Joy e la ricerca della felicità - estratto - paoline

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FRANÇOIS GARAGNON, nato a Neuilly, in Francia, nel 1957, vive sulle rive del lago di Annecy. È autore di una ventina di opere, tutte caratterizzate da un’assidua ricerca dei valori spirituali. Nel 1984 ha fondato la casa editrice Monte-Cristo Éditions. Il suo best seller Giada e quei benedetti misteri della vita, tradotto in molte lingue, è pubblicato in Italia da Paoline Editoriale Libri (20042), come pure il recente Segreto d’amore (2008).

JO Y E L A RIC ERC A DELLA FELICITà

J OY E LA RICERCA DELLA FELICITÀ

Franç o is G aragno n

La ricerca della felicità non è più cosa da filosofi greci. Sagamore, per esempio, giovane un po’ svagato originario di non si sa bene quale lontano paese, è venuto a cercare la felicità nella grande città. Qui tutto lo stupisce, a cominciare dal fatto che la gente non si stupisce più di nulla. Nella sua ricerca, Sagamore incontra Joy, una ragazzina dal nome quanto mai opportuno, che gli fa da guida con mistico entusiasmo, « come se l’infinito fosse entrato per sbaglio dentro di lei ». Joy è un torrente di vita, e si diverte a provocare benevolmente in tutti quelli che incontra un « sussulto dell’essere », una sferzata che li scuota dal torpore. Con l’incoraggiamento di questa musa in calzini bianchi, la ricerca di Sagamore prende i toni di una storia ricca di colpi di scena, altalenante come i volteggi della gioia nei destini umani: presenza vulnerabile ma duratura, sempre attesa e sempre minacciata, vezzeggiata e incompresa, pronta ad abbandonare i suoi territori per poi tornare con tutta la sua vitalità proprio quando si pensava di averla perduta per sempre.

FRANÇOIS GARAGNON

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Parigi, Quartiere Latino. Nel cortile di Rohan si incrociano i destini di personaggi quanto meno singolari, come Sagamore, che dorme su un albero; Joël, che non si separa mai (salvo imprevisti…) dal suo organetto diatonico; Tommaso, bello e spavaldo, con qualche segreto; Maria Amata, la libraia che riceve lettere da uno sconosciuto; Nabil, studente di filosofia con un fisico da body-guard; fra Teofane, che lascia messaggi su una lavagnetta nera… E poi c’è lei: Joy, una ragazzina appena dodicenne, curiosa, impertinente, che a volte ha la saggezza di un centenario, a volte sembra nata la sera prima per la disarmante ingenuità delle sue uscite. Tutti sono alla ricerca di qualcosa che non saprebbero definire con precisione, ma che li coinvolge nel profondo. Cercano forse la felicità? In una sorta di simposio rinascimentale, l’« allegra brigata » si ritrova intorno a una tavola imbandita a discutere: che cos’è la felicità? e dove si trova? Ma le parole, sebbene necessarie, non bastano. In una memorabile festa sulle colline toscane, abbacinati dalla bellezza dei luoghi e pervasi da un sentimento mistico che concilia i contrari – il fuoco dell’azione con quello della meditazione, l’entusiasmo dionisiaco con la serenità della contemplazione –, Joy e i suoi amici sperimentano la Gioia perfetta. Vivere ogni istante con l’entusiasmo dell’infanzia e la perseveranza della maturità: in fin dei conti, l’arte di vivere sta tutta qui.


Titolo originale dell’opera: Joy et la divine quête du bonheur © François Garagnon & Éditions Monte-Cristo, 2006 48, rue des Marquisats, Annecy Traduzione dal francese di Anna Venuta

PAOLINE Editoriale Libri © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2008 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it edlibri.mi@paoline.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino

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FRANÇOIS GARAGNON

JOY

E LA RICERCA DELLA FELICITÀ

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A Jouchka, che ha il cuore abbastanza ricco di virtù per far risuonare la musica della felicità nella piccola vita di ogni giorno. Ai miei quattro figli, perché, nell’instabilità del mondo, il loro cuore resti saldo là dove si trovano le vere gioie. A tutti coloro che cercano di conciliare con passione il desiderio della felicità e il senso del dovere e sanno che le sole cose che contano sono quelle che non possono essere contate.

