



Il primo numero dell’anno si apre con il prosieguo del nostro approfondimento sulla situazione dei crematori in Italia e della necessità di una legislazione accurata. Ma non solo: diamo uno sguardo ai nostri cimiteri, i veri bastioni del ricordo per la popolazione ed esploriamo il tema ambiente e imprenditoria funeraria tra sostenibilità, obblighi normativi e nuove opportunità per un futuro che rispetti le direttive europee.
Parliamo di suicidio assistito con il convegno organizzato da So.Crem Bologna e di lutto anticipatorio nei familiari di anziani afflitti da demenza, argomenti difficili da affrontare per chi sta vicino ai propri cari coinvolti in uno di questi frangenti.
Focus su perdita e strategie di elaborazione, ovvero: il burnout degli operatori funerari che vivono quotidianamente l’esperienza del lutto; come affrontano gli italiani la ricorrenza dei defunti e ghost bikes, le biciclette bianche in ricordo delle vittime di incidenti stradali.
Non possono infine mancare i nostri preziosi consigli per la comunicazione aziendale: l’importanza delle emozioni nel neuromarketing. Per concludere: fun facts, le morti più peculiari dei presidenti USA; arte, la peste raffigurata nei quadri dei grandi pittori tra Medioevo e Manzoni. 4 18
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ATTUALITà
Quali tecnologie per la cremazione del futuro?
ATTUALITà
Cremazione, la situazione in Italia
PARLIAMO DI... I cimiteri: antichi bastioni del ricordo
attualità
Oggi parliamo di suicidio assistito
legale, fiscale Ambiente e imprenditoria funeraria marketing
Il ruolo delle emozioni psicologia Il burnout negli operatori funerari
orme
Gli italiani e i defunti parliamo di... Demenza e preparazione alla morte
costumi e curiosità
Le biciclette fantasma curiosità
Le morti presidenziali arte
La peste per immagini 4 18 24 46 52 58 64 40 12 34 28 68
di Fabrizio Giust Senior Partner di GemTech Ambiente s.r.l. - Udine
I forni crematori elettrici possono rappresentare una soluzione per la realtà italiana?
Da alcuni anni diversi costruttori del Nord Europa hanno sviluppato impianti di cremazione alimentati elettricamente di nuova generazione, installati principalmente in Olanda, Germania, Svizzera, Inghilterra e Danimarca. Ad oggi sono stati installati circa una sessantina di questi impianti di nuova generazione. Per questo motivo, un confronto
compiuto con i forni a gas non è facile per la ancora scarsa diffusione e mancanza di dati consolidati. Abbiamo infatti riscontrato una forbice piuttosto ampia nei dati e nelle prestazioni forniti dai vari costruttori. Per esempio riguardo alla minor portata fumi, la forbice va dal 30% al 50% in meno rispetto ai forni a gas. Per i dati riportati abbiamo fatto riferimento ad una ricerca condotta dall’Università di Coventry nel 2021 su alcuni forni elettrici installati nel Regno Unito ed in Olanda.
Il tempo medio di cremazione del forno elettrico è di circa il 40% superiore a quello a gas. La portata fumi del forno elettrico viene dichiarata dai costruttori, inferiore rispetto al forno a gas dal 30 al 50%. Le emissioni di CO2 del forno elettrico sono circa il 70-80% inferiori rispetto al forno a gas. Le emissioni di Biossido di azoto (NOx) del forno elettrico sono circa 25-30% inferiori a quello a gas, principalmente dovuto ad una diversa gestione delle temperature di processo. Dal punto di vista delle minori emissioni, il forno elettrico presenta un innegabile vantaggio
Poiché le fluttuazioni di temperatura in un crematore elettrico sono minori (il forno è sempre mantenuto in temperatura), l'usura della muratura refrattaria è minore. Di conseguenza, il refrattario dura più a lungo, rendendo il forno più sostenibile in termini di manutenzione.
Il forno elettrico ha minor turbolenza, una combustione più tranquilla e silenziosa. Inoltre i fumi sono più secchi e meno umidi a tutto vantaggio per gli impianti a valle quali caldaia e sistema di filtrazione, meno soggetti a condense acide.
