Orlando n 4

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Orlando esplorazioni

AUTUNNO 2013

PUNTI DI VISTA/1

di GIORGIO BIFERALI

Sostiene Calvino ( per lettera) E

ra il 3 dicembre 1947 e Torino aveva già fatto da un po’ il cambio di stagione, sostiene Calvino, che cercava di nascondere la sua condizione di apolide. In un romanzo, scriveva a Fortini, la poesia è “una cosa che si deve scoprire e conquistare a fatica, senza paura d’infangarsi”. Pochi mesi dopo, Venezia veniva bagnata da un agosto paradossale. Picasso confermava la sua grandezza e Carrà si candidava a divenire l’unico pittore italiano del Novecento, sostiene Calvino, distratto ad ammirare due svizzere: una per “trasporto dell’anima”, l’altra per “cupidigia della carne”. Destinava alla Morante le sue confessioni peccaminose, e lei le accudiva senza alcuna traccia di moralismo. Il 27 agosto 1950, Pavese si toglieva la vita. “S’era portato dietro questo suicidio fin da ragazzo”, sostiene Calvino, soffocato dai rimorsi per non aver insegnato all’amico “il mestiere

di vivere”. Quest’assenza, forse, non faceva che aumentare la “laconicità” della sua persona, sostiene Calvino. Laconico a priori, replicava a Rea, “migliore d’ogni espansione incontrollata e ingannevole”. Come Pereira, Calvino “rifletteva sulla morte”, e le aveva trovato un rimedio, facendosi deus ex machina dei classici, come autore e come editore. Libri come I ventitré giorni della città di Alba (1952), Il mare non bagna Napoli (1953), La cognizione del dolore (1963), andavano pubblicati, sostiene Calvino. I motivi? Fenoglio per la sua “moralità tutta implicita”, Ortese per aver scritto un libro bellissimo, Gadda per la sua modernità classica e universale. Il discorso letterario, però, da solo non bastava alla sopravvivenza della specie. Aveva ragione Sanguineti quando parlava di artificio, di una dimensione temporale fittizia. Mai dimenticare la realtà, sostiene Calvino. Ecco perché

era giusto tarpare le ali del misticismo pasoliniano, perduto nella sacralità dell’atavico e incapace di cogliere l’essenza di Gramsci. Con uno come Pasolini, scriveva all’amico Manganelli, “l’unica è fare come se non esistesse”. La borghesia non andava combattuta solamente a parole, sostiene Calvino, ad un convegno dei lavoratori FIAT, con la ferma convinzione che la democrazia sarebbe stata un “nome vuoto” se non avesse avuto “la sua prima attuazione nei luoghi di lavoro”. Nonostante la scrittura, l’impegno, la partecipazione, il tempo, con la sua “nuvola d’oblio”, non era affatto un nemico facile. Vivere come una corsa, per poi scoprire di non avere più il “fiato” giovanile degli esordi. “La vita letteraria – sostiene Calvino – è come la vita militare. Finché si è giovani si può sopportare, con le sue soddisfazioni e insoddisfazioni. Ma non va prolungata per

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tutta la vita: viene l’ora di chiedere il congedo.” Il divenire affrontato con la solita serenità tempestosa, con la luna piena dei suoi occhi, il viso che ospitava un’ombra di barba e la fronte da pensatore, le sue giacche grigie e i suoi maglioni al passato remoto. “Ognuno è fatto di ciò che ha vissuto e del modo in cui l’ha vissuto”, sostiene Palomar, e quindi Calvino, che viveva gli ultimi anni al confine tra l’eternità e l’ipotesi di un mondo “senza di lui”. Avrebbe dovuto scrivere l’introduzione all’America di Kafka, in uscita nel febbraio ’86. Soprattutto, avrebbe voluto tenere le sue “lezioni americane” all’Università Harvard nell’anno accademico 19851986. Desideri incompiuti, la parabola del romanzo aperto. D’altronde, “un classico è un libro che non ha mai finito quel che ha da dire.” Sostiene Calvino.

di ANGELA GALLORO

Cominciare e finire C

ominciare e finire sarebbe stata una delle Norton lectures che attendevano il nostro Calvino ad Harvard durante l’anno accademico 1985-86.

Direttamente dallo scrittoio dell’autore, pubblicati dalla moglie Esther, questi appunti relativi alla lezione di apertura costituiscono un ampio volo pindarico sulla letteratura mondiale attraverso gli inizi e i finali, da Cervantes a Proust, da Defoe a Dickens. Se «l’inizio è il momento di distacco dalla molteplicità dei possibili», quale migliore occasione per augurare un nuovo buon compleanno all’autore se non celebrare i suoi incipit e i suoi finali, sulla base di una delle proposte per il nuovo millennio?

giorno... Qui, però, la tradizione che prende le mosse da Robinson Crusoe (I was born in the year 1632, in the city of York...) liquida in modo sbrigativo le coordinate spaziotemporali per entrare nel mezzo dell’episodio che interessa Calvino: Cosimo disse: - Ho detto che non voglio e non voglio! - e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave. Nel caso degli altri due antenati, Medardo di Terralba e Agilulfo, a Calvino non interessa nessuna epica o impresa eroica, ma sfaldare i confini tra bene e male, e la guerra può costituire la circostanza perfetta: basta dare uno sguardo all’incipit de “Il visconte dimezzato” (C’era una guerra contro i turchi...) e a quello de “Il cavaliere inesistente” (Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’esercito di Francia [...] era un pomeriggio di prima estate...).

