare l’aumento delle patologie croniche, la sostenibilità del sistema e la tutela dei diritti di pazienti e cittadini. È da queste premesse che ha preso forma l’incontro “Cronicità e digitalizzazione”, parte del ciclo di eventi “Tutto nella norma”, organizzato dalla Fondazione Roche con Formiche.net per stimolare il confronto tra istituzioni, esperti, professionisti sanitari e cittadini su temi centrali per l’evoluzione del Ssn, con attenzione alle implicazioni normative ed etiche.

Un nuovo orizzonte per la cura. L’avanzamento della medicina ha reso possibile cronicizzare molte malattie un tempo considerate letali. Ma questa conquista apre interrogativi inediti: come convivere con una condizione strutturalmente debilitante? E come accompagnare le persone in questo percorso di lunga durata, che non riguarda solo il paziente, ma anche la famiglia e la società? Giovanni Apolone è intervenuto in qualità sia di scienziato che paziente, con una riflessione person-

vedi anche

ale su cosa significhi vivere la cronicità, sottolineando la necessità di ripensare il concetto stesso di cura nella prospettiva della continuità e della coesistenza con la malattia.

Sostenibilità e diritti. La crescente domanda di cure a fronte della limitatezza delle risorse pubbliche impone la necessità di affrontare il tema della sostenibilità. Come ha sostenuto Francesco Spandonaro, la digitalizzazione può rappresentare una leva determinante per conciliare efficienza ed equità, contribuendo a garantire il diritto alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione.

La dimensione relazionale. Accanto alle questioni economiche, si è discusso della dimensione esistenziale della cronicità. Sandro Spinsanti ha evidenziato come tale condizione non debba necessariamente essere totalizzante per la persona e costituire un problema individuale anche per di chi gli sta accanto, ma al contrario possa essere affrontata in una logica di condivisione sociale, che valorizzi la libertà e la qualità della vita degli interessati. Una visione condivisa anche da Laura Patrucco, che ha sottolineato il ruolo del terzo settore nei percorsi di cura, e da Annamaria Colao, che ha evidenziato il proficuo nesso tra

le nuove tecnologie e la prevenzione, quale priorità del Ssn.

La politica e il governo dei dati. Dal dibattito che ha coinvolto Andrea Lenzi, Elisabetta Carini e gli onorevoli Luciano Ciocchetti, Beatrice Lorenzin, Orfeo Mazzella e Elena Murelli, è emerso che spetta alla politica governare la sintesi tra diritti, innovazione e sostenibilità. La digitalizzazione può abilitare una programmazione più efficace, un uso sicuro e strutturato dei dati clinici, e un’evoluzione dell’assistenza domiciliare e territoriale, migliorando l’aderenza terapeutica e la personalizzazione delle cure.

Una prospettiva condivisa. Dalla tavola rotonda è emersa una visione comune: rafforzare la digitalizzazione significa affrontare meglio la cronicità, contenere i costi e garantire uguaglianza nell’accesso alle cure. A condizione, però, che l’innovazione resti ancorata a un quadro normativo orientato alla centralità della persona e alla tutela del Ssn come bene collettivo.

Cronicità e digitalizzazione Roma, 18 novembre 2024

VERSO UNA SANITÀ DIGITALE EFFICIENTE: A CHE PUNTO SIAMO?

Grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), la sanità italiana sta vivendo un rinnovamento digitale, con investimenti che nel 2024 hanno raggiunto i 2,47 miliardi di euro. La cybersecurity rimane la priorità, seguita da cartella clinica elettronica, telemedicina e integrazione dei sistemi. Cresce l’attenzione alla gestione dei dati clinici e al ruolo strategico dell’intelligenza artificiale, come evidenziato da un’indagine dell’Osservatorio Sanità digitale del Politecnico di Milano sulla la diffusione degli strumenti e dei servizi della sanità digitale a livello nazionale. L’uso del fascicolo sanitario elettronico coinvolge il 44 per cento degli specialisti, il 57 per cento dei medici di medicina generale e il 41 per cento dei cittadini. I servizi di televisite e telemonitoraggio sono in crescita ma ancora sporadici. La comunicazione medico-paziente avviene spesso tramite canali non specifici, come WhatsApp, che richiede in media un’ora al giorno ai medici: strumenti più dedicati potrebbero far risparmiare fino a una settimana lavorativa all’anno per ciascun medico. L’intelligenza artificiale, già adottata da una quota significativa di operatori sanitari e cittadini, è vista come un’opportunità per risparmiare tempo e migliorare la gestione delle informazioni cliniche. Nonostante i progressi, le aziende sanitarie evidenziano diversi ostacoli all’innovazione, legati alla carenza di risorse economiche, alle competenze digitali limitate e all’incertezza sul futuro dopo il Pnrr. È quindi fondamentale definire strategie sostenibili per garantire la continuità degli interventi anche dopo la fine dei finanziamenti straordinari.

2,47 miliardi di euro gli investimenti in sanità digitale nel 2024, +12% rispetto al 2023

52% dei Mmg e 36% degli specialisti usano servizi di televisita

46% dei Mmg e 30% degli specialisti usano il telemonitoraggio

41% dei cittadini ha usato il fascicolo sanitario elettronico e il 60% ha dato il consenso all’uso dei dati

31% dei cittadini ha già utilizzato strumenti di intelligenza artificiale generativa e 11% in ambito sanitario

69% delle aziende sanitarie prevede un aumento degli investimenti in cybersecurity

Fonte: Osservatorio Sanità digitale del Politecnico di Milano.
Fausto Massimino, direttore generale della Fondazione Roche.

RAFFORZARE le cure PRIMARIE

Verso un nuovo assetto fondato su comunicazione, accesso alle cure e prossimità

Dottoressa Rinnenburger, nel panorama attuale delle cure primarie, è possibile per il medico di medicina generale ritrovare uno spazio e un ruolo centrale nella gestione della cronicità?

La risposta è sì, ma ci vogliono cambiamenti radicali. La cronicità è la grande sfida per i sistemi sanitari, per i professionisti, per le persone e le loro famiglie. Il ruolo del medico di famiglia è essenziale per diversi motivi: il paziente cronico è spesso pluripatologico. Il medico di medicina generale dovrebbe avere la visione globale del paziente. Uno dei tanti esempi è la persona con broncopneumopatia cronica ostruttiva che spesso soffre anche di ipertensione, diabete, insufficienza renale, ansia e depressione.

Il medico di famiglia, idealmente, come sottolinea Atul Gawande1 in un articolo di qualche anno fa, accompagna il paziente per molti anni nella sua vita e dovrebbe essere la prima persona di fiducia della persona con malattie croniche, perché può vedere i cambiamenti nel corso dei decenni. Come tale, idealmente, dovrebbe essere la persona fidata e il coordinatore sul quale convergono tutte le informazioni della salute della persona, incluso il suo stato di benessere mentale e sociale. Pero è necessario che egli richieda ed esiga una comunicazione con gli specialisti, che a loro volta dovrebbero fornire informazioni chiare ed essere disponibili, per telefono, mail o magari con incontri regolari. Il medico di medicina generale non deve essere ridotto a semplice trascrittore di ricette e accertamenti clinici. Se avesse un ruolo più centrale, la persona che convive con una cronicità sarebbe felice di rivolgersi direttamente a lui.

In questo momento siamo molto lontani da questa situazione, i medici di famiglia sono sempre di meno e l’età media in Italia è la più alta d’Europa, 57 anni per le donne e 61 per gli uomini. Tanti andranno in pensione tra poco, il tempo a disposizione e la forma mentis non sembrano tali da mettersi in discussione con nuovi modelli. Il cambiamento generazionale potrebbe essere anche un’occasione per la riorganizzazione. Il Piano nazionale della cronicità tuttora non prevede fondi, non c’è una strategia incisiva per avere più personale, medico ma anche infermieristico. Anche gli specialisti sono di meno, gli ambulatori specialistici degli ospedali invece sono stracolmi. Questo comporta un indebolimento del modello di specialistica pubblica del servizio sanitario nazionale, mentre cresce il ricorso al settore privato, spesso definito “privato sociale” quando offre tariffe più contenute. La comunicazione tra specialisti da un lato e medici di medicina generale dall’altro non viene vissuta come una colonna fondamentale della cura. La persona affetta da patologie complesse, come una malattia oncologica diventata cronica grazie alla terapia, sia di natura chemioterapica che innovativa, si fida solo di chi sa tutta la storia della sua malattia. Il medico di medicina generale viene messo ai margini e richiamato nel caso

peggiore solo quando la malattia non è più arrestabile e cronicizzabile. Ci vuole un cambiamento.

Sognano un “noi” dei curanti e non le terapie divise tra tanti specialisti.

Cosa servirebbe per migliorare la qualità di vita dei pazienti cronici, e cosa può fare il servizio sanitario per aiutare le persone ad adattarsi alla condizione cronica?

La prima parte della domanda mi fa pensare a “I have a dream” di Martin Luther King. Alle persone affette da cronicità servono le cure più innovative in primis, perciò devono essere sicuri di stare al posto giusto, curati delle persone più competenti. L’evoluzione terapeutica è oggi molto rapida per numerose patologie, con farmaci biologici sempre più disponibili. È fondamentale che i pazienti abbiano la certezza della natura cronica della loro malattia, escludendo possibilità di guarigione completa. Dovrebbero inoltre godere di un accesso agevole a cure e controlli gratuiti, obiettivo tuttora difficile da raggiungere in Italia. Dovrebbero avere anche luoghi accessibili, parcheggi disponibili e ascensori funzionanti, luoghi per la somministrazione delle cure confortevoli, puliti, ordinati e perché no anche belli. Vorrebbero persone non solo competenti ma anche gentili, non annoiate dalla cronicità. Magari sognano che il medico di famiglia si incontri con lo specialista e che insieme si prendano cura del paziente. Sognano un “noi” dei curanti e non le terapie divise tra tanti specialisti. Vorrebbero la disponibilità degli specialisti anche in caso di emergenza, direttamente o tramite il medico di famiglia.

Il servizio sanitario nazionale, come presupposto fondamentale, dovrebbe mettere a disposizione medici di famiglia a sufficienza, disponibili per una fascia oraria più ampia, magari raggruppati in case della salute o case della comunità, possibilmente di quartiere, che possano affrontare in modo globale tutti i problemi dei pazienti senza che questi debbano spostarsi per trovare una soluzione. La digitalizzazione delle cartelle cliniche disponibili per tutti i curanti evita la perdita d’informazioni essenziali, la telemedicina aiuta anche a distanza a verificare lo stato della salute. Questo presuppone un cambiamento radicale nell’organizzazione delle cure, che potrebbe aprire la strada verso una medicina d’iniziativa, proattiva e creativa. È una trasformazione indispensabile e impossibile a costo zero. A cura di Giada Savini

1. Gawande A. The heroism of incremental care. The New Yorker, 15 gennaio 2017.

Dagmar Rinnenburger, pneumologa e allergologa, è autrice del libro “La cronicità. Come prendersene cura, come viverla” (Il Pensiero Scientifico Editore, 2019).

AMBULATORI POPOLARI: la comunità c’è, la casa per ora no

Andrea Capocci, fisico, insegnante e giornalista, scrive di argomenti scientifici per il manifesto e per Le Scienze/Scientific American

Secondo l’ultimo rapporto Istat sullo stato dell’Italia, nel 2024 una persona su dieci ha rinunciato a curarsi. I motivi sono noti: le liste d’attesa e i costi della sanità che in maniera crescente ricadono sulle tasche private. Queste però sono le cause immediate dichiarate dagli stessi cittadini. A monte di queste ce ne sono altre, più profonde e meno visibili. Ad esempio, la lunghezza delle liste d’attesa e i costi elevati della medicina non si spiegano solo con la mancanza di personale e strumentazione diagnostica: molti esami effettuati sono inutili e ingolfano gli ambulatori. “Oggi, fino al 40 per cento degli esami di diagnostica per immagini, dalle tac alle risonanze magnetiche, è inappropriato” ha spiegato recentemente Nicoletta Gandolfo, presidente della Società italiana di radiologia medica e interventistica. A sua volta, all’origine dell’inappropriatezza c’è il cattivo rapporto tra cittadinanza e salute. Gli esami inappropriati vengono prescritti soprattutto su pressione di cittadini spaventati o per evitare futuri problemi giudiziari. E questa precarietà sanitaria è figlia, in ultima analisi, della disorganizzazione della sanità territoriale, non più in grado di accompagnare i cittadini più fragili nei percorsi di prevenzione e cura con il dialogo che sarebbe necessario. Troppo spesso questa catena finisce per riversare sugli ospedali una domanda di prestazioni che si potrebbero svolgere altrove o che potrebbero essere evitate del tutto.

La crisi della sanità territoriale è aggravata dai nuovi bisogni di salute insorti nella società italiana che spesso rimangono insoddisfatti.

La crisi della sanità territoriale è aggravata dai nuovi bisogni di salute insorti nella società italiana che spesso rimangono insoddisfatti. Da un lato, l’invecchiamento della popolazione comporta un aumento del peso delle patologie croniche. Dall’altro, emergono nuove fragilità sociali – in particolare la crescita della popolazione migrante in Italia con difficoltà linguistico-culturali e di reddito – che pongono una nuova questione per l’accesso e l’universalità delle cure, di cui il Servizio sanitario nazionale (Ssn) si è vantato sin dalla fondazione nel 1978. Secondo le stime della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg), quattro milioni di italiani non hanno un medico di base.

Chi cura dove lo Stato manca

Finora un abbozzo di risposta a queste nuove domande di salute è arrivato dai canali non istituzionali. Negli ultimi quindici anni in Italia si è diffusa una rete di sportelli e ambulatori popolari di diversa matrice che offrono un servizio sanitario territoriale di ultima istanza e che facilitano l’accesso al Ssn per quei gruppi sociali troppo spesso invisibili alle asl e ai distretti.

L’ idea non è sostituirsi al Servizio sanitario nazionale, ma far entrare le persone nel sistema per proseguire i follow up.

Da nord a sud queste strutture rispondono alle sfide che il Ssn non riesce più a sostenere affidandosi al volontariato. In una certa parte si tratta di un’attività sussidiaria a quella istituzionale: organizzazioni religiose e ong laiche come Caritas, Misericordie, Comunità di S. Egidio, Emergency offrono sanità gratuita in molte città a migranti irregolari, persone senza fissa dimora e altre categorie vulnerabili. A Milano l’ambulatorio popolare Naga – attivo dal 1987 e una delle esperienze più longeve in Italia – riceve ogni anno circa duemila nuovi pazienti stranieri ed effettua circa diecimila visite. Attraverso i suoi report si può avere un identikit di chi si rivolge a queste strutture.

Per un terzo, si tratta di persone che vivono in Italia da oltre 4 anni e che nonostante questo non sono state ancora intercettate dal Ssn.

Per un quinto sono persone senza fissa dimora e per oltre la metà sono disoccupate. “I dati – si legge nell’ultimo rapporto – indicano chiaramente che i migranti non portano malattie esotiche: quando si ammalano, si ammalano per le condizioni di povertà in cui vivono, lavorano ed invecchiano”.

Il modello di Emergency in Italia: intervista a Michele Iacoviello

Il progetto

Ambulatorio Popolare

Roma Est

Molti ambulatori e sportelli popolari, tuttavia, non accettano questo ruolo suppletivo. Più che a sostituirsi alla sanità pubblica, puntano a facilitarne l’accesso a persone che ne sono escluse. Si tratta solitamente di esperienze di attivismo anche politico che, attraverso l’interazione con il territorio, conducono una battaglia per restituire centralità al Ssn.