Dal punto di vista dei locali tecnici, il forno elettrico migliora il livello di comfort per gli operatori, con valori di emissioni sonore dichiarate inferiori a 60 dB/A.
Il tempo di pre-riscaldo di un forno elettrico moderno si è ridotto di circa il 40% rispetto ai vecchi forni elettrici anni ’80, attestandosi comunque a circa tre giorni. Per questo motivo il forno elettrico non viene spento ma messo in stand-by fissando una temperatura, vicina alla temperatura di lavoro, sotto la quale non scende mai quando non in attività.
I benefici energetici riguardano l’eliminazione del consumo di metano, in parte bilanciati dall’aumento dei
consumi elettrici (circa il doppio) e dei relativi costi. Per questo ha senso pensare, in Italia, all’installazione di forni elettrici esclusivamente in abbinamento a una fonte di energia rinnovabile, nello specifico il fotovoltaico completato da un accumulatore.
Ci sono dei limiti operativi da considerare: il forno elettrico ha difficoltà, in fase di pre-riscaldo per il caricamento del primo feretro del ciclo di cremazione giornaliero, a superare 750°C in camera secondaria, contravvenendo alle prescrizioni delle norme nazionali.
Per quanto riguarda gli aspetti socio economici, le conseguenze sono contrastanti: da un lato migliora l’accettabilità dell’impianto e dall’altro lato il costo del servizio di cremazione potrebbe aumentare, anche come conseguenza dei maggiori costi di investimento per l’acquisto di un forno elettrico (superiori di circa il 20-25%) rispetto ai forni a gas tradizionali.
Il futuro è già tracciato: gli impianti energetici per la produzione di beni e servizi saranno sempre meno alimentati a fonti fossili, sostituiti dalle rinnovabili a basso costo di produzione.
L’agenda 2030 prevede un aumento
notevole della quota di energie rinnovabili nel mix energetico globale e un raddoppio del tasso globale di miglioramento dell’efficienza energetica. Propone inoltre di ridurre in modo sostanziale inquinamento e contaminazione di aria, acqua e suolo.
Nel prefigurare gli scenari futuri, non si può non tenere conto del pensiero di Jeremy Rifkin, economista americano consulente anche della Commissione Europea, secondo il quale il futuro dell’energia risiede nella produzione discreta e diffusa delle energie nei territori e nella figura di un nuovo tipo di imprenditore: il “Prosumer” che è contemporaneamente consumatore e produttore di energia elettrica.
Le filiere energetiche del futuro saranno, secondo Rifkin, costituite prevalentemente da produzioni discrete e numerose dai territori periferici e non da centri di produzione. Si passa da una produzione elettrica prevalentemente centralizzata ad una produzione diffusa, distribuita e auto consumata dai singoli territori e in parte distribuita ad altri consumatori costituendo delle Comunità Energetiche Locali
I nuovi criteri progettuali di un crematorio devono quindi tenere conto dei maggiori spazi tecnologici
richiesti dalle nuove soluzioni impiantistiche volte all’ottimizzazione energetica e a indurre una riduzione degli impatti complessivi nel territorio circostante.
Una nuova sfida pertanto si prospetta nel prossimo futuro per il settore della cremazione, considerando l’orientamento a livello europeo alla riduzione delle emissioni di CO2 ed un conseguente taglio nell’utilizzo di combustibili fossili.
Gli impianti di cremazione, essendo infrastrutture di servizio che hanno una vita utile di 25-30 anni, devono intercettare lo sviluppo tecnologico e soprattutto il progressivo processo di decarbonizzazione previsto nel prossimo futuro, facendo scelte tecniche mirate e consapevoli degli effetti di medio-lungo periodo.
Le nuove tecnologie, tenendo conto dei cambiamenti climatici, dovranno tendere a sostituire le fonti fossili, energia elettrica e metano,
per ridurre l’impatto globale in termini di emissioni di CO2, in termini di emissioni inquinanti (PM, NOx, SO2) e in termini di costi correnti del servizio che si riverberano sul costo della cremazione per la società. In breve, le nuove tecnologie dovranno tendere a una strategia di alimentazione energetica che approssima o realizza l’Off Grid
In Italia il settore della cremazione soffre di una ormai cronica mancanza di una normativa nazionale che regolamenti gli aspetti tecnico-operativi e le emissioni in atmosfera degli impianti, non avendo il Legislatore dato seguito ai decreti attuativi ai sensi dell’articolo 8 della legge 30 marzo 2001, n. 130.
