Opera Nuova 2013-2

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Opera Nuova Rivista internazionale di scritture e scrittori


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È vietata ogni riproduzione non esplicitamente autorizzata, anche parziale ed effettuata con qualsiasi mezzo. Tutti i diritti sono riservati. <O O p era Nuova ISSN 1663-2982 ISBN 978-88-96992-11-1


Raffaella Castagnola e Luca Cignetti Direzione

Andrea Afribo (Università di Padova), Prisca Agustoni (Università Juiz de Fora), Raffaella Castagnola (Università di Zurigo), Luca Cignetti (DFA SUPSI, Locarno), Dario Como (Università del Piemonte Orientale), Massimo Gezzi (Università di Bema), Gilberto Isella, Boris Janner, Paolo Orvieto (Università di Firenze), Matteo Viale (Università di Padova), Irene Weber Henking (Centre de Traduction Littéraire, Università di Losanna), Luca Zuliani (Università di Padova) Comitato scientifico e di redazione

A garanzia della qualità di ogni fascicolo tutti i contributi vengono sottoposti al giudizio di due revisori esterni (,blind referees•J

Edizioni Opera .\11ova - L11ga110


Opera Nuova ringrazia per il sostegno:

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MIGROS percento culturale

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Città di Lugano


Indice Sommario

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Opere Nuove Vincenzo Pezzella, Poesie di Transito «Vincenzo Pezzella e le Poesie di Transito», di P. Magi Poesie di Transito

Sei racconti inediti in omaggio alla fisarmonica «Bella ciao. Introduzione», di D. dell'Agnola Un no bugiardo, di Maria Rosaria Valentini

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Toro, di Vincenzo Todisco

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La fisannonica, di Flavio Stroppini

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La febbre di Lavinia, di Daniele Dell'Agnola

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Gli or/anelli di Samarcanda, di Geny Mottis

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Se gli affari van male, di Tommaso Soldini

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Ariadifìaba

2012

«La terza edizione di Ariadifiaba», di F. Badiali

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La principessa sgangherata, di Nadia Meli

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Silvestro e i pianti di Zina, di Denise Storni

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Storia di un sassolino che voleva diventare artista, di Laura Sarotto

56

Chi la fa ... l'aspetti!, Allievi 5B di Probello, Mo. Mauro Tantardinie allievi della SI di Bozzoreda, Ma. Roberta Udabotti 60

Fabio Andina, La pozza dell'Anselmo

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Profili Omaggio a Amleto Pedroli «A un anno dalla scomparsa. Ricordando Amleto Pedroli», gli ''Amici del m eraviglioso"

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Amleto Pedroli, Inediti

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(Re)versi Claire Genoux, Poesie da L'heure apprivoisée e da Saisons du corps, tradotte da P. Agustoni

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SOMMARIO



Il numero 8 di Opera Nuova si apre con la raccolta Poesie di Transito di Vincenzo Pezzella. Come osserva nella sua introduzione P. Magi, il tema di queste poesie è il viaggio, «un tema che in letteratura ha radici lunghe, robuste e antiche, dall'Odissea di Omero al Viaggio di Baudelaire, ai Canti Orfici di Campana, all'Ulisse di Joyce». Seguono i racconti di Omaggio alla fisarmonica, una raccolta di testi di Maria Rosaria Valentini, Vincenzo Todisco, Flavio Stroppini, Daniele Dell'Agnola,Gerry Mottis e Tommaso Soldini; i testi premiati nella edizione del concorso Ariadifiaba 2012 e la sezione iniziale del romanzo La pozza dell'Anselmo di F. Andina. La sezione Profili è dedicata ad Amleto Pedroli, ad un anno dalla scomparsa, con il ricordo degli "amici del meraviglioso" e con la pubblicazione di alcuni inediti. Il numero si chiude con la sezione (Re)versi, che ospita una selezione di poesie di Claire Genoux, tratte da L'heure apprivoisée, tradotte da Prisca Agustoni.



OPERE NUOVE

Vincenzo Pezzella

Poesie in Transito Omaggio alla fisarmonica racconti di Maria Rosaria Valentini, Vincenzo Todisco, Flavio Stroppini, Daniele Dell'Agnola,

Gerry Mottis, Tommaso Soldini

Ariadifìaba 2012


notizia

Vincenzo Pezzella esordisce negli anni Ottanta come paroliere di canzoni jazz, e negli anni Novanta (1994-1999) compone il corpo principale della sua opera poetica, le PoesiediTransito. Nel 2000 scrive un libretto d'opera originale, Metrònivasci, musicato da Antonio Scarano. Realizza videoritratti di poeti, che inserisce in una collana editoriale della Viennepierre da lui stesso ideata e curata, sia dal punto di vista letterario che grafico: Voci e Luoghi in dvd. Nel 2002 crea l'Archivio Dedalus, e al suo interno sviluppa esperienze quali la rassegna annuale di video sui poeti Videoverbant, la pubblicazione periodica Fogliodedalus, fino ad arrivare alla nascita di una piccola casa editrice, le Edizioni Archivio Dedalus. Oltre ai due volumi di poesia, nel 201 0 ha pubblicato La vita sorpresa, catalogo delle opere video sui poeti italiani, e Living C armina, progetto di poesia per Expo 2015.

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Vincenzo Pezzella e le Poesie di Transito di P. Magi

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l tema delle Poesie di Transito è il viaggio. Un tema che in letteratura ha radici lunghe, robuste e antiche, dall'Odissea di Omero al Viaggio di Baudelaire, ai Canti Orfici di Campana, all'Ulisse di Joyce. La poesia di Pezzella contiene tracce significative di queste grandi "avventure" letterarie; ma nei suoi testi il viaggio è prima di tutto l'impronta primordiale della vita umana, fino dalle infinite migrazioni delle origini, dall'Africa all'India alla Cina. L'Occidente ha visto nei commerci e negli spostamenti fra le rive opposte del Mediterraneo, prima, fra le rive opposte dell'Atlantico, poi, la radice e la ricchezza della sua civiltà; oggi il tema del viaggio come avventura migratoria si ripropone nelle metropoli dell'occidente con i grandi fenomeni di immigrazione che stanno rapidamente cambiando il volto e il tessuto umano delle nostre città. Vincenzo Pezzella ritrova ed esprime nelle sue poesie queste antiche e nuove radici, che per lui coincidono anche con la dimensione temporale del viaggio dell'umanità, dai primi albori dell'ominide Lucy alla contemporaneità dell'uomo metropolitano, e le connette al lungo viaggio della conoscenza nel continuo commercio delle idee, che nella sua poetica è simboleggiato dal ciclotrone, acceleratore di particelle atomiche e subatomiche così come le linee della metropolitana e delle autostrade sono acceleratori delle "particelle" umane. Il viaggio di Pezzella non può, coerentemente, che snodarsi lungo la via dei linguaggi, inglobando ai suoi temi poetici la tecnologia della scrittura, il suo remoto e fortissimo connubio con l'immagine. Vincenzo Pezzella è poeta ma nasce come artista visivo, e, come tale, eredita attivamente tutto quello che le esperienze delle arti visive di avanguardia hanno lasciato: in particolare, la tendenza ad allargare e dilatare il proprio raggio di azione, includendo ambiti espressivi differenti, e riportandoli sotto il segno della propria progettualità. Soffermiamoci un momento sulla natura di questi scritti. Le poesie sono state composte e stampate in una prima tiratura "istantanea", usando le macchine selfcard per realizzare cartoncini da visita e da invito collocate, in quegli anni, in tutte le stazioni ferroviarie, metrò, autogrill, con i caratteri e i limiti grafici che

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P. MAG II

esse imponevano. I testi delle poesie di transito vengono riprodotti così come sono stati stampati nei cartoncini originali: nascono come scritture-immagini, la loro natura è duplice e integrata, impossibile scindere i due aspetti senza snaturarli. Presentiamo qui una piccola rosa di testi, tratti dalle Poesie di transito e dedicati al te ma della migrazione. Il passare del tempo si imprime sull'immagine dell'orizzonte che si tramuta in parola, in PoesiaditransitoExSud. "Quando ricorderò quest'orizzonte / di parola innamorata": a quel "quando ricorderò" sembra appendersi un punto di domanda, che non era materialmente possibile digitare perché le macchine selfcard non lo prevedevano, come molti altri segni di punteggiatura. "Qui o altrove in altri campi l'immigrato exsud / solo nel sole raccoglie pomodori": l'immigrato sembra, a prima vista, una delle mille figurine del paesaggio, ma ecco che Pezzella si avvicina, con una tecnica da zoom cinematografico. e ci mostra un dettaglio, il walkman all'orecchio e la schiena nuda di quest'uomo di cui ci rimane solo la solitudine di un'immagine e una nota finale di silenzio, "oggi senza più canto", che apparenta e oppone quell'uomo-contadino ai contadini del passato e al loro cantare a tempo con i gesti del raccolto, perduti ormai nella solitudine dell'auricolare. In Poesiaditransito/ Atan invece il protagonista è un mendicante, un altro condannato all'eterno viaggiare in cerca di un obolo: "un po' di spiccioli per cortesia ... / abbiate CUORE... " . Come sempre, in queste poesie, una figura umana appare e si imprime nella memoria, ma non vie ne giudicata: anche questo mendicante è uno di noi, un emblema mobile dell'avventura umana. In Poesiaditransito / Tè il tema del Mediterraneo colora di aromi esotici il mercatino dell'usato (che ora non esiste più) di Via Lorenzini a Milano: "... naviga il mio viaggiotelematicoAlaser tra minareti e sinagoghe dove crocicchi di scambi nascono tra donne velate e bambini in un NUOVOMEDITERRANEO". L'immigrazione ha il volto delle donne che si prostituiscono nei vicoli di Genova, in Poesiaditransito / GenovaCasbaH. Anche il loro viaggiare, anche il loro sostare fumando sulla soglia, per il poeta si apparenta al viaggio di Campana, "ilpoetasoltario ..orfìco I portofranco d'amore ... è una casbah dell'a nima questo labirinto di odori magrebini": ogni avventura umana, nelle sue miserie e nei suoi sogni, è simile e degna di amore, ogni traccia dell'uomo apre una via alla visione poetico-profetica. In PoesiaditransitoBabele ai "crocicchi di frontiera" di Roma Te rmini i peruviani che "scambianobirra" segnano la chiusura del circuito che va dall'homo sapiens agli shopservice: "shopservicetotipviaggiosapiens suonano ore minareti e sinagoghe...", e le ore che suo-

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VINCENZO l'EZZEL.LA E LE POESIE DI TRANSITO

nano sono il segnale dello spaziotempo, lungo cui si avventura il viaggio della specie umana, senza conoscere la propria meta. E infine l'incontro mai possibile e sempre cercato con la scaturigine della poesia si rivela in Poesiaditransito/(MarradO: "sul Lamone barbadiluce FRISCO" il viaggiatore Pezzella incrocia il fantasma di Campana, "solitario dialogo commosso ti incrocio / eri qui angelodelladesolazione". Fra la vertigine e il dubbio è ancora l'apparire di un venditore ambulante, "tu venditore distelleBossiaKi" che segna la nuova partenza, in un viaggio senza più inizio né fine, in cui "nel morbido confine / delle lingue rotola il tempo nel paesaggio / che tutto fissa": la terra è l'orizzonte e il suolo, matrice e forma ultima del cammino dell'uomo e della lingua stessa.

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V INCENZO PEZZEI.I.A

Poesie di Transito

PoesiaditransitoExSud Quandoricorderòquest'orizzonte di-parolai n namorata-queste-ceneri-senza-storia pasoliniane oltre-i-fuor ist rada-e-le-stat ionwagons-velocisul le-crune-del-Gal loNero-e-toscanequi -o-alt rove-i n-alt ri-campi-l'i mm igrato-exsud solo-nel-sol E-raccoglie-pomodori-tabaccoo-gi rasoli wal k man -al l'orecch io-sch ienanudaoggi-senza-più-Canto cop.15/ 23.8. 97A R-Si / Motel FS Vincenzo Pezzel I A

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POESIE DI TRANSITO

Poesiaditransito/ (Marradi)non-ilgi rasole-sul LAMONE-barbadiluce-FRISCO-ma-riflessecasetremule-toscane-nel la-sch iumabianca-digapietra-sol itariodialogo-com mosso-ti-incrocio..eri-qui-angelodel ladesolazione-per-le-viet urrite-di-gi ro-i n-gi ro-dove-scorre-la-vertigi ne del-cuore-t u-venditore-distel leBossiaK imi-riporti-i I-dubbio-del-giorno-e-i 1-suotra monto-i n-viaPescetti-siedo-ora-sotto-la LapideOrfica-deiCant.i..eCometecol Ii ne-aguzzenel-cielodi Marra di-scivola no-in -fumosenebbie 1

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VINCENZO l'EZZEI.I.A

2 non-è-la-locomotivavaporema-1a-navettapendotareFsv iaggio-ragazzepietrai ndianaal nasoche-sale-su-a-S. Marti noGattaraorti-gomme-e-casolari-nel-morbidoconfinedel le- I i ng ue-rotola-i I-tempo-nelpaesagg ioche-tutto-fissa. cop.15/ 30.1.98 MarradiFaenza/ F.S. Vincenzo PezzellA

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POESIE DI TRANSITO

Poesiaditransito/Té A 1-mercato-dell'usato-in-viaLorenzi n i-va-la-voce-dell'lslA M-nei-suoi-datte ri-e-téverde- già-nelle-città-italiane-e-a-Romate rm in i-asiatici-colorano-nel le-loro-I i ng ue-i-porti ci-tra -spizzico-si ring heservice-preservativi-lott erie-nuovech i meR E .. naviga-il-m io- viaggiotelem aticoAlaser-tra-minareti-e-sinagoghe-dove-croc icchi-di-scambi-nascono-tra-donnevelate-e-bam bini-in-un-NUOVOMEDITERRANEO.. cop.16/ 12.l.97Mi-RomaT. Vincenzo PezzellA

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VINCENZO l'EZZEI.I.A

Poesiaditransito/Atan I n-MMcolli nareFlegrea-in fun iculariauotobus-e-vesuvianeNavette-gi ranozi ngari-pun k -o- tossici..SO.S.su-cartoneraccat tato:Signor i-sono- u ndi so cc upa t oIa -poi i zia -s 'é- presa-la-mia-mercea mbulant ee-io-stòfa cendo-lacol letta-per-non-perderela -giornat a-ho-unabambi na-di-6mesi.. un-po' -dispicciol i-percortesia .. abbiate-CUOR E .. cop.15/ 28.3.97FerroviaC.Napoli

Vincenzo PezzellA

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POESIE DI TRANSITO

PoesiaditransitoBabele

Sagomavagante-nerocodino-nei-crocicèhidi-frontiera-chioscostazioneRomaTerminiselciati-serasostaATAC peruvianiscambianobirra in- un- nuovoCapitale/shopservicetotipviaggiosapienssuonano-oreminareti-e-sinagoghe.. cop.15/17.1.96/FS Vincenzo PezzellA

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V INCENZO l'EZZEI.I.A

PoesiadiTransito/ GenovaCasbaH sull'elevata-del-porto-corrono-autogabbiani metal Iici-qui-dove-i 1-mare-m i-porta-neicarrugiputtan ieri-di-viaPré ..fumanoragazze senegalesi-cape! Iisti rati-labbraviola-e-nel lecorse-ridonobambi n i-furbi ignari-del lanottè azzurra-i n-cui -salpò-ilpoetasol itario..orficoportofrancoD' amore ..é- una-casba h Del l'animaq uest o-1abi ri nto-di-odori magrebini-e-fari natee-NuoveUrban ità .. cop.l 5F.S.Pri ncipel4.2. 97 Vincenzo PezzellA

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«Bella ciao». Introduzione di Daniele Dell'Agnola*

«

La

fisarmonica mi ricorda le feste dell'Unità. Nient'altro!» Così urlò nel telefono un radioascoltatore malinconico, con un accento romagnolo al sapore di vino, intervenendo tra un brano e l'altro, durante un concerto trasmesso in diretta su Radiorai. Ospiti, quattro fisarmonicisti quotati, docenti nei conservatori e concertisti, che avevano appena eseguito Bach, Rossini e Piazzolla. Era il Quartetto Hans Brehme e correva l'autunno del 2008. Mi piace immaginare quel tizio, mentre appende il telefono cantando 'Bella ciao...'. «Chissenefrega della fisarmonica», protestò Katya, il primo amore delle medie, stufa di Loris, aggiungendo: «Una chitarra elettrica come quelli normali no eh?» Fu così che Katya se ne andò con il chitarrista, mentre Loris precipitò nella crisi, lui e le sue ore trascorse a studiare le scale sulla nuova Bugari bassi sciolti che papà gli aveva appena regalato. 'Bella ciao...' avrà suonato Loris, quella sera. Per noi, gente comune, spesso è difficile pensare alla fisarmonica, se non associandola alla musica popolare: intendiamoci, anche in quel caso si aprono strade di ricerca meravigliose che superano ogni luogo comune! Tuttavia, suonare una Suite francese di Bach con una fisarmonica, per taluni è un insulto, per altri una simpatica trovata. Come se la fisarmonica non avesse dignità: «Certo, Bach lo puoi anche fischiettare sotto la doccia, ma è quel che è ...» mi scrisse un conoscente che si sentiva persona di vasta cultura. E il jazz? Il jazz è tromba, è nero, è sax, è sporco, è campi e lavoro, è Stati Uniti e Mississippi e Africa. Il jazz è quella roba che non capisci la melodia. La fisarmonica c'entra, ma se pensiamo al jazz, nell'immaginario collettivo non è presente. 'Bella ciao...' La fisarmonica in realtà ha partecipato a tutti questi mondi, vive nel canto politico, ondeggia nel jazz, è strumento insegnato nei conservatori, è sperimentazione, è canto popolare, è un meccanismo complesso, con un'architettura elaborata. Aprite una fisarmonica, osservandone le 'interiora': a prima vista è un gran caos. Il fascino dei bottoni da pre• Scrittore, presidente del Circolo cultura di Biasca. O PERE NUOVE • 23


DANI ELE DEI.L'A GNOI.A

mere e gustare, l'aria che passa e permette al suono di emanarsi grazie al controllo del mantice, i registri che la nutrono...c'è qualcosa di cupo, di brillante, c'è un cassonetto dove le note sono racchiuse, oppure può esplodere uno scintillio che fa venire in mente Parigi. 'Bella ciao...'

Il progetto con le due serate

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l direttore artistico di Musibiasca, Domenico Ceresa e il responsabile di Bibliomedia Svizzera Orazio Dotta sono promotori culturali molto attivi e collaborano da anni con il Circolo cultura di Biasca. L'occasione di avere come ospite, nell'ambito della rassegna Jazz a Primavera, Richard Galliano, è data dall'impegno organizzativo di Domenico, che ha saputo cogliere un'opportunità. Il Circolo cultura Biasca ha lavorato in favore di questo evento e ha chiesto a Bibliomedia di organizzare una serata con sei autori svizzeri di lingua italiana che, per l'occasione, avrebbero scritto sei racconti in omaggio alla fisarmonica. Musica e scrittura dialogano grazie ai testi di Maria Rosaria Valentini, Vincenzo Todisco, Flavio Stroppini, Tommaso Soldini, Gerry Mottis e Daniele Dell'Agnola, letti dall'attrice Margherita Coldesina e da Alessandro Tini, il 6 giugno 2012, due giorni prima dell'evento principale: 8 giugno, chiesa di San Pietro, Biasca. In questa serata si è deciso di dare l'opportunità al giovanissimo allievo biaschese, Tiziano Tatti, allievo di Luisa Beffa, di misurarsi con il pubblico, eseguendo alcuni brani, intercalando la musica alle letture. È inte ressante osservare come questo invito tematico abbia portato gli autori a leggere attraverso la propria voce un angolo di mondo, in cui la fisarmonica s'inietta come colonna portante, oppure come commento.