Io cerco l’infanzia del mondo, dove si riesce a giocare con quasi niente, dove quasi tutto è grazia. François Garagnon

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Le due gioie C’è la gioia che viene da fuori e quella che viene da dentro. Vorrei che entrambe ti appartenessero. Che riempissero le ore della tua giornata e i giorni della tua vita; perché, quando si incontrano e si uniscono, risuona un canto tanto allegro che né quello dell’allodola né quello dell’usignolo lo possono eguagliare. Se dovessi scegliere per te, sceglierei la gioia che viene da dentro. Perché la gioia che viene da fuori è come il sole che sorge al mattino e che la sera tramonta. Come l’arcobaleno che appare e scompare. Come il caldo d’estate che viene e poi se ne va. Come il vento che soffia e poi passa. Come il fuoco che brucia e poi si spegne... Troppo effimera, troppo fuggevole... Amo le gioie che vengono da fuori, non ne rinnego alcuna. Tutte sono entrate nella mia vita quando era necessario... Ma ho bisogno di qualcosa che duri, di qualcosa che non abbia fine, che non possa finire.

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E la gioia che viene da dentro non può finire. È come un fiume che scorre tranquillo, sempre uguale, sempre presente. È come la roccia, come il cielo e la terra che non possono cambiare né svanire. La ritrovo nelle ore di silenzio, nei momenti di abbandono. Il suo canto mi raggiunge attraverso la tristezza e la fatica; non mi ha mai lasciato. È Dio, è il canto di Dio che risuona dentro di me, la forza tranquilla che governa gli universi e che guida l’uomo e che non ha fine, e che non può finire. C’è la gioia che viene da fuori e quella che viene da dentro. Vorrei che entrambe ti appartenessero. Che riempissero le ore della tua giornata e i giorni della tua vita; ma se una sola dovesse appartenerti, se dovessi scegliere per te, sceglierei la gioia che viene da dentro. Lézard [Nota biografica. - Si sa poco dell’autore de Le due gioie, poesia diventata un classico negli ambienti scout in Svizzera a partire dagli anni ’50 e tradotta, insieme ad altre, in diverse lingue. Dietro il soprannome Lézard (Lucertola), un’esiliata russa di madre moscovita e padre svizzero, arrivata nella Svizzera romancia all’età di nove anni e che, dopo il diploma, fece diversi lavori prima di diventare bibliotecaria all’Istituto di botanica. Si avvicinò al movimento delle Éclaireuses (associazione laica dello scoutismo francese, fondata nel 1911 - ndt) cui si dedicò con continuità per tredici anni prima di consacrarsi alla trasmissione dei valori nell’ambito della propria famiglia. I suoi scritti si trovano ne Il libro di Lézard, pubblicato da Nuova Editrice Fiordaliso, Roma 1993. Era stata associata alla lucertola perché era attratta sia dal calore del sole sia da quello delle relazioni umane e perché se ne stava sempre un po’ in disparte per meglio contemplare il mondo e la natura e cantare le meraviglie della creazione.]

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1.