Ambulatori popolari di questo tipo sono sorti soprattutto nelle periferie urbane di grandi città come Napoli, Roma o la stessa Milano. Nel capoluogo campano, per esempio, è nato un ambulatorio popolare nell’ex-ospedale psichiatrico giudiziario occupato nel quartiere di Materdei. Svolge attività ambulatoriali di base, con medici di medicina generale, un servizio di ecografia e negli anni ha ospitato persino una farmacia popolare basata su mutualismo e condivisione. Ma l’obiettivo è far fare al Ssn quello che oggi non fa: prevenzione e universalità del servizio. “La nostra idea – ha spiegato una delle fondatrici in un’intervista di un anno fa a il manifesto – non è sostituirsi al Ssn ma far entrare le persone nel sistema per proseguire i follow up. Quando facciamo le giornate di prevenzione c’è il pienone. Manca la medicina territoriale, i consultori sono pochi, meno di quanti ne preveda la legge”. È simile l’approccio degli sportelli sanitari militanti nella Capitale. Molti hanno iniziato le loro attività dopo la pandemia, quando i limiti della sanità territoriale sono diventati visibili a tutti e nei quartieri più disagiati i cittadini hanno dovuto fare da soli. Nel quartiere di Rebibbia è nato un comitato di quartiere che ha chiesto e ottenuto la riapertura di Villa Tiburtina, un ex-poliambulatorio pubblico chiuso da anni. La struttura è stata inserita tra le nuove case della comunità da realizzare con il Pnrr. Ma oltre alla battaglia per restituire alla cittadinanza un bene sanitario pubblico, il comitato ha attivato uno sportello che aiuta le persone a orientarsi nel labirintico Ssn. Per esempio, lo sportello aiuta a ottenere visite nel servizio pubblico nei tempi previsti, sfruttando alcune norme poco conosciute che obbligano la Asl ad agire contro le liste d’attesa. “Quando un appuntamento non rispetta la priorità stabilita dal medico – spiega uno degli attivisti – mandiamo una mail alla Asl facendo riferimento alla legge 124 del 1998, che prevede che in questi casi si effettui una visita in intramoenia a spese della sanità pubblica”. In vista della riapertura di Villa Tiburtina, il comitato ha elaborato un piano sanitario di zona fondato sul “microdistretto” di Rebibbia – circa trentamila abitanti – sulla base dei bisogni registrati attraverso lo sportello. È in corso un dialogo con la locale Asl Roma 2 (una delle più grandi d’Italia con 1,3 milioni di assistiti) per integrarlo nelle future attività della casa di comunità.

Un ambulatorio, una borgata, un piano

Sempre nella zona orientale di Roma, nella borgata del Quarticciolo è nato l’Ambulatorio popolare Roma Est. Anche in questo caso l’assistenza si accompagna a una battaglia per la difesa della sanità pubblica e per la sperimentazione di pratiche innovative. Oltre al consueto lavoro di advocacy e di diagnostica di base, l’ambulatorio organizza giornate dedicate alla prevenzione in un territorio piuttosto sguarnito di strutture sanitarie. “In queste occasioni registriamo un 30 per cento di prime diagnosi”, raccontano gli attivisti del Quarticciolo. Poi c’è lo sportello dedicato alla nutrizione, un servizio che solitamente è appaltato ai privati a prezzi che proprio chi ne ha più bisogno non si può permettere.

Ma l’ambulatorio è solo il nodo di una rete più ampia. Il Quarticciolo è un’area problematica della periferia romana per lungo tempo trascurata dalle istituzioni. Negli ultimi mesi ha guadagnato il dubbio onore della cronaca grazie all’inclusione nella ristretta lista di territori in cui verrà applicato il decreto “Emergenze”: sull’esempio del disastrato sobborgo napoletano di Caivano, anche al Quarticciolo lo Stato intende riportare l’ordine, con idee molto chiare sul piano della repressione e assai meno su quello dello sviluppo sociale. Il timore è che il decreto confligga con il progetto sviluppato già nel 2022 da una rete di comitati, associazioni e realtà locali come il teatro-biblioteca e la parrocchia. Il piano si intitola “Abbiamo un piano. Mappatura dal basso e rivendicazioni di una borgata”; è stato anche presentato in Parlamento e riguarda i vari aspetti del disagio del quartiere: casa, lavoro, disagio giovanile e, ovviamente, salute. Al centro delle rivendicazioni la lotta per mantenere un consultorio nel quartiere che “rischia la chiusura – si legge nel piano – in quanto le utenti non si rivolgono alla sede più vicina a loro perché non offre un servizio quotidiano ma saltuario”. Se in-

vece di appoggiare queste richieste lo Stato si presenterà con il modello Caivano, la proposta di un rilancio del quartiere rischia di morire sul nascere. “I percorsi intrapresi da due anni a questa parte potrebbero subire dei rallentamenti o prendere completamente un’altra direzione”, spiegano gli attivisti.

“Vorremmo che degli ambulatori popolari non ci fosse più bisogno” è un’opinione condivisa da tutte le realtà.

Al posto del Pnrr che non c’è

“Vorremmo che degli ambulatori popolari non ci fosse più bisogno” è un’opinione condivisa da tutte le realtà. Il Pnrr in effetti offriva le risorse per riformare la sanità territoriale e metterla in grado di affrontare le nuove emergenze. I fondi europei per affrontare il post-pandemia nella proposta originale dovevano realizzare una casa di comunità ogni dodicimila abitanti, strutture con servizi di base aperte 24/7 a cui rivolgersi per le cure primarie, la prevenzione e l’integrazione tra servizi sociali e sanitari. Ma dopo le prime bozze e le successive rimodulazioni le case della comunità previste sono diventate appena un migliaio, cioè una ogni sessantamila abitanti, troppi per garantire un servizio di prossimità.

A un anno dalla conclusione del Pnrr, quelle che funzionano secondo i piani sono appena il 3 per cento, secondo l’ultimo monitoraggio periodico effettuato da Agenas, l’Agenzia nazionale per i sistemi sanitari regionali. È poco credibile che negli ultimi mesi di Piano si realizzi quel 97 per cento che finora non è stato fatto. Oltre ai ritardi nell’esecuzione dei progetti infrastrutturali, pesa la mancanza del personale che faccia funzionare le case della comunità nel modo previsto dalla legge, il dm 77/2022 in cui è dettagliata riforma della sanità territoriale.

Di ambulatori popolari ci sarà ancora molto bisogno.

L’evoluzione della cronicità

Le malattie croniche rappresentano oggi la principale causa di morte e disabilità nel mondo. Soltanto in Italia interessano il 40 per cento della popolazione, condizione che diventa più frequente al crescere dell’età. Questa timeline ripercorre alcuni dei momenti chiave nell’evoluzione di quella che ad oggi è la principale emergenza sanitaria globale.

2017

Al “New Yorker Festival” Atul Gawande difende le cure primarie: “Dobbiamo spostare l’attenzione dalla medicina eroica a quella che s’interessa delle persone per tutta la vita”.

2016

Il 15 settembre viene sottoscritto l’Accordo StatoRegioni sul Piano nazionale della cronicità, che definisce un modello di assistenza integrata per i pazienti con patologie croniche nel Ssn.

2011

L’Onu fissa l’obiettivo di ridurre del 25 per cento entro il 2025 la mortalità prematura per malattie cardiovascolari, tumori, patologie respiratorie croniche e diabete. Dopo 10 anni il miglioramento è stato dell’1,5 per cento.

2011

Margaret Chan, direttrice generale dell’Oms, denuncia la scarsa attenzione politica alle malattie croniche durante l’Assemblea generale delle Nazioni unite, che riconosce ufficialmente le malattie non trasmissibili come emergenza sanitaria globale.

2019

Il Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Iss avvia il progetto “I primi 1000 giorni”, finanziato dal Ministero della salute per la prevenzione precoce delle malattie croniche.

2019

Lo studio Global burden of disease stima che il 41 per cento dei decessi per malattie non trasmissibili (circa 19 milioni di persone) può essere attribuito a soli quattro prodotti commerciali: tabacco, alcol, alimenti ultraprocessati e combustibili fossili.

2020

Su Twitter appare per la prima volta l’hashtag #longcovid, poi adottato per definire la sindrome postacuta da sarscov-2.

2021

Tra il 2005 e il 2021, in Italia sono stati approvati 729 Pdta regionali: 404 per patologie croniche, 325 per malattie rare.

2007

Nasce in Italia il Piano nazionale della prevenzione, che introduce per la prima volta approcci strutturati alla prevenzione delle malattie croniche nel Ssn.

Con il rapporto “Invisible numbers” l’Oms evidenzia la gravità della portata, a livello mondiale, delle malattie croniche.

1922

La scoperta dell’insulina da parte di Frederick Banting e Charles Best segna l’inizio dell’era moderna del trattamento del diabete: da malattia fatale a condizione cronica.

1950

L’ipertensione arteriosa viene considerata un meccanismo utile alla perfusione degli organi vitali, secondo Paul Dudley White “non deve essere manomesso”: si cura solo oltre i 200/110 mmHg.

1957

Viene introdotto l’uso di diuretici tiazidici per la cura dell’ipertensione arteriosa: migliore tollerabilità e maggior efficacia rispetto ai farmaci fino a quel momento in uso.

1978

La Dichiarazione di Alma Ata stabilisce i principi dell’assistenza sanitaria primaria, proponendo un modello basato su prevenzione, continuità delle cure e ruolo diretto dei pazienti.

1985

Nel New England medical center vengono sviluppati per la prima volta i percorsi diagnosticoterapeutici assistenziali

2005

Barbara Starfield e collaboratori pubblicano su The Milbank Quarterly una revisione di 50 pagine a favore delle cure primarie: aiutano a prevenire le malattie e riducono la mortalità.

2005

Richard Horton, direttore del Lancet, definisce le malattie croniche “the neglected epidemic”: principale causa di morte a livello globale, ma ignorate dalla politica.

1998

Edward Wagner del McColl institute for healthcare innovation in California introduce il Chronic care model basato sulla collaborazione multidisciplinare, che trasforma la gestione delle malattie croniche da reattiva a proattiva.

1992

Diversi studi dimostrano che gli Stati nordamericani con più medici di famiglia registrano migliori esiti di salute e minori tassi di mortalità per tutte le cause, in particolare per cardiopatie, cancro, ictus e mortalità infantile.

1988

Negli Stati Uniti, il Programma nazionale di educazione sull’ipertensione mostra una significativa riduzione dei tassi di mortalità per ictus (48 per cento) e malattie cardiache (35 per cento).

Entra in vigore il dm 77 che prevede la creazione di case di comunità, basate su un approccio integrato tra medici di medicina generale, infermieri e altri specialisti.

2023

In Italia diventa legge l’oblio oncologico, il diritto dei guariti dalla malattia oncologica a non subire discriminazioni.

2025

L’Assemblea mondiale della sanità riconosce l’urgenza di affrontare il tema delle malattie rare e richiama l’attenzione sull’accesso limitato a terapie specifiche.

2025

Nel Regno Unito parte la sperimentazione di AI-ECG, un algoritmo che legge l’ecg e prevede il rischio di diabete di tipo 2 fino a 13 anni prima dell’insorgenza.

Secondo le stime dell’Oms, le malattie croniche – malattie cardiovascolari, cancro, diabete e malattie respiratorie –rappresenteranno l’86 per cento dei 90 milioni di decessi ogni anno

Una sanità che si fa VICINA

La crescente incidenza delle malattie croniche in Italia, che coinvolgono circa 24 milioni di persone, rappresenta una delle principali sfide di sanità pubblica del nostro tempo. Queste patologie, spesso multiple e complesse, colpiscono soprattutto le fasce più anziane della popolazione, le stesse che oggi registrano l’incremento più rapido all’interno di un quadro segnato dal cosiddetto “inverno demografico”.

L’infermiere di famiglia e comunità emerge come figura chiave per la continuità dell’assistenza. Non ha solo competenze cliniche ma anche relazionali, educative, comunitarie.

Il calo costante delle nascite e l’incremento dell’indice di vecchiaia modificano radicalmente i bisogni assistenziali del Paese e, in tale contesto, è indispensabile superare la frammentazione delle cure e investire in modelli di presa in carico continuativa, integrata e proattiva. L’infermiere di famiglia e comunità emerge come figura chiave per garantire la continuità dell’assistenza, non solo prevenendo accessi impropri al pronto soccorso e riducendo le complicanze, ma anche promuovendo l’autonomia, la responsabilizzazione e la qualità della vita delle persone nei loro contesti di vita quotidiana. È una figura che non possiede solo competenze cliniche, ma anche relazionali, educative e comunitarie.

La Fnopi – Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche – ha più volte sottolineato come l’infermiere di famiglia e comunità sia essenziale per una sanità moderna e sostenibile, capace di agire sul territorio con tempestività e in stretta sinergia con i medici di medicina generale e con i servizi sociali.

Tuttavia, nonostante le sperimentazioni attivate in alcune Regioni e il pieno recepimento formale del dm 77, la diffusione del modello resta limitata e disomogenea, soprattutto nelle aree più interne e marginali del Paese,

che rappresentano un ulteriore snodo critico. Si tratta di territori in cui la fragilità sociale si intreccia con quella sanitaria e digitale. La scarsa copertura delle reti a banda larga, l’assenza di servizi pubblici di prossimità e una popolazione mediamente più anziana e meno alfabetizzata digitalmente costituiscono un terreno fertile per l’isolamento, la mancata aderenza ai percorsi di cura e l’aggravarsi delle condizioni croniche.

In questi luoghi, l’infermiere di famiglia e comunità non è solo un presidio sanitario, ma anche un mediatore di diritti, capace di colmare i vuoti informativi, relazionali e organizzativi tra il cittadino e il sistema salute. C’è poi un altro nodo strutturale da affrontare: la centralità dell’ospedale nel nostro sistema sanitario. Nonostante i continui richiami alla territorializzazione delle cure, il modello ospedalocentrico continua a drenare la maggior parte delle risorse economiche, organizzative e umane. Come ha evidenziato più volte Tonino Aceti, presidente di Salutequità – l’associazione che monitora l’andamento e l’attuazione delle politiche sanitarie e sociali – le riforme previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, come le case della comunità e le centrali operative territoriali, rischiano di rimanere sulla carta se non si inverte la rotta e non si investe realmente sul personale sanitario, in particolare sugli infermieri, spesso pochi e poco valorizzati.

Il Piano nazionale della cronicità, approvato nel 2016, aveva già indicato chiaramente la strada, riconoscendo il ruolo essenziale degli infermieri (menzionati 36 volte nel testo). Eppure, l’attuazione del Piano resta ancora disomogenea tra le Regioni, con evidenti ricadute in termini di disuguaglianze di accesso e qualità delle cure. È fondamentale investire nella formazione avanzata degli infermieri, in particolare nelle cure primarie, nella salute mentale, nella fragilità e nelle cure palliative. La Fnopi, attraverso le lauree magistrali a indirizzo clinico, propone di introdurre specializzazioni riconosciute e nuovi ambiti di autonomia professionale, come la prescrizione infermieristica di presidi e farmaci di uso comune: elementi che consentirebbero una presa in carico più rapida, efficace e personalizzata del paziente cronico.

In un’Italia che invecchia e cambia, serve un paradigma diverso. Non bastano più ospedali efficienti: servono comunità che si prendano cura. L’infermieristica territoriale è pronta a farlo.