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SEI RACCONTI INEDITI IN OMAGGIO ALI.A FISARMONICA

Un no bugiardo di Maria Rosaria Valentini

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o chiamano bookcrossing: lasci, dove ti capita, un libro che hai letto; lo consegni al destino, lo affidi al caso, lo assegni a volti mai visti. Qualcuno aveva adagiato un racconto di Amandine pe r terra, ai piedi di un platano, una sera d'estate. Vittore era capitato distrattamente da quelle parti: cercava frescura e uno spicchio di pace da ritagliare in mezzo al frastuono di una sagra rionale. Con le spalle si appoggiò al tronco poderoso del vecchio albero; guardò a valle fissando il buio. I suoi amici si sarebbero di certo seccati se fosse tornato in albergo. Pazientò, allora, cercando appigli sensati per rimanere, per partecipare, ma quella vacanza non sembrava azzeccata per lui. Si voltò ancora verso la folla, sperando di individuare ragioni per evitare di fare la solita figura da scorbutico. Inavvertitamente, con il piede destro calpestò qualcosa; si chinò e scopri un piccolo libro dalla copertina rossa: Profilo di Maddalena, di Amandine Velo. «Velo? Mai sentita nominare!» Con un gesto rapido cacciò il libro in una tasca. Non era sicuro di leggerlo, ma non aveva cuore di lasciarlo per terra. Poi tornò al bar a bere, a fumare con gli altri tentando di governare la noia. Ma quando dalla piazza annunciarono la lotteria, Vittore si accorse di aver superato i limiti della sopportazione così, alzandosi, virò verso l'albergo senza salutare nessuno. Si addormentò vestito, buttandosi sul letto. Era stata sua madre a fargli scoprire la fisarmonica, a guidare le sue infantili dita sui tasti, invitandolo a carezzare la madreperla, a spiare l'aria che gonfiava quel ventre. Si chiamava Alma - sua madre - e rendeva onore al nome che portava, chiusa com'era dentro le passioni. Faceva la cantante nei night ed era innamorata della propria voce e di quella che la vita le soffiava addosso. Vittore era cresciuto al suo fianco, senza farsi troppe domande sul domani. Con il tempo la fisarmonica per lui era diventata pane dei giorni; Alma, però, aveva avuto fretta di morire. Per questo Vittore si nutriva solo di musica, di malinconie, di sogni. Il mattino seguente, davanti allo specchio del bagno, Vittore si scopri pallido. Apri il rubinetto, infilò la testa sotto l'acqua fredda, ci rimase

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M .R. VAI.ENTIN I, V . T OOISCO , F. STROPPIN I, G. M OTTIS, T. SOLDINI, D. D ELl:A GNOI .A

per un po', Poi si ritrasse e scosse forte il capo come fanno i cani quando ve ngono fuori da una pozza; gli schizzi arrivarono ovunque. A occhi chiusi annaspò alla ricerca di un asciugamano, non trovandone strusciò le mani ai bordi della sahariana di lino avvertendo qualcosa nella tasca destra, Aveva dimenticato. Così ritrovò il libriccino dell'ignota Amandine Velo, Urinò, scaricò, ripassò velocemente le mani sotto l'acqua, usci sul balconcino, si calò su una seggiolina di plastica e cominciò a leggere. Da subito scopri alfabeti da capogiro, una cicala si unì alla recita danzante di quell'inchiostro, Vittore si sentì perso, irrimediabilmente smarrito dentro parole che non erano sue e di cui tuttavia si riconosceva avido proprietario, Quelle pagine gli sfondarono il petto andando oltre. Allora, dopo lunghe assenze, sentì la vita di nuovo respirare, E avvertì il gusto della meraviglia, La fisarmonica - sentinella vigile - e ra al suo fianco, Fu un giorno di caffè neri, ingoiati uno dopo l'altro, senza mangiare, sfidando il mal di stomaco, mandando al diavo lo gli amici, la spiaggia, il mare, A sera, a libro finito, non ci pensò due volte e, ,, Con internet il gioco è facile. Fu un clic senza esitazioni, !'e-mail scivolò rapida verso la destinazione. Poi venne il te mpo dell'attesa, ma anche del timore. Avrebbe risposto? E se sì, quando? Aspettare non è facile, non è da tutti. Amandine era avvolta nel suo quotidiano, piazzata da ore alla scrivania; guardò !'e-mail distrattamente, non le attribuì importanza e andò avanti a scrivere dimenticandosene, Le orchidee accanto alla sua stampante continuavano a fiorire e a stupire per la loro bellezza quasi fatta di carne, Le ore trascorsero, per lei, senza inganni, Ma il mattino successivo nella posta elettronica comparve ancora un lungo messaggio di Vittore. Amandine lo lesse: una volta, due, tre e poi di nuovo. Contò le sillabe, le parole, le frasi, sostò sulla punteggiatura. Che fare? Avrebbe potuto cercare informazioni in rete per meglio comprendere chi fosse il mittente, ma non aveva tempo da perdere: la storia che stava scrivendo reclamava un seguito. Pensò, allora, di declinare subito gli inviti di quel fisarmonicista sconosciuto, per evitare altre inutili distrazioni. Vittore, dunque, non ricevette conside razioni di accoglienza eppure

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SEI RACCONTI INEDITI I N OMAGGIO ALI.A FISARMONIC A

interpretò quella risposta come un dono insperato e credette di dover ritentare. Intanto interruppe la vacanza, piantò gli amici in asso e se ne tornò a casa, a Roma. Lì cercò tutti gli scritti di quella donna che lo aveva turbato lungo un filo sottile fatto unicamente di parole. Quando le altre pagine della signora Velo fecero ingresso nelle chiazze dei suoi pensieri l'uomo si sentì bastonato, divorato, risucchiato da tanto vigore. E si scoprì ubriaco come non mai. E si fece ancora vivo con l'inventrice di quello stupore. Amandine lesse l'insistente messaggio, poi spense il computer. Rimase a lungo immobile seduta davanti alle carte, agli appunti, visitando fragilità nascoste, annidate dentro le abitudini. La vecchia gatta captò quel disorientamento e con un salto preciso finì sulle sue ginocchia a diffondere calore. Dopo un certo affannoso divagare Amandine si mosse optando per le pulizie: aveva bisogno di gesti concreti che la riconciliassero con la realtà. Ma realtà è anche tutto quello che ci cuciamo dentro, nelle balze del silenzio. Non ci fu verso di mangiare nelle fessure del giorno e neppure ci fu verso di dormire negli spigoli della notte. Allora non le restò altro che avviare il computer per tornare a rispondere. Dopo un breve scambio di e-mail passarono al telefono. Quello di Amandine fu un pronto timido, soffiato. Vittore, invece, sembrava sicuro, allegro. Disse: «Sono contento che tu venga. Non hai nulla da temere, fidati. Ti aspetto con un'ansia che non so spiegare. Vengo a prenderti in stazione, sarò alla testa del treno, va bene?» Amandine rispose. «Sì, va bene, ma ci riconosceremo?» Ci fu una breve pausa, quasi impercettibile, poi fu Vittore a parlare: «Non puoi sbagliare, avrò la fisarmonica con me.» Il giorno dopo si trovarono facilmente. Lei sussurò: «Ma cosa mi fai fare?» Lui rispose: «Non preoccuparti, non pensare troppo, abbandonati al presente; dai, affrettati. Ho da dirti tanto. Ma senti, come mai porti questo nome?» «Mio padre era fissato con la Francia e con le francesi, penso mi abbia chiamato così per non dimenticare una donna conosciuta prima di mia madre.»

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M .R. VA LENTIN I, V. TODISCO, F. STROl'PI NI, G. MOTTIS, T. SOLDINI, D. DEl.l: AGNOLA

Vittore rise. Camminarono brevemente nella folla. Si fermarono davanti a un portone, lui impugnò un mazzo di chiavi. Amandine si irrigidì, disse: «Ma questo non è un bar!» «No, non lo è. È casa mia, ma non spaventarti! Ragiona! Non posso certo pronunciare in un caffè tutto quello che ho voglia di raccontarti. Non va, sei d'accordo?» La donna si sentì un po' stupida, ingenua, se non addirittura folle; stava per alzare i tacchi, quando irrimediabilmente si accorse di essere già dentro l'appartamento di Vittore. Pochi metri quadrati: un divanetto blu, le pareti tinteggiate di un rosa salmone, un tavolo bianco, libri e spartiti un po' dovunque. Si tolsero i cappotti; lei individuò un disinfettante per le mani e l'usò subito, senza chiedere consenso. Lui, invece, si infilò nell'angusto cucinino per dividere una mela verde in quattro quarti e un mandarino in spicchi. «Bene, che dire Amandine? Io non sono pazzo. Credo che tu sia mia, che mi appartenga. Insomma, le tue parole sono mie, sono le stesse che io faccio sprigionare dalle lame che vibrano nel mantice della mia fisarmonica, sono come le ance del mio cuore. È colpa delle tue parole, capisci? Mia madre mi ha insegnato ad amare l'azzardo e così ti ho cercata, chiamata, voluta qui, ora. Penso francamente di non aver sbagliato. La tua voce è un intaglio dentro di me. Ho bisogno di averti accanto, toccarti piano. Io che sono colmo di difetti mi sento dinanzi a te perfetto. No, non dire nulla. Resta in silenzio, per favore.» Poi afferrò la fisarmonica. Fu un'Ave Maria. Amandine seppur composta e vestita si sentì nuda. E ammise di essere proprietà intima di Vittore. E avrebbe voluto cedere a quel generoso abbraccio della vita. Per una fragile porzione di tempo dimenticò il mondo; avrebbe davvero voluto mangiare quell'amore spuntato dal nulla. Poi soffocando l'incanto disse: «Non me la sento.» Vittore suonava ancora, ma a quel punto si fermò. «Amami per un giorno soltanto!» Amandine rispose con un pallido no. Fu un no bugiardo. N el pronunciarlo infilò le dita in un barattolo di vetro e ne estrasse quattro semi di zucca da triturare in mezzo ai denti.

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SEI RACCONTI INEDITI IN OMAGGIO ALI.A FISARMON ICA

Lui si era avvicinato ancora di più, si era seduto al suo fianco e la guardava con una fame che - sapeva - non si sarebbe estinta. Le disse: «Rimarrai nelle guglie del mio silenzio, negli echi del mio respiro. E ti vedrò oltre i sigilli delle ore, bella come l'orlo di un abito in broccato, come una Maddalena, come una bianca sposa la notte di Natale.» E le afferrò le mani: parevano velluto, mussola, trina. Fu un istante. Istanti come que lli si vorrebbe non finissero mai. Forse una lacrima avrebbe trovato spazio, onore e forza tra quelle parole. Forse. Ma lei non pianse. Tirò su con il naso e allungò lo sguardo verso l'orologio a muro. Sussurrò: «È tardi. Troppo tardi per dirti sì.» Il tempo talvolta non sorride agli amanti. Quando si alzò per andare via, chiusa nella rinuncia come in un fodero pupale, Vittore fissò i suoi orecchini, si concentrò solo su quelli perché non voleva vederla scomparire nelle corde di un vertiginoso addio. Da allora, ogni mattina, mentre si pettina e riordina i capelli sulla fronte, Amandine p ensa alle acute mani di Vittore c h e si posano sulla

fisarmonica. E tutte le sere Vittore, prima di entrare nel letto, pensa alle labbra di Amandine, mentre le dita guizzano sui bottoni della fisarmonica; infine chiude gli occhi e ancora suona, in muti ventricoli, solo per sé. Forse.

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SEI RACCONTI I NEDITI IN OM AGGIO ALLA FISARMON ICA

Toro di Vincenzo Todisco

essuno sapeva dove diavolo avesse imparato a suonare la fisarmonica. Il fatto era che non aveva imparato. La sapeva suonare e basta. E dire che era rozzo e incolto, aveva piccole mani rugose, unghie tumefatte, non sapeva scrivere e quando parlava non riusciva a mettere due frasi una dopo l'altra che stessero in piedi. Ma suonare, suonava da Dio. E non erano canzoni sentite alla radio o prese dai dischi, no, era roba sua, chissà da dove la tirava fuori. Le ore al cantiere erano tante e a volte la sera in baracca ci prendeva voglia di ballare. Qualcuno faceva venire le ragazze. Erano belle e conoscevano i titoli dei pezzi che volevano sentire e José ci si metteva di gran lena. C'era Gigi che gli fischiava i motivi. José ascoltava, si vedeva che ce la metteva tutta, attaccava stando dietro a Gigi e per un po' andava anche bene, tanto che i più svelti si prendevano una ragazza e via. Facevano un giro, massimo due, ma poi le mani di José partivano dietro alla musica che andava per conto suo. Riuscivano a stargli dietro per un po', ma a un certo punto la musica diventava così stramba che non c'era più niente da fare. Lo sgridavano, anche di brutto, ma lui rideva con quella bocca sdentata. Ormai era dentro la musica e nessuno riusciva più a tirarlo fuori da lì. Sapevamo che era spagnolo. Lavorava come un mulo e non si lamentava mai. Non sentiva né il freddo né il caldo. Era piccolo e magro. Non riceveva lettere, non appuntava fotografie alla parete sopra la branda. Non usciva, semmai restava al cantiere per finire il lavoro. Per il resto suonava, o lucidava la sua fisarmonica. Era stupenda, enorme. Una Cemex Excelsior del 1949. Non osavamo toccarla. José era così piccolo da sparire dietro il mantice che gli arrivava fin sotto il mento. Era una cosa buffa, quel muratore che suonava. Si vedevano spuntare la testa e le due mani, quella destra sulla tastiera, quella sinistra sulla bottoniera, tra mezzo il mantice che sembrava muoversi da solo. Era come se José facesse all'amore con una donna molto più grande e grossa di lui. Custodiva gelosamente la sua Ce mex. Diceva che gliel'aveva regalata un vecchio zingaro di passaggio al suo paese d'Andalusia. Questo avventuriero aveva inciso il proprio nome sopra la bottoniera: Toro. Si legge va

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bene. José puntava il dito su ogni singola lettera, T-0-R-O. Quando José si metteva a suonare, venivano fuori certe serate di baldoria, ma poi quando attaccava la musica strana ci fermavamo ad ascoltare e se c'erano ancora le ragazze succedeva che si mettessero a piangere e non volevano tornare a casa da sole. Quando la festa si faceva troppo vivace, passava il padrone con i baffi ben curati a dirci di smetterla. Minacciava di licenziarci e mandava via le ragazze. Io a quei tempi avevo poco più di vent'anni e con le ragazze ero impacciato. La musica di José mi metteva tristezza e non avevo voglia di ballare. La domenica pomeriggio José si appartava per pulire la Cemex. Le parlava sottovoce, con un fare pazie nte. Aveva un modo di guardarla che mi faceva tene rezza. Si lasciava andare a gesti automatici, come se fosse assente. Mi sedevo accanto a lui. Con me parlava. Mi ricordava mio padre, morto in un incidente sul lavoro. Stavano rimettendo a posto una strada in montagna. Pioveva. Venne giù una frana che travolse mio padre trascinandolo nel fiume che se lo portò via. Non lo trovarono più. lo per questo e ro dovuto partire a cercare lavoro all'estero. Mio padre aveva sempre detto che io avrei dovuto fare un altro lavoro. Voleva che studiassi e non mi sporcassi le mani. José mi ricordava anche altre cose di casa mia. Toccava la fisarmonica con la cautela che avevo visto a mia madre quando con gli aghi stretti tra i denti prendeva le misure dei vestiti. Per ritrovare questi ricordi, la domenica, quando gli altri operai uscivano, io preferivo rimanere in baracca insieme a José. Qualche volta suonava, solo per me, musica silenziosa, un filo sottile di singole note modellate dalla sola mano destra. Un giorno José si fece male al cantiere e dovettero portarlo ali'ospedale. Prima che lo caricassero sull'ambulanza mi disse di guardargli la fisarmonica. Una sera tornammo dal lavoro e la fisarmonica era sparita. C i guardammo negli occhi. Non poteva essere stato nessuno di noi. Andammo dal padrone, ma lui disse che non voleva storie. Girammo un po' per il paese senza un'intenzione precisa, tanto per fare qualcosa. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui José tornò in baracca e non trovò la sua Cemex. Non disse niente, non mi rimproverò. Se ne stava seduto per terra, dondolava la parte superiore del corpo e piangeva. Non parlava, fissava il vuoto, assente in pensieri lontani. Il giorno dopo non andò al lavoro e nemmeno l'altro né l'altro ancora. Ci fissava smarrito. Senza la Cemex del Toro, José si sentiva spaesato e indifeso e di chiamare le ragazze nemmeno

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SEI RACCONTI INEDITI IN O MAGGIO A LLA FISARMONICA

a parlarne. Il padrone venne in baracca e provò a parlargli. Non ci fu verso. Dopo una settimana lo rispedì a casa. Non abbiamo più avuto sue notizie. Mi venne il dubbio che potesse essere stato il padrone a far sparire la Cemex. Mi feci coraggio e andai a parlargli. Lui mi buttò fuori dall'ufficio con un calcio nel sedere. Prima di partire, andai alla discarica dietro al cantiere grande a frugare tra le macerie. Non trovai niente. Ho viaggiato tanto nella mia vita e ogni volta che mi sono imbattuto in una fisarmonica ho sempre teso l'orecchio, ho guardato se fosse una Cemex con l'incisione del Toro. Mi sono chinato sopra ogni musicista di strada seduto sul marciapiede, mi sono alzato in ogni ristorante in cui ai tavoli passava uno con la fisarmonica. Mi sono fermato nei campi zingari a chiedere di una Cemex e di un certo Toro. Non so, è sempre stato come se insieme alla fisarmonica avessi cercato anche mio padre per dirgli che quello era diventato il mio modo di fare un altro lavoro.

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SEI RACCONTI I NEDITI IN OMAGGIO ALLA FISA RMON ICA

La fisarmonica di Flavio Stroppini Una fisarmonica suonava

le storie degli uomini dell'alpe.

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sono sparite sei. - Saranno su, verso la bocchetta d'Erbea. - Impossibile! - Sentenzia sicuro Nestore. - In questo periodo se ne stanno nei pascoli bassi, mica vogliono rischiare la neve, lo avranno capito vedendo le altre due. - Si può sempre andare a controllare. - Io non ce la faccio più a fare fatica. Poi al Caslaccio non c'erano boasce. - E quindi? - Niente boasce niente vacche. - Merda! - Per l'appunto, merda. Il settembre all'alpe Sessaldora non è il colore dell'autunno, l'addormentarsi della natura. Lo sanno bene Nestore e Carlo, che non vedono l'ora di finirla, la maledetta stagione del 1936. Pioggia e persino una neve d'agosto a gelare due vacche scalatrici. - Fanculo alle vacche scalatrici! - Aveva detto Nestore. - Chi glielo fa fare di salire fino a sotto il Pizzo Aspra! Morte le due. Mentre dalla pianura arrivavano notizie dalla Spagna e del colpo di Stato. Se non bastava c'era pure la manzetta dell'Ortelli, fritta da un fulmine a venti metri dalla stalla. Che bisognava vederle tutte le altre vacche: imbizzarrite come torelli nei rodei dei film western. - Certo che bisogna proprio essere un americano per mettere il culo sopra un torello. Chi glielo fa fare? - diceva il Nestore dopo ogni film nella sala della parrocchia. Don Luigi rispondeva che gli americani sono una nazione giovane e devono tenere allenati i muscoli in vista di tutto quello che potrebbe accadere. Nestore mica capiva a cosa si riferisse e all'osteria del Lessy, dopo qualche bicchiere di vino d'uva americana ridacchiava pensando ad alta voce. - E a cosa gli servirà te nere allenati i muscoli del culo? Il culo serve per cagare!

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Poi però s'azzittiva, perché lo sapeva che serviva anche per altro, una volta era stato a Varese. E se la ricordava bene Maddalena. Talmente bene che alle funzioni, quando si parlava della Maddalena Santa, a lui veniva duro. E se capitava quel nome poco prima della comunione lui si metteva in colonna con la mano in tasca. - Meglio sembrare sbruffone che porco! - aveva detto a Carlo, dopo avergli raccontato la storia. - Puttana una, puttana l'altra - aveva sentenziato Carlo, che in chiesa non lo si vedeva mai, che aveva un fazzoletto rosso al collo e diceva d'essere comunista. Nestore trovava che il fazzoletto, più che contraddistinguerlo politicamente gli serviva per levarsi il sudore durante la mungitura, così se ne era fatto dare uno. Il problema è che quando era salito il Pronzini glielo aveva detto chiaro: - Non ce li voglio i comunisti qua! Che poi volete tutte le mie vacche e le regalate ai Respini, che ne hanno due soltanto. Così aveva regalato il fazzoletto al Salvatore, il pastore. Tanto lui non lo vedeva nessuno. Tutto il giorno fuori tra pascolo e boschi e la sera chiuso nella sua cascina a scolpire un Cristo. - Serve per la Croce ai Nàseri. Quella dove hanno impallinato il Franco. Non si può avere una croce con i fori e il sangue. Sembra un tirassegno. E allora scolpisco il Cristo, quando l'ho finito lo mettiamo su e copriamo i buchi. È c he si sbronzava veloce. Come i pellerossa sembrava non possedere enzimi per la digestione dell'alcol. E sul Cristo finivano litri di vino, che ormai il rosso era entrato nel legno e lo aveva colorato. Carlo però un giorno aveva detto di aver letto che i grandi scultori ammorbidivano il legno con dei liquidi, per poterlo lavorare meglio e tutta la storia del vino era diventata come un gesto artistico. Tutti sull'alpe e anche giù, al paese, attendevano il Cristo del Salvatore. - È questo vento, non se ne può più. Il favonio dovrebbe starsene a Nord. Mica scendere anche qua. - Fa impazzire gli animali! - dice Carlo. Che ne avrebbe di cose da raccontare. Prepara discorsi, che vorrebbe tenere al mercato del sabato a Borg , la capitale. Urlare che la terra è di tutti, che gli Ortelli, gli Stroppini, i Mariotti, i Nesurini e gli altri che mettono i draghi o le torri negli stemmi di famiglia dovrebbero solo vergognarsi. Perché se ci fosse qualcosa da mettere su di uno stemma sarebbero dei rastrelli, dei picconi, delle vanghe. Oppure una falce o un martello.

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SEI RACCONT I INEDITI IN OMAGG IO A LI.A FISARMON ICA

- Hai controllato al laghetto? - Ci è salito Salvatore - risponde Carlo. - Cristo! - No! Senza Cristo, mica si fa la Via Crucis, non è religioso. - Dico "Cristot Perché ormai è sempre ubriaco. - È sempre ubriaco, gli serve per scolpire. - Non le vedrà nemmeno se gli stanno davanti al naso, le vacche. - Pensa che pasticcio se le vede riflesse. - Cosa intendi? - Che ne vedrà ventiquattro. - Ventiquattro? - Si! Se sono sei, riflesse sono dodici, se è ubriaco ne vedrà ventiquattro. Con il favonio il cielo è sgombro, l'aria profuma di miele e la gente impazzisce. Qualcuno s'arma e spara all'amante del marito. Anche oltre il confine, così è finita la Maddalena, giù a Varese. A volte gli animali si suicidano. - Giù dalle rocce - racconta Carlo - Lo dicevano al Lessy. - Sobri o ubriachi? - Cambia poco, impazziscono comunque. - Come i Respini col Franco? - Cosa c'entra il Franco? - Erano due capre. Due capre te le fai con quattro forme di formaggio. Valeva la pena ammazzarlo? Perché lo avevano attaccato alla croce del Nàseri il Franco. Poi quattro pallottole. Una in t esta, una al cuore, uno allo stomaco e una sui coglioni. Così per uccidere tutto. Anche il ricordo. - Mica te lo ricordi bene uno a cui gli hanno sparato sui coglioni! diceva N estore - Non puoi ricordatelo come un uomo. - Perché? - rispondeva Carlo - Siamo ancora Uomini noi? È vita questa? Distruggerci la schiena, ogni giorno mungere, cagliare e girare una forma di formaggio in più? E nessuno trovava le sei vacche, nemmeno Salvatore. Lui diceva che forse s'erano annegate. Che era una stagione maledetta. Vacche gelate, vacche fritte e vacche annegate. Pensava fosse un segno per il suo Cristo. Aveva letto che quando si annega i polmoni non si svuotano ma si riempiono di sangue. Per questo doveva imbevere il legno di vino. Era il rosso il colore della redenzione. Altro che il cartello INRI o la corona di spine.

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- In vino veritas no? E tutti aspettavano il Cristo del Salvatore, così da poter coprire i buchi dei pallettoni sulla croce del Nàseri. Sembrava un buon modo per nascondere la storia del Franco, perché a tutti sembrava di sentire ancora il suono dei suoi polmoni che si svuotavano d'aria. Emettevano come delle note, come il mantice di una fisarmonica. Quel soffio s'univa al favonio, suonavano assieme: un urlo. -Affogate. - Come dici Salvatore? - Affogate le vacche. - Al laghetto. - Si, impazzite Nestore. - Come quelli in Spagna - aggiunge Carlo. - Quelli dell'altro Franco. - C'è il Favonio in tutto il mondo... Senti Carlo... - Dimmi. - I polmoni degli annegati si riempiono di sangue, quindi anche quelli delle vacche, pensi che posso usare i polmoni per il mio Cristo? - Di tutte le vacche? - Sì, di tutte e ventiquattro.