L’uomo che dormiva sugli alberi Una piccola piuma bianca caduta dal cielo disegnò un armonioso arabesco in mezzo al cortile, come se un angelo avesse posto la sua firma sulla bellezza dell’alba per attirarvi il favore della Provvidenza. Il campanile di Saint Germain sembrò scegliere quel momento per far risuonare l’angelus del mattino. Nel cortile deserto, si sentiva soltanto uno schiocco sordo e irregolare, come se qualcuno si colpisse il palmo con mano incerta: una ragazzina si allenava a saltare su un piede solo da Terra a Cielo, lanciando un sassolino ovale nelle caselle di una campana schizzata col gesso sul terreno. La piccola piuma sfiorò la guancia della ragazzina, sembrò esitare per un momento sulla direzione da prendere e finì per appollaiarsi instabile sulla sua spalla, come in un tentativo maldestro di trovarvi rifugio. Sorpresa e incantata allo stesso tempo, la ragazzina si immobilizzò su un piede, prese la piuma con infinita delicatezza, come avrebbe fatto con una farfalla, e andò a sedersi su una panchina, immersa nella contemplazione della piccola piuma delicata e facendone scorrere la parte lanuginosa sul dorso della mano. Uno strano fruscio, leggero e insistente a un tempo, la distolse dalla sua fantasticheria. La ragazzina tese l’orecchio e si avvicinò 11

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curiosa al luogo da cui il silenzio usciva tutto stropicciato. Scrutò innanzitutto il cielo prima di gettare lo sguardo a indagare la chioma di un grande castagno. Tra il fogliame, a una certa distanza dal suolo, dondolava quello che inizialmente prese per un paracadute e che si rivelò essere nient’altro che un’amaca dalla quale cercava di uscire un passeggero della notte un tantino scarmigliato e ancora abbastanza impigliato nelle maglie del sonno, come si capiva dai suoi gesti approssimativi e disordinati. «Beh, che strano uccello!», non poté impedirsi di dire ad alta voce la ragazzina mettendo le mani sui fianchi e gonfiando il petto, come la guardia di un giardinetto pubblico che scopre l’infrazione di una regola. Così apostrofato, il proprietario dell’amaca si sporse dal bordo, poi, dopo aver cercato di far cessare una pericolosa oscillazione, offrì un ampio sorriso alla ragazzina di Parigi comparsa alla chetichella sotto l’albero che egli aveva eletto a domicilio per la notte. Liberatosi dalla stoffa, scese a precipizio dal suo nido ruzzolando di ramo in ramo con la sorprendente velocità di una scimmia in uno zoo. Aveva passato la notte su quel poco confortevole castagno, alle porte del cortile di Rohan, oasi di silenzio nel cuore del Quartiere Latino. Una volta a terra, si diede una scrollata, tolse la polvere dai vestiti per migliorare il proprio aspetto, tirò fuori da una tasca un pezzo di feltro schiacciato come una frittella cui diede, con qualche pugno e qualche energica manata, la forma approssimativa di un cappello. Se lo appoggiò comicamente in cima alla chioma disordinata, per il piacere di toglierselo in una divertente pantomima da giovane paggio, con la gamba destra tesa in avanti e la mano sinistra dietro la schiena. Una galanteria antiquata per rendere omaggio alla principessa che egli pensava incarnasse la ragazzi12

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na dai calzini bianchi, la quale osservava con un piccolo sorriso sbalordito quella scena così teatrale di cui era l’unica ed estasiata spettatrice. «Che specie di uccello sei?», chiese lei sfacciata. «Credo di non averne mai visto uno che ti assomigli!» «Perbacco, è normale! Sono quello che si potrebbe definire un uccello migratore. Vengo da molto lontano, da un paese dove ci sono più alberi e più silenzio che qui, credimi! Ho fatto una fatica terribile a trovare un castagno di queste dimensioni, ma questo è molto bello e siamo subito diventati amici». «Allora sei un esploratore! Ti piace viaggiare?» «Forse sì, forse no, non ne sono sicuro. Viaggiare è una ricchezza, ma anche una complicazione. Si scopre il gran mondo, quindi ci si guadagna. Ma si lascia il proprio piccolo mondo, quindi ci si perde». «Lasciare il proprio piccolo mondo? Vuoi dire il primo cerchio, quello più vicino al tuo centro? Allora, non è un bene. Non bisogna mai allontanarsi da se stessi. Fa male!» Fece una smorfia imbronciata, prima di aggiungere con un’insistenza velata di esitazione: «E... che cosa senti nel cuore quando ti addormenti? Lode o dolore? Qual è il canto che senti?». A mo’ di risposta, egli frugò nelle tasche e tirò fuori un flauto in legno chiaro, molto semplice e molto bello. Cominciò a suonare un’aria nostalgica, simile a un canto d’esilio, sempre con un sorriso leggero sulle labbra. Si sarebbe detto che non riuscisse a separarsi da quel sorriso pieno di fossette. Anche nei momenti più seri. «Che bello!», disse la piccola. «Allora, se ho ben capito, tu non canti, ti lasci in-cantare! Voglio dire che risvegli dentro di te qualcosa che canta, è così?» 13