Infine, va riconosciuto il ruolo educativo e relazionale dell’infermiere, soprattutto nei confronti dei caregiver e delle famiglie, sempre più spesso coinvolti nella gestione quotidiana della cronicità. L’infermiere di famiglia e comunità non solo cura, ma accompagna, ascolta, coordina, orienta. Ed è proprio da questa prossimità empatica e professionale che può nascere una nuova idea di sanità: più equa, più accessibile, più umana. In un’Italia che invecchia e cambia, serve un nuovo paradigma. Non bastano più ospedali efficienti: servono comunità che si prendano cura. L’infermieristica territoriale è pronta a farlo – purché si scelga, finalmente, di metterla davvero al centro delle politiche sanitarie.

L’infermiere di comunità e famiglia tra cura e diritti

Nicola Draoli, infermiere dirigente presso l’Azienda Usl Toscana Sud Est, è consigliere nazionale della Fnopi.

Dall’ospedale al TERRITORIO

Strategie per una presa in carico delle cronicità

Dottor Panzeri, la continuità tra ospedale e territorio è oggi una delle sfide centrali per garantire percorsi di cura efficaci e sostenibili, soprattutto per la gestione delle malattie croniche. Come si può favorire una vera continuità tra ospedale e territorio nel percorso di cura del paziente cronico?

Uno degli obiettivi principali della riforma territoriale prevista dal dm 77/2022, sostenuta dal Pnrr, è spostare la gestione delle cronicità dall’ospedale al territorio, con il duplice intento di decongestionare le strutture ospedaliere – un’esigenza resa evidente dalla pandemia da covid-19 – e portare le cure più vicine alla casa del paziente. Per raggiungere questo traguardo, è fondamentale che tutti gli attori della salute collaborino in sinergia, garantendo una reale continuità tra ospedale e territorio. In Roche crediamo profondamente nella necessità di un cambiamento del modello assistenziale: da una visione “ospedalocentrica” a un approccio “proattivo, integrato e centrato sulla persona”. Negli ultimi anni abbiamo sostenuto progetti che vanno proprio in questa direzione, contribuendo al miglioramento del patient journey.

Quali sono, in concreto, le azioni su cui puntare per rendere più efficace questa transizione?

Tra le azioni prioritarie, riteniamo centrale il rafforzamento delle case della comunità – non solo come punti di accesso ma anche come nodi di coordinamento clinico-assistenziale – con il coinvolgimento dell’infermiere di famiglia e comunità. È altrettanto cruciale lo sviluppo di piani assistenziali individualizzati, digitalizzati e condivisi, basati su strumenti interoperabili tra ospedali, case della comunità, medici di medicina generale e specialisti, per garantire una presa in carico efficace fin dal momento della dimissione. Un ulteriore ambito d’intervento è l’attivazione di percorsi di transitional care, con équipe multidisciplinari coinvolte già nella fase pre-dimissione per pianificare la gestione del paziente a domicilio o in altre strutture, integrando strumenti come telenursing e telemonitoraggio, così da assicurare continuità e sicurezza. In quest’ottica, anche il ruolo del farmacista di comunità va potenziato. Infine, lo sviluppo di indicatori specifici rappresenta uno strumento indispensabile per monitorare l’efficacia dei percorsi. È altrettanto fondamentale il coinvolgimento attivo di pazienti e caregiver, attraverso programmi di educazione terapeutica, strumenti digitali personaliz-

zati e canali di comunicazione sicuri. Il tutto va sempre adattato alle specificità territoriali, ai bisogni della popolazione e alle cronicità prevalenti nelle diverse Regioni, perché non esiste una soluzione unica e valida per tutti.

In che modo la presenza attiva dell’infermiere può incidere sulla qualità di vita del paziente, come emerso nel vostro evento “Le sfide delle nuove cronicità”?

L’infermiere di famiglia e comunità rappresenta un punto di raccordo essenziale tra ospedale e territorio, accompagnando la presa in carico e il monitoraggio del paziente, anche attraverso strumenti di televisita. È spesso la prima figura con cui il paziente entra in relazione, a cui affida timori e difficoltà. È anche colui che somministra i farmaci a domicilio o nelle case di comunità e che affianca il paziente (o il caregiver) nell’apprendimento delle terapie in autosomministrazione. Il suo contributo è quindi determinante nel migliorare la qualità di vita delle persone con patologie croniche. Tuttavia, da anni l’Italia soffre una grave carenza di infermieri. Per colmare questa mancanza, si ricorre sempre più spesso ad accordi con Paesi esteri, come l’Argentina o l’India, finanziando la formazione di professionisti che spesso non conoscono la lingua né il contesto sociosanitario italiano. Serve invece un ripensamento strutturale: rivedere il percorso formativo, allineare retribuzioni e prospettive di carriera alla media europea, e valorizzare questa professione già a partire dalle scuole secondarie.

Quali criticità vengono riportate più spesso dai pazienti, e quali risposte si aspettano dai servizi di prossimità?

I dati Istat evidenziano una tendenza crescente alla rinuncia alle cure da parte dei pazienti. Le ragioni principali vanno ricercate nelle lunghe liste d’attesa, nei costi elevati dei farmaci (soprattutto nel comparto privato) e nella difficoltà di accesso alle strutture ospedaliere, in particolare nelle aree rurali del Paese. Le associazioni di pazienti segnalano con forza la richiesta di un’assistenza più vicina al domicilio, maggiore chiarezza e semplicità nella gestione dei dati sanitari – per esempio, corsi di formazione sull’uso del fascicolo sanitario elettronico sarebbero molto utili per i cittadini con scarse competenze digitali –, così come la necessità di un sistema più agevole per prenotare esami e visite, e di un riferimento a cui rivolgersi per il follow-up. È fondamentale spiegare ai cittadini gli obiet-

tivi della riforma territoriale, anche attraverso open day nelle case e negli ospedali di comunità. Altrimenti, il rischio è che questa riforma resti un cantiere incompiuto.

Come può la collaborazione pubblico-privato rafforzare la presa in carico dei pazienti cronici?

Il dm 77/2022 promuove la co-programmazione tra pubblico e privato come leva strategica per rafforzare la presa in carico personalizzata dei pazienti cronici. Partendo dai bisogni reali del territorio e dialogando con le istituzioni regionali, è possibile sviluppare progetti ad alto impatto. Tre ambiti chiave, che ci hanno visto coinvolti come Roche negli ultimi anni, offrono una testimonianza concreta di questo approccio: la formazione continua degli operatori sanitari, con particolare attenzione alle tecnologie emergenti, ai modelli integrati di cura e alla gestione multidisciplinare delle cronicità; l’innovazione digitale, attraverso cui le aziende private possono offrire soluzioni tecnologiche avanzate in grado di migliorare il monitoraggio dei pazienti cronici, ridurre gli accessi impropri in ospedale e favorire una gestione proattiva delle patologie; e, infine, l’erogazione flessibile di servizi in aree difficili da raggiungere, dove il pubblico fatica a coprire la domanda e il privato può intervenire con una maggiore capacità operativa, ad esempio nei servizi di nursing a domicilio, fisioterapia e counseling psicologico. Esperienze concrete dimostrano come queste collaborazioni possano generare soluzioni scalabili e sostenibili per il sistema pubblico.

In prospettiva futura, dove sarebbe più urgente investire per migliorare la cura delle cronicità?

Come anticipato, serve credere in questa riforma e lavorare insieme per costruire un’assistenza territoriale integrata e di prossimità, capace di portare la cura vicino al paziente e prevenire ricoveri evitabili. È essenziale affiancare una sanità digitale, inclusa la telemedicina, investire nella promozione della salute e nella gestione personalizzata dei percorsi di cura, attraverso Pdta flessibili e condivisi. Fondamentale anche la formazione dei professionisti sulla gestione delle cronicità e sulla comunicazione con il paziente, sostenuta da un finanziamento strutturale oltre il Pnrr, per garantire qualità e aderenza ai percorsi di cura.

A cura di Laura Tonon

LA CRONICITÀ: un problema CRONICO?

Dieci domande per esplorare le criticità nella gestione delle malattie croniche e raccogliere proposte su cosa mettere in agenda. Alla survey online hanno risposto 311 persone (età media 58 anni), principalmente dal Nord (48%) e Centro Italia (36%). Il campione include soprattutto professionisti sanitari – medici, infermieri, dirigenti, epidemiologi – insieme a ricercatori, giornalisti e cittadini interessati ai temi della salute.

Più della metà dei partecipanti ritiene che le persone con malattie croniche si sentano poco accompagnate nel loro percorso di cura. Le maggiori criticità riguardano il mancato coordinamento tra cure primarie e specialistiche (21%), l’organizzazione centrata sulla singola patologia (19%) e la scarsa integrazione tra assistenza clinica e sociale (16%). Solo il 20% giudica “molto” coinvolto il territorio nella gestione della cronicità, mentre emerge la richiesta di rafforzare il coordinamento tra ospedale e territorio (31%) e le cure primarie (24%). La figura del medico di medicina generale resta centrale (37%), seguita da caregiver (25%) e infermieri di comunità (22%).

Per migliorare la qualità della vita delle persone con cronicità, i rispondenti indicano come priorità l’aggiornamento del personale sanitario, una maggiore continuità assistenziale e i modelli di cura integrata. La digitalizzazione viene percepita come utile ma ancora insufficiente: per il 68% migliora solo “in parte” la qualità delle cure. Un quadro articolato, che restituisce la complessità della sfida legata alla cronicità, tra bisogni ancora disattesi e spunti concreti per costruire un’assistenza più vicina, integrata e umana.

Quali figure, secondo te, hanno oggi un ruolo centrale nella gestione delle malattie croniche?

Medico di medicina generale

Caregiver (familiare o non)

Infermiere di famiglia o di comunità

Medico specialista

Farmacista

Assistente sociale

Quale tra questi ostacoli ritieni più rilevante per un’adeguata presa in carico delle malattie croniche?

9%

Mancanza di coordinamento tra cure primarie e specialistiche

Modelli organizzativi ancora centrati sulla singola patologia

Scarsa integrazione tra assistenza clinica e sociale

Eccessiva burocratizzazione dei percorsi di cura

Liste d’attesa eccessive

Quanto questi due fattori incidono sullo sviluppo o aggravarsi delle malattie croniche?

Ambiente (condizioni climatiche, inquinamento)

Disuguaglianze sociali ed economiche

Mancato riconoscimento della figura e del ruolo del caregiver

Sicurezza del reddito e protezione sociale

In che misura pensi che il territorio sia coinvolto nella gestione delle malattie croniche nella tua Regione?

Pensi che la digitalizzazione della sanità stia migliorando la qualità della cura delle persone con cronicità?

In parte

Quali tra i seguenti aspetti ritieni più importanti per migliorare la qualità della vita delle persone con malattie croniche?

Presenza di personale sanitario competente e aggiornato

Disponibilità del medico di famiglia e maggiore continuità assistenziale

Case della salute/comunità di quartiere per cure integrate

Utilizzo della telemedicina e cartelle cliniche digitali condivise

Gentilezza e umanità da parte degli operatori sanitari

Gratuità o riduzione dei costi delle cure e dei controlli

Accesso tempestivo a cure innovative e farmaci all’avanguardia

Accesso facilitato a strutture sanitarie (parcheggi, ascensori, ambienti accoglienti)

Altri aspetti

Quanto oggi le persone con malattie croniche si sentono realmente accompagnate e ascoltate dal sistema sanitario lungo il loro percorso di cura?

Per nulla: il sistema è frammentato e impersonale 1% Non saprei/Non ho esperienza diretta

Abbastanza: dipende dai professionisti o dai contesti

Poco: spesso manca un vero rapporto continuativo

No, è fonte di ulteriore distanza Non so Sì 8% 6%

Quale ambito richiederebbe oggi un maggior investimento economico per affrontare la cronicità?

Presa in carico delle malattie rare

Educazione sanitaria della popolazione Prevenzione ambientale

Coordinamento tra ospedale e territorio

Cure primarie

Sviluppo della telemedicina e dei servizi di teleassistenza

Le persone con malattie croniche sono, secondo te, sufficientemente rappresentate nei processi decisionali sanitari?

Raramente

Solo in modo consultivo

Non saprei Mai

Sì, in modo attivo

Molto: c’è attenzione alla continuità e alla relazione

Le malattie rare se considerate singolarmente hanno una prevalenza molto bassa, ma nel complesso sono oltre settemila e interessano circa il 6 per cento della popolazione mondiale. Nella quasi totalità dei casi si tratta di condizioni croniche, che coinvolgono non solo i pazienti ma anche le loro famiglie, costrette a convivere con bisogni assistenziali complessi e mutevoli. Affrontarle richiede un approccio integrato, che combini competenze cliniche, genetiche e sociali, e un progetto di cura personalizzato: ogni paziente è unico, e le scelte terapeutiche devono considerare sia la biologia sia il contesto di vita.

Il nodo della diagnosi. Circa l’80 per cento delle malattie rare ha un’origine genetica e il 70 per cento si manifesta in età pediatrica, rappresentando una delle principali cause di morbilità e mortalità infantile. Una diagnosi eziologica alla base di una malattia rara in età pediatrica assume un’importanza centrale, perché consente, nella gran parte dei casi, di fornire informazioni dettagliate sul decorso della malattia, su eventuali opzioni terapeutiche disponibili, di avviare trattamenti o interventi riabilitativi più appropriati e specifici, di anticipare i problemi di salute prevedibili, che potrebbero manifestarsi successivamente nel-

la vita, di definire il rischio riproduttivo in vista di future gravidanze e di potersi confrontare con altre famiglie che condividono la stessa condizione ed esperienza. Tuttavia, i sintomi spesso sfumati e sovrapponibili rendono queste malattie difficili da riconoscere e trattare. Il tempo medio per arrivare a una diagnosi supera i quattro anni, e almeno il 6 per cento dei pazienti resta senza una diagnosi precisa, percentuale che può salire fino al 50 per cento nei casi di disabilità intellettiva o sindromi malformative.

Negli ultimi vent’anni, i progressi compiuti nell’ambito della genomica hanno ri-

voluzionato la pratica clinica pediatrica, rendendo disponibili test genetici sempre più sensibili e specifici. In particolare, il next generation sequencing ha migliorato i tempi per la diagnosi e il sequenziamento dell’esoma è divenuto strategia di prima scelta nel processo diagnostico con un tasso di successo che mediamente è stimato attorno al 50 per cento. La progressiva diffusione del sequenziamento dell’intero genoma come test di prima linea è destinata ad incrementare ulteriormente la proporzione di pazienti che raggiungono una diagnosi.

Dalla storia naturale ai registri. La diagnosi, però, è solo il primo passo: per migliorare la cura e la qualità della vita delle persone con malattia rara è fondamentale conoscere l’evoluzione nel tempo di queste patologie. La cosiddetta “storia naturale” – ovvero il decorso clinico in assenza di trattamenti – è spesso invece poco nota, proprio per la scarsità di casi documentati. Disporre di una quantità sufficiente di dati longitudinali è fondamentale per aiutare i ricercatori a comprendere meglio come queste malattie si sviluppano e il loro progresso nel corso del tempo: la necessità di mettere in comune i dati tra centri esperti europei ha indotto la creazione di reti di riferimento (European network references – Ern). Questi strumenti permettono non solo di delineare l’evoluzione delle singole malattie, ma anche di correlare dati genetici e clinici, valutare l’efficacia dei trattamenti e promuovere una ricerca più mirata. Ogni storia clinica contribuisce così a costruire una conoscenza condivisa, fondamentale per offrire ai pazienti cure sempre più appropriate.

QUANDO LA MALATTIA È RARA

IL PEDIATRA E LA RICERCA, IL PAZIENTE E LE FAMIGLIE

La cronicità caratterizza la maggior parte delle malattie rare, che richiedono un’assistenza continua, integrata e competente.