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SEI RACCONTI IN EDITI I N OMAGGIO ALLA FISARMONICA

La febbre di Lavinia di Daniele Dell'Agnola avinia osserva Mila che fuma, seduta sul muretto, consumato dalle voci degli innamorati e dai ragazzi della prima F, quelli che l'altra notte hanno organizzato l'incursione notturna tra gli spazi dismessi del vecchio arsenale militare. Imbrattare vetrate, scorazzare come topi di periferia nei locali abbandonati, fare a gara nel confezionare spinelli, battere le mani sui bongos, bere la vodka rubata al distributore di benzina e ascoltare musica che ti porta via. Questo, fanno, quelli della prima F. Mila lo sa. A Lavinia fanno paura. Mila è seria, seducente e spigliata, suona la fisarmonica e porta un tatuaggio con la scritta "sono una fisanarchica". Nessuno la capisce: è intellettuale, femminista, è oltre. Lavinia invece è trasparente, indossa pantaloni banali, cammina nascosta e si sente invisibile. A questa età o sei bianco, o sei nero. E se non ti decidi, non esisti. Ora Mila spiega a Lavinia che il jazz è ambiguo come i padri che abbandonano le figlie. "Il jazz è un parapendio bucato, guidato da Superman. Ovviamente cadi, se non sei Superman" dice. "Invece il pop è un aperitivo alla Paprika, il blues suda, il punk scoreggia, il rap fa come i pop-com. La musica non ha un sapore. Ma tanto non capisci niente di queste cose". E sbuffa. E dondola le gambe picchiettando con i talloni sul muretto. Trucco materico, DR Martens, leggings e calze a righe colorate, chioma nera. Lavinia la spia con imbarazzo, le trema il petto ma prende coraggio: "E il rock è croccante?" fa Lavinia, timorosa. Immediatamente la domanda le pare stupida e inutile. Si sente irrigidire le ginocchia e le tempie. In quel momento gli occhi le cadono sul tatuaggio che Mila svela con malizia sul braccio sinistro, quello che accende le fantasie dei maschi della prima F, tutti concordi sul fatto che Mila non è come tutte le altre. Si dice che Nicolò, spocchioso, con la barba già pungente, abbia invitato Mila al vecchio arsenale, una sera, così. Si mormora che abbia osato dirle una roba tipo voglio baciarti il tatuaggio sul braccio, ma Mila l'avrebbe guardato in un modo ... pare che Nicolò se ne sia andato via senza dire niente. Il tatuaggio, abito eterno, è un mostro con la tastiera di una fisarmonica ricurva (sarebbe la bocca dell'essere) e le fauci sgra-

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nate che vomitano la frase in carattere gotico: "sono una fì.sanarchica". In fondo alla strada si sentono schiamazzare i maschi della scuola. Si stanno avvicinando come pecore. "Bom, io vado, ciao." Mila salta giù dal muretto e corre via. All'amica rimane la sensazione dell'abbandono e l'espressione, nel volto, di un orso péluche. "Però non puoi!" "Come fai a baciarne una così!?" "Una così che cosa?" "Che suona la fisarmonica!" Lavinia riconosce la voce di Nicolò il presuntuoso, poi si gira verso la stradina dov'è scappata Mila e avverte lo straordinario sapore delle farfalle che le volano nello stomaco. Nessuno, in questi mesi di scuola, ha notato Lavinia, così invisibile, de licata, appartata, assente, pensierosa. Ora i ragazzi sono a pochi metri da lei. Ma non la vedono. "Mila ha tutte le robe al posto giusto". E io sono piatta come una tastiera, pensa Lavinia. "E Lavinia?" "Lavinia?" "Lavinia chi?" "C'è una Lavinia, nella nostra classe?" e ridono. Lavinia scappa da lì e cerca di cancellare quello che ha sentito. Arriva a casa. Si sbatte nel letto e sente la febbre salire. Vibra, suda, vuole svanire, chiude gli occhi. Dopo due ore è lì che vaneggia. Sogna Mila nuda che suona la fisanarchica, la doma per lei, mentre Lavinia batte il ritmo, fuori tempo come una sfigata. E si accorge pure che la pelle del tamburello è tagliata, quindi non produce alcun suono. Si sveglia, Lavinia, fradicia, e le viene l'angoscia. A sedici anni non è normale, avere questi pensieri. Di solito i maschi che vogliono conquistare una tipa imparano a suonare la chitarra elettrica, oppure diventano i leader della squadra di calcio o di hockey. E fanno la gara a chi ce l'ha più lungo. Oppure si fumano le canne e camminano con i pantaloni da mosci e la cresta da gallo. Questo con Mila è impensabile. A lei fanno ridere, quelli che fanno quelle robe lì. Il problema è che Lavinia, pur non essendo nulla di tutto ciò, non è nemmeno un maschio. Lavinia ha la febbre e vaneggia tra sonno e veglia.. "Le pecore non bevono acqua corrente." Lavinia suda e borbotta. "I canguri no n camminano all'indietro." Lavinia trema. "Una lesbica che suona Bach con la fisarmonica è contro natura perché la fisarmonica è uno strumento per vecchi." Lavinia apre gli occhi.

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SEI RACCONTI INEDITI IN OM AGGIO A LLA FISARMON IC A

Guarda l'ora, sono le otto di sera e i suoi genitori non sono ancora rientrati. Lavorano fino a tardi. Suona il telefono. Lampeggia un numero. "Ciao, sono io." Lavinia sente un pugno nella testa e nello stomaco: "Ciao". "Vieni al vecchio arsenale con me?" "Ho la febbre" risponde Lavinia. E pensa che questa battuta le è proprio venuta bene. Non le capita spesso, infatti Mila ribatte: "Ti curo io." "Va bene." Lavinia deglutisce. "Ti prendo una coperta. Ti porto una busta di roba forte, schizzocitran ottomila. Funziona da Dio." Lavinia dice di sì e aspetta venti minuti con il cuore che accelera. L'amica la verrà a prendere con la moto. È la prima volta che qualcuno la viene a prendere per uscire. Lavinia si alza, la penombra gira attorno a lei. Indossa due maglioni, una calzamaglia termica, i pantaloni da sci, ha freddo. Prende coraggio, scende le scale. Esce di casa e sente un'aria nemica. Mila la aspetta con il cinquantino acceso, le sorride e le dice vieni qua. Lavinia va là e Mila la afferra dal mento, avvicinandole iJ volto al suo. Lavinia sta male e vorrebbe sparire perché non è in grado di reggere un confronto così diretto. La tensione si risolve con una battuta: "Sali, che ho una sorpresa" Come una farfalla aggrappata ad un orso che corre nel bosco, a Lavinia pare di volare come appesa nel vuoto; il cinquantino sale fino al cimitero e poi su al vecchio arsenale militare abbandonato. Mila si toglie il casco e prende Lavinia per mano. Qualcuno ha demolito la finestra dello stabile, c'è un lumicino, ci sono le coperte e i cuscini e i materassi dove quelli della prima F si sdraiano. La fisarmonica di Mila è pronta. Lavinia si sdraia, le tremano le gambe e non sa perché si trova lì. Mila si siede sullo sgabello, abbraccia la fisarmonica e respira e dopo un attimo suona Bach, una Suite francese ad occhi aperti, ascoltando le proprie voci camminare bene, pulite, e il tempo batte come il metronomo di Dio. Acustica perfetta. Lavinia sente i brividi, è avvolta dalle coperte, è incappucciata, è un bozzolo dal quale spuntano gli occhi piccoli, un nasino rosso e due labbra strette. Quando la Suite francese finisce, Lavinia si è addormentata, mentre in quei pochi secondi di silenzio Mila è riuscita ad abbandonare lo strumento per terra e ad avvicinarsi all'amica senza farsi sentire. In quel momento Lavinia sta sognando un tatuaggio mostruoso su un braccio. Viene svegliata da un bacio indimenticabile.

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Gli orfanelli di Samarcanda di Gerry Mottis 'involto era rigido, in parte sotterrato in mezzo a migliaia di altri detriti; pietre, mattoni, fili di ferro, sacchi immondi e sfasciati, tubi, lamiere accartocciate, qualche anticaglia, resti di un cibo malandato e irrecuperabile. "Cos'è quello?", chiese un ragazzino di circa 8 anni, incuriosito. "Sembra una bomba seppellita. .. ", disse il secondo, poco più anziano del primo. "Non dire sciocchezze", commentò il terzo orfanello. "Magari è soltanto uno scatolone vuoto ..." ''.Andiamo a vedere!", propose con entusiasmo il primo. La discarica di Samarcanda era una vasta pianura sabbiosa, interrotta qua e là da qualche collinetta dall'erba irta e rada, e sterpaglie. Dalla vicina città, ai primi chiarori dell'alba una moltitudine di spettri e di bambini vi si incamminava alla ricerca di qualche scarto umano per tirare a campare ancora, sino al giorno successivo. "È una cassa di cartone nero, interrata", disse il secondo orfanello. "Proviamo a tirarla fuori", suggerì il più grande. Fecero leva con forza, aiutandosi con un paio di tubi di ferro e liberarono il contenitore dalla terra. ''.Aprila!", ordinò il più grande al più piccolo. "E se fosse davvero una bomba!", disse spaventato. ''.Allora salteremmo tutti in aria, anch'io. Dai, aprila, sei stato tu a vederla per primo ..." I bordi e la maniglia erano incrostati di terra. A fatica il piccolo riusciva a fare leva. Gli altri gli diedero dunque una mano e, a ritmo, con un definitivo colpo secco, il cassone s'aprì liberando un odore di aristocratico chiuso. Al suo interno vi era uno stano oggetto rovinato ma ancora in discrete condizioni; una tastiera attaccata ad una specie di ventaglio centrale, mentre ai lati altri bottoni minuscoli incastonati in un massiccio cilindro arrotondato. "Che cos'è?", chiese il più piccolo. Rifletterono tutti assieme in silenzio, pensando allo strano oggetto. "È un fisarmonica", disse improvvisamente una voce alle loro spalle.

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Un vecchietto rinsecchito e impolverato, da ·una incolta barba lunga bianca s'avvicinò al gruppetto e recuperò l'oggetto dal suo contenitore. "Una cinghia è saltata, ma il mantice sembra tirare ancora bene". Se la mise su una spalla e si mise a suonare con impeto. I ragazzi scattarono un passo indietro per la paura. Alcune lacrime solcavano già il suo viso. "Ho suonato tanti anni fa in un bar a Samarcanda, ma le cose andavano male allora come oggi... Potrei ricominciare a fare qualche soldo, ma ora sono troppo stanco e vecchio. Prendetela voi, ragazzi... La città sarà tutta vostra." "E come facciamo?", chiese il terzo orfanello. "Basta solo che facciate innamorare Samarcanda..." Ritornati quel tesoro nel loro quartiere sabbioso di lamiere, i tre ragazzini si misero subito all'opera. Il più grande aveva preso il ruolo di regista, mentre gli altri due di musicanti. "Trovatemi un pezzo di corda resistente, poi due lamiere identiche intagliate a cerchio e un bastone metallico. A turno impareremo a suonare e cantare. Tu," disse al più piccolo "ci accompagnerai con i piatti, tenendo il ritmo, noi due ci alterneremo a suonare e cantare." "Potrò cantare anche'io un giorno?", chiese l'orfanello più piccolo. "Certo, e quando sarai più grande avrai l'onore di suonare anche la fisarmonica per noi... Ora mettiamoci all'opera .. !" Nel giro di poche settimane i tre orfanelli avevano già creato un piccolo repertorio di brani, mai casuali. Passeggiavano per le strade, si sedevano sulle panchine, nei parchi o davanti ai bar, le chiese, e ascoltavano con devozione, rapiti, le canzoni della gente che sgambettando fischiava o canterellava. "Era b ella, questa!" diceva uno. "Proviamola!". E così a suon di mantice che inalava ed espelleva aria come un fiato vivo, le note si liberavano, all'inizio indecise poi sempre più precise, deliziose, mentre il canto d ell'orfane llo più grande e il ritmo tenuto dal più piccolo con i piatti d 'argento, avvicinavano pian piano sempre più persone incuriosite che - a volte - lasciavano qualche centesimo ai loro piedi. "Bravi ragazzi", si sentiva di tanto in tanto, nel tonfo di monete sul selciato. "Fossero tutti così creativi, i nostri giovani", dicevano altri. "Forse un giorno, quando sarete bravi, vi prenderò a suonare nel mio bar ... ", si sentì persino un uomo distinto allontanarsi. Quel che conta di questa storia di musica e di fisarmonica è che i tre orfanelli non tornarono più alla discarica di Samarcanda. Il dono che la terra sfregiata da anni di devastazione aveva fatto loro - le pa-

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SEI RACCONTI INEDITI IN OM AGG IO A l.I.A l'ISARMON ICA

role giuste di povero vecchio che aveva passato il suo tempo - erano state colte come un desiderio di riscatto, di rivincita pacata, non di soli bambini, ma di tutta Samarcanda. La musica, forse, li avrebbe liberati dall'immonda ingiustizia del passato.

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SEI RACCONTI INEDITI I N OM AGGIO ALI.A FISARMONICA

Se gli affari van male di Tommaso Soldini ono come quel brigante che ha il bicchiere ancora pieno. Tutti si divertono e io resto muto, ho il cuore a pezzi e nessuna voglia di cantare. L'ultima volta che ho provato un sussulto emotivo di fronte a certe emanazioni sonore è stato trentacinque anni fa quando, poco più che treenne, sono stato preso in braccio da mio nonno e ho pigiato per qualche minuto quei piccoli tasti cilindrici mentre lui armeggiava col mantice. Da allora cerco di non sentire quel suono. Lo evito. La fisarmonica di famiglia, al momento di spartirsi le cianfrusaglie rimaste, l'ho voluta tenere io, proprio per impedire che qualcuno le ridesse vigore e vita. È segregata nella mia cantina, chiusa a doppia mandata, in attesa che sia l'ultima rimasta, oppure che il mondo non sappia più cosa sia. Mi ricorda le cantate obbligatorie della mia infanzia, quando un certo tipo di parentado faceva finta che il rock non fosse mai esistito, che la guerra fredda fosse solo un ossimoro e il viaggio per l'America costasse cento lire. Lo si sentiva nell'aria che stava per capitare. Si era appena finito di mangiare il coniglio con la polenta, i cicchetti di grappa cominciavano a colorare le guance e nessuno si arrabbiava se qualcosa macchiava la tovaglia buona. Dai che ci facciamo una cantata, diceva uno, e tutti a urlare che sì, una bella cantata era quel che ci voleva. Ed eccomi lì anch'io, costretto ad assistere a una serie di avvinazzati che picchiavano manate sui tavoli o alitavano controcanti in falsetto. Cercavo di salvarmi a mio modo, magari girando la testa per non vedere, gli indici ben piantati nel foro grande delle orecchie oppure, più efficace, schiacciando i lobi contro i padiglioni auricolari. Alle feste di paese, a cui si andava a giocare a tombola la domenica pomeriggio, alle fiere o ai mercatini, incappavi sempre in personaggi che sciorinavano l'impareggiabile saggezza popolare, lascia in pace il dottore e bada ben che non si bagna. Con il tempo, e la raggiunta libertà di movimento, ho capito che per rimanerne immuni era necessario evitare i luoghi troppo aperti, le piante in mezzo alle piazze, sotto alle quali si sistema un uomo sulla sessantina, vestito nero, barba brizzolata a punta e cappellaccio da spazzacamino che mette incinte le donne sole. Sorride insidioso ai bambini masticanti cornetti o tozzi di pane nella fragranza del pollo allo spiedo, apre davanti a sé la custodia della fisarmonica, ri-

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M.R. VA LENTI N I, V. TODISCO , F. STROl'l'I N I, G. MOT rlS, T. SOLDIN I, D. D ELl.'A GNO I.A

cettacolo di monete argentate, e lavora sui tasti e sulle corde vocali per stordire nonni e genitori al fine di estorcere denaro privato in cambio di qualche mazzolino di passato. Ho imparato in particolare a evitare le vicinanze delle chiese. È lì intorno che si annidano i personaggi più pericolosi. Ne ricordo due, un uomo e una donna, sulla quarantina o anche di più. Lei gonna solitamente blu e ariosa, fino a lambire i piedi calzanti scarpe nere rinvenute in qualche fienile, blusetta vescovile e capelli lisciati lunghi. Lui indossa la tipica camicia a scacchi, rossa e bianca, i suoi piccoli quadratini sono simpatici, allegrotti come una sberla che ti arriva senza che te ne accorgi, porta le maniche arrotolate per dare quel senso di villereccio, schiaccia dei capelli arricciati sotto un cappello nero di feltro, tondo come la faccia, a boccalino, in mezzo a cui si apre un ghigno compiaciuto, che sembra dire io son nato nel Ticino. Fa sfoggio di una fila di denti color vessillo papale e armeggia con la fisarmonica mentre lei intona qualche lassù in cima al monte nero o se gli affari van male ubriàcati senza pensare. Li trovi nei punti nevralgici dei paesi, nelle piazze o dove i vicoli si fanno stretti, cantano e suonano e ballonzolano con un'allegria contagiosa. La gente gli passa davanti e risponde ai loro sorrisi, batte le mani e prova un pizzico di malinconia, allora getta una moneta. Non so perché ce l'ho con loro. Sarà perché, come quel brigante, non riesco a unirmi al coro.

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ARJAl)lflABA 2012

Il concorso «Ariadifìaba 2012» di Fabrizio Badiali• iunto alla quarta edizione, il concorso Ariadifiaba per la redazione di un racconto destinato all'infanzia è stato impreziosito anche questànno dall'importante partecipazione delle scuole comunali di Lugano. Tra i numerosi racconti pervenuti dal Ticino e da oltre frontiera, una giuria di esperti ha scelto i tre ritenuti più meritevoli: i medesimi sono stati letti nelle diverse sedi scolastiche a circa 500 allievi. I bambini hanno quindi votato e deciso la seguente graduatoria finale:

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Storia di un sassolino che voleva diventare artista: 2. Silvestro e i pianti di Zina; 3. La Principessa Sgangherata;

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A loro volta, le classi sono state sollecitate a produrre lavori inerenti al tema della fiaba: al concorso hanno partecipato circa 200 allievi delle scuole comunali di Lugano che hanno realizzato ben 87 storie. La giuria qualificata composta da Pia Todorovic, Gerardo Rigozzi, Luca Saltini e Fabrizio Badiali ha esaminato i lavori degli allievi ed il responso è stato il seguente: 1.

Chi la fa ... l'aspetti! classi s•B SE Probello, Mo Mauro Tantardini, e SI Bozzoreda Ma. Roberta Udabotti.

2.

La Gru di Pascal Ramelli, classe 4• SE di Barbengo, mo. Patrik Kistler.

3. Le avventure del giovane Edus nel castello del cattivo mago Alischan di Aline Chopra, Martina Crivelli, Lorenzo Klemm, Gabriele Olgiati, Sara Ramos, classe 4• SE Breganzona, Mo. Franco Panora, in collaborazione con la ma. Sonia Galli. Mercoledì 12 dicembre al mattino sono invitate alla Sala Tami della Biblioteca Cantonale tutte le classi premiate e, per l'occasione, gli allievi sono stati intrattenuti da Nicola Sordo con lo spettacolo Il fantastico mondo del prof Corazon ed è stata servita una merenda. Nel corso della serata di premiazione, prevista per mercoledi 12 dicembre 2013 alle 18.00 in Sala Tami della Biblioteca Cantonale, hanno partecipato, accompagnati da docenti e genitori, anche i bambini che hanno realizzato la fiaba Chi la fa ... l'aspetti. Cristina Zamboni ha letto i testi vincitrici del concorso per adulti e del premio per i bambini.

"Direttore dell'Istituto scolastico comunale di Lugano ARI ADIFIABA •

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Storia di un sassolino che voleva diventare artista di Laura Sarotto

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ené voleva diventare un artista. Come quegli uomini che vedeva arrivare ogni anno e che plasmavano la creta, creando nuove forme. O come i bambini che vedeva accompagnati dai loro genitori, che davano colore alla loro fantasia disegnando su un foglio bianco. Ma N ené non aveva pennelli né matite né pennarelli. E a dire il vero, non aveva nemmeno mani o braccia, se è per questo. Non aveva neppure una zampa qualunque. Eppure N ené voleva dipingere, scolpire, modellare. I suoi amici ridevano a crepapelle. "Sei un sasso, N ené" dicevano. "Dove vuoi andare? Il tuo destino è restare qui, in questa montagna insieme a noi." Ma Nené voleva proprio fare l'artista e creare. Prendere la materia e trasformarla. Dare corpo ai suoi sogni. Così, un giorno prese una decisione e partì. Prima cercò di dipingere nell'acqua e rotolò giù per la parete in cui abitava fino a un laghetto a valle. Dapprima rimbalzò sulla superficie, ricamando l'acqua come un'esperta cucitrice. Ma poco dopo affondò. Rimase lì per anni. L'acqua lo erodeva a poco a poco. Placidamente, ma instancabilmente. Finché un giorno non passò di lì una rana. 'A.mica rana!" la chiamò N ené. La rana si avvicinò incuriosita: non aveva mai sentito un sasso chiamarla. Di solito le rocce non erano creature socievoli. "Dimmi sassolino, perché mi hai chiamata?" domandò la rana. "Vorrei chiederti un favore" disse Nené. "Chiedi pure" rispose la rana. "Vedrò cosa posso fare." "Vorrei un passaggio per uscire di qui." "E perché mai?" chiese la rana. "Perché voglio diventare un artista. Volevo dipingere sull'acqua, ma sono affondato." Le rocce vicine risero sgu aiatamente. "Ti aiuterò" disse la rana "perché sei un sasso coraggioso." Così la rana se lo caricò sul suo dorso e con un balzo lo portò fuori dall'acqua. All'aria aperta, N ené si accorse di essere diventato più piccino e più liscio. N ené non se ne preoccupò e provò a dipingere sulla terra. Che meraviglia! Rotolando poteva creare disegni come fossero tatuaggi sulla pelle del mondo. Ma bastava un po' di pioggia e tutto spariva di nuovo.

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Nené aspettò ancora. Passarono molti anni: gli autunni, gli inverni, le primave re e le estati si rincorrevano instancabilmente. E lui stava lì, ad aspettare e a lasciare che piano piano le intemperie lo erodessero un altro po'. Un giorno, vide uno stambecco che passava di lì e lo chiamò. ''.Amico Stambecco!" Lo stambecco si fermò, sorpreso che un sassolino gli rivolgesse la parola. "Perché mi chiami?" domandò. "Se non è troppo disturbo, vorrei che mi portassi in alto, su quel ghiacciaio." "Lo farò" rispose lo stambecco "se mi dirai come mai ci vuoi andare." "Voglio provare a scolpire la neve." I sassi che vivevano lì intorno risero di gran gusto. Ma lo stambecco lo afferrò tra i denti e lo portò con lunghi balzi sul ghiacciaio, dove c'era ancora neve. Lassù, N ené si accorse che era diventato ancora più piccino e un po' più tondo. Il sassolino rotolò nella ne ve, intagliandola com e un incisore. Che gioia! Finché non arrivò l'estate e con il sole, la neve diventò acqua e scivolò via, portando con sé quello che Nené aveva creato. Passarono altri anni, e il sassolino non si mosse. A ogni anno, N ené perdeva un pochino di se stesso, millimetro dopo millimetro si faceva sempre più piccolo. Una mattina, vide un'aquila e la chiamò. ''.Amica aquila." "Chi mi chiama?" chiese l'aquila che non vedeva nulla. Poi osservò meglio con la sua vista da rapace e notò un minuscolo sasso in mezzo a un ghiacciaio. "Dimmi" disse l'aquila posandosi di fronte a lui. "Perché mi chiami?" "Ho girato tanto, perch é volevo fare l'artista" spiegò il sassolino. "Ma ogni volta che pe nsavo di esserci riuscito, il mio peso, la pioggia o il sole cancellavano il mio lavoro. Ora desidero soltanto tornare da dove sono venuto" disse Nené rassegnato. L'aquila provò compassione. Lo prese nel suo becco e si alzò in volo. Ma non lo portò nel posto da cui era venuto. Volò invece fino alla cima del monte più alto e lì lo depositò. Era diventato poco più di una briciola di roccia che brillava al sole. "Ora aspetta" disse l'aquila. "Non avere fretta e vedrai." N ené rimase lì ancora per molti anni. La pioggia e la neve lo colpivano

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duramente, ma lui fece quello che gli aveva detto l'aquila e aspettò. Di anno in anno dive ntava sempre più piccino. E ancora e ancora. Finché un giorno si accorse che era diventato solo un granello di polvere leggera. Arrivò il vento. N ené non dovette nemmeno chiamarlo e il suo soffio lo fece volare via. Ora Nené non era più un sasso. Era aria. Era diventato vento lui stesso. E volò. Sui fianchi delle montagne, a scolpirne le pareti, sulle superfici de i laghi a incresparne l'a cqua pigramente distesa, in mezzo agli alberi a incurvarne le cime, tra i prati a far vibrare i fili d'erba. Ed era felice. Perché ora Nené era diventato un artista.