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« Ben detto! Sì, sì! È esattamente così! », disse il giovane con gioia improvvisa. « Non sono io che canto, è qualcosa che canta dentro di me, e io uso questo piccolo pezzo di legno coi buchi per farlo uscire in musica...» «È bella, la tua piccola musica interiore! Hai sofferto molto?» «Perché me lo domandi?», chiese lui serio e un po’ sconcertato. «Non lo so... Ho l’impressione che... più si conosce il vuoto, più si respira la pienezza!» «La pienezza?» «Sì, sai: quando si riesce a sentire davvero il gusto delle cose e tutto acquista un senso, tutto! Anche la sofferenza!» «Allora, tutto questo ha qualcosa a che vedere con la felicità? Capita proprio a proposito! Ho fatto tutta questa strada per trovarla!» «Che cosa, la felicità?» «Oh-oooh! È una storia molto lunga, sai. Proprio prima di arrivare qui, figurati che ero nel deserto... Ma lasciami un po’ il tempo di atterrare, va bene?»

L’uccello migratore si prese il tempo necessario per lavarsi alla fontana in pietra che abbelliva un angolo del cortile ed emise un profondo sospiro di contentezza scoprendo i primi raggi di sole strofinare il pavimento. Si mise a far giravolte sul primo spazio spazzato dalla luce del mattino, come avrebbe fatto un ballerino sotto il fascio di luce rotondo proiettato sulla scena. Poi cominciò a camminare a fianco della buffa ragazzina che giocava a campana alle sette del 14

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mattino e che si raccontava storie carezzandosi sognante il dorso della mano con la piuma di una tortora. Sbucarono attraverso un portico in boulevard Saint-Germain, e si mescolarono al flusso precipitoso dei parigini lanciati a tutta velocità verso il loro luogo di lavoro. «Ti va di fare una colazione di silenzio con me?», chiese la ragazzina. «Tu parli in modo strano. Cioè, voglio dire: non come la gente di qui! Sembra che tu faccia un sacco di misteri...» «È perché sono straniera!» «Straniera?» «Ebbene sì! Straniera al mondo, a tutto questo...», disse lei alzando le spalle e indicando con un gesto distratto tutta l’agitazione che li circondava. E tu, sei un monaco, un pastore? O forse un poeta?» « Io sono Sagamore. Incantato, come hai detto tu prima! E ho l’impressione di non essere altro che me stesso!» «Sagamore? È il tuo vero nome? È davvero molto bello! Suona come un clan di cavalieri su un campo di battaglia! Allora, sei un cavaliere eroico, un incantatore di stelle, un operaio del paradiso... insomma, una cosa del genere, no?» «Ah, ah, ah! Hai ragione: sicuramente qualcosa del genere!» «E poi, innanzitutto, che cosa ci fai sugli alberi? Vivi d’aria, sistemi le nuvole che non sono venute bene, o cosa?» «Perché ci tieni tanto a sapere da dove vengo e chi sono?» «Perché si vede bene che non sei di qui! Hai uno sguardo assetato. Mi fai pensare a un piccolo uccello sperduto che si sporge sul bordo della fontana per bere, quando non c’è più nessuno... Vieni con me. Ti porterò alla Casa del silenzio che parla. Vedrai: è proprio il posto giusto per quelli che hanno sete».

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2.