Una presa in carico personalizzata e integrata. La cronicità caratterizza la maggior parte delle malattie rare, che richiedono un’assistenza continua, integrata e competente. È fondamentale l’individuazione di un centro o un medico di riferimento che coordini specialisti, pediatri, ospedali e servizi territoriali e riabilitativi, anche perché altra caratteristica delle malattie rare è la multisistemicità, ovvero il coinvolgimento di più organi, che impone un approccio multidisciplinare e flessibile. La presa in carico dovrebbe però andare oltre la scelta della terapia più efficace, includendo il supporto emotivo e sociale per il paziente e la famiglia. Tuttavia, spesso il coordinamento manca e grava sulle famiglie, con notevoli implicazioni emotive, organizzative ed economiche. Fondamentale allora il ruolo delle associazioni di pazienti, che offrono supporto e favoriscono la condivisione delle esperienze, aiutando a gestire le disabilità e le conseguenze che influenzano lavoro, relazioni e benessere psicologico di tutta la famiglia. Un momento critico per il paziente è il passaggio dall’età pediatrica a quella adulta: mentre la pediatria ha competenze specifiche per il bambino fragile, nella medicina dell’adulto manca spesso un referente dedicato. In questo vuoto assistenziale, il geriatra, con la sua esperienza nella gestione della fragilità, può rappresentare un modello utile anche per i giovani adulti con malattie rare.

Dal bisogno di cura all’innovazione terapeutica. Solo poco più del 5 per cento delle malattie rare dispone di un trattamento approvato, con ricadute cliniche, umane, etiche e socioeconomiche. Per i pazienti, la fine del lungo percorso verso la diagnosi in molti casi segna l’inizio di un nuovo viaggio, altrettanto incerto, verso terapie spesso inesistenti o inaccessibili. Le difficoltà nello sviluppo di trattamenti derivano sia dalla scarsità di pazienti su cui condurre studi clinici, sia dalla limitata attrattività economica di investire in farmaci destinati a mercati molto ristretti. Per incentivare la ricerca, le agenzie regolatorie come Ema e Fda hanno introdotto misure a sostegno dello sviluppo dei cosiddetti farmaci orfani, offrendo alle aziende vantaggi economici e normativi per compensare il basso ritorno sugli investimenti. La ricerca in ambito terapeutico si muove su più fronti: si va dall’uso off-label di farmaci già approvati per altre patologie più comuni, utili a controllare i sintomi o rallentare la progressione della malattia, al drug repositioning, che permette di riorientare farmaci esistenti in base a nuove conoscenze sul loro meccanismo d’azione. Il vantaggio è poter contare su dati già consolidati in termini di efficacia e sicurezza.

Proprio per la loro complessità, le malattie rare rappresentano un laboratorio straordinario per l’innovazione medica.

Le terapie avanzate puntano a modificare il decorso della patologia, spesso di origine genetica, intervenendo direttamente sul difetto molecolare. Già negli anni Settanta si era af-

fermata l’idea di correggere la base genetica della malattia introducendo una copia funzionante del gene o un gene capace di compensarne il malfunzionamento. L’ingegneria genetica ha reso questa possibilità sempre più concreta: un esempio emblematico è rappresentato dall’atrofia muscolare spinale, per la quale sono oggi disponibili trattamenti in grado di correggere i difetti genetici alla base della malattia. L’utilizzo delle cellule staminali pluripotenti e le tecnologie di genome editing, come Crispr/Cas, stanno aprendo prospettive concrete per affrontare malattie finora non curabili.

Anche se, negli ultimi anni, le scienze “omiche” e la bioinformatica hanno rivoluzionato le nostre conoscenze per queste patologie, offrendo possibilità concrete di trattamento, le sfide da affrontare restano molte: scientifiche, cliniche, regolatorie e anche etiche. Tuttavia, proprio per la loro complessità, le malattie rare rappresentano un laboratorio straordinario per l’innovazione medica. Ogni passo avanti, ogni diagnosi, ogni terapia nuova può cambiare radicalmente la vita di una persona. E, in fondo, di questo si tratta: non di numeri, ma di storie. Rare e profondamente umane.

Luigi Memo, pediatra e genetista clinico, già direttore dell’Uoc di Pediatria dell’Ospedale San Martino di Belluno, è consigliere nazionale della Società italiana malattie genetiche pediatriche e disabilità congenite. Professore a contratto di Genetica medica all’Università di Trieste.

2 milioni

malati rari in Italia

20 casi di malattie rare ogni 10mila abitanti

200 centri per la diagnosi e cura di malattie in tutta la penisola

7% in età pediatrica

Giuseppe Zampino, pediatra e genetista clinico, coordinatore del Centro per le malattie rare e i difetti congeniti della Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma. È professore associato di Clinica pediatrica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

80% ha un’origine genetica

100mila persone con malattia rara non hanno una diagnosi

5% delle malattie rare ha una terapia approvata

CAMMINARE accanto

La cura nella cronicità: riflessioni di un pediatra di famiglia

Nel nostro lavoro a contatto con le famiglie, le cronicità, le malattie invalidanti, le malattie rare non rappresentano solo una questione di diagnosi complesse o di schemi terapeutici da seguire. Sono soprattutto volti, nomi, storie, famiglie che si trovano ad affrontare stravolgimenti radicali nella propria vita. Come professionisti siamo chiamati a camminare al loro fianco, ad essere presenti anche quando non possiamo offrire soluzioni risolutive, in alcuni casi anche col nostro vuoto scientifico. Presenza discreta, a volte silenziosa eppure presenza stabile, costante. Presenza che vuole diventare importante perché espressione di condivisione.

Quasi sempre siamo per la famiglia il primo contatto, il primo filtro. Raccogliamo domande, leggiamo relazioni, accompagniamo la famiglia nell’evoluzione della malattia. Il primo passo quindi è ascoltare. Ascoltare i genitori che sono i veri esperti dei propri figli e interpreti dei sintomi. Solo chi vive accanto a questi piccoli riesce infatti a cogliere i loro piccoli segnali comunicativi. Ricordiamo che, nel caso di malattie rare, ci muoviamo su di un terreno incerto, fatto di ipotesi, tentativi, osservazione costante. È un navigare a vista insieme alla famiglia, tappa dopo tappa. E anche quando si arriva alla diagnosi, non significa che ci sia un percorso già tracciato. Anche di fronte alla stessa malattia, il bambino cresce, cambia, evolve. E ogni cambiamento richiede un nuovo adattamento e una rinnovata attenzione.

Il primo passo quindi è ascoltare. Ascoltare i genitori che sono i veri esperti dei propri figli e interpreti dei sintomi.

Dal punto di vista professionale siamo sempre coinvolti con un duplice ruolo: quello terapeutico-assistenziale e quello di semplici individui con le nostre esperienze personali e i nostri sistemi culturali e valoriali di riferimento. In un certo senso sperimentiamo l’impotenza, l’angoscia, la rabbia e il dolore di queste famiglie e dei loro figli/e con una grossa spesa di energia psichica. Eppure, siamo chiamati a restare, a tenere la posizione, ad essere la “stampella” su cui i genitori possono appoggiarsi perché ogni peso, se condiviso, pesa meno.

Dobbiamo accettare il fatto di essere medici “incapaci di guarire”. Nessuna università ci ha preparato a questo. Si tratta di una contraddizione radicale. Il medico è chi si occupa di studiare, curare e prevenire le malattie delle persone. E allora che medico è un medico che non può guarire? Ma è proprio quando non abbiamo risposte, quando la guarigione non è possibile che la cura trova il suo significato più profondo. Cura come ricerca di un nuovo equilibrio. Cura come espressione della miglior qualità di vita possibile.

Forse è proprio questo il senso del nostro lavoro: esserci, nonostante tutto. E in questo “prendersi cura” c’è tutta la dignità e il senso profondo del nostro lavoro.

Curare malattie inguaribili è dunque supportare il bambino e la sua famiglia.

È aiutare i genitori a trovare un equilibrio tra la malattia del figlio/a e la vita dell’intera famiglia. È rispettare le loro scelte, tempi, idee e credo. È tener conto dei fratelli e/o sorelle, della coppia, del contesto sociale, lavorativo, culturale.

È cercare di garantire un’assistenza a domicilio, nel rispetto dei tempi e degli spazi del bambino e della propria famiglia.

È sostenere una quotidianità.

È facilitare il contatto tra tutti i servizi ed i professionisti presenti sul territorio (che spesso faticano a dialogare tra loro).

È lasciarci coinvolgere in questioni che vanno ben oltre il nostro ruolo professionale.

È essere presenti anche dopo la morte di un bambino, perché restano le parole, le scelte e quei piccoli gesti che, per un tratto, li hanno fatti sentire meno soli.

Forse è proprio questo il senso del nostro lavoro: esserci, nonostante tutto. E in questo “prendersi cura” c’è tutta la dignità e il senso profondo del nostro lavoro.

Nicola Guaraldi, pediatra di famiglia. Lavora all’Ausl di Modena, dove è parte della pediatria di gruppo “Il Piccolo Principe” e, come pediatra inter pares, del gruppo aziendale di cure palliative pediatriche.

Diritto alla salute e all’istruzione: I BAMBINI CON MALATTIA CRONICA A SCUOLA

Dottoressa Indinnimeo, quali sono le principali sfide che incontra un bambino con una malattia cronica nel contesto scolastico?

I bambini trascorrono gran parte della loro giornata a scuola, che deve diventare un ambiente sostenibile per tutti, inclusi coloro con patologie croniche. Per questo è fondamentale un clima di collaborazione tra famiglia, insegnanti e personale scolastico. Quando questo dialogo manca, il rischio è che il bambino si senta escluso, percepito come “diverso”. Garantire il diritto all’istruzione è un dovere della scuola ma per renderlo effettivo, quando ci sono condizioni di salute complesse, servono modelli integrati di prevenzione, gestione e assistenza sanitaria. Parliamo di un lavoro di squadra che richiede un team di operatori multiprofessionale e multisettoriale con diversi livelli di competenza: pediatri di libera scelta, medici di medicina generale e specialisti, servizi sanitari e sociali territoriali, operatori scolastici, insegnanti, e anche personale mensa (per esempio in presenza di allergie gravi), oltre alla famiglia che rappresenta l’elemento fondamentale del percorso assistenziale.

A che punto siamo nella costruzione di questo modello integrato?

Ci stiamo lavorando. La Costituzione riconosce il diritto alla salute e all’istruzione, ma serve definire un insieme di proposte per favorire l’inclusione scolastica del bambino/a-adolescente con patologia cronica, per favorire nelle realtà locali la definizione di un modello condiviso tra i soggetti interessati. È necessario avere in tutte le Regioni norme precise che individuino le responsabilità nei casi in cui il bambino richieda una continuità terapeutica o un intervento in emergenza. Alcune realtà, come il diabete o le allergie gravi, sono già attive in questo penso. Da ex presidente della Società italiana di allergologia e immunologia pediatrica, ho lavorato per promuovere percorsi formativi rivolti al personale scolastico, in collaborazione con istituzioni scolastiche, associazioni dei genitori e centri specialistici.

I bambini trascorrono gran parte della loro giornata a scuola, che deve diventare un ambiente sostenibile per tutti, inclusi coloro con patologie croniche.

Dal 2023 lei partecipa al tavolo tecnico presso l’Intergruppo parlamentare obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili. Quali sono le proposte concrete emerse dal questo tavolo tecnico?

Scopo del tavolo tecnico è definire proposte di carattere politico, economico, sociale e sanitario che favoriscano l’inclusione scolastica del bambino/a-adolescente con diabete di tipo 1. Il documento finale è in fase di definizione. Tra le proposte, sono presenti anche le raccomandazioni per l’assistenza agli studenti che devono assumere farmaci durante l’orario scolastico. La somministrazione deve avvenire secondo specifiche autorizzazioni rilasciate dall’azienda sanitaria locale, in base al protocollo diagnostico-terapeutico individuale. Non si chiede al personale scolastico di possedere competenze mediche specialistiche, ma è necessaria la sua disponibilità e che sia stato informato/formato/addestrato sul singolo caso specifico. Tutto parte da una richiesta formale dei genitori, accompagnata da una certificazione medica e dal piano terapeutico. Quindi, il dirigente scolastico deve attivarsi per individuare dove conservare i farmaci, chi tra il personale (in genere già con formazione di primo soccorso) è disponibile alla somministrazione, e attivare la formazione necessaria.

Qual è il ruolo della formazione in questo percorso?

È cruciale. I servizi specialistici, in collaborazione con le ausl, gli assessorati per la salute e per i servizi sociali e le associazioni, sono pronti a offrire corsi di educazione, di informazione e formazione. La formazione deve essere strutturata e continuativa, ma spesso ci si scontra con la carenza di risorse umane. I colleghi devono riuscire a inserire le attività formative tra quelle cliniche e ambulatoriali quotidiane. Dovremmo istituire percorsi formativi riconosciuti, meglio con crediti formativi, anche in modalità telematica, come già avviene per i medici. Questo incentiverebbe la partecipazione del personale scolastico e garantirebbe un’adeguata preparazione per intervenire in modo tempestivo e sicuro con il farmaco di cui il bambino o l’adolescente necessita nei casi più critici, come potrebbe essere per esempio con adrenalina o glucagone.

Qual è il ruolo delle istituzioni?

Le istituzioni devono fare la loro parte. Il Ministero dell’istruzione e del merito dovrebbe raccomandare agli uffici scolastici regionali di redigere protocolli d’intesa con le aziende sanitarie locali. Questi accordi devono regolare l’assistenza a scuola dei bambini con patologie

croniche, stabilendo modalità, ruoli, responsabilità e percorsi formativi. Oggi c’è ancora strada da percorrere per una piena strutturazione. Si deve individuare, a livello regionale, chi può erogare formazione, chi può riceverla, e come incentivarla. Tutto questo per garantire un inserimento scolastico sereno che non escluda nessuno.

Qual è il vissuto delle famiglie in questo contesto ancora poco strutturato?

Spesso le famiglie si trovano ad affrontare un percorso complesso, a volte con mancanza di regole chiare. In alcuni casi lamentano difficoltà a collaborare con le scuole. Questo può generare tensioni nel rapporto scuola-famiglia e compromettere il benessere del bambino. Non bisogna dimenticare i compagni di classe. La sensibilizzazione va estesa anche a loro, per evitare episodi di esclusione o incomprensione: i pari sono fondamentali nello sviluppo del bambino e possono essere un grande aiuto, se correttamente informati. Anche in questo le associazioni dei genitori possono svolgere un ruolo di supporto importante.

Serve un impegno concreto da parte delle istituzioni per tutelare tutti. Altrimenti, le resistenze rimarranno e a pagare saranno sempre i più fragili.

In conclusione?

Abbiamo fatto tanti passi avanti, ma la necessità di chiarire questo percorso è ancora viva. Serve un impegno concreto da parte delle istituzioni per tutelare tutti: i bambini con patologie croniche, le loro famiglie, il personale scolastico e l’intera comunità educativa. Altrimenti, le resistenze rimarranno e a pagare saranno sempre i più fragili.

A cura di Laura Tonon

Luciana Indinnimeo, pediatra, past president della Società italiana di allergologia e immunologia pediatrica, segretaria del Gruppo di studio della Società italiana di pediatria “Ambiente e Salute del bambino e dell’adolescente”.

Dalla diagnosi

precoce ai carichi assistenziali, fino alle

frontiere della ricerca più innovativa

Dottor D’Arrigo, possiamo considerare l’autismo una condizione cronica?