Redigere una nuova normativa specifica per la cremazione e nuovi regolamenti che tengano conto delle nuove esigenze ambientali, energetiche ed economiche omogeneizzando le numerose normative
regionali e adeguandole tecnologicamente alle nuove BAT aggiornate, è una esigenza prioritaria per salvaguardare la cremazione come servizio ai cittadini.
Il primo passo che un gestore dovrebbe compiere per migliorare le prestazioni del proprio impianto di cremazione è quello di renderlo il più efficiente possibile dal punto di vista operativo, energetico ed ambientale. Questo non solo porterà dei benefici all'ambiente, ma darà anche la possibilità di ottimizzare i costi di gestione dell’impianto.
A fronte di quanto fin qui detto, le scelte energetiche per i gestori di impianti crematori devono essere valutate in base ai benefici relativi, cioè disponibilità di approvvigionamento, considerazioni ambientali, costo di investimento e di gestione, recuperi energetici, vantaggi
ambientali e socio-economici per il bacino di riferimento dell’impianto e facilità d'uso.
Nel modello di valutazione che abbiamo utilizzato, il beneficio specifico si ottiene dividendo il beneficio della singola terna di parametri considerati per l’ammontare dell’investimento necessario per l’installazione delle misure di efficientamento energetico, e permette di stabilire una priorità tra i progetti da confrontare in un processo di pianificazione.
L’utilizzo del biometano può essere un contributo significativo alla riduzione del cosiddetto carbon foot print tra tutte le opzioni analizzate in precedenza a costi ragionevoli e assolutamente irrisori dal punto di vista impiantistico. Abbinandolo con un impianto fotovoltaico, costituirebbe un esempio di virtuosità energetica ed ambientale. Molti esperti del settore energetico ritengono che il biometano sia in grado di fornire
in prospettiva un apporto significativo al fabbisogno energetico dei Paesi occidentali, utile soprattutto per i settori più difficili da decarbonizzare.
Per gli impianti di cremazione esistenti le misure di efficientamento consigliabili sono:
• Utilizzo del biometano per coprire parte del fabbisogno termico di combustione fino a un valore stimato del 40%.
• Utilizzo del fotovoltaico per coprire progressivamente i fabbisogni elettrici fino alla copertura totale.
• Recupero termico e teleriscaldamento.
• Recupero termico e produzione di fluido refrigerante.
L’insieme di dette misure di efficientamento sono in grado di:
• annullare gli impatti e produrre effetti virtuosi dal punto di vista ambientale globale con un contributo alla riduzione dell’utilizzo
dei combustibili fossili a livello territoriale;
• ridurre l’impatto economico sul medio-lungo periodo e infine ridurre l’impatto delle emissioni inquinanti;
• migliorare la qualità dell’aria.
Per i nuovi impianti è opportuno valutare la fattibilità dei crematori elettrici in relazione alla riduzione del costo dei vettori di energia elettrica.
Come già detto, ad oggi in Italia, indipendentemente dagli aspetti autorizzativi, la soluzione del forno elettrico è un’opportunità se abbinata ad una fonte di energia rinnovabile.
Inoltre, la tecnologia elettrica ha notevoli margini di miglioramento, in particolare nella riduzione dei tempi iniziali di accensione e di durata della cremazione (elettrodi ad alto irraggiamento, uso di aria comburente arricchita di ossigeno, forno elettrico ibrido, ecc,).
In futuro, nel lungo termine, si
potranno adottare tecnologie diverse dal forno elettrico in ragione dello sviluppo tecnologico di altre soluzioni, in particolare i diversi tipi di biocarburanti e, potenzialmente, l'idrogeno.
Alcuni costruttori stanno sviluppando un concetto di forno ibrido con bruciatore a gas in camera primaria e resistenze elettriche in camera secondaria per mantenere la temperatura richiesta.
Ciò teoricamente consentirebbe di ridurre i tempi di pre-riscaldo, aumentare le temperature di pre-inserimento e migliorare le prestazioni nella fase finale della cremazione in camera primaria.