La Casa del silenzio che parla La ragazzina portò Sagamore in una grande chiesa quasi del tutto deserta. Il giovane rimase molto impressionato. In tutta la sua vita non era mai entrato in un luogo così alto, in cui ogni passo riecheggiava e la luce entrava da finestre altissime e meravigliosamente colorate. «È molto bello qui», disse ammirato. « È Cielo & Co! », rispose la piccola. « Insomma, solitamente, questo luogo viene chiamato chiesa...» «Ma perché», si azzardò a chiedere lui, «perché il soffitto è così alto e pieno di curve, e tutto stellato come un cielo la notte?» «È proprio», gli sussurrò la ragazzina, «per far risuonare il silenzio!» «... Allora è questo, il silenzio che parla! È l’eco della tua voce!» « Stai scherzando? Non è mica per ripetere le sciocchezze di quelli che chiacchierano, è davvero il silenzio che parla!» «Ah, ah, ah! Sei proprio strana, tu! E come farebbe a parlare il silenzio, perché a dire il vero...» «Nella lingua dei monaci, si chiama lectio divina!» «Perché, tu sei una monaca?», chiese Sagamore. «Un pochino! Allora, ti spiego: vedi, questo è il grande libro sacro. E la lectio divina vuol dire che vieni qui con il cuore spalancato, 16

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apri questo libro a caso, e lasci che la Parola raggiunga la tua anima. Bisogna aspettare di essere completamente riempiti dal silenzio: allora ti senti vibrare, ed esso suona sulle corde dell’anima. Per dar vita alla piccola musica interiore. In quel momento, le parole che scopri sono esattamente la risposta alle domande che ti poni... o persino che ti sei dimenticato di porti. Non è male, no? In più, funziona tutte le volte!... Infine, talvolta, non arriva la risposta vera e propria. Solo una scaletta che ti aiuta a superare il muro delle tue domande. È la stessa cosa: dopo, continui il tuo cammino tranquillo, sereno, perché hai potuto gustare la ricchezza della parola. Somiglia a una passeggiata nel bosco: un’atmosfera misteriosa, e più ti avventuri nel profondo, più hai la possibilità di scoprire una sorgente di acqua pura. Ma attenzione: invece di cercare di avere l’ultima parola, è meglio cercare di aprirsi al primissimo silenzio! Immagina di essere in pieno inverno e che, aprendo questa porta – la porta del silenzio –, si sbuchi direttamente in primavera! Beh, è esattamente così che funziona! Invece di parlare a vanvera, lasci parlare il silenzio nel profondo dentro di te. E ti lasci guidare, ecco! E non sarai mai più solo, te lo garantisco, mai più! È come una vocina interiore: se non fai silenzio dentro di te, non la puoi sentire... Ecco: lei è il silenzio che parla». «Una voce di bambina come la tua?» «Se vuoi! Ma comunque meno chiacchierona!» «Dimmi, chi è l’uomo raffigurato laggiù, su quelle due assi incrociate?» «Uno della mia famiglia!» «Come della tua famiglia?! Sembra morto, no?» «Un pochino, ma non è vero per niente. Infatti è il Maestro del silenzio che parla. Passa il tempo a infondere eternità in piccoli pez17

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zetti di istante che, se dipendesse da noi, con ogni probabilità verrebbero abbandonati. Ma fortunatamente dipende da ben altro! Forte, non trovi?» Sapeva di essere in presenza di un grande mistero e abbassò gli occhi, cercando una scorciatoia per portare il suo interlocutore alla meta che si era prefissa. «Talvolta basta una semplice parola. Una piccolissima parola da niente. Una goccia d’acqua su un seme, e qualcosa esce dal nulla per aggiungersi al grande tutto della vita. “Io” non era nemmeno una parola. Era un silenzio. Ma non un silenzio qualsiasi! Un silenzio come non l’avevo mai sentito, che dà veramente la voglia di essere vivi, e anche di più: di essere pazzi d’amore! E il tuo amore folle qual è? » Sagamore continuava a contemplare la croce con aria un po’ smarrita. La ragazzina lo guardò con lo sguardo preoccupato di una madre per il proprio figlio troppo ingenuo. Gli si avvicinò, e riprese in tono confidenziale: «Non hai l’aria ben informata. Sai: non bisogna fidarsi delle apparenze. Quando uscirai di nuovo per strada, vedrai gente di ogni genere correre in tutte le direzioni, con l’aria molto occupata eccetera eccetera. Beh, spesso fanno finta di vivere, ma non è affatto vero... Si danno delle arie, ma in realtà sono come bambini sperduti: non sanno davvero né dove vanno né chi sono. Stanno al di fuori». «Come puoi dire cose simili?!» «È facile: se stessero dentro, smetterebbero di correre, non credi? Sai, io faccio collezione di risposte. È molto divertente, perché fai sempre la stessa domanda, ma non ricevi mai la stessa risposta. Ma alla fine credo che cambierò collezione!» «La tua collezione di risposte è già completa?» 18