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Silvestro e i pianti di Zina di Denise Storni

ono un cantastorie e questa è l'unica cosa che desidero in cambio. Accettate?" Il re non era per niente d'accordo, ma pensò che alla principessa mancavano ancora sedici lunghi anni prima di raggiungere l'età del matrimonio. Poteva accettare il patto e al momento buono, sempre che quel bambino fosse riuscito nel suo intento, trovare un'alternativa al matrimonio. "D'accordo, ti conduco da Zina". "Non ora: tornerò più tardi, dopo cena". Silvestro portò il silenzio fin dalla prima sera che passò con la principessa. Si recava sempre da solo nella cameretta di Zina, rimaneva venti minuti esatti, non un secondo di più, né uno di meno, usciva e se ne andava. Ritornava la sera seguente, alle otto in punto e tutto si ripeteva allo stesso modo. Nessuno sapeva cosa succedeva in quei venti minuti, nessuno era mai potuto entrare assieme, ma tutti avevano capito che funzionava. Zina non piangeva più, non strillava più e ben presto imparò a parlare. Ma anche lei non rivelò mai quello che succedeva in quei misteriosi venti minuti. "Legge" fu l'unica parola che si lasciò sfuggire dopo dieci anni di insistenze da parte del re e della regina. "Legge? E cosa legge? Non l'ho mai visto arrivare con un libro!" esclamò il re. "Papà, ho già detto troppo". Passarono altri cinque anni: Silvestro ora era un bel giovanotto forte e alto, sorridente ed educato; Zina una dolce fanciulla, colta e raffinata, allegra e spensierata. Diversi principi di terre lontane giungevano al castello per chiedere la mano della principessa e il re, che non voleva perdere ogni speranza, rispondeva che avrebbe deciso al compimento del ventesimo anno. Ma come fare con Silvestro? Lui il patto l'aveva rispettato e da quel giorno, che ormai sembrava così lontano, ogni sera aveva eseguito il suo dovere, senza mai lamentarsi e senza mai pretendere niente in cambio. Presto però avrebbe preteso di sposare la sua Zina! Il re cominciò a fare generose offerte a Silvestro: oro, una reggia

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oltre la collina, una biblioteca colma di storie da raccontare, dei gioielli, insomma di tutto, ma Silvestro declinava educatamente ogni offerta. Il re allora si arrabbiò e decise di sciogliere il patto. Così una sera si nascose nella stanza della figlia e quando Silvestro entrò, lo spiò. Lo vide prendere dalla tasca interna della giacca un minuscolo libro e cominciare a leggere sussurrando le parole con dolcezza. Dal suo nascondiglio non riuscì a capire il senso della storia, ma si accorse che dopo poche parole Zina dormiva già. Silvestro continuò la lettura e dopo venti minuti chiuse il libro e se ne andò. Il re ora conosceva il segreto ed era convinto che con quel libro chiunque sarebbe stato capace di tenere lontano i pianti della principessa. Il giorno seguente ordinò a due guardie fidate di camuffarsi da briganti e di tendere un'imboscata al cantastorie. Dovevano rubargli il libro e dargli qualche bastonata. Poi ordinò alle sentinelle di non lasciar più entrare all'interno delle mura il giovane Silvestro. Tutto funzionò secondo i piani e quella stessa sera il re si presentò dalla figlia con il minuscolo libro. "Ma ... dov'è Silvestro?" domandò lei. "Ha detto che non verrà più. Non ti preoccupare, sarò io a leggerti la storia e presto lo farà il tuo futuro marito". "Silvestro sarà mio marito, questi erano i patti" disse Zina. "Ora non più. Sposerai il principe Gastone di Mon..." ma il re non riuscì a terminare la frase perché la principessa aveva ricominciato a piangere e strillare. Allora, svelto, svelto, apri il libro per leggere la storia e scoprì che la prima pagina era vuota. Girò la seconda, la terza, tutte le pagine, ma non c'era stampata nemmeno una lettera in tutto il libro. Cominciò quindi a raccontare qualcosa a caso e per farsi sentire gridava. Così la principessa strillava e piangeva ancora più forte, senza interruzioni! La regina, quando seppe quello che suo marito aveva tramato a sua insaputa, gridò e strillò pure lei, per la rabbia però. Il re mandò tutte le guardie disponibili a cercare Silvestro, ma non sapendo dove abitasse, dovettero chiedere in ogni casa, casupola, capanna e frugarono persino nelle stalle. Purtroppo il cantastorie era introvabile. Trascorsero diversi mesi: Zina continuava a piangere e più nessun principe la chiese in sposa. Finché un giorno, tra un singhiozzo e l'altro, disse ai suoi genitori: "Parto e tornerò solo assieme al mio sposo Silvestro, se mai lo troverò". Zina era davvero innamorata di quel giovane cantastorie, ora anche

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il re l'aveva capito. "Vai, figlia mia, aspetteremo con ansia e trepidazione il tuo ritorno e Silvestro sarà il benvenuto!" Zina infilò gli stivali e l'impermeabile per ripararsi dalle sue lacrime, si fece consegnare il libro di Silvestro e partì. Attraversò diversi regni e ovunque andasse il suo pianto e i suoi lamenti, precedendola, annunciavano il suo arrivo. Silvestro però era introvabile. Una sera, dopo mesi e mesi di pellegrinaggio, Zina giunse davanti a una grotta. Era stanca e voleva riposare. Le fiamme di un focherello rischiaravano l'interno proiettando sulla parete l'ombra di una persona. "Posso entrare?" domandò la principessa singhiozzando. L'ombra si spostò e un orco le si parò davanti. Per lo spavento e la paura, le lacrime di Zina aumentarono come pure i lamenti. L'orco esclamò: "Zina, sono Silvestro, non avvicinarti però! Se hai il mio libro, lascialo lì per terra e vai via t La principessa ubbidì: gettò il libro verso l'orco, ma non scappò, indietreggiò solo di qualche passo. Silvestro lo raccolse e cominciò a leggere. Subito il suo corpo riprese le sembianze così care a Zina che smise immediatamente di piangere. Silvestro le spiegò allora che quel libro era la parte buona del suo cuore e aprendolo a lei aveva potuto trasformarsi in una persona normale. Era un orco fin dalla nascita ma con quel libro, ricevuto in dono da una fata, e sposando una principessa si sarebbe liberato per sempre dall'essere un orco. Purtroppo per colpa del re questo non era successo e lui non era potuto tornare da lei: come tutti gli orchi, era pericoloso! Assieme fecero ritorno al castello e celebrarono immediatamente le nozze. Silvestro baciò finalmente la bella principessa Zina e da allora vissero per sempre felici e contenti. E il libro? Si riempì di lettere che formarono parole che formarono frasi che formarono la fiaba che avete appena ascoltato!

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La principessa sgangherata di Nadia Meli

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'era una volta una principessa di nome Zahra, che significa fiore. I suoi genitori, il re N asim e la regina Jamila, la chiamarono così perché quando nacque un intenso profumo di rose e viole invase il Palazzo in cui vivevano. Purtroppo Jamila mori poco dopo e Nasimrimase solo con la sua bambina.La adorava e il suo unico pensiero era che lei fosse felice. Zahra era bellissima: il suo sorriso incantava chiunque. Nasim era orgoglioso di lei; la considerava il suo capolavoro. Egli amava molto l'arte e sognava di dare, un giorno, sua figlia in sposa ad un bravo pittore. Quando Zahra fu in età da marito, disse a suo padre che sarebbe stata contenta di sposare un artista. Poiché i pretendenti erano molti, ella propose una gara: avrebbe scelto l'autore del ritratto a lei più somigliante. Il re acconsentì e invitò a corte i pittori più stimati del regno. Furono eseguiti numerosi ritratti della principessa con varie tecniche: olio, tempera, acquerello. Erano tutti molti belli, ma Zahra non si riconosceva in nessuno di essi. Rimaneva in posa per ore senza battere ciglio e, quando l'opera era terminata, la osservava a lungo. Alla fine diceva sempre: - Il dipinto è bellissimo, ma io non sono così! Passarono molte settimane. Ogni giorno arrivavano nuovi artisti da regni vicini e lontani per tentare l'impresa, ma senza alcun risultato. Dopo qualche tempo il re disse a Zhara: - Cara, i ritratti sono molto belli, perché continui a rifiutare i tuoi pretendenti? Hai forse cambiato idea? - Oh no, papà. lo sarei felice di sposare un pittore, ma non può essere uno qualunque. Deve essere qualcuno in grado di dipingere la mia anima, non soltanto il mio corpo! - rispose la principessa. Il re ammutolì un istante e poi concluse: - Hai ragione. Dobbiamo sperare che ciò avvenga. Per molto tempo Zhara fece da modella a chi si presentava per realizzare l'opera. Un giorno giunse al Palazzo un uomo con un pacco da consegnare alla principessa; lo diede a uno dei servitori e se ne andò. Quando Zharalo aprì, rimase senza parole. Era il ritratto più strano che avesse mai visto: aveva la bocca al posto del naso, l'o cchio destro visto di fronte e il sinistro di profilo, le orecchie attaccate ai capelli. Appena lo vide,

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la fanciulla esclamò: - Eccolo, finalmente! Voglio sposare l'autore di questo quadro! Il servitore riferì che chi aveva consegnato il dipinto era corso via senza dire nulla e senza farsi vedere in volto. Quando il re vide il quadro, rimase sconcertato. -Figlia mia - sussurrò con un filo di voce - come puoi dire che questo ritratto sgangherato ti somiglia? I dipinti che hai scartato erano mille volte piùbelli! - Papà - rispose Zhara - capisco il tuo stupore, ma sono sicura di quel che dico. Questo pittore è riuscito a vedere in me ciò che nessuno ha saputo cogliere finora, nemmeno tu. - Ma com'è possibile? - replicò il re - sono tuo padre, ti ho vista nascere. Nessuno ti conosce meglio di me. - Ti sbagli. Io sono molto diversa da come sembro - rispose la principessa. - Vorresti dirmi che sei così? - chiese Nasim indicando il ritratto. Sì, papà, in fondo all'anima io sono così. Ho bisogno di qualcuno che mi capisca e mi aiuti a trovare pace e armonia - disse Zhara. Il re rimase senza parole. Non si era mai accorto che sua figlia soffrisse tanto. Aveva cercato di farle sentire il meno possibile la mancanza della madre, circondandola d'amore e di attenzioni. - Se è così, dobbiamo cercare subito l'autore di questo dipinto! esclamò. - Sì, sono sicura che lui potrà aiutarmi - rispose Zahra. Nasim ordinò alle sue guardie di mettersi alla ricerca del misterioso artista. Lo cercarono ovunque, ma sembrava svanito nel nulla.La principessa divenne sempre più triste e rifiutò di farsi dipingere da altri. Volle che tutti i ritratti fossero portati via, tranne l'ultimo, che fece mettere nella sua camera. Una notte, mentre lafanciulladormiva, il ritratto prese vita, uscì dalla tela e la sfiorò. Immediatamente la principessa assunse le sembianze del dipinto.Il mattino dopo, quando si guardò allo specchio, Zahara lanciò un urlo, che fece accorrere il re e i suoi servitori. Vedendola così, rimasero tutti a bocca aperta. Da quel giorno, ognivolta che usciva, la fanciulla si sentiva addosso gli sguardi curiosi dei sudditi: ciò che era nascosto in fondo alla sua anima era divenuto visibile a tutti. La principessa si vergognava moltissimo e decise di non uscire più. Il re invitò a corte fate e maghi per farsi aiutare e consigliare, ne lla speranza che tutto potesse ritornare come prima. Dopo aver studiato a

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lungo il caso, essi dissero che non avrebbero potuto far nulla. Avrebbero potuto trasformare Zahra in qualsiasi cosa ma non ricomporre la sua immagine. Solo un magodi nome Shadi diede al re una speranza. Gli disse:- Forse posso aiutare la principessa, ma molto dipenderà da lei. Dovrà metterci impegno e amore.- Che cosa dovrà fare?- chiese il re. Dovrà dipingere! - rispose il mago. N asim mandò a chiamare Zhara; Shadi le diede uno specchio e un pe nnello magico e le disse:- Dipingi te stessa e l'autore del tuo ritratto, come lo immagini. Se lo farai con convinzione e amore il resto verrà da sé. Mi raccomando, alla fine, non dimenticare di appendere i quadri di fronte al tuo letto. La fanciulla obbedì. Fu molto doloroso per lei guardarsi allo specchio e dipingersi così com 'era, ma ci riuscì; subito dopo realizzò il ritratto del pittore misterioso, seguendo ciò che le suggeriva il cuore. Lo dipinse vestito da principe ma "sgangherato" quanto lei. Lo fece con l'o cchio sinistro in alto e il destro in basso, la bocca sulla fronte e il naso al contrario. Mentre dipingeva, si commosse pensando a lui e sentì di amarlo. Infine appese entrambi i quadri nella sua camera, come le aveva detto di fare il mago. Quellanotte fece un sogno: i due ritratti presero vita, la principessa "sgangherata" e il suo principe si abbracciarono e danzarono a lungo; si fidanzarono e si sposarono. Alle nozze parteciparono principi, principesse, re e regine usciti dai quadri del Palazzo, ma anche clown, ballerine, me ndicanti provenienti da altri dipinti. Il mattino dopo Zahra si svegliò felice come non era mai stata. I quadri erano dove li aveva lasciati, ma i due ritratti non avevano più nulla fuori posto. La fanciulla rimase senza fiato: il giovane che aveva dipinto e ra bellissimo! Immediatamente corse a guardarsi allo specchio: era ritornata come un tempo! Danzando per la gioia la principessa andò a dare la be lla notizia a suo padre, che pianse nel vederla di nuovo così bella. Poco più tardi si presentò al Palazzo un giovane di nome Labib. Zahra lo riconobbe subito: era il principedel ritratto. Labibsi inginocchiò e le disse: - Perdonami Zahra, sapevo che mi stavi cercando, ma non potevo presentarmi per via del mio aspetto. Ero deforme a causa di un incantesimo fatto al momento della mia nascita da una perfida strega, invidiosa della bellezza di mia madre. Ci fu un attimo di silenzio, poi il giovane continuò: - La notte scorsa ho fatto un sogno meraviglioso; ho sognato di sposarti. Eri come ti avevo

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dipinta: fin dalla prima volta che ti ho vista, mi ha colpito la tua bellezza, ma ho colto una profonda sofferenza nella tua anima. -,_ La tua sensibilità è un grande dono - disse Zahara commossa. Labib sorrise e aggiunse: - Nel sogno, dopo le nozze, c'è stata una grande festa e abbiamo danzato tutta la notte. Stamattina mi sono svegliato con il cuore pieno di gioia e magicamente il mio aspetto è cambiato. -A me è successa la stessa cosa]- rispose Zahara. I due si avvicinarono, si presero per mano ed espressero al re il desiderio di sposarsi. N asim acconsentì raggiante. Il giorno dopo si celebrarono le nozze e il Palazzo fu invaso da un intenso profumo di rose e viole. Durante la festa il re annunciò che da quel momento gli sposi sarebbero stati i nuovi sovrani. Zahara e Labib regnarono a lungo e furono molto amati da tutti.

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Chi la fa ... l'aspetti! Allievi 5B di Probello, Mo. Mauro Tantardini e allievi della SI di Bozzoreda, Ma. Roberta Udabotti

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uel pomeriggio, sul finire dell'estate, uscirono nel bosco vicino alla loro casa. Erano una ventina di allievi delle elementari che si trovavano li a trascorrere una settimana di scuola fuori sede. Il maestro aveva dato loro un compito: modellare una faccia, un volto sul tronco di alcuni alberi, utilizzando della pasta di sale, una sorta di creta "fai da te", composta da un miscuglio di acqua, sale e farina. I ragazzi si erano così suddivisi in piccoli gruppi, ricevendo ciascuno una bella pallottola di quella pasta bianca e un po' appiccicaticcia. Ogni gruppetto, ansioso di mettersi al lavoro, aveva scelto, non senza qualche difficoltà, un proprio albero a cui dare un volto particolare. Cominciarono così a comporre le facce: chi aveva cominciato subito dalla bocca, chi dagli occhi, chi dal naso e così via ... Per abbellire e rendere magari più espressivo il risultato, i bambini cercarono e raccolsero da terra del muschio per i capelli o la barba, delle ghiande per le orecchie o le pupille, dei fiori per le labbra o per gli orecchini; i più fortunati trovarono anche dei funghetti che utilizzarono subito per formare alcuni nasi. Tutta questa roba fu diligentemente appiccicata alla pasta di sale. Dopo una mezz'oretta di lavoro, una decina di alberi possedevano già un'espressione diversa e molto personale: alcuni sembravano tristi, altri sembravano felici, e altri ancora meravigliati o seri, stanchi, furbi, annoiati o, addirittura, ubriachi! Ma erano immobili, silenziosi, come se qualcuno li avesse fotografati di nascosto. Terminato il lavoro di composizione, il pomeriggio volgeva ormai al termine; con un po' di malinconia il maestro ed i suoi allievi s'incamminarono verso casa: gli alberi rimasero soli nel silenzio del tramonto e, in quella luce, sembravano neri e cupi. In casa intanto era già ora di cena. N el bosco, calata la notte, gli alberi dal volto umano diedero il via ad un' improvvisa e sorprendente ... chiacchierata! Sì, proprio loro cominciarono a discutere vivacemente sul fatto che erano stati abbandonati bruscamente, quasi senza un saluto, da chi li aveva con tanta pazienza creati così strani e belli. L'albero dal volto più furbo e forse dal carattere più dispettoso prese la parola con un gran vocione:

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- Fratelli, amici, che ne dite di andare questa notte a cercare i nostri bravi creatori e fare loro qualche scherzetto? Tutti gli alberi, dal più vicino al più lontano, risposero entusiasti che l'idea era geniale. Nel frattempo, in casa, i ragazzi erano già andati a dormire nelle loro camerette. Silenzio dappertutto. Lentamente, quatti quatti, senza far rumore, le piante si sradicarono da sole, levando dalla terra in cui erano sprofondare, le lunghissime e intrecciate radici ... Cominciarono a muoversi verso la casa montana dove russavano già profondamente tutti i bambini. Camminando, anzi strisciando e aggrappandosi al terreno, arrivarono alla meta. Circondando la casa cercarono di far penetrare nelle camerette, attraverso le finestre socchiuse, i rami più elastici e sottili. Con i rametti e le foglioline più tenere cominciarono a solleticare i bambini sulla punta del naso, costringendoli a starnutire; altri furono raggiunti alle orecchie o sul collo, facendoli rabbrividire nel sonno, altri sotto i piedi obbligandoli a scalciare. Al calare della luna poi, gli alberi si ritirarono tornando nel bosco da dove erano partiti. La mattina i bambini si svegliarono e, prima di andare a colazione, si chiesero come mai quella notte era stata tanto agitata: nessuno aveva dormito bene ... mah! Trascorse il giorno. Giunta di nuovo la notte un albero tra i tanti disse: - Ragazzi, facciamo ancora uno scherzetto ma, questa volta, agli abitanti del bosco, che ne dite? - Sii - risposero tutti gli altri eccitati. Lo stesso albero che aveva parlato prima propose di far inciampare nelle radici tutti quei caprioli, quei cervi e quelle volpi che sarebbero passati di lì durante la notte alla ricerca di cibo. Un albero più sfrontato disse che sarebbe stato anche divertente far cadere dai rami i nidi degli uccelli e magari ... anche chiudere con le radici le tane degli animali come quelle delle talpe o dei tassi. Immaginate che confusione, quella notte, nel bosco ... Caprioli che inciampavano, cinghiali che ruzzolavano, nidi che cadevano con gran frittata di uova ancora chiuse, talpe e volpi intrappolate sotto terra! Ma, immaginate come potevano essere arrabbiati tutti questi animali all' alba del giorno seguente.

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Ma non era finita qui, la terza notte le piante decisero di strappare anche tutti fiori che si trovavano nei prati vicino a loro. A questo punto gli animali, infuriati e furibondi per averne subite troppe, decisero che era ora di vendicarsi. Un vecchio corvo informò tutti che conosceva una strega che abitava lì vicino, in una grotta sulla montagna. La strega avrebbe saputo sicuramente come aiutarli a vendicarsi. Il corvo allora, ottenuto il permesso, volò sulla montagna a chiamare la strega. Quando vide la grotta picchiettò con il becco alla porta d'entrata. Strigia, così si chiamava la maga, apri la porta e ascoltò con interesse quello che il corvo le raccontava. - Aspetta un momento, prendo la mia scopa e mi guiderai fino al bosco dove sono successi tutti i fatti che hai descritto , poi vedrò che cosa posso fare. Il corvo volò via subito, seguito dalla strega. Quando i due arrivarono nel bosco, proprio in mezzo agli alberi dispettosi, la strega aprì il suo libro degli incantesimi e, con una voce che fece venire a tutti la pelle d'oca esclamò: - Ceribù, ceribà, tutte le foglie dai rami via di qua! A questo punto le foglie degli alberi cominciarono a cambiare rapidamente colore: prima gialle, poi rosse e poi marroni e infine si accartocciarono rinsecchite; con la stessa rapidità cascarono tutte a terra. Gli alberi rimasero spogli, e pensare che si era ancora in estate! Cadute le foglie gli alberi persero anche la faccia che i ragazzi di scuola avevano loro modellato con la pasta di sale. Adesso gli alberi si sentirono proprio tristi e vergognosi per essere già spogli e nudi in mezzo ai loro simili che invece conservavano ancora una bella chioma verde. La loro vergogna passò completamente solo in inverno, quando anche gli altri vegetali erano completamente senza foglie. Ma la strega che era pure una persona a cui piaceva fare spesso qualche giochetto malandrino, ogni anno, proprio in autunno, ripete ancora lo stesso scherzo a tutti gli alberi: è proprio per questo che, in autunno, a quasi tutti cadono le foglie e restano spogli e pelati fino a primavera. Gli animali erano stati così vendicati ma, i bambini, non sanno ancora oggi chi, quella notte, li aveva tanto, ma tanto disturbati nel sonno.