Nel Regno Unito un costruttore olandese ha sperimentato nel crematorio di Reading, in collaborazione con la locale Università, l’uso di bruciatori che utilizzano idrogeno in blend al 30%.
L’utilizzo dell’idrogeno è una soluzione interessante dal punto di vista tecnologico però prevede attualmente ancora un investimento ele-
vato, un limitato vantaggio economico, complicazioni tecnologiche e vantaggi ambientali marginali rispetto alle problematiche indotte; detta opportunità tecnologica è stata analizzata anche se, al momento attuale, le possibilità di una reale applicazione sono risultate limitate e improbabili.
Lo stesso dicasi per la produzione in cogenerazione di energia elettrica e termica con ORC; questa soluzione ha ancora un costo di investimento elevato e rendimenti bassi a piccole potenze che lo rendono attrattivo per crematori con tre o più linee di cremazione.
Altre soluzioni tecnologiche già sviluppate negli Stati Uniti e nel Regno Unito, quali l’idrolisi alcalina, non sembrano poter soddisfare una domanda crescente di cremazione a cui si assiste in Italia ed in Europa, ma sembrano destinate ad essere una alternativa di nicchia sia per motivi tecnici che etici. Infatti gli elevati consumi d’acqua, le modalità operative di gestione della salma, gli
alti costi di investimento e di gestione ne limitano la diffusione.
Nel medio-lungo periodo è ipotizzabile pensare che si passerà dagli attuali crematori alimentati a metano a crematori alimentati da biocombustibili o elettricamente da fonti rinnovabili, in particolare con il fotovoltaico affiancato da accumulatori elettrici.
Considerazioni ambientali a parte, l'investimento in qualsiasi progetto di recupero dell'energia sarà guidato dalla valutazione economica dell’investimento. Un progetto con un ritorno di due o tre anni sarà approvato, ma se questo comporta un ritorno a cinque o più anni, diventa economicamente non conveniente.
Rileviamo infine che il settore della tecnologia di cremazione, dopo anni di soluzioni consolidate e standardizzate, sta sperimentando nuove vie, dimostrando una certa vivacità che fa ben sperare per un futuro migliore per lo sviluppo e la sostenibilità della cremazione.
Sinistri Stradali
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di Valeria Leotta
responsabile sefit-utilitalia
Anche per l’anno 2023 si conferma il trend di crescita della cremazione in Italia con un 38,16% e questo rafforza la posizione degli operatori del settore associati a SEFIT (Servizi Funerari Italiani) che ritengono necessario esporre delle riflessioni su quegli elementi considerati fondamentali per il corretto sviluppo della cremazione nel prossimo futuro.
Principali destinatari ed interlocutori dovranno essere le istituzioni e i cittadini: le prime per gli aspetti normativi di regolamentazione degli impianti, i secondi per ricevere chiare informazioni sul funzionamento
dei crematori e sui servizi forniti. Per quanto riguarda gli aspetti normativi, si evidenzia che, nonostante l’importante crescita del settore, non esiste ancora una regolamentazione tecnica nazionale specifica sugli impianti crematori. Infatti, non è stato emanato il decreto interministeriale che, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge 30 marzo 2001, n. 130 “Disposizioni in materia di cremazione e dispersione delle ceneri”, avrebbe dovuto definire “le norme tecniche per la realizzazione dei crematori, relativamente
ai limiti di emissione, agli impianti e agli ambienti tecnologici, nonché ai materiali per la costruzione delle bare per la cremazione” (art. 8). Tale mancanza comporta che ogni Regione stabilisce dei limiti specifici in relazione alla localizzazione dell’impianto ed alla tecnologia adottata, ogni impianto deve osservare la propria autorizzazione al funzionamento rilasciata dalla
Autorità competente per territorio, la quale spesso fa riferimento ai limiti e ai sistemi di controllo previsti per le emissioni degli inceneritori.
È bene invece sottolineare, anche nei confronti dell’opinione pubblica, che i crematori per la modalità di funzionamento e soprattutto per la tipologia e l’omogeneità dell’oggetto di combustione sono completamente diversi dagli inceneritori. Nelle emissioni dei crematori si devono infatti considerare le seguenti caratteristiche:
• L’impianto lavora a ciclo (ciclo di cremazione).