Gran parte della molteplicità del mondo narrato si trova nelle prime battute dei suoi romanzi. Di quegli inizi indistinti che hanno origine con Cervantes (“In un borgo della Mancha, di cui non voglio ricordarmi il nome...”) fa parte l’attacco di Palomar: Chi Dall’ora di pranzo dei marchesi di Rondò, è il signor Palomar che questo libro insegue al pomeriggio di battaglia, si passa all’alba. lungo gli itinerari delle sue giornate? Audace la sveglia dello scrutatore, in piedi “Le cosmicomiche” iniziano col collegare dalle 5 e mezza per far da protagonista a un il movimento degli astri all’incespicare di lungo racconto di una sola giornata. Bastequello umano: una luce di burro, un ombrello rebbe solo l’incipit a racchiuderla tutta, per portato dal vento, litigare con la terra, sono i più arguti lettori: Amerigo Ormea uscì di immagini a noi familiari. Qfwfq urla alla casa alle cinque e mezzo del mattino. La giornata luna prima ancora che il romanzo sia iniziato, si in medias res: Lo so bene! – esclamò il vecchio annunciava piovosa. Per raggiungere il seggio Qfwfq, – voi non ve ne potete ricordare ma io elettorale dov’era scrutatore, Amerigo seguiva sì. L’avevamo sempre addosso, la Luna, smisuun percorso di vie strette e arcuate, ricoperte rata... ancora di vecchi selciati, lungo muri di case Più storici, invece, gli incipit de “I nostri povere, certo fittamente abitate ma prive, in antenati” che, per loro stessa natura, ne- quell’alba domenicale, di qualsiasi segno di cessitano di maggiore precisione tempora- vita. Amerigo, non pratico del quartiere, decifrava le. i nomi delle vie sulle piastre annerite - nomi La troviamo nella storia del baroncino che forse di dimenticati benefattori - inclinando di passa la sua vita sui rami: Fu il 15 di giugno lato l’ombrello e alzando il viso allo sgrondare del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio della pioggia. C’è tutto quel che serve: nome, fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a cognome, condizioni atmosferiche. C’è il noi. Ricordo come fosse oggi [...] Era mezzo- male, la povertà, e poi il bene, l’ombra dei

benefattori sui nomi delle vie, piove sui poveri e sui ricchi. Potrebbe finire qui la trama dell’intero romanzo. Tra gli incipit che tengono fuori il cosmo, e quelli che lo ripiegano in così tante parti da poterlo osservare, “Le città invisibili” rispecchiano assolutamente l’idea del narrare di Calvino, come contrapposizione tra memoria e oblio. È infatti un caso se la prima è Diomira, luogo in cui chi vi arriva una sera di settembre [...] gli viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici, mentre la seconda è Isidora, dove si vede passare il tempo della vita, e i desideri sono già ricordi? Una storia esiste finché viene raccontata, finché qualcuno la ricorda, oppure la degradabile natura delle cose sfugge anche al potere conservativo della memoria? È un po’ la riflessione che chiude “Palomar”, che potremmo definire come un romanzo in cui il significato è dislocato nel finale piuttosto che nell’incipit: “Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, - pensa Palomar, - e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine”. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore. Passando proprio ai finali, la differenza tra la vita che si vive e quella che si racconta trova la sua via di mezzo nell’explicit de “Il Visconte dimezzato”, in cui il narratore, nipote delle due metà di Medardo è incollato a questo nostro mondo pieno di responsabilità e di fuochi fatui, pieno di vergogna per l’abitudine di raccontarsi storie. Ma la vera protagonista di molti finali, secondo una tradizione donchisciottesca che Calvino predilige, è proprio la narrazione, spesso personificata dalla penna. Lo chiarisce benissimo Suor Teodora, la narratrice de “Il

cavaliere inesistente”. La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c’è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli del libro. [...] Il capitolo che attacchi e non sai ancora quale storia racconterà è come l’angolo che svolterai uscendo dal convento e non sai se ti metterà a faccia con un drago, uno stuolo barbaresco, un’isola incantata, un nuovo amore. Infinite possibilità, ancora. Che si esprimono con il tempo che passa inesorabile e che rende quasi futile anche raccontare, quasi un avvertimento sul fittizio: Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita dice Biagio Piovasco di Rondò a proposito del luogo della sua storia. Punto di arrivo di questo scacchiere non può non essere, a conti fatti, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, l’opera in cui Calvino si trasforma in un giocoliere bonario e malvagio insieme che esaspera chi legge con addirittura dieci incipit ma nessun finale. «Il problema di non finire una storia è questo. Comunque essa finisca, qualsiasi sia il momento in cui decidiamo che la storia può considerarsi finita, ci accorgiamo che non è verso quel punto che portava l’azione del raccontare, che quello che conta è altrove, è ciò che è avvenuto prima», scrive negli appunti. Se è il percorso che conta, e non il traguardo, la morale della grande favola calviniana è che un vero finale non è ancora stato scritto e che probabilmente non lo sarà mai. Per questo, Calvino è un autore vivo e senza confini, la cui esperienza letteraria si incrocia ancora con la nostra. E “ancora” è un tempo senza inizio e fine.

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