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La pozza dell'Anselmo di Fabio Andina

24 NOVEMBRE

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engo svegliato da alcuni colpi secchi alla porta d'entrata. Come una molla mi metto in piedi e prendo in mano il natel. Sono le cinque e trentasette. Butto il natel sulla scrivania, scendo di sotto e apro la porta e vedo l'Anselmo Genini, lì in piedi sotto ad un ombrello che si guarda in giro. Entra un freddo cane e pioviggina. Mi vesto rapidamente ed esco. Sul muro fuori casa ho appeso un termometro che mi aveva regalato la Vittorina Gianella. Con la poca luce che arriva dal lampione della strada riesco a leggere la temperatura. Sei gradi. Non è poi così freddo. Sarà che non sono abituato a svegliarmi tanto presto. Ci incamminiamo silenziosi come due volpi a passo spedito dentro la nebbia, lungo i sentieri lastricati di sassi levigati dal tempo e resi scivolosi dall'a cqua e dalle erbacce. Che si snodano armoniosi tra le baite vecchie di centenni e imponenti come le pietre che le compongono. Le travi dei tetti arcuate dalle pesanti piode di granito. Le finestre mute. Odore di autunno. La luce stentata di un qualche lampioncino posato dal comune ci illumina appena la via. Ieri avevo incontrato l'Anselmo qui fuori casa. Io ero lì a ridipingere la porta della mia legnaia e lui stava passando con un sacchetto di plastica pieno di cachi Avevamo scambiato due parole, dopodiché gli avevo detto che volevo seguirlo nelle sue giornate. Per vivere un po' come fai te, avevo aggiunto. Imbocchiamo la strada cantonale che da Leontica sale verso il Nara. Coi suoi bei lampioni luminosi e l'asfalto liscio rifatto quest'estate. Ci avvolge un silenzio interrotto a sprazzi dal ragliare del mulo della Vittorina che sta in un recinto qua sopra al paese, di fianco alla stalla del Sosto Beretta. Quando passiamo di fronte al recinto, la bestia è già lì che ci aspetta e l'Anselmo lo accarezza. Io faccio lo stesso, a lungo, poi raggiungo l'Anselmo nella stalla. Il Sosto, quarantacinque anni, fisico nerboruto, barba e capelli incolti e Parisienne in bocca, sta smanettando con quell'affare per la mungitura

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meccanica e grugnisce imprecazioni a non finire. Allora ci mettiamo di nuovo in cammino, lasciandoci definitivamente il paese alle spalle. In paese si mormora da una vita intera che l'Anselmo tutte le mattine s'incammina mentre il gallo ancora dorme, e va, solo il diavolo lo sa dove, ad immergersi tutto nudo come un verme in una pozza d'acqua gelida. C'è chi dice che ci è sempre andato già da quando era ragazzo, chi invece che ha attaccato ad andarci dopo il suo viaggio in Russia, e poi c'è chi ribatte che invece ci va solo da quando è in pensione. Alcuni affermano che la pozza è lungo il torrente di Gurundin dalle parti della pineta di Selvaccia, mentre altri sostengono che è nel torrente di Altaniga, tra la cascina Magra e le cascine Gianora. E altri ancora che è addirittura su in cima all'Alpe del Gualdo, a milleseicento metri di quota. Una volta l'imbianchino Flora Taschini, nipote dell'Anselmo, mi aveva detto che invece quella della pozza dell'Anselmo è tutta una gran balla. Che l'Anselmo, ma sì, è vero che cammina tanto come un lupo solitario, ma però è anche vero che non sa neppure lui dove va, delle volte. Come quando l'avevano trovato alle nove di sera su a Cancori nei paraggi del ristorante Pernice, dove arriva la seggiovia del Nara, con un sacchetto di plastica in mano e sosteneva che era in giro a cercare asparagi selvatici. Ma poi si racconta anche che l'Anselmo in inverno deve prima spaccare il ghiaccio che si forma sulla pozza, e che si porta dietro una saponetta per lavarsi e che prima o poi ci rimane dentro, in quella pozza gelida, secco come un chiodo. Sempre in silenzio, lasciamo la strada cantonale alla curva del Castagno Grande e tagliamo per una secondaria, dissestata, che s'infila dentro i prati da pascolo di Sella. Da qui in avanti la strada ritorna ad essere scarsamente illuminata da pochi lampioncini comunali. N ei prati di Sella ci sono alcune baite di vacanza riattate, ora invisibili nel buio, che spiccano per via delle parabole sui tetti di piode nuove. Ma a campeggiare veramente, come una pecora nera, è una stalla fatta fuori alla carlona dove abita l'imbianchino Flora, avanzo dell'epoca dei figli dei fiori, col suo gatto, l'Obelix. Tetto di lamiera, niente elettricità, niente abitabilità, acqua tirata in casa da un tubo di gomma dal vicino torrente di Altaniga. Per gabinetto, le piante del vicino bosco di ontani. Avanziamo. N ella quasi oscurità. Devo stare ad un passo dall'Anselmo. La pioggere lla insistente inizia a inzupparmi dalla testa ai piedi. Passiamo sopra al ponticello di legno che attraversa il torrente di Altaniga. Mi domando se presto cominceremo a risalire lungo questo torrente, ma invece continuiamo a seguire la strada sterrata. Trecento metri più avanti c'è un altro ponticello, anch'esso di legno, che attraversa il tor-

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I.A POZZ A DEI.L'ANSELMO

rente di Gurundin. Lo attraversiamo. Qui, la strada dissestata termina di botto e c'è un ultimo, timido lampione. Davanti a noi, la buia pineta. L'Anselmo taglia a destra e scompare, inghiottito dall'oscurità. Faccio per raggiungerlo, ma dopo due passi mi fermo con un sussulto. Non vedo più niente. Aspetto che i miei occhi si abituino. Niente. Trattengo il respiro e tendo l'orecchio. Sento l'Anselmo qualche metro più avanti. Ma almeno siamo al riparo dalla pioggia. Stiamo risalendo un sentiero ripido e scivoloso che non riesco a vedere. Cammino alzando le ginocchia per evitare di inciampare in un sasso o in una radice di abete o in non so cosa, e per istinto tengo una mano alzata davanti al viso per il timore che un ramo mi s'infili in un occhio. L'Anselmo prosegue in automatico. Lo sento ansimare pochi passi davanti a me. Stai poi attento di non andar con le balle per aria, mi avvisa. L'Anselmo, come d'altronde quasi tutti gli abitanti di Leontica, parla solamente il dialetto oscuro e duro della Valle di Blenio. Duro come i graniti Legiuna e oscuro come questo sentiero. Finalmente, comincio a vedere sempre meglio i polpacci dell'Anselmo. La fitta pineta sopra le nostre teste inizia a diradarsi. E poi chissà che ora è. Starà venendo giorno. All'improvviso, si sente un rintocco lontano di una campana. Poi un altro. L'Anselmo si ferma e si volta in direzione del fondovalle. Sono le campane di Leontica che scampanano per svegliare tutti. Sono le sei e mezza. Lui rimane lì così, assorto, e io faccio lo stesso. Fuori dalla pineta, proseguiamo tra una miriade di cespugli di mirtilli. Qua e là si scorge la sagoma nera di un abete solitario. Continua a piovere e tira un vento cane che mi punge la faccia. Il resto del mio corpo è accaldato. A questo punto saremo forse arrivati ad una quota di almeno milletrecento metri. Adesso il sentiero è appena visibile sotto i miei piedi. Un solco profondo una spanna e largo due. Il torrente di Gurundin lo sento bisbigliare alla mia destra ma non riesco a vederlo. Si prosegue salendo lungo i mirtilli per un buon venti minuti o giù di lì, ma non lo so di preciso, perché non porto l'orologio. N emmeno l'Anselmo ce l'ha, l'orologio. L'Anselmo è davanti a me, spedito, a piedi nudi col freddo che fa, con su solamente delle braghe corte tagliate fuori da un paio di jeans, ed una camicia di flanella, anch'essa con le maniche corte, sbottonata, e col suo ombrello aperto sopra la testa. Lo scorso mese di settembre, l'Anselmo ha compiuto novant'anni. Ad ogni passo che faccio, posso distinguere sempre meglio sia le forme che i colori. E il Gurundin, che quasi ci inciampo de ntro. Final-

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mente, dopo un interminabile periodo di silenzio, l'Anselmo dice ecco e si ferma. Mi fermo anch'io, e la vedo. Una pozza. Come se io non ci fossi, l'Anselmo si spoglia. Non porta le mutande. Appende le braghette e la camicia su un ramo di un abete lì vicino, e senza pensarci su due volte s'immerge nella pozza, tutto dentro, tutto nudo come un verme, proprio come si sentiva dire in giro. E rimane nellacqua lasciando fuori solamente il naso. lo mi porto sotto il pino per ripararmi dalla pioggia, anche se tanto sono già tutto bagnato. Aspetto. I..:Anselmo si alza in piedi, esce dalla pozza, si ripara dalla pioggia con l'ombrello, e si mette immobile su un sasso a guardare i puntini bianchi dei lampioni giù in valle. Mi dà di spalle. Il mio maglione è zuppo d'acqua e inizio ad essere scosso dai brividi. Do un'occhiata all'Anselmo, poi alla pozza. Mi dico ma chi me lo fa fare. Ma poi mi spoglio e m'immergo, con una specie di tuffo, e forse urlo anche qualcosa ma non lo so e mi sbuccio le ginocchia. Vorrei lasciare fuori solamente il naso come aveva fatto l'Anselmo, ma non ci riesco, è troppo freddo. Con un balzo sono da parte all'Anselmo. Che alza leggermente l'ombrello e lo sposta di un poco verso di me. Rimaniamo così, in silenzio, sotto l'ombrello, nudi, a farci asciugare dal vento. Quando siamo abbastanza asciutti, ci rivestiamo e ci incamminiamo. Da dietro il Simano sta venendo sempre più chiaro. La pioggia sta cessando. Il vento sta aprendo il cielo. Poi, un timido raggio di sole ci colpisce. Camminiamo leggeri e raccolti fin dentro la stalla del Sosto. La mungitrice munge a pieno regime e lui è fermo in piedi a controllare il livello del latte che entra in un bidone. Lavoratore, gli fa l'Anselmo. Anselmo, ribatte il Sosto, sguardo fisso sui numeri dei litri. Sosto, gli dico a mia volta. Si volta e mi guarda, due occhi socchiusi per carpirmi la verità. I.:Anselmo non mi dà il tempo di aprire bocca. Bon, dice. Andiamo. Ciao neh. Ciao Sosto. Ciao. Fuori dalla stalla c'è il suo furgoncino, un Volkswagen Ti Due del settantasei verde militare, comperato da suo padre Atos ad un'asta dell'esercito svizzero a Thun. Ammaccato ovunque. Senza targhe. Il mulo della Vittorina Gianella ci si fa di nuovo in contro per farsi accarezzare. Lo accontentiamo. La sua pelliccia é bagnata e tiepida e puzzolente. Prima di entrare in casa, l'Anselmo recupera due pezzi di legno dalla sua cascina. Io vado un attimo là da me a cambiarmi con qualcosa di asciutto, poi lo raggiungo.

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Da lui fa abbastanza caldo. La cucina economica è accesa e io mi ci appoggio. L'Anselmo è seduto su una sedia, le gambe incrociate e lo sguardo piantato su una crepa del muro. Non gli dico niente. Sulla cucina economica c'è un pentolino pieno d'acqua che comincia a bollire. L'acqua che sta bollendo fuori dal pentolino fa scattare in piedi l'Anselmo. Da una scatola di cartone tira fuori una manciata di castagne arrostite, poi recupera delle erbe secche da un'altra scatola e le sbriciola nell'acqua bollente. Apre un cassetto della credenza, ci infila dentro una mano ed estrae una barretta di cioccolato. Poi apre la finestra e dal davanzale afferra uno yogurt e una banana e me li mette lì davanti sul tavolino. Dopo un attimo versa l'infuso caldo in una tazza, dice ecco e mi si siede di fronte. In quattro e quattr'otto, L'Anselmo mi ha preparato la colazione. Una tisana di erbe secche, uno yogurt alle nocciole, cioccolato bianco della Lindt, una banana ed una manciata di castagne arrostite, fredde e dure come sassi. L'infuso di erbe è amaro, ma almeno mi riscalda in un attimo tutti i brividi che mi portavo appresso. Mentre me ne verso un'altra tazza, l'Anselmo infila un pezzo di legna dentro la cucina economica e poi va di fuori, lasciando la porta aperta. Finisco di mangiare. Lo raggiungo. Il vento è cessato e il cielo si è aperto del tutto. Il sole è tiepido, una spanna sopra al Simano. Un filo di ne bbia giù in basso a nascondere Dongio e Lottigna. Uno stormo di storni taglia l'aria. Un cane abbaia. L'Anselmo è lì seduto sulla panca di granito alla sinistra della porta d'entrata, gli occhi chiusi che puntano verso il sole. Io rimiro il suo orto. Insalata, verze, prezzemolo, coste, rosmarino, salvia, lavanda, menta, timo, malva. All'angolo sinistro della casa c'è un vecchio pero che pende verso valle. Una decina di pere su in alto. All'angolo destro c'è un bel caco carico a tal punto che alcuni rami toccano quasi terra. Allungo una mano e colgo un caco. Me lo mangio poi mi siedo sulla panca di destra. Rimaniamo così, immobili e muti come due lucertole. Da qui si vede un pezzo di casa mia. La porta d'entrata, il camino. Casa mia era il caseificio del paese. Ci si faceva il formaggio, una volta, e il burro. Ma una volta di prima della guerra. Perché poi, dopo la guerra, era diventato solame nte il deposito del latte. Il latte delle mucche del paese finiva tutto lì. Il Basiglio Frusetta mi raccontò che una volta di vacche ce n 'erano dappertutto, in paese. Stalle in ogni angolo. Dopo la piazza. Sotto il cimitero. Dietro al bar. Di là a N egrentino. Dappertutto. Anch e chi non faceva il contadino di mestiere aveva almeno una mucca da latte dietro casa. E i maiali da ingrasso. E le pecore e le capre. E che al caseificio passavano mille litri di latte al giorno. Mille. Il Basiglio

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ci ha lavorato per tutta la vita, al caseificio. Trasportando il latte da Leontica a Biasca. Un camioncino. Bidoni del latte. Avanti e indietro. Due o tre volte al giorno. Poi, negli anni sessanta, gli stava crollando il tetto addosso, al caseificio, e allora lo trasferirono nella sede attuale, un locale al pianterreno della Casa Comunale. Più moderno, più igienico. In norma. Cisterna da quattromila litri. Un cammion cisterna che vien su a svuotarla. E i miei genitori lo comperarono, il vecchio caseificio, per venirci su in vacanza. Adesso è una signora baita, riattata e col tetto nuovo. Il lavoro l'aveva fatto l'Anselmo quando io ero ancora in fasce. L'Anselmo ha fatto il muratore per tutta la vita, su e giù per la valle. Uno dei suoi ultimi lavori, ricordo che è stato il tetto del vecchio lavatoio qui davanti a casa sua. L'acqua vi scorre tutto l'anno. Saltuariamente, qualcuno lo usa ancora, soprattutto per lavare quelle coperte che non entrano nelle macchine da lavare. Da bambino, con gli altri bambini del paese, chiudevamo il buco dello scarico e ci facevamo il bagno per giocare. L'Anselmo prende un lungo respiro e mi distoglie dai miei pensieri. Forza, boffonchia, alzandosi in piedi. Fa tre passi e inizia a strappare alcune erbacce dal suo orto. A dire il vero, di erbacce non ce ne sono molte. L'orto è ben curato. Credo che quello di strappare erbacce, sia solamente un gesto che l'Anselmo fa automaticamente. Forse per scacciare la malasorte. Poi raccoglie due rametti di rosmarino ed entra in casa. Dopo un attimo lo raggiungo, richiudendomi la porta alle spalle. Seduto al tavolino, l'Anselmo sta tagliuzzando il rosmarino con un coltello lungo e consumato da chissà quante affilature. Mi siedo a guardarlo. Il rosmarino sminuzzato lo mette in un pentolino che poi riempie d'acqua fin quasi all'orlo e infine ci aggiunge uno spizzico di sale. Mica troppo, che il sale non fa mica troppo bene, sussurra più a se stesso che non a me. Dopodiché, mette il pentolino sul lato meno caldo della cucina economica, pulisce il coltello e il tavolino, mi dice andiamo ed esce di casa. Nell'orto dell'Anselmo è arrivato il Basiglio Frusetta, ottantotto anni, che si aggira con una foglia d'insalata in mano scrutando il terreno. Un po' freddino, Basiglio, gli fa l'Anselmo. Aéh, ma uno lo troverò be'. L'Anselmo si avvia. Lo seguo. Alla destra di casa sua, c'è la cascina dove impila la legna e posteggia la sua macchina. L'Anselmo guida una Suzuki blu tanto piccola e stretta che gli permette di passare lungo il sentiero tra le baite pe r raggiungere la strada cantonale, all'angolo di casa mia. Un sentiero lungo sì e no cento metri. Il Frusetta continua a cercare qualcosa tra le erbacce. Noi montiamo in macchina e partiamo. Mi chiedo dove siamo diretti. Mi lascio trasportare.

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I.i\ POZZI\ DEl.l.'/\NSELMO

Posteggiamo in piazza e andiamo a fare la spesa dal Marietto Vescovi, detto Marietto Del Negozietto. Ha quasi cinquant'anni e vive giù a Corzoneso con la mamma Esterina, vedova e invalida e inchiodata al letto, prossima agli ottanta. Lui lavora al negozietto da sempre, da quando l'aveva iniziato il suo poro babbo, l'Evelino, che ancora era alle elementari. È un tantino lento di comprendonio, il Marietto Del N egozietto. E parla poco. E se poi sta affettando prosciutto o salame, come adesso, ancora meno. Oltretutto, si porta marchiata sulla fronte la pessima fama del lumacone. Una coppia di svizzero tedeschi si sta facendo preparare dei panini al cotto. Lui, un generico quarantenne. Le i, prorompente bionda tutta gambe e culo. Il Marietto Del N egozietto fa parere di non averci visto entrare. Ha lo sguardo imbesuito sull'affettatrice, con l'occhio destro. E stralunato sulle chiappe della tedesca, con quello sinistro. L'Anselmo mette sul banco della cassa la sua spesa. Cioccolato, yogurt, pane, fiammiferi e una saponetta e aspetta. La preparazione dei panini va per le lunghe. Allora L'Anselmo sfila una banconota da venti franchi dalla tasca delle braghette, la mette di fianco alla cassa e ce ne andiamo. Ci lasciamo Leontica alle spalle e scendiamo verso il fondovalle. Dopo alcuni tornanti, l'Anselmo accosta, ferma la macchina e tira il freno a mano ed esce. Lungo il letto di un torrente oramai secco da una vita, ci sono alcuni castani centenari. L'Anselmo si porta sotto il primo e inizia a raccogliere castagne. Lo aiuto. N e raccolgo un paio e poi le guardo. Sono castagne piccole. Troppo piccole, mi dico. Queste qui, mi dice come se avesse letto nei miei pensieri, son magrine, che vengon giù dopo le altre. Son tardive, queste qui. Arrivati in fondovalle, svoltiamo a sinistra, direzione nord. Ad Acquarossa, attraversiamo il ponte sul fiume Brenno e proseguiamo lemme lemme. Raggiungiamo e ci lasciamo alle spalle il museo di Lottigna, poi la Cima Norma di Torre, poi Aquila. Anselmo, dove si va? Rivoi. Eh? Rivoi, ripete con un tono più deciso, come se non avessi sentito bene. Arriviamo a Olivone. Rivoi. Ci fermiamo davanti al bar Posta. Entriamo. La giovane barista conosce l'Anselmo. Buongiorno Anselmo. Buondì.

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Com'é? Mah, fin che si tribula ... Poi quando non triboliamo più, amen. Amen, ripete la giovane barista, preparando un tè di menta per l'Anselmo che intanto prende tra le mani La Regione a comincia a sfogliarla, partendo dall'ultima pagina come fanno gli anziani. lo in questo bar ci sarò entrato sì e no dieci volte ma questa barista non l'ho mai vista. Mi avvicino a lei, e le ordino un macchiato tazza grande. Appoggiati al bancone del bar, tre contadini con gli stivali di gomma inzaccherati di letame bevono un rosso e parlano del tempo. È poi fatto anche lui alla sua maniera, dice il primo. Aé h, ribatte il secondo. Ma tra te e il tempo non so mica chi è quello messo peggio. Ridono. Prendo Il Giornale del Popolo e poi mi siedo di fronte all'Anselmo. Lui toglie la bustina di menta e poi gira il cucchiaino nel tè anche se non ci ha messo dentro lo zucchero. Gira e legge. Senza fretta. Poi volta alla pagina dei morti. Lui lo conoscevo, sobbalza, indicando col suo dito forte e nodoso l'annuncio di morte di un signore classe millenovecentoventisei. Meglio lui che me, aggiunge voltando pagina. Che almeno lui ha finito di tribolare. Leggo un articolo che parla della disoccupazione in Ticino. La disoccupazione cresce, mormoro tra me. L'Anselmo richiude di scatto il suo giornale e poi sbotta. La politica è tutta 'na gran porcada, parlandoci sinceramente, e il mondo è in mano a dei gran farabutti. Vero. E tutto il mondo è paese, commenta la barista. L'Anselmo scola il te di menta, poi ci alziamo, paghiamo e ce ne andiamo. Allora ciao Anselmo. In gamba. Sì, ciao, neh. Ciao. Montiamo in macchina. Direzione sud. Ci lasciamo Olivone alle spalle. Poi Aquila e poi Torre. Oltre il finestrino, scorrono le classiche cartoline rupestri dell'alto Ticino. All'altezza di Lottigna tagliamo giù a destra e ci addentriamo ne i campi agricoli del Pian Castro. Stalle, trattori, mucche, manzette e cavalli. Posteggiamo ai bordi del fiume Brenno. In questo tratto, l'acqua scorre su un letto di grossi massi che emergono ravvicinati l'un l'altro. Buzze profonde non più di un metro. Cinque balzi per attraversarlo. L'Anselmo si siede su un sasso e nell'acqua gelida immerge i piedi. Io faccio lo stesso, dopo essermi tolto scarpe e calze. Davanti a noi, guardo le Alpi levarsi come grandi cattedrali. Ammiro Leontica, le sue baite, alcuni chalet. Balza subito all'occhio, nel centro

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I.A l'O ZZA DEl.l.'ANSEI.MO

del paese, l'imponente chiesa di San Giovanni Battista in stile romanico, risalente al dodicesimo secolo. E poi, a destra del paese, solitaria nei prati al di là del torrente di N egrentino, si vede la famosa chiesetta romanica dell'undicesimo secolo dedicata a San Carlo, che tutti chiamano chiesetta di Negrentino. Sopra al paese, maestosa, la stalla del Sosto Beretta. Se strizzo gli occhi posso vedere sia casa mia che quella dell'Anselmo. Poco più sopra alla chiesetta di Negrentino, vedo la partenza della seggiovia del Nara con i suoi posteggi. I nuovi seggiolini di fibra di vetro, gialli a forma d'uovo, brillano al sole. Quelli vecchi erano di ferro con tre assi dipinte di rosso e una coperta militare per proteggerti le ginocchia dal freddo. Il più delle volte, la coperta era un blocco di ghiaccio. Poi, se chiudevi la sbarra di sicurezza, due volte su tre rimaneva congelata e, all'arrivo a Cancorì, dovevano fermare la seggiovia per liberarti. Quando hanno sostituito quei vecchi seggiolini, una ventina li hanno venduti a cinquanta franchi al pezzo e sono finiti ad abbellire il giardino di una qualche casa di vacanza con dentro i vasi di gerani, o lungo un sentiero per fare sedere i turisti e poi solo Dio sa dove ancora. Alzo di un altro poco lo sguardo e aguzzo ancora di più la vista. Dopo seicento metri di dislivello, la seggiovia arriva a Cancori, dove c'è il ristorante Pernice. Più su, oltre la pineta, il Pizzo di Nara, duemiladuecentotrentuno metri. Sposto lo sguardo di due spanne a sinistra e cerco di capire dov'è la pozza dell'Anselmo. I duemilaquattrocentosedici metri del Pizzo Erra, poi l'Alpe del Gualdo appena sotto, poi la pineta, la gola del torrente Gurundin, le cascine Gianora, ed ecco la nostra pineta, la gola del torrente. Difficile a dire. Distolgo lo sguardo. Su, libero e alto nel cielo limpido, un grosso rapace che gira in cerchio. Un aquila reale. O forse un gipeto. Che poi, che il mondo è in mano a dei gran farabutti, questo lo sanno anche i pesci di questo fiume, per conto mio, irrompe l'Anselmo guardando l'acqua. Si sentono i rintocchi delle campane dei paesi vicini. Sembrerebbe che si siano messe d'accordo, perché iniziano prima quelle di Dongio giù a sinistra, dopo due tocchi iniziano anche queste qua dietro di Lottigna, poi subito dopo quelle di là dal fiume a Castro, e per ultimo quelle su a Leontica. Sono le dieci. Ma se poi andiamo in giro a dirlo, aggiunge, allora poi ci dicono che siamo dei comunisti, parlandoci chiaramente. lo gli dico che è probabilmente vero, che sono stato licenziato tre mesi fa per via di uno sconsiderato taglio del personale. Lui mi guarda come per dirmi ecco, vedi?