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«No, appunto. È impossibile, perché in realtà, dietro ogni risposta, c’è un’ombra: l’ombra della domanda successiva. È senza fine, capisci? La nuova collezione che farò sarà una collezione di sorrisi. In questo caso è sicuro, non ci sono ombre; solo luce. Mi è capitato una volta per strada, così: mi sono resa conto che, dietro ai volti chiusi, ci sono cuori che chiedono soltanto di aprirsi. E un sorriso è come una porta che si apre. Improvvisamente, ho trovato il mondo talmente magnifico che ho sorriso alla prima persona che ho incontrato. Ebbene, sai cosa? Anche lei mi ha sorriso. E il mondo è diventato ancora più magnifico! Allora ho continuato a sorridere a un altro sconosciuto, poi a un altro, e a un altro ancora. E ogni volta era come se mettessi la spina e accendessi una nuova piccola luce. Avevo l’impressione, continuando così, di poter illuminare il mondo intero, a tutti i livelli! In quei momenti, sento un amore folle che mi attraversa come una dolce violenza». «Che bello, una collezione di sorrisi! Ma dove li tieni, tutti questi pezzi da collezione?» «Ma nel mio cuore, perbacco! Conosci forse un altro posto, tu? Ogni volta che mi viene rivolto un sorriso, esso batte le ali dentro di me, mi sento ricca e bella come una distesa di grano in piena estate, corteggiata dai papaveri, dai grilli e dall’azzurro! E poi, è terribilmente utile, come collezione! Perché, se prendi un raffreddore, ti devi curare; mentre, se ricevi un sorriso e te ne prendi cura, beh, è un vaccino contro il cattivo umore. E per fortuna, perché il cattivo umore è un virus terribile che si propaga a gran velocità, e che fa nascere ogni genere di malattia. Finisce per uccidere la capacità di meravigliarsi: se non hai più luce nello sguardo, è come se non avessi più vita». « Aspetta, che cosa significa di preciso prendersi cura di un sorriso? » 19

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«Vuol dire che, quando ti viene rivolto, lo accogli. Lo accogli come un amico. E sorridi a tua volta per ringraziare! Così si crea un cerchio perfetto, e il mondo, quando lo tocchi, risuona come un cristallo! È un suono talmente puro che il minimo soffio è come una carezza di gioia...» «Ma guarda un po’! Parli come qualcuno che ha vissuto molto!» «Ma io ho vissuto molto! Cioè, non in anni, ma in quantità di amore. Tutto quello che vivo lo vivo molto intensamente e ciò ha un’eco molto forte dentro di me!» «Si direbbe che sei molto più saggia degli adulti!» «Ah, no! Io non ho voglia di diventare adulta! A che cosa serve essere grandi, se non si è nessuno? Io preferisco essere un piccolo qualcuno!... Ti dirò: ho proprio voglia di essere viva. Mi piacerebbe proprio che potesse essere il mio mestiere! Sai, un adulto chiede sempre in che classe sei. Io sono un po’ sfacciata, e gli rigiro la domanda: “E tu, in che speranza sei?”. Perché la vera scuola superiore è la speranza, no? Solo che ecco: l’adulto razionale continua a dire che ha altro da fare, ed è veramente molto difficile fargli capire che può essere qualcun altro. La speranza: è la questione più importante, non credi?» «Scusami, ma non sono sicuro di capire perfettamente tutto quello che mi dici. Parli una lingua antica o moderna?» « Se non conosci qual è la tua speranza, a che cosa serve andare avanti? Non puoi andare molto lontano! È strano, la gente ha paura di perdere la testa. Ma non ha mai paura di perdere il cuore, quando invece il pericolo è soprattutto questo... Ascolta, cercherò di spiegarti. La gente si dà un gran da fare per essere sempre pronta, per poter decidere su tutto, per non lasciarsi sopraffare. Risultato? La loro energia, a furia di essere spesa, finisce in un attimo. Allora 20