• I feretri e i corpi umani hanno caratteristiche chimico-fisiche praticamente costanti.
• È possibile prevedere l’uso di feretri con caratteristiche di minore impatto sulle emissioni (es. legno naturale, vernici ad acqua, imbottiture non inquinanti).
• I feretri vengono privati delle parti metalliche (es. maniglie, crocifissi) prima di essere introdotti nel forno.
• Per quanto detto sopra, le emissioni in atmosfera da un impianto sono limitate a un numero ristretto di inquinanti.
• Gli impianti sono dotati di filtri a maniche che intercettano gran parte degli inquinanti e, prima della sezione con il filtro, nella maggior parte dei crematori italiani, costruiti in tempi relativamente recenti rispetto agli altri Paesi europei, si riduce significativa-
mente l’emissione di inquinanti attraverso l’iniezione di composti a base di bicarbonato di sodio e carboni attivi.
Altra lacuna normativa che si registra è a livello regionale e riguarda la pianificazione territoriale degli impianti di cremazione. L’art. 6 della L. 130/2001 prevede che le regioni adottino tale piano secondo alcuni criteri, ma ad oggi pochissime regioni hanno provveduto e non sempre le decisioni prese si sono rivelate adeguate. Il punto, dopo più di venti anni dall’adozione della legge sulla cremazione, è che bisognerebbe domandarsi se quei criteri siano ancora oggi adeguati. Nel frattempo, infatti, il numero di cremazioni e la mortalità media sono cresciute di molto e poi bisogna anche considerare gli sconfinamenti di cremazione tra regioni diverse. Tutti elementi che fanno deporre verso l’opportunità di prevedere una pianificazione nazionale della rete dei crematori con un aggiornamento dei criteri.
Le descritte lacune normative, unitamente alla mancanza di conoscenza di un settore di recente sviluppo, incidono anche sui cittadini e sulle scelte politiche condizionate da timori non giustificati sull’inquinamento dei crematori. Negli ultimi anni, infatti, è cresciuta la pressione dell’opinione pubblica contraria all’installazione di impianti di cremazione con prese di posizione politiche a tal riguardo; conseguentemente, territori che necessitavano di copertura del servizio sono rimasti sprovvisti. É dunque evidente come l’asimmetria informativa condizioni il corretto sviluppo della cremazione e come diventi fondamentale fornire informazioni chiare, soprattutto rispondendo alla domanda: ma i crematori italiani sono veramente pericolosi? Innanzitutto, bisogna partire dagli ultimi dati disponibili (anno 2022) elaborati dall’ISPRA e riportati in Tabella 1 (per approfondimenti si veda il paragrafo 6c del documento “La cremazione in Italia. La regolamentazione tecnica degli impianti e i risultati di uno studio sulle emissioni in atmosfera” reperibile su www.sefit.org) dai quali risulta che l’impatto della cremazione sulle emissioni in atmosfera totali italiane è assolutamente irrilevante (rappresentazione grafica in fig.1) e ciò nonostante la cremazione sia scelta da circa il 36% degli italiani (percentuale anno 2022) con una diffusione sempre più capillare sul territorio nazionale.
Figura 1 – Impatto delle emissioni in atmosfera dei crematori sulle emissioni totali italiane
In secondo luogo, si deve considerare che la maggior parte degli impianti sono di recente installazione e dunque sono dotati della miglior tecnologia disponibile, con risultati che li caratterizzano come meno inquinanti rispetto alla media europea. Infine, va rilevato che le emissioni dei crematori potrebbero essere ridotte se si intervenisse a monte sulla normativa nazionale, prevedendo disposizioni che vietino l’utilizzo di certi materiali inquinanti nel confezionamento del feretro.
Da ultimo è importante continuare a svolgere gli studi sulle emissioni dei crematori e divulgarne i risultati.
In Italia ISPRA, in collaborazione con SEFIT, ha avviato nel 2015 e nel 2019 due indagini 1 (una terza indagine è in fase di avvio) per poter utilizzare fattori di emissione nazionali nella stima delle emissioni dalla cremazione al posto dei valori di default suggeriti dal Guidebook EMEP/EEA nell’ambito della redazione dell’inventario delle emissioni UNECE sull’inquinamento transfrontaliero. Dall’ultimo studio emerge che l’inquinamento atmosferico prodotto dai crematori italiani è generalmente contenuto e che un’obiettiva valutazione degli inquinanti emessi può essere effettuata solo se si tiene conto delle masse e delle portate in gioco che caratterizzano, appunto, il funzionamento del crematorio in modo diverso da un inceneritore.