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FAIIIO ANDI NA

Come se fosse piombato dal cielo, un pescatore si materializza in mezzo al fiume. Canna per la pesca a mosca, stivali verdi fino all'inguine, gilet verde da pesca, occhiali polarizzati, cappello verde a falda larga, sacco da montagna. Verde. Con movimenti flessuosi del polso destro, fa deporre la mosca secca su ogni buca dove potrebbe nascondersi una fario. Una buca a destra, frustata, lancio. Una buca a sinistra, frustata, lancio. Una buca un po' più in su. Altra frustata. Altro lancio. Tra una frustata e l'altra, un tic nervoso. La mano sinistra lascia per un attimo la presa sulla coda di topo gialla e il dito indice sale fulmineo lungo il naso per assestare gli occhiali. Abboccano?, domanda l'Anselmo, gridando un poco. Il pescatore si sistema gli occhiali per l'ennesima volta con fare stizzito, volta la testa nella nostra direzione e dalla sua bocca sembrerebbe che ne esca un Shhh, ma non si sente perché il sciabordio del fiume ce lo impedisce. Quando si risentono i rintocchi, ne conto undici. Siamo rimasti un'ora con i piedi a mollo nel Brenno, a guardare il passaggio del pescatore, che non ha preso niente, a far due parole, ma più che altro muti come due pesci. Rimontiamo in macchina, direzione Leontica. Non ero mai stato in macchina con una persona di novant'anni al volante. L'Anselmo guida prudente, ad ogni tornante suona il clacson, ogni cento metri mentre risaliamo verso Leontica. Prima di arrivare a Leontica ci fermiamo a Corzoneso e posteggiamo di fronte alla chiesa. L'Anselmo piglia il sacchetto di plastica pieno di castagne tardive e s'incammina. lo lo seguo senza dire niente. Passiamo davanti alla Casa Comunale, che è stata pitturata l'anno scorso di giallo pastello, poi ci infiliamo su per uno stradino lastricato che conduce a un pugno di baite. Le prime tre sono riattate e ben tenute, i giardinetti esotici con i kiwi e le palme e gli ulivi, le imposte chiuse dipinte di blu e rosso e giallo, le parabole sui tetti di piode nuove e le bucalettere. Leggo Van Basten, poi Hitz e infine Windmtiller. Turisti tedeschi e olandesi. Le ultime due sono baite vecchie e decrepite e dal camino esce un filo di fumo e le bucalettere non ci sono. Ci fermiamo davanti a quella peggio delle due. L'Anselmo bussa alla porta. Apre una signora anziana, grembiule blu e Crocs gialle ai piedi. Buondì, dice l'Anselmo porgendole il sacchetto. Bon. Mersi. Ciao. Ciao, neh. Ce ne andiamo. Qua in valle per dire grazie si dice mersi. Montiamo in macchina. L'Anselmo l'avvia al primo colpo e ridiscendiamo in valle.

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LA POZZA D El.1.'ANSEI.MO

Dove si va? A mangiare. Di solito in quale ristorante vai? Passo del Nara? Stazione? Aéh, il Passo del Nara, poi il Stazione, il Del Sole del Giuseppe, La Baita giù a Doisc, il Centrale su da noi a Luntia, il Pernice su a Cancorì. Che uno vale poi l'altro, per conto mio. Che tanto quelli dei ristoranti son dei gran furbacchioni. Tutti ladri di professione, pensandoci bene. Tornante clacson. Tornante clacson. Una volta in fondovalle, voltiamo di nuovo a sinistra e dopo due chilometr i arriviamo a Prugiasco e posteggiam o davanti al bar Passo del Nara. Entriamo e ci accoglie un bel camino acceso. In piedi su una sedia, la signora Ge mma Mattei, cugina del Tito Ticozzi di Leontica, sta facendo giù le ragnatele da un angolo del soffitto e ci dice che sarà subito da noi. Con un balzo, ci raggiunge e ci fa accomodare ad un tavolo e ci racconta il menu del giorno, due o tre varianti per tutta la stagione. Il suo dialetto è un miscuglio di quello della valle di Elenio e di quello bellinzonese, città natale del marito Loris. Ne risulta una cantilena a volte incompre nsibile. Per abitudine , lei tende a tradurre in italiano gran parte di quello che dice. La signora Gemma la conosco da sempre, perché quando ero bambino e andavo a Leontica per le vacanze scolastiche, era la gerente del bar Centrale. A me vie ne servito un purè di patate con due ossi buchi, e all'Anselmo purè di patate e minestrone. Lo sapevo che l'Anselmo è vegetariano. L'avevo saputo anni fa alla cena di un complean no dell'Esterina, sorella dell'Anselmo, la quale aveva anche detto che quante litigate coi nostri pori genitori, faceva l'Anselmo quand'e ra un bacia, che lui la carne non la voleva mica mangiare già da quando era piccolo e in casa lo chiamavano Bastian Contrari, che era stata la maestra di scuola a dargli quel nome. La porta si apre e una zaffata di letame precede l'ingresso di due contadini catarrosi. Tossiscono rumorosa mente, si schiariscono la voce e salutano l'Anselmo, si siedono al tavolino vicino al nostro e chiamano per due specialine. La signora G emma porta loro due bottiglie di Feldschlosschen. Allora, com'è? Come vuoi che sia, G emma. È bassa. Vero o no, Anselmo. Màh, risponde l'Anselmo, pulendo il piatto con un pezzo di pane. Màh, non so poi mica se è ancora bassa come ai miei te mpi. Per conto mio, vedendo bene le cose, si è poi alzata un tantino, se vogliamo dircela senza tanti giri di parole.

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FABIO ANDIN A

I due contadini annuiscon o, scolano la birra, uno rutta, l'altro si gratta e poi spariscono. Finito di pranzare, l'Anselmo tira fuori dalla tasca delle sue braghette un mazzetto di banconote e lascia sul tavolo due pezzi da venti franchi. Rimontiam o in macchina e risaliamo a Leontica. Posteggiam o la Suzuki ne lla cascina, chiudiam o il portone ed e ntriamo in casa. Accendi la Sarina che vado un attimo su al cesso, mi dice l'Anselmo salendo le scale. La Sarina. Accendi la Sarina, mormoro. Mi guardo attorno. Accendo la luce, poi la spe ngo. Cerco un altro interrutto re. Niente. Poi accendo il fuoco nella cucina economic a. L'occhio mi cade sulla targhetta di latta avvitata allo sportello. Sarina. In un attimo l'aria si fa tiepida e io mi lascio sprofonda re sulla sedia. Quando la pentola contenente il rosmarino e il pizzico di sale inizia a borbottare, l'Anselmo riempie due tazze con l'infuso, e con le due tazze fumanti usciamo di casa e ci sediamo sulle panche di granito. N ella tazza ho un'acqua verdognola che scotta. L'annuso, poi guardo l'Anselmo che la sta già bevendo, risucchiandola rumorosa mente. Questa qui è medicinale, questa qui. Bevi. Ci soffio dentro, e poi la bevo. Sole alto. Aria benevole. Non si direbbe proprio che dicembre sia alle porte. Sono seduto sulla panca di destra e mi guardo attorno. L'Anselmo raccoglier e un caco, lo mette sotto i denti e si sbrodola la camicia. La Vittorina G ianella, ottantadu e anni, tanto gracile e minuta da ricordare uno scricciolo, svolazza fuori da casa sua e va nell'orto a strappare erbacce. È vedova del poro Osvaldo, caduto da un noce il mattino presto del ventiquat tro giugno del millenove centonova nta, mentre stava raccoglien do le noci per fare il nocino. Dopo aver munto le mucche e prima di avere potuto indossare la divisa della milizia storica di Leontica. Da quasi duecento anni, il ventiquat tro giungo si festeggia la nascita di San Giovanni Battista patrono di Leontica con la partecipaz ione della milizia. Ma quel giorno i tamburell i militari tacquero e la statua del Battista non venne rimossa da sotto il lenzuolo bianco che la protegge dalla polvere. Mai avuto figli, i Gianella. Per colpa di le i, tuonavano gli uomini del paese. Troppo magretta e piccinina. Colpa di lui, invece, sibilavano le donne. Che sparava le sue cartucce soltanto nel fondovalle . La Vittorina ha fatto finta di non averci visto e ci volta le spalle. In lontananza, giù lungo il sentiero davanti a casa mia, appare il Floro Toschini, uno spaventapasseri. Cinquanta nove anni, imbianchino a tempo perso perchè a me mi basta poi di guadagnar quel poco 74 •

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LA POZZA DEl.l.'ANSEI.M O

pe r due pasti al giorno e le mie sigarette, mi disse una volta. Musicista poliedrico, scapolo, orbo come una talpa, ma senza occhiali. Andatura stanca, stivali di gomma, un sacchetto vuoto di plastica in mano e una sigaretta arrotolata in bocca. Si ferma a salutare la Vittorina per riprendere fiato, tossisce rumorosa mente e fa alcuni commenti sul suo orto. Poi si abbevera al lavatoio e infine viene da noi. Da vicino da ancor di più l'impressi one di essere uno straccio appeso ad un bastone. O cchi cisposi e capelli lunghi brizzolati incollati al cranio. Smorto, chiede allo zio Anselmo se può prendere un zie d'insalata, che in questi giorni non riesce a mandar giù nient'altro che erba. L'imbianchino, unico nipote dell'Anselmo, riempie il sacchetto d'insalata e poi se ne va. Lo guardiamo allontanarsi. Poi l'Anselmo mi da un'occhia ta, tira un sospiro e poi s'incammina. Io osservo la Vittorina che termina di sistemare il suo orto e poi rientra in casa con due zucchini sotto le fragili ali. Lo raggiungo dietro alla cascina. Lì c'è una pila di legna di pezzi lunghi e grossi. Per farli entrare nella sua Sarina, li deve tagliare corti con la sega e poi li deve spaccare con la scure. C'è solamente una sega e c'è solamente una scure. Senza dirci una parola, iniziamo a fare legna. Mezzo metro cubo di legna dopo, l'Anselmo dice ecco, posa la sega ed esce dalla cascina e s'incammina. Lo seguo. Arriviamo in piazza nel momento in cui arriva il pulmino delle scuole di Acquarossa che riporta a casa pe r pranzo i ragazzi di Leontica. Alla sua guida c'è la Giovanna Ticozzi che i bambini scherzano spietatamente Giovanna Tutta Panna, ed hanno pienamen te ragione. Scendono la Duska e la Priska, nove anni, sorelle gemelle omozigote che però non è che sono poi così identiche. La Duska coll'inalat ore per l'asma sempre in mano, poverina, è spesso malata, e si vede. Sono figlie della Sabina Gianella, ventinove anni, maestra part time all'asilo ad Acquarossa, appena divorziata dal Giovanni, che se n'è tornato a vivere dalla mamma e dal papà di là dal ponte dell'Altan iga che divide in due

il paese. E scendono anche il Kevin e l'Elio, tredici e dieci anni, figli del Sosto e della Paolina Beretta. L'Elio è un bambino sveglio, che mangia pane e volpe a colazione, dicono tutti. Invece il Kevin, con la maglietta dei Metallica, è un ragazzino tutto particolare col bernoccolo per la musica metallara. Parla poco, meno del Marietto Del N egozietto. Certi dicono che non è tutto lui per via della musica che ascolta. Altri dicono che diventerà un artista, forse un musicista come l'imbianch ino Floro o un pittore come il Sandro Suira. E invece altri hanno paura che è già sulla strada per diventare come la Delfina, un immuson ito eremita. Ma la

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FA BIO AN DIN A

verità è che il Kevin, secondo il parere generale, ma nessuno lo afferma, è arretrato, punto e basta. Noi proseguia mo oltre, attraversi amo il ponte dell'Altaniga e tagliamo su per un sentiero che ai tempi era una mulattiera ma che adesso è solamente pieno di erbacce. Sbuchiam o al curvane del Castagno Grande e poi scendiam o verso le seggiovie. Una passeggiata attorno al paese, così, tanto per restare fuori di casa. Entriamo in casa. Lui prende alcune castagne arrostite e si siede al tavolino. N e mangiamo alcune. Nel frattempo arriva il Basiglio Frusetta con una grande zucca arancione sulla spalla. L'Anselmo ringrazia mersi, afferra la zucca con le due mani, la posa sul tavolino con cautela, la taglia in due e toglie i semi che poi mette in un foglio di carta da giornale per fare seccare al sole. Il Basiglio dalla folta chioma bianca abita da solo da una vita intera in una baita imponente dietro alla casa dell'Ansel mo. Muri massicci, piccole finestre con infissi logori e tetto paurosamente pericolante. I due vecchi si conoscono da sempre. Sono andati a scuola assieme qui a Leontica dove adesso c'è la Casa Comunal e. Ai nostri tempi c'era una maestra per tutti, mi raccontaro no un giorno al bar. Era la Toschini di Prugiasco. Una gran bigottona. Più cattiva del diavolo, per conto mio, sempre se il diavolo esiste, precisò l'Anselmo facendo sghignazzare il Basiglio. Eravamo almeno una trentina, o forse anche qualcuno di più. Maschi e femmine tutti dentro la medesima aula. C'eran bocia dappertut to, qui a Leontica, una volta. Eh, Anselmo. Ma una volta le genti erano un po' come i conigli, che eran poi sempre dietro a razzare. Ridono. C'erano anche la Delfina, poi l'Esterina, e poi il Fosco, cercò di ricordare l'Anselmo. Sì, il poro Fosco. E poi c'era anche la Serafina. La Serafina? Mah. Il Basiglio Frusetta è conosciuto in valle perché gioca tutti i pomeriggi a scopa all'Osteria Centrale di Leontica ed è difficilmen te battibile. Non è raro vederlo giocare contro vecchi lupi che vengono apposta fino a Leontica dai paesi della valle per sfidarlo. Il Torneo dei Tre Porcellini del Centrale lo vince sempre lui. Quest'anno ha battuto in finale il barbuto Pep Maestro di Castro. In semifinale si era sbarazzato di un tizio che giù a Malvaglia, si dice, non perde dall'inizio del nuovo secolo. E ogni anno, il Basiglio regala i tre porcellini dati in premio perché lui ha ben altro con cui tenersi occupato. Infatti, il Frusetta, è soprattutt o conosciut o per i conigli che alleva a bizzeffe e maniacalm ente. Da lì, il soprannom e Basiglio 76 •

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LA POZZA DEl.1.'ANSEI.M O

Coniglio, appioppatogli dai bambini di Leontica. Nella sua cascina, il Basiglio Coniglio ha sempre un maschio e quattro femmine che fa razzare a rotazione, e per tutto l'anno mangia conigli a tradiment o. Alle sue bestiole dà da mangiare erbe selezionate che raccoglie in giro per i prati. Una volta gli avevo portato un sacco da centodieci litri pieno di erba che avevo tagliato nel mio giardino, ma lui mi disse che quell'erba i suoi conigli non la mangiano mica perché l'avevo tagliata con lo jeki boy. L'Anselm o mette due pezzi di legna nella sua Sarina e poi aggiunge due pezzi di zucca a bollire assieme al rosmarino, recupera un giornale dal forno della Sarina ed esce. Si siede sulla panca di granito di sinistra e comincia a sfogliare dall'ultim a pagina il Giornale del Popolo di due giorni fa. Che gli passa la barista dell'Oster ia Centrale. L'Anselmo non ha il telefono, non ha la televisione, non ha la radio. Non ha nemmeno la bucaletter e. La postina Agnese Donetta gli consegna le poche lettere che riceve sulla panca di granito. Per un po', guardo l'Anselmo che legge il giornale. Che tribola contro il vento. Poi rientro al caldo. Quassù a Leontica, nei giorni di fine novembre, il sole tramonta già prima delle cinque. Si sta facendo buio e tira un'ariaccia che scende dal Lucomagno, dove stamane ha messo giù un po' di neve. L'Anselmo rientra. Io mi stavo quasi appisolan do con la testa :ml tavolino e non mi ero accorto che in cucina si era fatto più freddo. Mi mette il giornale tra le mani e infila un pezzo di faggio nella Sarina. Mentre mi sto riscuotend o dal torpore, l'Anselmo prende delle castagne da un sacchetto di plastica e comincia a farci il taglio che si fa per poi farle arrostire. Io pesco un coltello da un cassetto della credenza e l'aiuto. Dopo un attimo mi dice che così va bene, apre le finestre e la porta, e poi mette le castagne sul piano della Sarina, che è così caldo che ci si potrebbe arrostire un uovo. Le castagne arrostiscono. Il fumo esce. Ogni tanto le gira con la mano. Aspettiam o. Quando sono pronte, le raccoglie tutte e le mette sul tavolino. Scende in cantina e ritorna con due formaggini stagionati. Ceniamo con castagne, formaggini, due pezzi di zucca bolliti e pane e beviamo l'infuso di rosmarino, sale e zucca. Mi guardo in giro. In cucina non ci sono pentole e padelle, scolapasta e mestoli. Mi domando se mai l'Anselmo cucina risotto o al limite un piatto di pasta. La mia pora mamma, attacca l'Anselmo come per risponder e ai mie i dubbi, lei sì che era brava a far da mangiare, la mia pora mamma. I

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I A l!IO ANDINA

gnocchi, era brava a fare, per conto mio. Di domenica. Col sugo e tutto quanto. Ma ci stava dietro tutta la mattina, quella pora donna, per farli. Li impastava. Poi a messa al volo, e poi via a riaccend er la Sarina e farli bollire in t empo per mezzogi orno. Sempre di corsa, quella donna. E poi le cast agne. Quante castagne mi ha fatto mangiare, la mia pora mamma. Anche per colazione, bollite nel latte. Che noi bambini si andava per boschi a prenderl e, a cavagnate, che a quei tempi di miseria se non eran patate eran castagne. E vicevers a, parlando ci chiarame nte. O arrostite o cotte. O cotte o arrostite , le castagne. Che non c'era mica via di mezzo. Ma le patate quelli sì. Quelle le sapeva far la in tutte le maniere che allora no n si d iceva mica che si mangiav an sempre patate. No, perché si diceva che si mangiav an i gnocchi, si mangiava il puré, le patate al forno col rosmarino, poi quelle nella brace. Si mangiav a la zuppa di patate, si mangiav an patate e cipolle, poi quelle bollite con su uno spizzico di sale, e via discorrendo. E am en. Tira un lungo sospiro poi dice ecco, si alza e sparecch ia. C'è sile nzio, in queste quattro mura. C'è silenzio fra di noi. Non dobbiamo dirci nulla. La giornata sta per spegners i. Io mi domand o se domani l'Anselm o sarà ancora disposto ad avermi com e ospite. L'Anselmo esce e ritorna con tre pezzi di legno e li depone da parte alla Sarina. Dopodic hé, da sotto il tavolino recupera una pentola di rame dal coperchio forato, simile a quella che ho appeso per bellezza sopra al camino di casa mia. Con l'a iuto di una palettina di ferro riempie la pentola con tizzoni ardenti che preleva dalla Sarina. Infine, riattizza il fuoco e si avvia su per le scale portando la pentola. Lo seguo. Accende la luce della sua cam era da letto, alza le coperte, c'infila sotto la pentola, poi spegne la luce e scendiam o di sotto. L'Anselm o è seduto immobile su una sedia. Ha l'aria stanca. Sbadiglia, e me lo attacca, così sbadiglia mo assieme. Lo guardo ma non so cosa dirgli. Rivedo i gesti che fa prima di andare a letto, nel suo silenzio, nella sua solitudin e. Lo guardo, e vedo un uomo di novant'a nni che ha appena trascorso un'altra giornata uguale a tante altre, m a così piena ed unica. All'impr ovviso si alza di scatto e mi dice che va a letto. Allora io lo saluto e gli domand o se domani mattina ci rivediam o. Bon, mi risponde. Se la valvola non mi scatta stanotte, allora ci vediamo. Senò amen, e sparisce su per le scale. Io spengo la luce, chiudo la porta e vado a casa.

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PROFILI

Omaggio a Amleto Pedroli



A un anno dalla scomparsa. Ricordando Amleto Pedroli. Gli Amici del "meraviglioso"*.

n anno fa, il 12 ottobre 2011, Amleto ci ha lasciati. Ma non è il sensibile poeta, o l'altrettanto eccellente narratore, il fine letterato, l'acuto saggista e biografo, il raffinato traduttore che vogliamo ricordare qui. Altri l'hanno fatto e lo faranno, perché la sua vasta opera lo merita. È dell'aspetto meno noto della sua produzione, del frutto di una trentennale collaborazione e profonda amicizia, avviata nel segno del sussidio didattico per docenti e allievi delle nostre scuole ele mentari, che vorremmo tratteggiare qui un breve profilo. Tutto iniziò nel 1980, quando l'Ufficio dell'insegnamento primario invitò un gruppo d'insegnanti in vari ordini di scuola a produrre uno strumento adatto a rinnovare l'attenzione per il fatto poetico nelle elementari. Alcuni di questi erano colleghi di Pedroli nella Magistrale di Lugano in anni, dai quali si stava fortunatamente uscendo, di forte pressione ideologica. Lo conoscevano quale uomo competente, di grande umanità, dotata di una sensibilità sicuramente fuori dal comune, che vedevano sopravvivere con il suo tranquillo rigore, la sua grande semplicità e la sua capacità di stupirsi e di sorridere anche in un tempo di profonde contestazioni studentesche. Era una di quelle persone che sanno trasformare la loro sensibilità in forza interiore e sanno vivere la complessità con grande naturalezza, senza farsi mai prendere da una pura logica di semplice e banale schieramento. Persone come lui aiutavano a non farsi prendere da emozioni subitanee, a rimanere almeno per un momento al di fuori della potenziale conflittualità, a privilegiare l'attenta lettura di chi, prima di noi, aveva vissuto situazioni simili e ne aveva parlato e scritto. In prosa o in poesia. Da quel gruppo alcuni uscirono, per ragioni diverse, ma mai per attriti insorti nello svolgimento del comune impegno. Altri vi entrarono, nel corso di una trentennale attività che permise di affinare una forma

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•Del gruppo hanno fatto parte, in tempi diversi, Domenico Bonini, Sandro Bottani, Franco Cavani, Ugo Canonica, Alessandro Capoferri, Marioliva Cavalli, Alberto Cotti, Sandra Degiorgi, Sandra Del Torso, Elio Galli, Patrizia Maspero, Alberto Nessi, Amleto Pedroli, Emilio Rissone, Roberto Ritter, Franco Zambelloni.