Come cambia la gestione lungo le diverse fasi della vita?

IL DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO

Il disturbo dello spettro autistico è a tutti gli effetti una condizione cronica, poiché persiste per tutta la vita. Le sue manifestazioni cambiano senz’altro molto dall’età pediatrica all’età adulta, ma le caratteristiche peculiari persistono, non spariscono nel tempo. È quindi fondamentale, fin dal momento della diagnosi – che tipicamente avviene in età pediatrica – accompagnare le famiglie in un percorso assistenziale e riabilitativo continuativo. Questi bambini devono intraprendere tassativamente un percorso riabilitativo mirato, in genere di tipo psicoeducativo, che permetta di proseguire in maniera positiva sulla loro traiettoria evolutiva. Il percorso riabilitativo è fondamentale per migliorare la sintomatologia del disturbo dello spettro autistico.

Fondamentale è la diagnosi precoce, che consente di iniziare tempestivamente il trattamento riabilitativo e cambiare un po’ la storia naturale di questa condizione. Al primo sospetto clinico – che può emergere dai genitori, dagli insegnanti o dal pediatra – è essenziale un invio al neuropsichiatra infantile che, attraverso l’anamnesi e l’osservazione clinica, può già formulare una diagnosi, basandosi sui criteri del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” (Dsm): disturbo della comunicazione e dell’interazione sociale, associato ad un disturbo del comportamento con presenza di comportamenti stereotipati e interessi ristretti, quindi in presenza di questi criteri clinici è possibile effettuare già una diagnosi clinica. Nei casi dubbi o più complessi si può ricorrere a test neuropsicologici e scale di sviluppo psicomotorio, per valutare l’aspetto cognitivo e anche quello comportamentale, per i sintomi più identificativi del disturbo dello spettro autistico. La diagnosi precoce consente di avviare un intervento riabilitativo tempestivo e di lunga durata, che accompagnerà il bambino per anni. Un aspetto centrale è anche l’inclusione scolastica, a partire dalla scuola materna fino all’intero percorso di istruzione. Spesso è necessario un sostegno a livello scolastico e un percorso educativo di accompagnamento, costituendo un percorso particolarmente articolato e, come dicevamo, cronico.

La diagnosi precoce consente di avviare un intervento riabilitativo tempestivo e di lunga durata, che accompagnerà il bambino per anni.

Come sostenere le famiglie che si fanno carico di percorsi complessi, spesso frammentati e con un impatto economico e psicologico rilevante?

Su questo fronte, purtroppo, c’è ancora molta strada da fare: non siamo preparati ad accompagnare le famiglie dopo la diagnosi di disturbo dello spettro autistico in un bambino. Spesso le famiglie si ritrovano sole, senza un orientamento chiaro. È fondamentale indirizzarle verso percorsi riabilitativi territoriali – pubblici o convenzionati – ma il sostegno economico non è sempre adeguato, e persistono forti disomogeneità tra Regioni. È sicuramente un percorso molto complesso e non dobbiamo trascurare anche l’aspetto psicologico. La diagnosi ha un forte impatto emotivo sui genitori e può generare crisi nella coppia. È quindi importante attivare percorsi di parent training e supporto psicologico, affinché i genitori siano preparati a gestire i comportamenti problematici del bambino anche al di fuori del contesto riabilitativo.

Esistono differenze significative tra i bambini con alto e basso funzionamento cognitivo?

Decisamente sì. Uno dei principali specificatori del Dsm è la presenza di una disabilità intellettiva. Questo elemento ha un impatto prognostico cruciale. I bambini con funzionamento cognitivo nella norma hanno una traiettoria evolutiva più favorevole. Al contrario, la disabilità intellettiva rappresenta l’aspetto più invalidante e rende la condizione molto più complessa da gestire. È quindi fondamentale valutare precocemente lo sviluppo cognitivo e monitorarlo nel tempo, anche attraverso test neuropsicologici. In età precoce possono esserci segnali di ritardo psicomotorio, ma non è raro osservare un buon recupero. In generale, questi bambini tendono a sviluppare più precocemente abilità motorie rispetto a quelle linguistiche, che richiedono più tempo per emergere.

L’autismo è un modello affascinante da un punto di vista eziologico. Si tratta di una condizione multifattoriale, in cui si combinano componenti genetiche e ambientali.

Che ruolo ha la genetica nella diagnosi e nella comprensione dell’autismo?

L’autismo è un modello affascinante da un punto di vista eziologico. Si tratta di una condizione multifattoriale, in cui si combinano componenti genetiche e ambientali. Alcune forme gravi sono associate ad alterazioni monogeniche, ma nella maggior parte dei casi si tratta di condizioni poligeniche, in cui più varianti genetiche si sommano e interagiscono con fattori ambientali. Una teoria recente è quella omnigenica, secondo cui l’intero genoma contribuirebbe alla manifestazione clinica, seppur con un ruolo centrale di alcuni geni legati al neurosviluppo. Tra i fattori ambientali, uno dei più rilevanti è l’età avanzata dei genitori al concepimento. Ma anche eventi legati alla gravidanza o al parto, come prematurità, danni perinatali, o gravidanze ravvicinate, possono aumentare il rischio. Negli ultimi anni si è parlato molto anche di neuroinfiammazione e di alterazioni del microbiota intestinale come possibili elementi scatenanti. Tutti questi aspetti, sicuramente molto eterogenei, devono essere in qualche modo combinati per definire le cause di questo disturbo così complesso.

State lavorando a nuovi studi nell’ambito della genetica?

Sì, grazie a un recente finanziamento del Piano nazionale di ripresa e resilienza stiamo conducendo, in collaborazione con un importante laboratorio della Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia, uno studio su cento bambini con disturbo dello spettro autistico. A partire da un semplice prelievo di sangue, siamo in grado di riprogrammare le cellule staminali e da lì derivare quelle neuronali e di studiare il dna, l’rna, e anche proteine, lipidi e zuccheri.

L’obiettivo è identificare potenziali target terapeutici e aprire la strada a trattamenti farmacologici personalizzati. È un progetto molto ambizioso e innovativo, e ne siamo davvero entusiasti.

A cura di Giada Savini

Stefano D’Arrigo, neuropsichiatra infantile presso la Fondazione Irccs Istituto neurologico Carlo Besta di Milano. Si occupa di ricerca sulle sindromi genetiche legate ai disturbi neuroevolutivi, con un focus sulle cause genetiche e sulle correlazioni fenotipogenotipo.

QUANDO LA GUERRA

SPEGNE IL FUTURO

Infanzia, salute e ricostruzione dei diritti

Dottor Bonati, uno dei temi ricorrenti nei suoi scritti è quello della guerra e degli esiti dei conflitti sulla salute, anche nel lungo termine. Qual è la “cronicità” legata ai conflitti?

Inizierei rispondendo con una riflessione: la guerra stessa è una malattia cronica della condizione umana, che ci accompagna da sempre in forme diverse, dalla storia antica fino a quella contemporanea. Oggi le espressioni più diffuse sono le dispute territoriali e le guerre civili. Nel mondo, l’Africa è la regione con il maggior numero di conflitti, ma la geografia delle guerre non conosce confini. Nel 2023, 52 Stati erano coinvolti in guerre. Quattro di questi conflitti – in Ucraina, Palestina, Myanmar e Sudan – sono stati classificati come di massima intensità, avendo causato oltre 10.000 vittime ciascuno; a due anni di distanza, sono ancora attivi, e i primi due ad alta e quotidiana intensità. Altri venti conflitti, tra cui quelli in Nigeria, Burkina Faso e Repubblica Democratica del Congo (tutti con oltre 8.000 morti), rientrano nella categoria ad alta intensità, con un numero di vittime compreso tra 1.000 e 9.999. Le vittime sono perlopiù civili: donne, bambini, anziani. In questi contesti, il numero dei morti (sebbene sottostimati) diventa un indicatore crudele ma inequivocabile della gravità del conflitto.

Quali sono le conseguenze di lungo periodo sulla salute delle popolazioni coinvolte?

La guerra non può essere quantificata solo in termini di decessi, perché non è più solo un evento acuto e circoscritto: è una condizione che si prolunga nel tempo, attraversa i corpi e le società, generando effetti persistenti anche molto tempo dopo la fine delle ostilità. Ogni conflitto modifica in profondità i determinanti della salute: l’ambiente, l’accesso ai servizi, l’educazione, la sicurezza alimentare, la possibilità stessa di crescere. I bambini, in particolare, pagano il prezzo più alto. La mortalità sotto i cinque anni – uno degli indicatori essenziali nel definire lo stato di salute, di speranza e di sviluppo di una popolazione – aumenta in modo drammatico e resta elevata a lungo: servono in media quindici anni per riportarla ai livelli pre-bellici, come dimostrano i dati di Bosnia, Ruanda e Siria. Le malattie croniche – come diabete, ipertensione, tumori – peggiorano per la mancanza di cure, di continuità terapeutica, di accesso ai farmaci. Milioni di persone, esposte a fattori di stress legati alla guerra – sia militari che civili – sono affette da disturbi mentali, tra cui ansia, depressione e, non da ultimo, il disturbo da stress post-traumatico. La guerra, insomma, non finisce con il cessate il fuoco: continua, silenziosa, nelle statistiche demografiche e nella vita interrotta di intere generazioni. Prosegue alimentando e aggravando le disuguaglianze sanitarie e socio-economiche. Circa l’85

per cento della popolazione mondiale vive in uno dei 153 Paesi a basso e medio reddito, ovvero in aree che hanno conosciuto la maggior parte dei conflitti armati degli ultimi decenni. Molti di questi Paesi dispongono già di risorse limitate e della scarsa garanzia dei diritti umani.

In che modo la cronicità della guerra sfida il concetto stesso di salute pubblica?

Lo scoppio di un conflitto, acuto o prolungato, rappresenta uno shock per individui, comunità e intere società: altera le priorità di vita e sussistenza, modificando anche il significato del vivere. Il benessere vissuto e quello atteso diventano radicalmente diversi rispetto a prima del conflitto. In sostanza ogni guerra si configura come un determinante della salute che genera disuguaglianze o aggrava quelle già esistenti. In aggiunta rende impossibili interventi strutturali efficaci contro le malattie, in particolare quelle croniche. Per i sistemi sanitari, significa operare in condizioni in cui la prevenzione è impraticabile, la cura frammentata e la riabilitazione spesso tardiva. La risposta si limita all’emergenza, senza trasformarsi in un progetto stabile di salute. La guerra disgrega le strutture sanitarie e di organizzazione sociale, pubblica e privata: interrompe governance, logistica e risorse. In molti contesti, ospedali e ambulanze diventano bersagli, mentre medici e operatori sanitari fuggono o vengono uccisi. La salute diventa così un “diritto sospeso”, accessibile solo in modo parziale o casuale. La salute pubblica, orientata per definizione alla prevenzione, all’equità e alla continuità, viene sostituita da un modello emergenziale, inefficace nel lungo termine. La cronicità della guerra impone di ripensare gli interventi sanitari, includendo anche la prevenzione dei conflitti come parte integrante della promozione della salute.

Nei suoi testi emerge con forza il tema dell’infanzia. I bambini sono descritti come le vittime più vulnerabili e invisibili dei conflitti. Quali forme assume questa vulnerabilità e quali priorità dovrebbe avere la comunità internazionale?

I conflitti armati contemporanei hanno un volto sempre più civile. Le guerre di oggi uccidono soprattutto donne e bambini, come dimostrano drammaticamente i dati provenienti dalla Striscia di Gaza: tra ottobre 2023 e gennaio 2025, oltre 47.000 persone hanno perso la vita a causa di ferite traumatiche, tra cui circa 18.000 bambini, secondo il Ministero della salute palestinese. A questi si aggiunge una quota incerta ma significativa di vittime non registrate, perché intere famiglie vengono annientate in un colpo solo, oppure perché i corpi restano sepolti sotto le macerie sen-

Maurizio Bonati, medico, già responsabile del Dipartimento di salute pubblica e del Laboratorio per la salute materno infantile dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs di Milano. Dirige la rivista Ricerca & Pratica

za mai raggiungere un obitorio. I bambini pagano il prezzo più alto dei conflitti bellici, e anche più silenzioso. Muoiono non solo sotto le bombe, ma anche per malattie curabili, fame, sete, mancanza di vaccini o assistenza neonatale. Per i bambini, il trauma non si limita alla perdita fisica. Molti sopravvissuti sono orfani, mutilati, affetti da disturbi mentali gravi. La vulnerabilità dell’infanzia è multiforme: fisica, psicologica, educativa. Spesso diventano profughi, orfani, vengono reclutati nei conflitti armati, o vengono rapiti come è successo (ancora una volta) nel Donbass. Da considerare inoltre che il trauma e lo stress legati alla guerra possono avere effetti transgenerazionali, trasmessi dai genitori ai figli attraverso modifiche epigenetiche nell’espressione del genoma. L’esposizione prenatale e postnatale a eventi traumatici aumenta il rischio, durante la crescita, di sviluppare depressione, disturbo post-traumatico da stress, dolore cronico, emicrania, malattie cardiache e diabete. La comunità internazionale dovrebbe mettere la tutela dell’infanzia al centro di ogni risposta umanitaria. Non solo intervenendo con aiuti immediati, ma costruendo percorsi stabili di protezione, educazione alla pace, salute mentale. Serve una responsabilità collettiva, che riconosca ogni bambino come patrimonio umano da preservare, attivamente.

Una delle sue affermazioni più incisive è che “prevenire la guerra significa prevenire la cronicità delle disuguaglianze sanitarie”. In che modo questa idea può diventare azione concreta nelle politiche pubbliche?

Credo che la chiave sia culturale prima ancora che tecnica. Prevenire la guerra significa agire sulle radici della violenza, sui fattori di esclusione, sulla retorica dell’odio. A livello di politiche pubbliche, questo significa integrare l’e-

ducazione alla pace nei programmi scolastici fin dall’infanzia, ma anche nella formazione universitaria, in particolare dei medici, degli operatori sanitari e sociali. La sanità può e deve farsi promotrice di pace, perché conosce da vicino le ferite della guerra. Un medico formato alla pace sarà più incline a farsi carico delle disuguaglianze, a promuovere inclusione, a denunciare le ingiustizie. Dobbiamo costruire una società che riconosca nella pace un determinante di salute, e nella guerra un fallimento della politica e della medicina insieme. Servono anche quelle doti che sfuggono alla logica attuale della politica, degli sguardi a distanza e del monitoraggio degli esiti – come il miglioramento del benessere delle popolazioni vittime di guerra nel tempo – insieme a investimenti in risorse economiche e umane: tutti elementi che nei trattati di tregua (sebbene etichettati come di “pace”) non sono contemplati o esplicitati.

Qual è, oggi, secondo lei, il ruolo di ciascuno di noi nel contrastare la cronicità della guerra?

Ognuno di noi ha un ruolo. Come cittadini, possiamo esercitare un pensiero critico, non cedere alla disumanizzazione dell’altro, non abituarci alle immagini di guerra come se fossero normali. Come professionisti, abbiamo il dovere di tenere accesa la coscienza civile, di denunciare, di educare, di costruire alternative. Come comunità, dobbiamo riscoprire il senso del legame: quello che ci unisce all’altro anche quando è lontano, anche quando non parla la nostra lingua. Contrastare la cronicità della guerra significa anche contrastare l’indifferenza. È un compito culturale, etico e politico che riguarda tutti.

A cura di Laura Tonon

L’impatto nascosto della guerra sui bambini

• Oltre 400 milioni di bambini, circa 1 su 5, vivono in Paesi in guerra o coinvolti in conflitti violenti. La metà delle vittime civili delle mine sono bambini.