Concludo con alcune considerazioni circa l’importanza di fornire informazioni sui servizi svolti. L’aspetto di regolamentazione dell’impianto non va disgiunto dall’essenzialità del servizio fornito alla persona. Non va infatti dimenticato che la cremazione è un processo delicato che comprende non solo l’adempimento meramente tecnico di una serie di atti formali e operativi, ma anche il rispetto di regole etiche e comportamentali per quello che rappresenta l’ultimo saluto alla persona cara defunta. E funzione tecnica e funzione sociale non possono essere disgiunte, se si vuole rappresentare il crematorio come un luogo di erogazione di un servizio etico e sociale dove si svolgono anche riti funebri che, grazie alla loro dimensione comunitaria, funzionano come catalizzatori dell’elaborazione del lutto. Ecco perché è importante investire in politiche di regolamentazione del settore che tengano conto della migliore tecnologia e dell’opportuna localizzazione degli impianti per rendere accessibile il servizio ai cittadini nel rispetto della salute e della sostenibilità ambientale ma anche in politiche di divulgazione delle informazioni sui servizi e la loro modalità di prestazione, come già alcuni degli operatori oggi stanno facendo.
(1) I risultati dei due studi sono riportati all’interno del documento “La cremazione in Italia. La regolamentazione tecnica degli impianti e i risultati di uno studio sulle emissioni in atmosfera” reperibile su www.sefit.org
Confronto cremazione sul totale nazionale delle emissioni
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luoghi
di conforto per i dolenti e di memoria storica della collettività. PARLIAMO DI...
Per capire e soprattutto salvare il ruolo dei cimiteri in Italia, dobbiamo chiederci: perché esistono i cimiteri?
Dal XVIII secolo in poi, cioè qualche tempo prima di Napoleone e soprattutto dopo dell’editto di Saint Cloud, il cimitero servì principalmente per motivi igienico-sanitari: per allontanare cioè, dai luoghi di vita, gli effetti per i viventi dei fenomeni di trasformazione cadaverica. E, anche, per togliere alla Chiesa un asset
importante sia economico che di potere. Storicamente, in passato, le funzioni cosiddette di “stato civile” erano appannaggio delle parrocchie, che registravano vivi e morti. Il primo embrione dello Stato moderno italiano nacque così: espropriando la Chiesa dalle funzioni di stato civile e di gestione dei morti (nei camposanti e le sepolture nelle chiese). Tornando alla localizzazione del cimitero, lontano dall’abitato, le zone di rispetto cimiteriale erano la
fisica interpretazione della necessità di allontanare i pericoli per i viventi, connessi con gli effetti della sepoltura dei cadaveri.
Inoltre, il cimitero è stato e continua ad essere luogo di memoria storica di una collettività. Un luogo istituzionale dove le comunità si riuniscono per ricordare i defunti e condividere il dolore della perdita. Spazio dei cittadini, o ancor meglio “bene comune” perché in esso la società conserva il proprio passato e rende omaggio ai suoi antenati. Tanto che in Italia il cimitero, per norma di codice civile, è bene demaniale comunale. Il demanio è “il complesso dei beni appartenenti allo stato e ad altri enti pubblici territoriali, in quanto destinati all’uso diretto o indiretto dei cittadini”. Ogni lapide o pietra tombale, ogni cappella, è testimone di storie personali e collettive. Il cimitero ha però anche una ulteriore importante funzione, soprattutto nella fase iniziale del lutto: serve per disporre - per ogni persona - di un luogo ben identificato, riconosciuto dalla società, in cui talune fasi del lutto possano evolvere. Nel cimitero si può anche liberamente piangere, disperarsi per la perdita di un proprio caro, mentre questo si esita a farlo in altri luoghi pubblici o quando si cammina in piazza… È quindi un supporto determinante all’individuo colpito dalla morte di un proprio caro.