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di efficace lavoro di squadra, dove ognuno dava un contributo a seconda delle proprie competenze ed esperienze, via via rafforzando un senso di comune, sentita amicizia. Al primo schedario di Poesie per la scuola elementare seguirono ben venti volumi, in parte sussidiari per l'apprendimento della lettura, in parte risultati di ricerche sul patrimonio folclorico, sui viaggiatori e illustratori ve nuti nelle nostre terre dal m edioevo alla "grande guerra", sul "padre dell'educazione popolare ticinese". Sempre il contributo di Amleto fu determinante, sia quando si trattava di tradurre testimonianze inedite sul Ticino, sia quando gli si chiedeva di produrre testi su aspetti narrativi o scientifici relativi a temi specifici del libro a quel momento in gestazione, con la sua profonda conosce nza, ad esempio, pure del Ticino rurale, sia quando si discuteva, e spesso animatamente, sull'impostazione teorica di un volume ... o sulle vicende burrascose dell'attualità politica. La sua "silente intensità", secondo l'azzeccata definizione dell'amico e coetaneo Mario Agliati, frutto di una personalità signorile, schiva, a volte eccessivamente timida, poteva lasciare spazio a un improvviso erompere di entusiastico buonumore, con felici scatti d'inattesa ironia, quando al lavoro comune seguiva una meritata pausa conviviale, diciamo pure ... enogastronomica. Ad esempio attorno a un succulento risotto preparato con perizia da un altro poeta, Ugo Canonica, in un grottino privato di Melide, dove si era costituito il primo nucleo del gruppo, tra di noi poi soprannominato, più per autoironia che per immodestia, dei "meravigliosi". I quattro volumi usciti tra il 90 e il 94 (Il meraviglioso, A. Dadò editore), dopo sette anni di ricerche sulle fiabe, le favole e le leggende ticinesi, sono stati, con i resoconti di viaggio nel nostro paese (Con gli occhi degli altri, Dadò, Locarno 1996), impegnative pubblicazioni che non avrebbero visto la luce senza l'a pprofondita conoscenza del Cantone, non solo del suo amato Mendrisiotto, di Amleto Pedroli. Nel ricordo gli saremo perciò sempre riconoscenti per averci accompagnati e umanamente arricchiti in un percorso di tre decenni, non su una strada "dove le vite s'incrociano, / senza sosta, ignorandosi, chiuse in un guscio". Grazie, Amleto.

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Amleto Pedroli Inediti

Palme uando morì la povera Carla, noi abitavamo ancora vicino alla sua villa. Era il tempo in cui il grande giardino della sua famiglia si apriva anche per me e la Carla, a me bambino, sembrava una giovane molto attraente ch e ricordo sempre vestita di bianco, forse perché di lei avevamo conservato a lungo una fotografia che la ritraeva nel suo giardino, con un abito bianco sul suo cavallo da sella, una bestia bella lustra, molto diversa dai brocchi dei contadini, poveri animali che lavoravano, trainavano carri, aravano. Il cavallo della Carla era trattato bene e aveva una bella stalla, dietro la villa, con altri cavalli. Figura patetica, sulla fotografia, quella Carla, vestita di bianco, come se dovesse andare a nozze, anche se quel giorno per lei non sarebbe mai venuto! Essa stava spesso nel suo parco, appena il tempo lo permetteva, per lunghe ore nella bella stagione, o davanti alla villa, verso la strada, o sotto il bersò dal quale si potevano vedere alcune case, o passeggiava sotto i grandi alberi del bosco di sua proprietà. Oppure usciva a fare qualche visita presso gente che abitava in una villa come la sua, o quasi, perché nella contrada vivevano almeno cinque o sei famiglie che potevano stare alla pari colla famiglia della Carla. Erano gli Americani o i Milanesi; i primi tornati qui dopo essersi arricchiti in Argentina, gli altri che venivano d'estate per lunghi periodi, benché certo avessero un'a ltra casa in città. Gli uni e gli altri avevano qualche contatto con la gente minuta che stava intorno, come noi, arrivati qui per ultimi, tra le ville, tra qualche casa di contadini, un'osteria di campagna. Certo i nostri rapporti con la sua famiglia non erano proprio da pari a pari. La loro situazione era tale che nessuno, nella nostra strada, poteva sperare di essere accolto in quella loro villa se non chiamato per qualche incombenza, non si sa mai. Era una caratteristica della contrada quella di avere messo vicine, certo casualmente e in poco tempo, alcune famiglie ragguardevoli, accanto ad altre famiglie che erano, se non poverissime, almeno al confronto delle prime di scarse o scarsissime possibilità economiche. I si-

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PRO FILI •

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AMLETO PEDROI.I

gnori, è vero, non erano venuti qui per caso a costruire le loro ville. I loro giardini si ste ndevano su un leggero pendio e poco distante si apriva la campagna pianeggiante. C osì avevano, dietro le case, i boschi digradanti e davanti la campagna con prati e campi. Era certo invece un caso che qualche pezzo di terra fosse stato riservato per le nostre casette, come se noi avessimo potuto approfittare dei ritagli delle proprietà che non erano state acq uistate dai signori. La villa de lla Carla, arretrata rispetto alla strada, quasi nascosta, non faceva neppure pensare alla ricchezza, dato che il parco sembrava un prolungamento del bosco e dato che nessuno, o quasi, sapeva come fosse l'arredamento di quella villa. Nessuno si domandava cosa ci fosse nelle ville dei ricchi. Le dimensioni del parco, la fitta piantagione, le piante rare, che non si t rovavano nelle case dei contadini, non facevano soggezione. Era un mondo, quello dei signori, del quale si sapeva poco o nulla. Arrivati a una condizione di calma immutabile, di conquistato benessere, essi non facevano più parlare di sé, come se, raggiunta la ricchezza, inte rrotti i negozi, che pure dove vano essere stati all'origine della loro prosperità, essi, non solo non avevano più bisogno di darsi da fare, ma sembrava che volessero essere dimenticati. Il mondo del lavoro quotidiano finiva al cancello delle loro ville. O era il discreto e sile nzioso affaccendarsi del giardiniere intorno alle aiuole, alle siepi di bosso, verdissime sempre, sacre muraglie su cui il tempo non passava. O era il lavoro ancora più lontano dei contadini, sui campi dei signori, nelle case dove nulla era supe rfluo, tra le piante che avevano una precisa destinazione, una loro utilità. La Carla viveva invece in una di queste ville e nel suo parco c'e rano anche le palme, che certo non crescevano sulle terre dei contadini. Si tratt ava di boschetti di basse palme che formavano un sottobosco, o alte palme isolate che cercavano la luce e che si vedevano da lontano. Dalla nostra casa potevo vedere quelle palme sempreverdi, con le foglie irte, frastagliate, che sembravano messe anch 'esse a custodia della villa, a difesa della serenità della famiglia, come le punte delle inferriate del cancello e della ringhiera che correva intorno al giardino verso la strada. Erano piante che m i ap parivano un po' ostili, stregate, con quel t ronco fasciato da un'oscura rete di peli vegetali. Tuttavia esse quasi scom parivano, vicino alle grandi masse delle conifere cupe che sovrastavano su tutte le piante del giardino. Ed erano certo assai diverse dalle palme che si sarebbero viste in seguito, nei giardinetti, messe a tre per volta un po' sghembe, ridicolmente e inutilmente collocate accanto

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I NEDITI

ai muri delle villette in stile mediterraneo. Ma i signori che abitavano le ville di allora erano difesi e protetti, non solo dalle piante, dalle muraglie, dalle inferriate. Famiglie di servitori, di giardinieri, di portinai, custodivano la loro riservatezza. Qualcuno di tanto in tanto apriva una porta, un cancello, che si movevano per lasciar passare chi entrava o usciva. La Carla, si diceva, non aveva buona salute. "I suoi sono morti presto" e "muoiono presto", diceva qualcuno più informato, "con tutto il loro denaro". Di più non si aggiungeva, ma tutti sapevano che cosa volesse lasciar capire quell'accenno, quella limitazione, introdotti di straforo nel discorso che si faceva intorno alla sua famiglia. Nulla, neppure la ricchezza, aveva potuto impedire che la Carla si ammalasse. "Muor giovane chi al cielo è caro", si diceva; ma intanto era veramente troppo giovane la Carla per morire. I figli dei vicini si ammalavano e morivano anch'essi, ma erano sempre numerosi. La Carla era sola, era l'ultima della sua famiglia e con lei sarebbe finita la casa, si sarebbe chiusa la villa e addio. Chi sarebbe andato a vedere il suo nome scritto a lettere d'oro sulla cappella di famiglia? Tutto quel verde del giardino, quel poco sole che entrava in casa, quell'oscurità come in una chiesa. Ecco perché la Carla moriva. "E quell'umidità della vasca, ampia come un laghetto! Credete che faccia bene alla salute? Credete che sia sano per un'ammalata come lei?" Bisognava pure trovare una spiegazione sottomano, una causa della malattia. Bisognava pure fingere di capire perché la Carla moriva, fingere di credere a qualche causa improbabile. Morivano i figli dei contadini, ma era il loro destino; uno o due in ogni famiglia, è naturale che morissero. Ma la Carla, sola e senza fratelli né sorelle. Eppure era venuta anche lei al mondo per penare, la poveretta. Soffocava in quella sua casa grandissima, fasciata dal verde, difesa da cancelli, inferriate, alberi, gente che le stava attorno, che andava e veniva, senza dare nell'occhio. Entrava il medico, una volta al giorno, per settimane di seguito. Davanti alla villa della Carla stava una famiglia di mercanti che, pure abitando in una povera casa, stavano facendo fortuna e guadagnando, di giorno in giorno. La moglie, la mercantessa, stava spesso alla finestra, come se non avesse nulla da fare. Scarmigliata, grassoccia, pettegola e intrigante, cercava di capire che cosa succedeva nella villa della Carla, spiava avidamente chiunque entrasse e, quando giungeva il medico, la sua curiosità diventava più acuta, si rivolgeva al marito

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AMLETO l'EDRO LI

e riferiva subito ciò che aveva visto. Non che le importasse la salute, il progresso della malattia della Carla, questo no. Le bastava soltanto sapere prima di chiunque altro ciò che avveniva o supponeva avvenisse all'interno della villa. Era come se assistesse a uno spettacolo, a una vicenda della quale si vuole conoscere l'esito, buono o cattivo che fosse. Una finta pietà per la giovane Carla, diventata oggetto di attenzione, di curiosità da parte di una donna per la quale la malattia non era altro che una manifestazione di parità, un conto che tornava in pareggio. La vicina di fronte, che poteva vedere, meglio di chiunque, l'andare e il venire, seguiva dalla finestra le vicende della casa, per quel poco che si poteva capire. Finché un giorno la notizia sarebbe uscita, non inaspettata, attesa come una liberazione, come un sollievo, per lei e per noi.

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INEDITI

La bicicletta 'avevo vista passare davanti a casa, mentre stavo per prendere la bicicletta e fare il mio solito giro, dato c he ero in vacanza. Aveva un braccio fasciato, sost e nuto da un fazzoletto colorato ch e girava attorno al collo, mettendo in evidenza il volto un po' pallido e le treccine nere ch e lo incorniciavano. Se ne andava diritta, sicura ma come assorta. Era slanciata, un po' magretta. Veniva dalla strada d ell'ospedale passando davanti a casa mia e si avviava verso la campagna, in uno dei villaggi; avrei poi saputo quale, dopo qualche minuto, quando avendo deciso di seguirla, avevo preso la bicicletta. Bisogna dire c he, passando, mi aveva visto, mi aveva un po' guardato, anche se non aveva fatto nessun cenno, ed e ra rimasta come chiusa in sé stessa, concedendo appena un quasi invisibile movimento de l viso. Dopo qualche ped alata avevo rallentato e, rimanendo in sella - così avrei potuto riprendere subito la corsa, nel caso si fosse mostrata scortese o anche solo fredda - avevo continuato, senza correre, al passo, in equilibrio, pe r mette rmi vicino a lei che continuava a camminare, guardando avanti a sé, un po' intimidita ma non turbata. Non aveva mostrato me raviglia per il fatto che l'avessi raggiunta e mi fossi fermato. Cominciammo a discorre re, le chiesi dove andava, da dove veniva, c hi era. Avrebbe dovuto rifare la stessa strada per alcuni giorni, perché era in cura all'ospedale p e r via della m ano fasciata. Abitava in un villaggio vicino, ch e sentivo spesso nominare e che io raggiungevo abbastanza regolarmente con la mia bicicletta. Aveva co mpiuto quindici anni e aspettava il giorno di cominciare il lavoro, che aveva già trovato, e se non fosse stato per quella mano avrebbe già cominc iato a lavorare. Ora tra m e e lei c'era la bicicletta che tenevo per il manubrio con una mano, m entre con l'altra tenevo il sellino. Ci accompagnava il fruscio delle ruote che giravano lentame nte. Era il pome riggio di un principio d'autunno e sulla strada solitaria eravamo solo noi due. Avremmo camminato per un po', parlando de lle nostre famiglie, un po' della mia scuola, un po' de l lavoro ch e lei av rebbe fatto, se

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AMLET O l'EDRO I.I

andava bene in una fabbrica, perché lei era la maggiore di una famiglia che aveva un negozietto di mercerie, le entrate erano scarse e c'erano altri fratelli più piccoli. Dopo una mezz'oretta di cammino e di conversazione, avevamo attraversato la campagna ed eravamo in vista di un villaggio. Non era ancora il suo, ma lei preferiva, da quel punto, proseguire sola, senza farsi vedere con accompagnatori. Prima di lasciarla non le chiesi se il giorno seguente sarebbe ritornata all'ospedale perché la cosa mi sembrava improbabile. Infatti mi rispose che ci sarebbe andata ancora una volta in quella settimana. Quel giorno era lunedì e all'ospedale avevano detto che avrebbe dovuto ritornare il venerdì. Per tre giorni l'avrei aspettata inutilmente, ma ero sicuro che il quarto giorno l'avrei rivista e questo per ora mi bastava. L'avevo dunque lasciata così, con un accordo fissato e non fissato, lasciato al caso, sembrava, ma desideravo che il giorno previsto sarebbe passata davanti a casa, con lo stesso passo leggero, col suo braccio al collo, le stesse treccine intorno al capo. Infatti, que l venerdì alla stessa ora, o quasi, io l'aspettavo con la bicicletta sulla strada. Come due vecchi conoscenti eravamo ancora ; ulla medesima strada e tra mc e lei stava la bicicletta. Le chiesi se avesse anche lei una bicicletta o se andava sempre a piedi. Mi rispose che non l'aveva e che andava sempre a piedi, anche se, certamente, sarebbe stato comodo, ora che avrebbe dovuto andare a lavorare, possederne una. Intanto aveva messo una mano, quella libera dalla fasciatura, la sinistra, sul manubrio, aveva toccato il campanello stringendolo con la mano prima e poi facendolo squillare, divertita come una piccola bambina. Eppure doveva tra pochi giorni andare a lavorare e non poteva più considerarsi una bambina. Infatti, quando parlava del suo futuro lavoro, dive ntava seria, già donna. Non aspettava che la guarigione. Presto la mano sarebbe stata di nuovo in condizione di lavorare; sembrava che l'unica, l'ultima vacanza della sua vita fosse proprio in que i giorni, quando era considerata come un'ammalata, co me un'invalida. Eravamo nuovamente arrivati all'entrata del villaggio e io dovevo lasc iarla. Beninteso, questa volta avevo voluto sapere quando sarebbe venuta di nuovo all'ospedale. Ed era, sembrava strano, il lunedì.

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INEDITI

L'avrei dunque di nuovo rivista. Due giorni, sabato e domenica, non sono molti, il tempo passa in fretta. Ormai mi ero abituato ad aspettare la ragazza dalle treccine e credevo di capire che anche lei facesse volentieri la strada con me. Il lunedì ero dunque ancora sulla sua strada con la mia bicicletta e lei stava di nuovo al mio fianco, anzi al fianco della bicicletta che ormai era diventata il nostro silenzioso accompagnatore, quasi un sostegno, un mediatore che facilitava i nostri rapporti, perché silenziosamente sembrava aprirci la strada in m ezzo alla campagna, anch'essa silenziosa, assolata, piena di vita. Le avevo chiesto se sarebbe stata contenta se io l'avessi fatta salire sulla mia bicicletta, così che potessimo fare qualche tratto di strada più rapidamente. Mi rispose che il venerdì seguente sarebbe stato l'ultimo giorno che doveva venire all'ospedale e allora avrebbe avuto la mano libera e dunque poteva accettare l'invito a servirsi della bicicletta, se avessi voluto farla salire. Sembrava che la bicicletta la attirasse e ora vedevo che la mano libera stringeva quasi la manopola come se volesse aiutarmi ad accompagnare il giro delle ruote che filavano lisce lungo la pianura, senza sforzo. Venne dunque il venerdì, l'ultimo, e, come sempre, l'aspettavo già sulla strada. La ragazza era ormai guarita pe rché non aveva neppure più il fazzoletto al collo. E di nuovo andavamo verso il villaggio, anche se, prima di arrivarci, la m ezz'ora di viaggio si abbreviava, pe rché la ragazza poteva salire sulla bicicletta. Le chiesi se aveva paura di cadere. Mi rispose di no, che ormai conosceva la bicicletta, ch e era sicura di stare in equilibrio sul telaio, seduta, con le gambe nella giusta posizione, col corpo messo in modo da non cadere né da una parte né dall'altra, né mi fosse d 'impedimento a pedalare. Insomma sembrava che avesse previsto tutto e che in quei giorni, in cui ci eravamo accompagnati, la bicicletta le fosse divenuta familiare. Sarebbe stato l'ultimo nostro incontro, l'ultima volta in cui ci saremmo visti, amici in qualche giorno d'estate. Ora e ra già salita sulla bicicletta, davanti a me, di schiena, tenendosi con le mani al manubrio, le mie mani vicino alle sue, e mentre pedalavo l'aria ci veniva incontro, me ntre le sue parole, i suoi gridi di gioia volavano nell'aria, lontano. Davanti a m e ora avevo la sua nuca con le treccine, le spalle, e tutti e due guardavamo avanti, la strada, i prati, gli

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AMLETO l'EDROI.I

albe ri che passavano, che sfilavano sempre più rapidamente, con la velocità della bicicletta c he aumentava. I nostri corpi si movevano insiem e, si spostavano lungo una traiettoria ch e ci portava insieme ve rso luoghi ch e non avevano più nome, fuori dallo spazio conosciuto. L'aria tiepida ci correva sul viso.

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INEDITI

Il falegname

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i fu un tempo in cui si era formata una strana compagnia di conversatori, di gente che discorreva passando qualche ora sulla strada, di sera, dopo cena. Si incontravano al crocevia, davanti allo stabilimento, dove c'era il sorvegliante che rimaneva fino a tardi nella notte, per il suo servizio. Era il più anziano di noi tutti (alcuni erano ragazzi), quasi vicino al pensionamento, ormai assestato nella tranquillità e nella indifferenza di chi non deve più darsi da fare per raggiungere ulteriori traguardi professionali. Non avendo la necessità di stare continuamente all'interno dello stabilimento a sorvegliare le macchine, poteva anche passare qualche ora davanti al cancello, in piedi o seduto sul muretto di cinta, a guardare i passanti, salutando l'uno o l'altro, finché c'era qualcuno che rincasava. Era anche un modo di lavorare, quello di stare ore e ore in un posto, davanti a macchine che funzionavano da sole, sempre, senza fermarsi. Così, avendo com e sottofondo lontano il rumore di generatori, qualche cosa come dinamo o trasformatori che ronzavano giorno e notte, il gruppetto dei cinque o sei conversatori o ascoltatori (difficile chiamarli amici o compagni) si accingeva a passare la serata. Non tutti conversavano, anzi il discorrere per lo più si svolgeva a due: il sorvegliante e un altro interlocutore. Gli altri stavano ad ascoltare e di tanto in tanto intervenivano. Il sorvegliante aveva capito che tra i vicini - che poi non erano suoi vicini di casa, p erché lui abitava in altra parte del paese - c'erano alcuni che, più adatti di altri, potevano essere convenie nti interlocutori. Col tempo e con sagacia, il sorvegliante aveva capito che bastava toccare certi argomenti, piccole allusioni p ersonali, ed ecco che il dialogo si avviava e poi diventava un monologo, sostenuto dall'interlocutore, s'intende. L'importante era che qualcuno parlasse di sé, della sua famiglia, di vicende a lui note, dei fatterelli del giorno. Dapprima il predestinato cercava di tirar dritto, senza fermarsi, poi, una frase oggi, una domani, ecco che si stabiliva il rapporto col sorvegliante e i suoi accoliti. Così per una stagione, una estate, ascoltammo le scarse, sconsolate parole del falegname che abitava vicino a noi. Usciva di casa dopo cena e si avvicinava al crocchio che lo attendeva. "Eccolo che arriva", diceva il sorvegliante, "ormai non abbiamo più bisogno di chiamarlo".