• La guerra provoca: morte diretta, denutrizione, mancanza di vaccinazioni, distruzione di scuole e servizi sanitari, traumi psicologici, rapimenti, stupri e reclutamento di bambini soldato.

• I bambini hanno maggiori probabilità di morire prima di uno o cinque anni rispetto ai bambini nati nella stessa regione in periodi senza conflitti. Il concetto di “toxic stress”, ovvero stress intenso e prolungato senza adeguato supporto, compromette lo sviluppo neurologico e mentale e ha effetti che possono durare tutta la vita.

Quanto tempo serve per tornare ai livelli di salute pre-bellici? I conflitti armati determinano un aumento significativo e duraturo della mortalità infantile sotto i cinque anni, un indicatore chiave della salute e del benessere della popolazione. Un’elevata mortalità infantile si associa a una riduzione della speranza di vita alla nascita e, nei contesti più fragili, può compromettere intere generazioni. Questo indicatore riflette l’interazione di fattori sociali, economici, ambientali e sanitari, ed è utile anche per pianificare interventi nelle fasi post-conflitto. L’analisi storica di tre contesti diversi – Bosnia ed Erzegovina, Ruanda e Siria – mostra che dopo la fase acuta di una guerra sono necessari in media quindici anni per ristabilire il trend di miglioramento dei livelli di mortalità infantile nei primi 5 anni di vita rispetto a quelli pre-conflitto.

I: inizio della fase acuta del conflitto; F: fine della fase acuta del conflitto.

Ruanda Siria Bosnia ed Erzegovina

Fonte dati: United Nations Inter-agency group for child mortality estimation (2025). Grafico modificato da Bonati M. BMJ Paediatrics Open 2025;9:e003379.

LA PREVENZIONE è nell’ambiente

Ibambini nati nel 2020 che avranno ottant’anni nel 2100 vivranno un’esposizione senza precedenti a eventi climatici estremi, con temperature quasi doppie e fenomeni sette volte più frequenti rispetto alle generazioni passate. In uno scenario di riscaldamento globale non mitigato (+4-5°C in Italia), l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle malattie croniche porteranno a più anni vissuti in cattive condizioni di salute1

Crisi climatica e salute pubblica

Salute pubblica e crisi climatica sono oggi più che mai strettamente connesse. Il cambiamento climatico agisce come un “threat multiplier”, esacerbando le vulnerabilità sociali, economiche e ambientali preesistenti, con un impatto rilevante sulla salute umana. Questo si manifesta attraverso l’aumento dei rischi sanitari legati a eventi meteorologici estremi, inquinamento atmosferico, malnutrizione e maggior probabilità di epidemie. Le temperature elevate, per esempio, sono associate a un incremento della mortalità per cause respiratorie, cardiovascolari, all’esacerbazione delle patologie mentali, mentre le ampie escursioni termiche giornaliere influenzano i decessi per ictus. L’inquinamento atmosferico nelle città è responsabile si stima dell’11 per cento della mortalità per cause naturali, dovuta all’esposizione a livelli superiori a quanto indicato nelle linee guida sulla qualità dell’aria dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) del 20232. La perdita di biodiversità e lo stress da calore stanno avendo un impatto sulla nostra dieta influenzando la disponibilità di frutta e verdura fresche e di qualità3 Il cambiamento climatico è anche un amplificatore delle disuguaglianze socioeconomiche e, di conseguenza, delle disuguaglianze di salute: le regioni del mondo e le fasce di popolazione più povere, con minori risorse economiche e minore capacità di adattamento, sono destinate a subire le conseguenze più gravi della crisi climatica a causa della maggiore vulnerabilità associata alle loro condizioni di salute (maggiore prevalenza di malattie croniche) e socioeconomiche . Dunque una priorità fondamentale per la salute pubblica, oggi e per le future generazioni, è la promozione di “politiche dei co-benefici”4 che creino sinergie tra interventi sanitari e ambientali. In questa prospettiva, l’approccio One health, che riconosce le interconnessioni tra la salute umana, animale e del pianeta, offre un quadro di riferimento fondamentale: promuovendo la collaborazione tra settori e una visione integrata dei determinanti della salute, rafforzando la capacità di prevenire e gestire le malattie in un mondo sempre più interdipendente e, allo stesso tempo, mitigando i cambiamenti climatici.

Se da un lato la promozione di stili di vita salutari è fondamentale per prevenire e gestire le malattie croniche, dall’altro può contribuire in modo significativo alla costruzione di un’economia e di una società a basse emissioni di carbonio5. Viceversa, un numero crescente di studi evidenzia come le azioni mirate alla mitigazione climatica apportino importanti benefici per la salute e il benessere, in particolare attraverso l’adozione di diete sostenibili e salutari, e la transizione dall’uso dell’auto privata a forme di mobilità attiva, come la bicicletta e il camminare. Anche la riduzione del consumo di carne rappresenta una strategia efficace sia per mitigare il cambiamento climatico sia per prevenire le malattie croniche. Gli allevamenti intensivi sono una fonte rilevante di gas serra – la sola fermentazione enterica genera circa il 45 per cento delle emissioni agricole – e rilasciano sostanze inquinanti come ammoniaca, nitrati e pm 2,5. Inoltre, il consumo di carne rossa è associato a un aumento del rischio di malattie cardiovascolari e di tumori6 .

Una questione di giustizia sociale

La transizione ecologica implica un cambiamento verso modelli di sviluppo sostenibile, capaci di ridurre l’impatto ambientale grazie all’abbandono dei combustibili fossili e alla promozione delle fonti rinnovabili. Questo processo comporta anche profondi cambiamenti socioeconomici, che devono essere affrontati attraverso politiche di giustizia sociale, orientate all’equità e all’inclusione. Negli ultimi decenni, la ricerca ha dedicato crescente attenzione all’interconnessione tra le dimensioni ambientale e sociale, e al ruolo del welfare nella crisi ecologica, sottolineando la necessità di un approccio di welfare sostenibile a supporto delle politiche di transizione. Il concetto di “just transition” definisce principi fondamentali per garantire che il passaggio a un’economia sostenibile avvenga in modo equo, assicurando che i benefici della transizione siano distribuiti in maniera giusta tra tutti i gruppi sociali, con particolare attenzione ai più vulnerabili7

Come epidemiologi, medici e professionisti della salute, abbiamo il dovere di rimettere al centro del nostro impegno la prevenzione primaria e l’equità, promuovendo azioni volte a modificare gli stili di vita per contrastare l’epidemia di malattie croniche nei Paesi industrializzati. Si stima che il 30-40 per cento delle malattie, tra cui tumori, diabete, malattie cardiovascolari, respiratorie e neurologiche, sia attribuibile a stili di vita nocivi per la salute, che hanno anche un impatto significativo sul cambiamento climatico e sull’ambiente4 Intervenire sugli stili di vita significa anche affrontare alla radice le disuguaglianze nella salute. Secondo l’ultimo rapporto dell’Oms sullo stato dell’equità in salute in Italia, solo

il 9 per cento di tali disuguaglianze dipende dall’accesso alle cure, mentre la parte restante è influenzata da fattori ambientali, sociali, economici e dai nostri stili di vita. È importante soffermarci su queste tematiche anche in periodi di conflitti e crisi; come professionisti della salute siamo chiamati a giocare un ruolo cruciale nel contribuire alla transizione climatica e nel contrastare le disuguaglianze, attraverso attività di advocacy, approcci multisettoriali basati su evidenze scientifiche, programmi di educazione e formazione, e il coinvolgimento attivo delle comunità.

1. Kivimäki M, et al. Nat Med 2025;31:1635-43.

2. Stafoggia M, et al. Epidemiol Prev 2023;47:22-31.

3. Fao. Climate change, biodiversity and nutrition nexus: evidence and emerging policy and programming opportunities. Rome: Fao of the United Nations, 2020.

4. Ministero della salute. Consiglio superiore di sanità. Politica dei co-benefici sanitari della mitigazione del cambiamento climatico (coordinatore Paolo Vineis). 12 ottobre 2022.

5. Creutzig F, et al. Demand, services and social aspects of mitigation. In Ipcc, 2022: Climate change 2022. Mitigation of climate change.

6. Liu D, et al. Arch Med Sci 2022;19:1-15.

7. International labour organization. Guidelines for a just transition towards environmentally sustainable economies and societies for all, 2015.

Paola Michelozzi, epidemiologa (e ambientalista convinta), direttrice del Dipartimento di epidemiologia Ssr Lazio, Asl Roma 1. È stata presidente dell’Associazione italiana di epidemiologia.

I fattori che influenzano le disuguaglianze di salute in Italia. Il rapporto dell’Oms sullo stato dell’equità in salute nel nostro Paese analizza quali fattori ambientali, sociali ed economici e in quali misura incidono sulle disuguaglianze di salute nel Paese. Ne emerge che le differenze di salute e benessere dipendono soprattutto dalle condizioni di vita (22%) ed economiche (43%) più che dall’accesso ai servizi sanitari (9%). Le disuguaglianze sono quindi influenzate da determinanti su cui è possibile agire con politiche mirate.

Fonte: “Una vita sana e prospera per tutti in Italia”, Who Europe, 2022.

Se l’innovazione c’è ma non arriva al paziente

Oggi la comunità scientifica riconosce che le malattie cardiovascolari restano la principale causa di morte a livello globale, nonostante i progressi della ricerca. Un recentissimo editoriale del Lancet1 ha offerto una panoramica essenziale e molto chiara delle sfide più urgenti che sia i professionisti sanitari, sia gli amministratori dovrebbero affrontare. Qual è la sua lettura da dirigente di un’industria impegnata da anni nello sviluppo di nuove terapie anche in ambito cardiovascolare?

La situazione nella quale ci troviamo oggi richiede una lettura per molti aspetti nuova. A livello globale abbiamo assistito negli ultimi anni a progressi significativi nello sviluppo di nuove terapie per diverse patologie cardiovascolari, oltre che nell’affinamento delle metodologie diagnostiche. Sempre riferendosi al contesto mondiale non spesso – o addirittura raramente – questi risultati sono stati messi a disposizione dalla comunità scientifica in modo equo e si sono tradotti in un miglioramento tangibile della salute pubblica. Come spiega bene il Lancet, in molti Paesi le innovazioni restano spesso confinate ai centri di eccellenza o a pazienti particolarmente selezionati. Il vero nodo è la mancata implementazione su larga scala, indipendentemente dagli assetti organizzativi o dalla ricchezza del sistema sanitario.

A suo avviso, dottoressa Ruggieri, quali sono le cause di questo ritardo nell’adozione?

Il problema non è la mancanza di innovazione, ma la sua scarsa accessibilità e la disconnessione rispetto ai reali determinanti della malattia cardiovascolare. In generale, le barriere sono molteplici: dalla frammentazione dei percorsi assistenziali alla bassa aderenza terapeutica, fino alle diseguaglianze strutturali nei Paesi a basso e medio reddito. Ma anche nei Paesi ad alto reddito molti problemi di cui discutiamo da anni restano irrisolti: pensiamo per esempio all’aderenza ai trattamenti per l’ipertensione o per la dislipidemia, essenziali per garantire la riduzione di eventi cardiovascolari maggiori. Nel mondo reale – per usare un’espressione oggi familiare – la proporzione dei pazienti che rispettano la prescrizione del medico curante resta insoddisfacente. Sappiamo che questo non soltanto vanifica parte dell’efficacia clinica raggiunta ma, soprattutto nelle condizioni di cronicità, ha anche un importante impatto dal punto di vista economico e sociale.

Come industria, quale contributo potete dare per superare queste barriere?

Dobbiamo assumerci una responsabilità condivisa. Non basta sviluppare farmaci innovativi: serve investire in soluzioni “beyond the pill” che favoriscano l’implementazione reale. Penso, ad esempio, all’integrazione di strumenti digitali per il monitoraggio dell’aderenza, a percorsi educazionali per operatori sanitari e cittadini o a progetti di co-sviluppo con le comunità locali per facilitare l’accesso alle cure. Pensiamo a quella che nel mondo anglosassone è definita la “polypill”: è dimostrato che le combinazioni fisse di farmaci, semplici ed economiche, possono avere un impatto enorme – come anche indicato dalle linee guida delle più importanti società scientifiche in ambito cardiovascolare – sia dal punto di vista del controllo della malattia che nell’incremento dell’aderenza2. Eppure, non sono ancora ampiamente ed

omogeneamente adottate. Dal punto di vista della ricerca clinica, serve uno sforzo collettivo per includere precocemente i bisogni delle popolazioni più vulnerabili, affinché si possa parlare anche in quest’ambito di medicina personalizzata. Non da ultimo, una visione olistica di questi pazienti, spesso affetti da più comorbidità, e la loro presa in carico nel tempo possono rappresentare una garanzia di ottimizzazione delle terapie e il raggiungimento dei benefici attesi.

L’editoriale del Lancet sottolinea come un altro ostacolo possa essere la nostra conoscenza incompleta di molte malattie cardiovascolari: qual è il suo parere?

Certamente, come fa osservare l’editoriale che abbiamo citato, malattie come lo scompenso cardiaco con frazione di eiezione preservata sono emblematiche: colpiscono quasi metà dei pazienti con scompenso, ma non abbiamo ancora una chiara comprensione dei meccanismi patogenetici. Altro esempio è l’ipertensione resistente, per la quale ad oggi non sono disponibili terapie mirate efficaci. La medicina cardiovascolare ha ancora un gap importante rispetto ad altri ambiti, come l’oncologia, dove la classificazione molecolare ha rivoluzionato le terapie. Per questo è fondamentale rafforzare la ricerca di base e la stratificazione molecolare anche in cardiologia.

Cosa manca allora per cambiare rotta?

Una visione sistemica e integrata. La riduzione dell’impatto delle malattie cardiovascolari passa per interventi su più livelli: clinico, sociale, ambientale e politico. Serve intervenire sui determinanti strutturali della salute – l’alimentazione, il fumo, la sedentarietà – ma anche garantire che le terapie più avanzate siano completamente accessibili e utilizzabili per tutti i pazienti che ne possono beneficiare. La sostenibilità si gioca sulla capacità di portare innovazione dove serve di più, in modo intelligente e inclusivo.

Quindi, la vera sfida oggi non è scoprire nuove terapie, ma farle arrivare a chi ne ha bisogno?

Direi entrambe le cose. E questo richiede che l’industria, i sistemi sanitari, le istituzioni e la comunità scientifica lavorino insieme per raccogliere dati utili alla prevenzione e alla programmazione, superare frammentazioni, semplificare i percorsi, educare pazienti e operatori, e misurare l’impatto non solo con trial clinici ma anche con dati reali sul campo. Solo così l’innovazione può avere un impatto trasformativo. E solo così potremo davvero invertire la rotta di quella che continua a essere la prima causa di morte nel mondo.

1. Editorial. From innovation to impact in cardiovascular disease. Lancet 2025;405:2023.

2. Kohli-Lynch CN, Moran AE, Kazi DS, et al. Cost-effectiveness of a polypill for cardiovascular disease prevention in an underserved population. JAMA Cardiology 2025;10:224-33.

vedi anche MALATTIE RESPIRATORIE, UN’EMERGENZA SILENZIOSA IN EUROPA

“La salute respiratoria è tra le aree più trascurate della sanità pubblica. È tempo di cambiare mentalità e farne una priorità politica”. Con queste parole Silke Ryan, presidente della European respiratory society, commenta i numeri del rapporto dell’Ufficio regionale per l’Europa dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e della European respiratory society. L’appello rivolto ai governi è chiaro: integrare la cura delle malattie respiratorie croniche nelle politiche sanitarie, rafforzare la prevenzione, investire in ricerca e fissare obiettivi concreti e misurabili.