Negli ultimi tempi, il modo in cui percepiamo e utilizziamo i cimiteri sta cambiando, con riflessioni importanti sul loro significato e sulle loro funzioni all’interno della società contemporanea.
Diversi studi autorevoli, negli ultimi anni, hanno infine segnalato come sia fortemente calata nel tempo la frequentazione del cimitero. Studi
che è opportuno ripetere anche oggi per monitorare attentamente l’evolversi del fenomeno.
Si aggiunge che la frequentazione del cimitero è ben diversa tra persone con lutto recente e persone il cui lutto è avvenuto da oltre un anno. E ancora tra persone anziane e persone giovani.
Lo stesso periodo di lutto, un tempo codificato (per il modo di vestire e di comportarsi) nella sua durata pubblica, si è fortemente contratto negli ultimi decenni.
Essendosi allungata di parecchio la durata della vita media in Italia, è cam-
biata la struttura demografica sia dei defunti (ora hanno una età mediamente di dieci o più anni rispetto a quelli di mezzo secolo fa) sia di chi ha necessità di frequentare, per motivi di ricordo e lutto, il cimitero. Con ciò che comporta questo fenomeno e cioè una dipendenza da figli e parenti auto-muniti per gli spostamenti non effettuati con mezzi pubblici, a causa, in alcuni casi, dell’insorgere di malattie invalidanti.
Nelle grandi città il calo della frequentazione del cimitero è ancor più evidente, probabilmente per l’elevato tempo necessario per recarsi al cimitero, distante, con l’uso di mezzi pubblici o privati.
Si osserva, al contrario, che nei paesi e nelle borgate, nelle piccole città, dove è più semplice recarsi al cimitero, vi è anche una frequentazione percentualmente maggiore. Ma pure
perché si hanno relazioni sociali più intense.
Questa osservazione è alla base della tendenza a portare le sepolture nelle grandi città a livello di quartiere, cosa possibile e semplificata se il Comune potesse disporre di luoghi, appartenenti sempre al proprio demanio, destinati a sepoltura di resti mortali ossei e urne cinerarie, senza necessità di aree di rispetto di grandi dimensioni come prima servivano nel caso di sepolture prevalentemente a sistema di inumazione.
La visita al cimitero, specie in occasioni come la Commemorazione dei Defunti, era un rito imprescindibile, un momento di riflessione comune e di connessione profonda sia con i propri cari scomparsi che con la comunità nel suo insieme e, anche, con la geografia dei propri luoghi di origine. Quasi sempre, un
tempo, la visita al cimitero permetteva anche gli incontri tra parti di famiglia distanti per luogo di residenza o per età. Oggi, invece, come sopra ricordato, assistiamo ad una marcata riduzione nella frequenza delle visite ai cimiteri.
In un'era dominata da un'esistenza sempre più digitale e da ritmi di vita accelerati, il tempo e lo spazio dedicati al ricordo e al lutto sembrano diminuire. Per diversi studiosi la crisi di frequentazione dei cimiteri trova importanti parallelismi con la crisi della frequentazione delle chiese cattoliche, dovuta ai fenomeni di secolarizzazione in atto nella società italiana.
Molti, specialmente nelle generazioni più giovani, percepiscono il cimitero non più come un luogo di periodica frequentazione, ma piuttosto come un sito di visita occasiona-
le e, semmai, nemmeno per ricordare un defunto, ma per ammirarne certi aspetti architettonici. Questo crescente distacco pone importanti questioni su come questi luoghi possano continuare a servire le comunità in modi che rispondano alle esigenze del presente.
Nonostante le tendenze attuali di minore frequentazione, per tanti il cimitero rimane un luogo sacro e i riti di addio svolgono una funzione cruciale nel modo in cui un individuo e una comunità elaborano il lutto. Nei momenti di perdita, queste pratiche collettive - le veglie, le messe, le cerimonie - forniscono un senso di conforto e continuità che solo un luogo fisico e simbolicamente carico come il cimitero può offrire. Questa è e resta, ad avviso di chi scrive, la principale funzione dei cimiteri!