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A M LETO PEDROI.I

Il falegname viveva ancora in casa con i genitori e una sorella. Né giovane né vecchio, trasandato, con la barba di due giorni, una barba che non è una barba, ma peluzzi ribelli che gli danno un aspetto malaticcio, sofferente. Dopo la giornata di lavoro, tirata avanti di malavoglia, senza entusiasmo, questo è l'unico momento in cui non è a contatto col legno, nella bottega dove lavora anche il padre. Per qualche ora non è insieme alla famiglia, dove serpeggiano incomprensioni, dolorosi risentimenti, povertà. Il padre ha poca salute e forse avrebbe già faticato a pensare a sé stesso, figurarsi con una famiglia sulle spalle, con una moglie che, pur senza mostrare un'a perta ribellione per la situazione, tuttavia è taciturna, crucciata. La figlia è quasi nascosta in casa, chiusa anch'essa in un mondo di privazioni e di umiliazioni. Sembra che l'unico che tenga rapporti col mondo sia proprio il figlio, ma anche in lui si avverte il carattere chiuso, ipocondriaco che è di tutta la famiglia. Anche quando sorride, non è certo per allegria: lo si intuisce dal sorriso che diventa una smorfia, come se vedesse qualche cosa di sgradevole. Mai un gesto, una parola di protesta contro qualcuno. Il suo discorrere, con frasi intermesse, piene di pause, finisce quasi immancabilmente con una sentenza che deve suggellare e confermare tutte le sue ragioni di lamentarsi, di dolersi di

sé e di tutti i famigliari, di tutto l'universo. "Il legno", ripeteva alla fine di ogni sua considerazione sulla professione, "il legno lavoraY' Sicuro, tutti sapevano che il legno si muove e, se non è stagionato, una porta o una finestra, quando sono finite, devono essere ancora piallate. E sembrava che lui dovesse correre sempre di qua o di là a piallare ciò che pareva finito ma doveva essere ripreso in mano. E ce ne voleva del tempo, finché il lavoro fosse finalmente finito, consegnato, e che lui il falegname, non avesse più nulla da fare con quello che era uscito di bottega. "Il legno lavoraY', ma intanto il maledetto legno faceva lavorare anche lui, la sua fantasia. E se noi pensavamo agli alberi, ai tronchi lisci, al legno vivo, lui pensava alle assi già tagliate, al legno ancora da lavorare, al legno sempre in movimento, eternamente, per suo tormento. Lavorato dal legno era lui, il falegname! Altro che lavorare il legno! Passata l'estate, il falegname non l'avevamo più visto, né avremmo più ascoltato le sue querimonie. Rientrato in casa a macerarsi, a cuocersi con tutta la famiglia, vittime del legno. Il legno lavorava anche in loro, a

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INEDITI

lungo, profondamente. I poveretti sembravano avvolgersi in un bozzolo come i bachi da seta: un filo di pazzia li avvolgeva tutti e quattro. Ci sono delle famiglie, i cui componenti, dovendo vivere insieme giorno per giorno, prendono tutti la stessa identica inclinazione. Ascoltando gli stessi discorsi, gli stessi lamenti, anche la famiglia del falegname aveva preso a peggiorare, a lasciarsi andare nell'inedia, a non più uscire, o a uscire soltanto per casi di necessità, anche se i casi di necessità diventavano sempre più scarsi, ché niente, alla fine, è necessario, quando non si vuol continuare a vivere. Non li avevamo più visti. La stagione del falegname era passata, ma si veniva a sapere che la famiglia andava disfacendosi. Uno dopo l'altro, una misteriosa malattia aveva abbreviato la loro vita, non campavano a lungo. Il vecchio giovane falegname, il compagno un po' irriso delle nostre serate se ne era andato per primo. Poi il padre che non poteva più tirare avanti la baracca. Poi le due donne. Nessuno avrebbe più sentito parlare del falegname né della sua famiglia.

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INEDIT I

Chiesa di San Francesco hi fosse entrato nella chiesa di San Francesco, la domenica mattina, alla messa delle nove, avrebbe visto, nel primo banco, proprio davanti all'altar maggiore, col lucente tabernacolo, la Signorina, alzarsi in piedi alla lettura del Vangelo, inginocchiarsi alla comunione, accostarsi al Sacramento e prendere la particola. Sul banco della Signorina, ora riservato e occupato da lei sola, come unica rimasta della famiglia, stava una targhetta d'ottone con inciso quel nome benemerito e ben noto, diffuso e comune, ma divenuto quasi straordinario, unico e rispettabile per tanta fama. Quanto a lei, l'erede, ancor più del nome di famiglia, bastava che fosse nominata come la Signorina, e tutti sapevano di chi si trattava. Aveva passato buona parte della sua esistenza nel borgo, proprio a due passi dalla chiesa, e usciva di casa soltanto la domenica, per la Santa Messa, mentre negli altri giorni stava quasi reclusa nei locali della villa o in giardino, tra gli alberi centenari, tenendo nelle sue mani l'e redità, amministrando con oculatezza quel patrimonio invisibile a tutti, ma non a lei. La villa era ignota ai più, quasi fosse diventata una proprietà al di fuori della circoscrizione comunale, un'isola irraggiungibile, segreta, fra tante case che invece tenevano le porte aperte, e non solo in senso figurato. La villa costituiva soltanto una piccola parte della fortuna familiare, quasi parte emergente di un immenso iceberg. Nel giardino, ogni anno, con la bella stagione, apparivano i fiori, e chi passava aveva la garanzia che la villa era abitata, mentre i grandi alberi continuavano a proteggere la serenità, la pace dell'unica abitante. Era come un luogo al di fuori del tempo e dello spazio, dove si spegnevano le voci, i rumori d'attorno. I parafulmini, con le loro punte dorate, si stagliavano nel cielo, protettivi e minacciosi come le cime delle inferriate. La chiesa di San Francesco avrebbe potuto essere la cappella privata della famiglia, non solo perché la proporzione della stessa si accordava con la misura del loro possedimento o per il fatto che fosse così vicina, ma anche perché essi avevano provveduto alla manutenzione della stessa e i fiori che stavano sull'altare venivano dal giardino della villa. Nella sua lunga esistenza, la Signorina aveva fatto in tempo a vedere tre o quattro preti che si erano avvicendati nella chiesa di San Fran-

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AMLETO l'EDRO I.I

cesco, e ognuno poteva testimoniare della generosità di lei. L'antichità della chiesa stessa era per lei una garanzia, quasi un conforto, perché contribuiva a riaffermare una fede tramandata di generazione in generazione, così come poteva essere tramandata la ricchezza lasciata dagli antenati. Essa sembrava protetta, nella sua grande proprietà, dagli assalti del tempo, dalla malattia, dalla morte. Come gli alberi del giardino non temevano le stagioni, erano coni immobili, masse impenetrabili, se non agli uccelli che vi nidificavano, così essa stava, sicura nella sua villa protetta dai rumori, dagli sconvolgimenti nel mondo esterno. Si sentiva sicura, per il fatto che per opera sua il solido capitale, la ricchezza non sarebbe mai diminuita, non avendo nessuna necessità di spendere per sé, in quanto intorno a lei c'era tutto quanto occorreva, e a tutto aveva già pensato il saggio antenato. Così come la solida villa e ra una sfida contro il tempo, la decadenza, così la cappella mortuaria era fatta per durare, solida come una piccola fortezza, visibile e ammirata da tutti. Vi stavano i familiari, vigilati da lei che stava come l'ultimo anello di una catena la cui parte restante, la più lunga, era già stata inghiottita dal buio. Il fatto di poter fantasticare quanto fossero vaste e varie le proprietà della Signorina era cosa che suscitava in tutti quelli che la conoscevano un certo interesse, come se ognuno partecipasse o potesse partecipare a questo possesso o come se tutta la collettività traesse vantaggio dall'accumularsi di tale ricchezza. Da tempo immemorabile, la campanella della chiesa di San Francesco suona alla stessa ora e la Signorina esce dalla sua villa ed è come se venisse da una distanza incalcolabile, tanto la sua persona è irraggiungibile, lontana, segreta. Quando sale i gradini per raggiungere la porta della chiesa, alcune donne fanno ala e lei impartisce il suo sorriso che vuol essere un segno di cordialità, di attenzione per un mondo che le viene incontro per una breve apparizione. Dopo di che essa tornerà a rinchiudersi nella sua villa, sarà presente nella storia del borgo, darà il suo contributo alla collettività, ma rimarrà nascosta, irraggiungibile.

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(RE)VERSI Claire Genoux Poesie da Saisons du corps e da L 'Heure apprivoisée tradotte da P. Agustoni

Claire Genoux é nata a Losanna nel 1971. Laureata in Lettere presso l'Università di Losanna nel 19971 pubblica in questo stesso anno la sua prima silloge poetica, Solei[ ovale. Nel 1999 pubblica Sainsons du corps, raccolta che le vale il Premio di poesia C.E. Ramuz. Nel 2000 pubblica Poitrine d 'écorce, il suo primo libro di narrativa, al quale segue, nel 2004, la raccolta poetica L 'Heure approvoisée. Nel 2006 pubblica i racconti Ses pieds nus, e nel 2010 il volume che raccoglie tutte la sua poesia, Poésie 1997-2004. La sua piu recente pubblicazione é la silloge Faire Jeu, del 2011. Attualmente Claire Genoux lavora come insegnante presso l'istituto letterario svizzero a Bema. I testi qui tradotti sono estratti dalla silloge Saisons du corps e L'Heure apprivoisée. Prisca Agustoni è nata a Lugano nel 1975. Poeta, narratrice e traduttrice, vive tra la Svizzera e il Brasile, dove lavora come docente universitaria. Ha pubblicato poesie e traduzioni in riviste letterarie in Italia, Portogallo, Stati Uniti, Spagna, Francia, Messico e Brasile. In collaborazione con il poeta brasiliano Edimilson de Almeida Pereira, ha fondato la casa editrice Sans Chapeau, che si occupa di poesia. Ha all'attivo numerose traduzioni di poesia italiana in portoghese, e di poesia brasiliana in italiano. La sua traduzione più recente à costituita dalla silloge del poeta romando Julien Burri, Jusqu'à la transparence, tradotta in portoghese e pubblicata integralmente in Brasile nel 2011.


C l.AIRE GENOUX

De L'heure apprivoisée, Bemard Campiche Editeur,

2004.

Quand l'hiver a sonné à ma porte j'ai pensé aux branches bleues que la lumière de janvier ne peut rendre plus vives ainsi j'ai noué à ma taille le cordon des semaines vite elles sont devenues Lourdes comme un sac de grains à tirer sur la route très vite elles ont eu Jaim pour les nourrir j'ai disputé son pain à la nuit au milieu de l'herbe indifférente

Ne rien dire de mon corps que les sommeils capturent comme un cavalier nu ne rien dire de ces veines que les hommes décousent à la lueur des lampes ne pas parler non plus des Jées Jéroces que le travail a penchées sur leur rouet surtout ne pas citer les mots qui ouvriraient mon ventre comme une voile

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l'OÈMfS Dr. I .'I I EURE APPRI VOISÉE lT DI: SAISONS DU CORl'S

Da L'heure apprivoisée, Bernard Campiche Editeur,

2004.

Quando l'inverno ha suonato alla mia porta ho pensato ai rami blu che la luce di gennaio non riesce a ravvivare e ho così annodato alla vita il cordone delle settimane presto sono diventate pesanti come un sacco di grano da tirare lungo la strada presto hanno avuto fame per nutrirle ho conteso il loro pane alla notte in mezzo all'erba indifferente

Non dire nulla del mio corpo che il sonno cattura come un nudo cavaliere non dire nulla di queste vene scucite dagli uomini al chiarore delle lampade e nemmeno parlare delle fade feroci che si sono chinate lavorando sul loro filatoio soprattutto non citare le parole che aprirebbero il mio ventre come una vela

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CLAIRE GENOU X

Si la vie ne donnait qu 'une seule nuit pour aimer je choisirais celle remplie de sang /rais que les loups convoitent celle qui bat en trilles sous les chemises entrouvertes si la vie ne donnait qu'une Jois l'étreinte je mangerais tout de suite les ventres de mes dents pointues en habile sorcière que je suis

Hote de cette terre malgré mai Joulant sa poussière et ses prés je gaspille la vie Jraiche et m 'entretiens volontiers avec l'été si calme sous les pants accrochée au convoi des soleils il y a longtemps que j'agite mon mouchoir pour perdre la mémoire de la mort

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l'OÈMES /JE 1:1 IEURE APPRIVOISl'.E C/' /Jt-: SAISONS DU CORPS

Se la vita mi desse una sola notte per amare sceglierei quella colma di sangue fresco che i lupi bramano quella che trilla sotto le camicie semiaperte se la vita mi desse una sola volta l'a bbraccio mangerei subito il ventre coi miei de nti appuntiti come abile strega che sono

Ospite di questa terra mio malgrado calpestando la sua polvere e i suoi prati sciupo la vita fresca e m'intrattengo volentieri con l'estate così calma sotto i ponti appesa al convoglio dei soli da te mpo agito il mio fazzoletto per perdere la memoria della morte

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Cl.AIRE GENOUX

De Saisons du Corps, Poèmes, Moudon: Editions Empreintes, 1999 (Prix de poésie C.F Ramuz 1999)

L 'azur te sied camme il sied aux cathédrales il épouse ta poitrine brulée et t'habille de son étoffe ruisselante de vent avec la grace du soir qui s'efface entre les arbres ta part d'étemité dans ce paysage tu l'ignores encore tu m 'attends près du quai il suffirait pourtant de courir vers toi de sauter la bouche close contre ta chemise d'épines

Le lac notre lit (son eau vivante de draps défaits sa Jourrure éclaboussée d'azur) je disparais entre ses plis ouverts je me couche consentante sur son matelas craquelé de vagues Jendu d'orages son pays de vignes épinglées aux pentes son pays vient à nous avec son refrain de rives qui se dérobent avec sa Jatigue et son eau étranglée sous le ciel mort prends-moi toute entière Jroissée comme une pétale

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l'OÈMf.S DE 1:1 IEU RE APl'RIVOIS!;E ET DI: SAISONS DU CORl'S

Da Saisons du Corps, Poèmes, Moudon: Editions Empreintes, 1999 (Prix de poésie C.F. Ramuz 1999)

L'azzurro ti si addice come si addice alle cattedrali sposa il tuo petto bruciato e ti veste con la sua stoffa grondante di vento con la grazia della sera che si scansa tra gli alberi la tua parte d'eternità in questo paesaggio la ignori tutt'ora mi aspetti vicino al marciapiede eppure sarebbe sufficiente correre verso di te saltare la bocca chiusa contro la tua camicia di spine

Il lago il nostro letto (la sua acqua viva di lenzuola sfatte la sua pelliccia infangata d'azzurro) sparisco tra le sue grize aperte mi corico consenziente sul suo materazzo screpolato d'onde incrinato di temporali

il suo paese di vigne appuntite sui pendii il suo paese viene a noi con il ritornello di rive che si sottraggono con la stanche zza e l'acqua strozzat a sotto il cielo morto prendimi intera sgualcita come un petalo

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Cl.A IRE GENOUX

Obstinée j'ai scruté le lac à m'en empoisonner les yeux épluché une à une chacune de ces nuits qui roulaient sur nos corps me laissant grelottante au fianc éteint des arbres la poitrine dévorée par la lune hative avec du papier de verre il Jaudrait que je puisse Jrotter mes paupières rétrécir les reves que je puisse noyer mes yeux détruits dans ce grand lac d 'octobre au refiet roux des raisins murs

l'aurais voulu un été enroulé à tes doigts comme des anneaux d'argent un été de soirs dévetus au Jond des cours et de lunes bleues pareilles à des épaules j'aurais été reine au pays du ciel éclaboussant les pierres et reine au fieuve de ton ventre mes deux seins posés haut comme des oiseaux mes deus cuisses - étau plissé au rire de neige qui remplit la bouche un été de langue qui claque tendue aux sources troubles des sous-bois un été de dents plantées dans les Jruits rouges

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POl'MJ:S DE L'J IEURE APl'RIVOISI\E ET DE SAISONS DU CORl'S

Ostinata ho scrutato il lago fino ad avvelenarmene gli occhi sbucciato una alla volta ogni notte che rotolava sui nostri corpi lasciandomi tremante sul fianco spento degli alberi il petto divorato dalla luna frettolosa con la carta vetrata dovrei poter raspare le mie palpebre raccorciare i sogni poter annegare i miei occhi distrutti in questo grande lago d'ottobre dal riflesso fulvo dell'uva matura

Avrei voluto un'estate avvolta alle tue dita come degli anelli d'argento un'estate di sere svestite in fondo alle corti e di lune blu simili a delle spalle sarei stata una regina nel paese in cui il cielo cosparge le pietre e regina nel fiume del tuo ventre i miei seni posati in alto come uccelli le mie cosce - morsa piegata al ridere della neve che riempie la bocca un'estate di lingua che schiocca tesa alle sorgenti torbide del sottobosco un'estate di denti conficcati nei frutti rossi

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C l.AIRE G ENOUX

]'ai deux pieds joints deux yeux remplis de vertige un visage que le solei! entaille avec sa piume deux mains égratignées de prières une pèlerine de papier pour traverser les tempetes une ceinture de caresses à la taille deux souliers sans semelle et le foulard gris de la mort autour du cou

Du Jond de man sommeil dans les dentelles de man vetement d'écorce j'écouterai follement je le jure - mes oreilles dussent-elles s'emplir de terre le babillage des jardins sous les étoiles du jour et l'hirondelle qui ne parie qu'aux vivants

je pianterai mes pieds dans l 'étrier des pentes je baiserai la lèvre déchiquetée des chemins ma bouche - meme cousue d'un fil de pierre.

Un soir je partirai seule rendre à la nuit man coeur de craie j'échangerai l'or des chemins contre un ciseau d'argent pour découper les siècles je partirai et je ne me souviendrai plus d'avoir un jour été ici

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O PERA NUOVA 2013/i


l'OÉMES DE 1:1 IEU RE APPRI VOISÌT E'/ Dli SAISONS DU CORPS

Ho due piedi uniti due occhi colmi di vertigine un viso che il sole intaglia con la sua penna due mani graffiate dalle preghiere una mantellina di carta per attraversare le tempeste una cintura di carezze alla vita due scarpe senza suola e il foulard grigio della morte attorno al collo

Dal fondo del mio sonno nei merletti del mio vestito di corteccia ascolterò follemente lo giuro - le mie orecchie dovettero riempirsi di terra il chiacchierio dei giardini sotto le stelle del giorno e la rondine che solo parla ai vivi piante rò i miei piedi nella staffa dei pendii bacerò il labbro frastagliato dei sentieri la mia bocca - seppur cucita con un filo di pietra.

Una sera partirò da sola per restituire alla notte il mio cuore di gesso scambierò l'oro dei sentieri con delle forbici d'argento per ritagliare i secoli partirò e non mi ricorderò più di essere stata qui un giorno

(RE)VERSI •

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Gli autori di Opera Nuova Prisca Agustoni 2011/t Fabio Andina 2013h Flavio Arrigoni 2013/ 1 Fabiano Alborghetti 2010/ 1 Pier Carlo Apolinari 2010/2 Raffaele Beretta Piccoli 2011/t Daniele Bemardi 2013/t Vanni Bianconi 2010h Domenico Bonini 2011h Tomaso Bontognali 2010h Elia Buletti 2010h Pierre Chappuis 2ou / 1, 2012h Lucia Colombi-Bordoli 2010h Valeria Dal Bo 2012/ 1 Andrea De Alberti 201 2/ 1 Daniele dell'Agnola 2013h Daniela Delfoc 2011h Mauro Delfoc 2011 h Jacques Dupin 2010/ t Simone Fomara 2011h Gaetano C. Frongillo 2012/i Lia Galli 2012/i Mario Gamba 2011/i C laire Genoux 2013 h Silvia Harri 2011h Federico Hindermann 2010/ 1 G ilberto [sella 2013/t Elisabetta Jankovic 2012h Elena Jurissevich 2010/t Pierluigi Lanfranchi 2ou!t Simonetta Martini 2011h Massimo Malinvemi 2011/i Nadia Meli 2013h Paola Menghini 2010h Gerry Mottis 2012/t, 2013h Laura Muscarà 2011/i Alberto Nessi 2011/i Amleto Pedroli 2013h Alfonso Maria Petrosino 2010h Vincenw Pezzella 2013h Annamaria Pianezzi-Marcacci 2010h Mariacristina Pianta 2012/2 Ivan Pozwni 2012/ 1

Fabio Pusterla 2011/t Federico A. Realino 2013/t Sergio Roic 2012/ 1 Paola Celio Rossello 2012h Tiziano Rossi 2011h Luca Saltini 2011 /i Laura Sarotto 2013h Oliver Scharpf 2010/ 2 G iulia Elsa Sibilio 2012/ 1 Tommaso Soldini 2013h Flavio Stroppini 2010/t, 2010h, 2012/t, 2013/i

Denise Stomi 2012/i, 2013h Vincenzo Todisco 2013/2 Andrea Trombin Valente 2012/i Maria Rosaria Valentini 2013h Bemard Vargaftig 2013/t Simone Zanin 2013/ 1


Le interoiste di Opera Nuova Pier Vincenzo Mengaldo 2010h Fabio Pusterla 2 0 11/ t Gian Mario Villalta 2010 h

I collaboratori di Opera Nuova Prisca Agustoni 2010h, 2012h, 2013h Giovanni Bardazzi 2010h Andrea Bianchetti 2013/i Raffaella Castagnola 2010/i , 2011/i, 2012/i, 2013/1

Luca Cignetti 2010/ 1 Dario Corno 2010/i, 20 12/t, 2013/i Simone Fornara 2011/i Simone Giusti 2010h Gilberto Isella 2010/i, 2011h, 2013/t Nina Jaeggli 2010h Sandro Lanzetti 2012/2 Paola Magi 2013/2 Flavio Medici 2011h Margherita Orsino 2011/t, 2012h Emilio Palaz 2012h Maurizio Palma di Cesnola 2011 h Giulia Passini 2012/1 Matteo Maria Pedroni 2010/i Mariacristina Pianta 2012/ 1 Giuseppe Polimeni 2012/ 1 Giulia Raboni 2011 h Stefano Raimondi 2011/t Gerardo Rigozzi 2010h, 2011h Roberto Ritter 2011h Sergej Roic 2013/1 Matte Viale 2012/ 1 Luca Zuliani 2010h


Le pubblicazioni di Opera Nuova

Collana Autografica Federico Hindennann, Cerchi di luce, 2010 (chf. 20.-) 2. Prisca Agustoni, Casa delle ossa, 2010 (chf. 20.-) 3, Pier Carlo Apolinari, Preludi e fughe senza indicazioni di tempo, 2011 (chf. 20.-) 4. Robero Milan, Il mare alla rovescia, 2011 (chf. 20.-) 5. Gilberto lsella, Scarto, 2011 (chf. 20.-) 6. Simone Fomara e Mario Gamba, I cavalieri davanti al fiume, 2011 (chf. 30.-) 7. AA.VV., Il punto illustrato, 2011 (esaurito) 8. Sergej Roic, Il gioco del mondo, 2012 (chf. 30) g. Pierre C happuis, Il mio sussurro. Il mio respiro 2012 (chf. 30) 1.

Collana Riflessi 1.

POESIT Repertorio bibliografico dei poeti nella Svizzera Italiana, a cura di Raffaella Castagnola e Matteo Viale,

2012

(chf.

30)


Poesie evlzzere con sonoro originale dal 1937 a oggi Poesle moderne In otto lingue

A c11a di Roger Perret e lngo St:arz per il Pffeento cult;nJe Mig,-os.

l.etleratura / Letlunì d'aulore DigibOolt COfl 2 CO• 140 pagin,. durat, 155 ,,.,; eirell. CHF 39,00 ISBN; 979·3"85616-429· 4

-w.murianvurlag.ch

il Peroento clft.\Jrale Mlgros promuove la poesie sVIZ.Zera oonternporanee, percento-ainurele-migros.cn


finito di stampare nel mese di giugno

2013

Tipografia Lepori e Storni, Lugano - Viganello



ISSN 1663-2982 ISBN 978-88-96992-11-1 CHF 30.•


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