Nella Regione europea dell’Oms le malattie respiratorie croniche colpiscono oltre 81 milioni di persone: ogni anno si contano 6,8 milioni di nuove diagnosi e 400mila morti. Nonostante siano spesso prevenibili e curabili, rappresentano la sesta causa di morte nella Regione e contribuiscono in modo rilevante a malattie cardiovascolari e tumori. Le forme più diffuse sono broncopneumopatia cronica ostruttiva (bpco) e asma,

con la bpco responsabile di circa l’80 per cento dei decessi legati a malattie respiratorie croniche. Persistono forti disparità geografiche, sia in termini di prevalenza che di ospedalizzazioni e mortalità. Croazia, Italia e Portogallo registrano i tassi di ricoveri più bassi, mentre Danimarca, Irlanda e altri Paesi europei come Norvegia e Regno Unito riportano i tassi più alti. Questi ultimi quattro presentano anche alcuni dei più alti tassi di prevalenza di bpco in Europa. Strumenti diagnostici come la spirometria sono poco diffusi, i medici spesso non riconoscono i sintomi e i sistemi di monitoraggio sono carenti. Il risultato è una sottostima dell’impatto reale e un costo economico di oltre 20,7 miliardi di dollari l’anno in perdita di produttività tra i 30 e i 74 anni. Tra i principali fattori di rischio: fumo (25 per cento della popolazione adulta fuma), inquinamento atmosferico (oltre il 90 per cento respira aria insalubre) e sigarette elettroniche il cui uso è in crescita tra i giovani. Le fasce più

svantaggiate sono le più esposte e spesso non hanno accesso a cure e farmaci essenziali. Il rapporto chiede risposte sanitarie integrate, più risorse e politiche incisive su fumo, qualità dell’aria e determinanti sociali della salute. Suggerisce inoltre interventi chiave, opzioni politiche e buone pratiche per aiutare i Paesi a rafforzare i sistemi sanitari e la sorveglianza, ridurre le disuguaglianze e migliorare la qualità di vita dei pazienti con malattie respiratorie croniche. L’auspicio, conclude Hans Henri P. Kluge, direttore dell’Ufficio regionale per l’Europa dell’Oms, è che “questo rapporto possa ispirarci tutti ad agire, ad adattarci e ad accelerare il progresso. Affinché, entro il 2050, ogni persona, in ogni angolo della nostra Regione, possa respirare liberamente e vivere pienamente”.

Fonte: Chronic respiratory diseases in the Who European Region, 2025. Who/Euro:2025-12340-52112-79990.

Esposizione alla silice sul lavoro

Inquinamento indoor da combustibili solidi

Agenti asmogeni nel luogo di lavoro

Fumo passivo

Inquinamento atmosferico da ozono

Alto indice di massa corporea

Basse temperature

Polveri sottili (pm), gas e fumi sul luogo di lavoro

Inquinamento ambientale da polveri sottili

Tabagismo

% Entrambi i sessi

Fattori di rischio delle malattie respiratorie croniche. Nella Regione europea dell’Oms, il fumo resta il principale fattore di rischio, seguito dal particolato atmosferico e da altri fattori ambientali, come le basse temperature. Il grafico mostra la percentuale di daly (disability-adjusted life year) attribuibili ai diversi fattori di rischio per le malattie respiratorie croniche, per entrambi i sessi, nel 2021. La maggior parte di questi fattori è modificabile attraverso interventi mirati, con l’obiettivo di ridurne l’impatto o di eliminarli del tutto.

Modificato da Who Regional office for Europe. Chronic respiratory diseases in the Who European Region, 2025.

IPERTENSIONE, TRA INVISIBILITÀ E CRONICITÀ

Dottor Verdecchia, l’ipertensione arteriosa è sottovalutata rispetto al suo reale impatto?

L’ipertensione è una condizione ampiamente sottovalutata, non solo in Italia ma a livello globale. Nel mondo, colpisce circa il 40 per cento della popolazione adulta – più di un miliardo di persone. Oltre il 70 per cento delle persone sopra i 60 anni ne è affetto. E la ricerca ha dimostrato che un efficace controllo dell’ipertensione, consistente nella normalizzazione dei valori pressori, riduce nettamente il rischio di gravi malattie cardiovascolari (infarto miocardico, ictus cerebrale, scompenso cardiaco, insufficienza renale) e di mortalità. Purtroppo, non oltre il 30-40 per cento dei pazienti ipertesi sono ben controllati, cioè raggiungono livelli di pressione inferiori ai 130 mmHg per la pressione arteriosa sistolica sotto terapia.

Pur essendo molto diffusa, spesso non viene percepita come malattia cronica. Cosa ci dice questa “normalizzazione” sul nostro modo di intendere e gestire la cronicità?

L’ipertensione è stata definita un killer silenzioso. Accanto agli altri fattori di rischio (colesterolo alto, diabete, fumo di sigaretta, ecc.), l’ipertensione danneggia progressivamente le arterie, facendo aumentare l’aterosclerosi, ossia le lesioni aterosclerotiche sulla parete delle arterie, senza che il paziente se ne accorga. E ad un certo punto, spesso a causa di una placca aterosclerotica che si frantuma, può verificarsi improvvisamente il “trombo” che può portare all’infarto, all’ictus o ad altre gravi complicanze. L’ipertensione non viene percepita come malattia cronica perché il paziente quasi sempre non ha sintomi. E anche per un altro motivo: perché la pressione è molto, moltissimo, “variabile” da momento a momento. Basta uno sforzo, uno stress psichico, un dolore, per far salire la pressione anche da valori bassi o molto bassi fino a valori anche molto alti. Questa elevata variabilità è un fattore di “confusione” per il paziente.

Dove si collocano oggi i principali punti critici nella presa in carico del paziente iperteso, soprattutto nei percorsi di lungo periodo?

Un punto fondamentale è che il paziente iperteso deve imparare ad auto-misurarsi correttamente la pressione arteriosa al proprio domicilio. Un po’ come fanno i diabetici con la glicemia. La pressione arteriosa andrebbe misurata dopo almeno 5-10 minuti di riposo e in silenzio, in posizione seduta, in ambiente tranquil-

lo. Il paziente deve stare comodamente seduto, deve tenere la schiena ben appoggiata e i piedi debbono essere ben appoggiati in terra. Le gambe non debbono essere accavallate (altrimenti la pressione aumenta), il braccio dove si posiziona il bracciale del pressurometro deve essere ben appoggiato su un piano rigido, con l’avambraccio all’altezza del cuore. La circonferenza del bracciale deve essere proporzionale alle dimensioni del braccio. I pazienti obesi, o comunque con ampia circonferenza del braccio, debbono usare bracciali cosiddetti “per obesi”. Se usassero bracciali standard la loro pressione arteriosa potrebbe essere “sovrastimata” (venire più alta di quello che è realmente). Dopo 5-10 minuti di attesa in totale rilassamento andrebbero eseguite tra due e tre misurazioni, a distanza di circa 1 minuto, e queste andrebbero registrate su un diario (pressione massima, pressione minima e frequenza cardiaca). Le misurazioni dovrebbero essere eseguite prima di colazione e prima di cena, esattamente con la stessa metodica. Nei 30 minuti prima della misurazione è bene evitare sforzi fisici ed è bene evitare di assumere alimenti. Il paziente iperteso dovrebbe auto-misurarsi la pressione arteriosa a casa almeno nei 3-7 giorni prima della visita, registrando su un quaderno tutti i valori misurati e facendoli vedere al medico. In assenza di visite pianificate, il paziente iperteso in trattamento dovrebbe auto-misurarsi la pressione almeno 1-4 giorni al mese, secondo le indicazioni del proprio medico. Dopo almeno alcune settimane di auto-misurazioni domiciliari va fatta una media: se la pressione è inferiore a 135/85 mmHg e il paziente era in terapia vuol dire che la pressione è ben controllata, altrimenti la terapia va incrementata.

Aderenza terapeutica e continuità assistenziale: come si può migliorare l’aderenza dei pazienti ipertesi?

L’aderenza al trattamento andrebbe massimizzata anzitutto utilizzando farmaci ben tollerati dal paziente. Oggi abbiamo a disposizioni varie classi di farmaci. Spetta al medico capire, interrogando il paziente, se un certo farmaco non è ben tollerato e quindi va sostituito. La terapia farmacologica andrebbe iniziata con combinazioni tra ace-inibitori, oppure sartani, associati a diuretici o calcio-antagonisti. Il paziente dovrebbe iniziare da subito una combinazione di almeno due classi farmacologiche diverse. La terapia con una sola classe farmacologica è consigliata solo in casi rari: pazienti anziani, fragili, o con pressione arteriosa solo di pochissimo aumentata, nei quali possiamo temere una ipotensione dall’uso di una terapia di combinazione. Se la terapia iniziale con due farmaci non normalizza del tutto la pressione, occorre passare ad una terapia a tre farmaci (ace-inibitori o sartani più diuretici + calcio-antagonisti). Esistono anche combinazioni “fisse”

tra questi farmaci che possono essere molto utili per migliorare l’aderenza del paziente al trattamento. Se nemmeno una terapia con le tre classi farmacologiche sopra riportate riesce a normalizzare la pressione, si parla di ipertensione resistente, e il paziente dovrebbe rivolgersi ad un centro specialistico per ulteriori approfondimenti. In ogni caso, è importante che tutti seguano misure non farmacologiche ovviamente laddove appropriate al singolo paziente. L’apporto di sale andrebbe ridotto, l’attività fisica andrebbe aumentata (camminata veloce, se possibile, per almeno 2 ore e mezzo per settimana), il peso corporeo dovrebbe calare nei pazienti obesi o sovrappeso, il fumo di sigaretta andrebbe del tutto interrotto. Queste misure non farmacologiche, potrebbero indurre cali di pressione simili o anche superiori a quelli inducibili dai farmaci, e inoltre potenziano l’effetto dei farmaci assunti contemporaneamente. La pressione arteriosa dovrebbe essere ridotta fino a valori sistolici inferiori ai 130 mmHg, idealmente 120 mmHg, sebbene esistano documentazioni che anche valori pressori più bassi, se ben tollerati dal paziente, potrebbero esser accettabili.

A cura di Giada Savini

Mancia G, et al. J Hypertens 2023;41:1874-2071. McEvoy JW, et al. Eur Heart J 2024;45:3912-4018. Verdecchia P, et al. Eur J Intern Med 2024;123:42-48. • Verdecchia P, et al. Eur J Intern Med 2023;116:1-7.

Paolo Verdecchia, cardiologo, autore di numerosi studi clinici nel campo dell’ipertensione arteriosa, presidente dell’Associazione Umbra Cuore e Ipertensione dell’Ospedale S. Maria della Misericordia di Perugia.

LA CRONICITÀ dopo il cancro

Dottoressa Carnio, cosa significa oggi “cronicità” in oncologia e quali trasformazioni comporta per la pratica clinica?

In Italia osserviamo un incremento costante – circa il 3 per cento annuo – del numero di pazienti oncologici lungoviventi. Nei Paesi europei si considerano “sopravissuti” al cancro quei pazienti che hanno vissuto oltre i 3-5 anni dalla diagnosi o dalla fine dei trattamenti e che si ritrovano in uno stato di remissione completa. In altri Paesi, invece, il termine fa riferimento allo status di una persona che ha avuto diagnosi di cancro indipendente da quando questa sia stata fatta. L’ambito della lungovivenza si fonde con il mondo della cronicità che tende ad includere anche pazienti con malattia avanzata ma stabile con sopravvivenze oggi molto più lunghe rispetto al passato. L’aumento delle diagnosi di cancro e il miglioramento dei trattamenti, delle guarigioni e delle sopravvivenze globali impongono un rimodellamento assistenziale che preveda una sorveglianza personalizzata per il mantenimento del benessere fisico, psicologico e sociale conseguenti alla malattia e/o a sui trattamenti.

Molti effetti a lungo termine dei trattamenti restano ancora poco riconosciuti. Quali sono, secondo lei, le criticità più urgenti da affrontare?

Gestire la malattia resta la priorità, tuttavia nella gestione clinica di qualità dobbiamo confrontarci e affrontare nuove problematiche come gli effetti collaterali tardivi dei trattamenti oncologici, chirurgici, locali e/o sistemici mediante un’intercettazione precoce e una gestione ad hoc. Alcuni di questi coinvolgono le conseguenze psicologiche delle persone che convivono con una o più diagnosi di tumore, altri coinvolgono la sfera sessuale, la presenza di dolore cronico e la cosiddetta “tossicità finanziaria”. Quest’ultima legata alle gravi difficoltà lavorative che un paziente con diagnosi di cancro può incontrare, dal cambio di mansione, alla riduzione dello stipendio sino al licenziamento. Ricordo una paziente di 50 anni, trattata per un tumore polmonare localmente avanzato, che durante le terapie perse il lavoro e, pur avendo recuperato successivamente uno stato di piena remissione di malattia e una buona qualità di vita, rimase disoccupata per tre anni, con ricadute pesanti sulla sua famiglia. In casi come questo, il supporto delle associazioni di pazienti è fondamentale, sia per dare visibilità al problema sia per offrire soluzioni concrete. In sintesi: le criticità più frequenti riguardano le tossicità croniche, le conseguenze psicologiche e sessuali, e le difficoltà economiche oltre all’incremento delle cronicità legate all’età che vanno a sommarsi a quelle oncologiche. Diventa quindi essenziale attrezzarci per rispondere ai bisogni futuri dei nostri pazienti. L’oncologia del futuro non potrà prescindere da una rete integrata di competenze multidisciplinari e multiprofessionali, dall’oncologo all’assistente sociale.

L’oncologia del futuro non potrà prescindere da una rete integrata di competenze multidisciplinari e multiprofessionali, dall’oncologo all’assistente sociale.

Come si inserisce la medicina territoriale in questa presa in carico della cronicità?

In questo approccio multidimensionale è importante un dialogo continuo tra ospedale e territorio, tra specialisti e medici di base. Il dialogo tra ospedale

e territorio è cruciale non solo per la gestione della cronicità ma anche per la prevenzione di secondi tumori e patologie dismetaboliche. Servono percorsi dedicati a promuovere stili di vita sani nei pazienti lungoviventi oltre alla personalizzazione dei follow-up. L’uso di un “survivorship care plan”, fornito dall’oncologo ai colleghi del territorio, potrebbe indicare le azioni necessarie dopo il trattamento attivo per il monitoraggio delle recidive, la gestione degli effetti collaterali a lungo termine e la promozione del benessere generale, garantendo la qualità degli interventi. Un’altra figura, con un ruolo interessante, è quella dell’oncologo del territorio, che in alcune aree della Sicilia, permette di seguire i pazienti in sorveglianza e quindi offrire una presa in carico più sostenibile.

Quale ruolo possono giocare le società scientifiche?

Un ruolo chiave, soprattutto quando favoriscono l’integrazione di più discipline. La cronicità impone di superare i confini specialistici. In medicina siamo abituati a gestire cronicità – come nel diabete o nelle cardiopatie – ma in oncologia la complessità è maggiore, soprattutto per la co-presenza di comorbidità non solo cancro correlate. Serve una formazione continua e condivisa tra tutti i professionisti e una comunicazione efficace bilaterale al fine di intercettare i bisogni dei pazienti oltre alla prevenzione delle complicanze.

Le reti oncologiche possono rappresentare un valore aggiunto?