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FRANÇOIS GARAGNON, nato a Neuilly, in Francia, nel 1957, vive sulle rive del lago di Annecy. È autore di una ventina di opere, tutte caratterizzate da un’assidua ricerca dei valori spirituali. Nel 1984 ha fondato la casa editrice Monte-Cristo Éditions. Il suo best seller Giada e quei benedetti misteri della vita, tradotto in molte lingue, è pubblicato in Italia da Paoline Editoriale Libri (20042), come pure il recente Segreto d’amore (2008).

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La ricerca della felicità non è più cosa da filosofi greci. Sagamore, per esempio, giovane un po’ svagato originario di non si sa bene quale lontano paese, è venuto a cercare la felicità nella grande città. Qui tutto lo stupisce, a cominciare dal fatto che la gente non si stupisce più di nulla. Nella sua ricerca, Sagamore incontra Joy, una ragazzina dal nome quanto mai opportuno, che gli fa da guida con mistico entusiasmo, « come se l’infinito fosse entrato per sbaglio dentro di lei ». Joy è un torrente di vita, e si diverte a provocare benevolmente in tutti quelli che incontra un « sussulto dell’essere », una sferzata che li scuota dal torpore. Con l’incoraggiamento di questa musa in calzini bianchi, la ricerca di Sagamore prende i toni di una storia ricca di colpi di scena, altalenante come i volteggi della gioia nei destini umani: presenza vulnerabile ma duratura, sempre attesa e sempre minacciata, vezzeggiata e incompresa, pronta ad abbandonare i suoi territori per poi tornare con tutta la sua vitalità proprio quando si pensava di averla perduta per sempre.

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Parigi, Quartiere Latino. Nel cortile di Rohan si incrociano i destini di personaggi quanto meno singolari, come Sagamore, che dorme su un albero; Joël, che non si separa mai (salvo imprevisti…) dal suo organetto diatonico; Tommaso, bello e spavaldo, con qualche segreto; Maria Amata, la libraia che riceve lettere da uno sconosciuto; Nabil, studente di filosofia con un fisico da body-guard; fra Teofane, che lascia messaggi su una lavagnetta nera… E poi c’è lei: Joy, una ragazzina appena dodicenne, curiosa, impertinente, che a volte ha la saggezza di un centenario, a volte sembra nata la sera prima per la disarmante ingenuità delle sue uscite. Tutti sono alla ricerca di qualcosa che non saprebbero definire con precisione, ma che li coinvolge nel profondo. Cercano forse la felicità? In una sorta di simposio rinascimentale, l’« allegra brigata » si ritrova intorno a una tavola imbandita a discutere: che cos’è la felicità? e dove si trova? Ma le parole, sebbene necessarie, non bastano. In una memorabile festa sulle colline toscane, abbacinati dalla bellezza dei luoghi e pervasi da un sentimento mistico che concilia i contrari – il fuoco dell’azione con quello della meditazione, l’entusiasmo dionisiaco con la serenità della contemplazione –, Joy e i suoi amici sperimentano la Gioia perfetta. Vivere ogni istante con l’entusiasmo dell’infanzia e la perseveranza della maturità: in fin dei conti, l’arte di vivere sta tutta qui.

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