
5 minute read
Roberto Milan, Il banana
from Opera Nuova 2015-1
Roberto Milan
Il banana
eaio era scivolato da piccolo su di una buccia di banana, andando a sbattere la testa contro il duro marciapiede di granito.
Ciò non gli aveva impedito di crescere forte e robusto e di andare anche a scuola come tutti i suoi coetanei. Ma quando riuscì a completare le otto classi obbligatorie aveva ormai raggiunto i vent'anni.
In paese lo conoscevano tutti per le sue matte stravaganze e sapevano di lui vita e miracoli. Lo compativano come di chi ha dovuto subire una grossa disgrazia, ma i ragazzini, saputa la storia, con quell'innocente cattiveria mista a verità che hanno solo i bambini, avevano incominciato a prenderlo in giro soprannominandolo « il Banana ».
I suoi genitori, persone non prive d'intelligenza, erano molto rattristati di tutto ciò e si vergognavano per il loro Caio cercando con ogni pretesto di tenerlo in casa, lontano dalla pubblica opinione e dalla derisione altrui.
Caio però era un bastardo di uno che riusciva sempre a scappare di casa. Girava attorno con una vecchia e robusta bicicletta militare ridipinta di rosso: quando era fuori tutto, incominciava a far versi con la bocca imitando il rombo delle potenti motociclette da corsa che aveva avuto l'occasione di vedere e sentire correre ad un Gran Premio di Monza. Da allora gli era presa la mania della moto ed aveva persino applicato un rudimentale aggeggio di cartone e di plastica al telaio della bicicletta che, sbattendo contro i raggi della ruota, imitava i rumori del motore e ciò gli pareva una cosa straordinaria.
Si poteva incontrarlo spesso, abbarbicato sulla sua rossa bicicletta, correre scatenato a testa bassa seguito e circondato da un nugolo di ragazzi di un bel po' più giovani di lui. Si trovava bene Caio con i ragazzini e loro con lui. Li superava tutti in altezza e anche in robustezza e rideva, rideva di niente, con una risata forte e cavernosa che metteva allegria.
Era un buono e non avrebbe alzato un dito nemmeno per uccidere una mosca ma, se c'era da proteggere qualche suo piccolo amico, allora lasciava andare sonore sberle e vibrava vigorosi pugni da sgangherare le mascelle del malcapitato per un paio di settimane. Sembrava un orso e si dimenava come un forsennato ridendo contento di menar botte per difendere un amico.
Per i suoi genitori era un castigo venuto da Dio e si vergognavano persino di farsi vedere in giro o di sorridere di qualcosa che li faceva sorridere. Non andavano mai al cinema o in villeggiatura e si privavano di tutto per questo loro unico figlio sfortunato.
Questo in paese si sapeva e diverse associazioni, tramite il parroco o il dottore, cercavano discretamente di aiutarli concretamente e di infondere in loro la forza della rassegnazione, ma era fatica sprecata.
Caio non era affatto stupido, anzi la sua intelligenza era spesso vivace ed attenta, ma gli mancava quel qualcosa per renderla organica e costante. Era come se vivesse in un batuffolo di cotone ben protetto dall'esterno. Non si rendeva conto del suo stato e i quotidiani assillanti problemi dell'umanità non erano i suoi: a suo modo era felice.
La passione per la bicicletta tornava puntualmente con l'arrivo della primavera. Ogni ragazzino ne sognava una nuova da corsa ma si accontentava anche di quella vecchia del babbo per andare a correre dalle parti del Gas o lungo la passeggiata verso Novazzano, Stabia e Ligornetto.
Si organizzavano fra di loro, stabilendo il calendario delle gare e i circuiti da percorrere, scegliendo i cronometristi e i giudici di gara.
Quell'anno la prima corsa e cronometro fu vinta da Pippo, lungo e magro come un palo.
Caio non aveva partecipato: aveva fatto il giudice d'arrivo con Edo, il cronometrista ufficiale, figlio di un orologiaio con il retro del negozio affacciato sul loro cortile.
La prima domenica di maggio si corse la grande gara, la classica: il giro di Stabia e Ligornetto con arrivo sul rettilineo del Gas.

Gli iscritti erano trenta ma sullo striscione di partenza se ne presentarono solo ventiquattro.
Questa volta correva anche Caio ed era uno dei favoriti. Indossava una maglia nuova, rossa fiammante, con la scritta " Velo Club Bianchi " sulla schiena.
La partenza fu data alle tre in punto. Tutti avevano preparato un piano di battaglia ma Caio correva così per correre, col sorriso sulle labbra.
Benché il sole faticasse a farsi vedere fra le nubi la giornata era calda e afosa. Sulla salita di Novazzano Caio era già in testa seguito a ruota da Pippo il longilineo e da quel tracagnotto di Marcello. Gli altri seguivano sparsi in fila indiana aspettando il momento più propizio per operare lo scatto decisivo.
Caio era irresistibile. Raggomitolato sulla sua rossa bici era ormai solo e procedeva impassibile a testa bassa. Avevano superato Novazzano e si stavano dirigendo verso Genestrerio. Pippo e Marcello si davano il cambio a tirare e, degli altri, solo Mario era riuscito a staccarsi dal gruppo.
A Geneslrerio erano di nuovo tutti insieme. Caio, sentendosi solo e non impegnato, aveva rallentato il ritmo e si era lasciato riassorbire. Ora procedevano tranquilli verso Stabia. Qualche auto li sorpassava strombazzando. Il sole decise finalmente di farsi vedere disperdendo le nubi intorno a sé. Carletto, il giudice di gara, pedalava con un certo affanno sulla sua nuova bicicletta gialla da corsa.
Dopo Stabia Peo operò un allungo rabbioso passando al comando con ben duecento metri di vantaggio ma Caio si lanciò subito all'inseguimento e la corsa si riaccese.
A Ligornetto, dove entrarono a gran velocità, Caio era di nuovo in testa e Peo, avendo dato tutto in quell'allungo cercava disperato e ansante di stargli a ruota ma lo si vedeva sudare come una fontanella ormai spompato e in difficoltà.
Sembravano un'unica cosa la bici e Caio curvo su di essa con le braccia larghe sul manubrio. Ormai solo correva fluido e sorridente verso il traguardo con la vittoria in tasca.

Ma sulla curva per Coldrerio perse l'equilibrio e sbandò tutto a sinistra. Il camion proveniente da quella parte tentò una disperata e cigolante frenata.
Al funerale di Caio c'erano tutti i ragazzini del paese e nessuno avrebbe mai pensato che potessero essere così tanti.