Assolutamente. Un esempio efficace è la rete oncologica Piemonte-Valle d’Aosta che ha attivato percorsi dedicati a temi cruciali, dalla nutrizione al supporto psicologico. Le reti offrono formazione, coordinamento e chiarezza nei ruoli, coinvolgendo oncologi, medici di base, infermieri, psicologi, terapisti del dolore. Ma è fondamentale che ci sia una regia chiara, un soggetto responsabile capace di definire percorsi accessibili e snelli. L’utilizzo di piattaforme digitali condivise potrebbe essere molto utile in questo senso.

Un paziente ben seguito nella sua cronicità evita ricoveri, accessi in pronto soccorso e interventi d’urgenza: un risparmio rilevante, oltre a un evidente miglioramento della qualità di vita.

L’aumento della sopravvivenza pone anche nuove sfide economiche. Come coniugare sostenibilità e innovazione in un sistema sanitario sotto pressione?

Il Servizio sanitario nazionale ha bisogno di risorse nuove: personale, competenze, formazione. La cronicità oncologica va affrontata anche in termini di sostenibilità economica, sia per il paziente sia per il sistema. Ricordiamoci che un paziente ben seguito nella sua cronicità evita ricoveri, accessi in pronto soccorso e interventi d’urgenza: un risparmio rilevante, oltre a un evidente miglioramento della qualità di vita. La rete deve funzionare davvero: è questo l’investimento necessario per il futuro.

A cura di Laura Tonon

Simona Carnio, oncologa presso il Dipartimento di oncologia, dell’Azienda ospedaliera universitaria San Luigi Gonzaga di Orbassano (Torino), fa parte del Gruppo Aiom delle Linee guida dei pazienti lungoviventi.

CRONICITÀ

E

DEMENZE

Immidem, per una sanità più equa e senza confini

Modena e l’inclusione: ponti verso le comunità migranti

Negli ultimi anni, i Centri per i disturbi cognitivi e le demenze (Cdcd) della provincia di Modena hanno iniziato a registrare un fenomeno nuovo: un numero crescente di persone migranti, spesso con scarsa familiarità con la lingua italiana e con il sistema sanitario italiano, si rivolge ai servizi per disturbi cognitivi e cambiamenti del comportamento. Come garantire anche a loro un accesso equo alla diagnosi e alle cure? È da questa domanda che nasce l’idea di sviluppare, a livello locale, i temi promossi da Immidem, il primo progetto dedicato a caratterizzare la questione dei disturbi cognitivi nella popolazione migrante in Italia, con l’obiettivo di promuovere un cambiamento concreto nei servizi di diagnosi, cura e riabilitazione della demenza, unendo formazione, mediazione culturale e sensibilizzazione sul territorio.

Formazione, mediazione e incontri sul territorio

Il progetto è partito nel febbraio 2023, con il coinvolgimento dei sette Cdcd provinciali dell’Ausl di Modena e di una rete di mediatori culturali della cooperativa Gulliver. Il primo passo è stato quello di offrire una formazione rivolta al personale sanitario – medici, psicologi, terapisti, infermieri e terapisti occupazionali – sul tema dei disturbi cognitivi nella popolazione migrante e sugli strumenti di screening per disturbi cognitivi cross-culturali, tra cui la scala Rudas, che è entrata nella pratica quotidiana ambulatoriale.

Valentina Guerzoni e Rossella Tozzi, geriatre dell’Ausl Modena, si occupano della presa in carico della popolazione migrante con demenza promossa dal progetto di ricerca Immidem dell’Istituto superiore di sanità.

Successivamente, sei mediatori culturali della cooperativa che collabora con l’Azienda sanitaria locale – di lingua araba, albanese, russo-ucraino e punjabi – sono stati formati su tematiche specifiche legate alle valutazioni cognitive e alla rete dei servizi a supporto delle persone con demenza presenti nella provincia di Modena. Questo intervento ha permesso la creazione di un pool di mediatori culturali specializzati, con la finalità ultima di renderli parte integrante dell’équipe multidisciplinare dei Cdcd e potenzialmente attivabili in qualsiasi momento e setting in cui si possa trovare la persona con demenza (per esempio, dimissioni protette da ospedale, pianificazione di interventi specialistici, interventi di terapia occupazionale a domicilio)

Ma il cuore del progetto è stato il territorio, con l’organizzazione di incontri diretti con le comunità di persone migranti. A febbraio 2025, a conclusione di un percorso di conoscenza diretta di alcune comunità – tra cui quella filippina di Modena, araba di Pavullo e sikh di Castelfranco Emilia – è stato possibile organizzare con loro eventi di formazione sul tema della prevenzione dei disturbi cognitivi e offrire screening gratuiti. Gli eventi hanno previsto brevi relazioni frontali, l’allestimento di spazi accoglienti e informali, con giochi di memoria, corner tematici su alimentazione e attività fisica, e test cognitivi aperti a tutti.

L’iniziativa ha permesso di parlare di demenza senza paura: le persone hanno iniziato a fare domande, a raccontare le proprie esperienze e a confrontarsi con noi esperti. Ogni comunità ha certamente risposto in modo diverso

alla proposta, e il percorso di conoscenza reciproca tra comunità e servizio sanitario è stato unico per ciascuna di esse.

Con la comunità araba, il dialogo è nato grazie al loro progetto “Moschee Aperte”, che ci ha offerto l’opportunità di presentarci all’Imam e di iniziare con la somministrazione di un questionario per comprendere cosa si sapesse della demenza, quale fosse il loro specifico interesse e in che modalità preferissero ricevere informazioni. Dall’indagine è emerso un grande bisogno di informazione, accompagnato da una forte disponibilità ad ascoltare.

Con la comunità sikh di Castelfranco Emilia, una delle più numerose della Regione, il punto di svolta è stata la figura della mediatrice culturale Kaur Narinder, che ha permesso di superare la diffidenza iniziale. Molte persone non sapevano nemmeno dell’esistenza di un centro specializzato per disturbi cognitivi e, una volta compresa appieno la nostra disponibilità ad ascoltarli, sono nate domande concrete e urgenti.

La comunità filippina è stata coinvolta grazie alla conoscenza diretta di alcuni membri dell’équipe del Centro per i disturbi cognitivi e le demenze con il parroco don Valentino, loro figura di riferimento presso il luogo di culto dove si riuniscono ogni domenica. L’evento è stato molto apprezzato e, al termine, è partita la richiesta di organizzare incontri simili, con l’obiettivo di offrire una formazione specifica ai membri della comunità che attualmente svolgono la professione di assistenti privati a persone con demenza.

Un modello replicabile

Abbiamo scelto una strada pratica per avvicinare i servizi specialistici per le demenze presenti sul nostro territorio alle comunità migranti: ascoltare prima di agire. Il progetto Immidem è una buona pratica che mette al centro il cittadino migrante, promuovendo una sanità territoriale che intercetta attivamente i bisogni e favorisce l’inclusione sanitaria. L’intento per il futuro è mantenere e sviluppare percorsi per migranti sempre più sostenibili, misurabili e replicabili su tutto il territorio italiano.

In Europa si registrano circa 500mila casi di demenza e fino a 700mila di disturbi cognitivi lievi tra persone nate all’estero, di cui circa 50mila in Italia. Si tratta di numeri ancora contenuti, ma verosimilmente sottostimati e destinati a crescere, a causa dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento dei flussi migratori. Il Progetto Immidem, promosso dall’Istituto superiore di sanità, ha posto le basi per un approccio innovativo alla cura dei disturbi cognitivi nelle comunità migranti, puntando su inclusione, formazione del personale e strumenti di valutazione cross-culturale. In queste pagine raccontiamo l’esperienza dell’Ausl di Modena e il ruolo dell’Ospedale Sacco di Milano.

L’Ospedale Sacco di Milano e la sfida della valutazione cross-culturale

In un mondo sempre più globalizzato, la migrazione internazionale è diventata una realtà diffusa e in costante crescita. Nel 2017, in Italia, si stimava una popolazione di circa 680mila migranti con più di 60 anni, tra i quali si registravano circa 24mila casi di demenza e 35mila di mild cognitive impairment1,2. In linea con quanto riportato dalla letteratura, anche presso il Centro per i disturbi cognitivi e le demenze (Cdcd) dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano si è osservato nel tempo un progressivo aumento dei primi accessi da parte di persone migranti: da 6 nel 2014 (pari all’1,8 per cento delle visite totali) a 33 nel 2024 (5,9 per cento).

Variabili socioculturali e acculturazione

Diventa quindi sempre più necessario sviluppare percorsi di diagnosi e cura che siano sensibili alle differenze culturali. In quest’ottica, nel 2020 è stato avviato il progetto Immidem, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità3, proprio con la finalità di approfondire come le barriere culturali possano influenzare il processo di diagnosi di decadimento cognitivo e di individuare strategie efficaci per superarle. Da allora, presso il Cdcd dell’Ospedale Sacco, sono stati valutati 151 pazienti migranti, a 49 dei quali – dal 2022 – è stata effettuata una valutazione neuropsicologica di secondo livello.

specificamente formati per facilitare il processo comunicativo. Il loro ruolo non si limita alla semplice traduzione, ma include anche la trasmissione di informazioni culturali fondamentali per pianificare la valutazione e interpretare i risultati in modo più efficace e sensibile⁵

È inoltre necessario adottare un approccio flessibile nell’utilizzo degli strumenti diagnostici, integrando valutazioni qualitative, test adattati e validati per la popolazione di riferimento e test cross-culturali⁶. Questi ultimi costituiscono una nuova generazione di strumenti sviluppati per essere equamente applicabili in molteplici culture. Tra gli esempi più significativi vi sono la Rowland universal dementia assessment scale⁷, un test di screening sviluppato con il contributo di esperti provenienti da 22 culture differenti, e la Cross-cultural neuropsychological test battery⁸ , una batteria composta da 11 test neuropsicologici di secondo livello poco influenzati da variabili culturali. Purtroppo, tali strumenti sono ancora poco conosciuti nei centri italiani; la loro traduzione e diffusione costituiscono uno degli obiettivi principali del progetto Immidem, che ne pubblica periodicamente le versioni aggiornate sul sito web (https://immidem.it/).

Giorgia Maestri, psicologa con interesse per le neuroscienze in ambito ospedaliero e di ricerca, lavora al Centro per il trattamento e lo studio dei disturbi cognitivi dell’Ospedale Luigi Sacco – Polo universitario di Milano.

Attraverso una revisione della letteratura integrata all’esperienza clinica ci siamo focalizzati sulle molteplici variabili che dovrebbero essere tenute in considerazione nel corso della valutazione del profilo cognitivo dei pazienti migranti. La maggior parte dei test neuropsicologici utilizzati nasce in un contesto occidentale e riflette quindi, inevitabilmente, dei valori, delle credenze e delle attitudini di tali culture. È quindi fondamentale indagare quanto il Paese di origine del paziente si differenzi da tale contesto e/o quanto il paziente abbia interiorizzato i valori della società ospitante – un processo noto come “acculturazione”. Vanno inoltre considerate altre variabili rilevanti, come la lingua madre del paziente e il livello di conoscenza dell’italiano, il grado e la qualità dell’istruzione ricevuta, lo stile comunicativo, il background socioeconomico e le ragioni sottostanti il percorso migratorio⁴

Strumenti per superare le barriere culturali

Per affrontare le possibili difficoltà legate a queste variabili, diverse sono le strategie che si possono adottare. Innanzitutto, anche quando il paziente dichiari una buona fluenza in italiano, è importante valutare la possibilità di effettuare la valutazione nella sua lingua madre. Sappiamo infatti che, nelle malattie neurodegenerative, la seconda lingua appresa tende a essere persa più precocemente rispetto alla lingua madre. Inoltre, una competenza sufficiente in italiano per sostenere conversazioni quotidiane non garantisce necessariamente la capacità di completare test di memoria o comprendere istruzioni complesse.

A questo scopo, ci avvaliamo di mediatori culturali: professionisti appartenenti alla stessa cultura del paziente e

La valutazione neuropsicologica cross-culturale nell’ambito delle demenze costituisce quindi un ambito di ricerca e pratica clinica relativamente recente. Considerata la sua crescente importanza, nei prossimi anni richiederà un impegno congiunto da parte dei professionisti sanitari, volto a garantire una presa in carico del paziente sempre più attenta e sensibile alle differenze culturali.

1. Canevelli M, Lacorte E, Cova I, et al. Estimating dementia cases amongst migrants living in Europe. Eur J Neurol 2019;26:119199.

2. Canevelli M, Zaccaria V, Lacorte E, et al. Mild cognitive impairment in the migrant population living in Europe: an epidemiological estimation of the phenomenon. J Alzheimers Dis 2020;73:715-21.

3. Canevelli M, Lacorte E, Cova I, et al. Dementia among migrants and ethnic minorities in Italy: rationale and study protocol of the Immidem project. BMJ Open 2020;10:e032765.

4. Fujii DEM. Developing a cultural context for conducting a neuropsychological evaluation with a culturally diverse client: the Ecletic framework. Clin Neuropsychol 2018;32:1356-92.

5. Nielsen TR, Franzen S, Watermeyer T, et al. Interpreter-mediated neuropsychological assessment: clinical considerations and recommendations from the European consortium on cross-cultural neuropsychology (Eccron). Clin Neuropsychol 2024;38:1775-805.

6. Fernández AL, Abe J, et al. Bias in cross-cultural neuropsychological testing: problems and possible solutions. Cult Brain 2018;6:1-35.

7. Storey JE, Rowland JTJ, Conforti DA, et al. The Rowland Universal Dementia Assessment Scale (RUDAS): a multicultural cognitive assessment scale. Int Psychogeriatr 2004;16:13-31.

8. Nielsen TR, Segers K, Vanderaspoilden V, et al. Performance of middle-aged and elderly European minority and majority populations on a cross-cultural neuropsychological test battery (Cntb). Clin Neuropsychol 2018;32:1411-30.

CRONICITÀ

s. f. [der. di cronico]

Qualità di ciò che è cronico, l’essere cronico: c. di un male (fisico o sociale).

CRONICO

agg. [dal lat. chronĭcus, gr. χρονικός, der. di χρόνος «tempo»] (pl. m. -ci) .

1 In medicina, e nel linguaggio com., di malattia o condizione morbosa a lento decorso, e quindi con scarsa tendenza a raggiungere l’esito, cioè la guarigione, la morte, o l’adattamento a nuove condizioni di vita, attraverso l’instaurarsi di un nuovo equilibrio: soffrire di bronchite c., essere affetto da asma cronica.

2 fig. Di abitudine o difetto inveterato e tale da apparire irrimediabile: la pigrizia è il suo male c.; avere il vizio c. di fumare, di sparlare, di mentire, ecc.; il suo dire lombardo era ancora infetto da certe c. patavinità (Fogazzaro).

3 Riferito a persona, anche come s. m. (f. -a, raro), affetto da malattia cronica: un asmatico c.; è un alcolizzato c.; ospedale, reparto per cronici (o per lungodegenti). In senso fig. (solo come agg.): è un fumatore, un bugiardo, un ritardatario cronico.

4 Con il sign. etimologico, che riguarda il tempo, soltanto nella locuz. data c., con cui viene talvolta indicata la parte della data che dà l’indicazione del tempo (giorno, mese, anno), in contrapp. alla data topica, che dà l’indicazione del luogo. Avv. CRONICAMÉNTE, in forma cronica: soffro cronicamente di cistite; e con uso fig., iron. o scherz.: è cronicamente invidioso di tutti; sono cronicamente goloso; patisce cronicamente la sete.

cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicità cronicitàcronicità cronicità cronicità cronicitàcronicitàcronicità

cronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità cronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicitàcronicità

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.