Nuove architetture di sepoltura potrebbero aiutare a migliorare l’estetica cimiteriale, spesso seriale, per non dire dozzinale, frenando scelte alternative come l’affido familiare di urne cinerarie. Concerti, mostre d'arte, passeggiate storiche, visioni architettoniche e altre iniziative potrebbero effettivamente attrarre un pubblico più vario e frequentazioni più regolari, portando nuova vita in questi spazi storici.
Il verde interno ed esterno ai cimiteri potrebbe concretamente svolgere nuove funzioni per la città del futuro, quel ruolo cioè di “foreste urbane” che sempre più gli urbanisti moderni invocano per le nostre città. Però, non dimentichiamo mai che i cimiteri sono i bastioni del ricordo delle nostre società e come tali vanno preservati.
“Oggi parliamo di suicidio assistito” è il titolo del Convegno organizzato da SO.CREM Bologna sabato 16 novembre 2024 presso la sede AVIS ‐ Casa dei donatori di sangue.
Un evento che è riuscito ad andare oltre le differenze ideologiche, parlando del tema da molteplici punti di vista: normativo, sociologico, antropologico, teologico e comportamentale, con squarci sullo stato dell’arte nei Paesi in cui questa pratica è già normata.
È risaputo che, in Italia, esiste una legge che condanna chiunque ATTUALITà
Per la vastità delle relazioni, sarebbe pressoché impossibile illustrare tutti i contenuti, quindi ho scelto di focalizzarmi sulle informazioni nuove, emerse nel corso del dibattito, e su quelle ancora poco conosciute o su cui esiste una diffusa disinformazione.
aiuti una persona a togliersi la vita. Non è invece altrettanto conosciuta la Sentenza n. 242 del 2019 della Corte Costituzionale che ha posto quattro condizioni in cui è ammissibile e non più penalmente perseguibile l’adozione del suicidio medicalmente assistito, ovvero: una persona che sia "(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli".
Nonostante questa sentenza, Laura Santi (la consigliera dell’Associazione Luca Coscioni che ha ottenuto il nullaosta a ricorrere al suicidio medicalmente assistito in Italia) ha impiegato due anni solo per ottenere l’accesso alla verifica delle quattro
condizioni poste dalla Corte Costituzionale. Oltretutto, non c’è riuscita da sola. Pur essendo in possesso dei quattro requisiti e avendo più volte cercato di ottenere la verifica, si è dovuta rivolgere agli avvocati dell’Associazione per sbloccare la situazione. Ovviamente, non tutti i malati hanno la possibilità di attendere così a lungo e ancora meno sono coloro che conoscono i propri diritti sanitari in maniera così approfondita da poterli esercitare.
E a proposito di leggi mal applicate e mal conosciute, il convegno è stato anche l’occasione per riparlare di due “buone leggi”: la Legge 22 dicembre 2017, n. 219 - “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni
anticipate di trattamento” e la Legge 15 marzo 2010, n. 38, “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”.
La prima è una legge sull’autodeterminazione del malato, che può scegliere quali trattamenti medici iniziare, quali continuare e quali interrompere. Può scegliere quando è capace di intendere e volere, grazie al consenso medico informato e alla pianificazione condivisa delle cure, ma anche se si trovasse privo di coscienza, grazie alle DAT - Disposizioni Anticipate di Trattamento (ex testamento biologico).
Nonostante la norma sia arrivata grazie a una forte spinta della popolazione, da quando è in vigore sono ancora pochissime le DAT depositate: solo 231,226 su una popolazione maggiorenne che supera i 44 milioni.
L’offerta di cure palliative e di terapie del dolore continua invece ad essere inefficiente e mal distribuita a livello nazionale, con ancora una grande differenza tra Nord e Sud. Una differenza che, di fronte al dolore dei malati, non può e non deve esistere.
In questo quadro poco rincuorante, si inserisce il disegno di legge “Gasparri” (S. n. 1083, XIX legislatura, “Modifiche all’articolo 580 del codice penale e modifiche alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, in materia di disposizioni anticipate di trattamento e prestazione delle cure palliative”), che vorrebbe introdurre l’obiezione di coscienza per il personale medico e propone che l’idratazione artificiale e la nutrizione forzata non siano considerati trattamenti medico-sanitari.
Una proposta che dimostra quanto poco questa legge sia conosciuta, anche dalla classe politica: la Legge 219 si basa infatti sull’autodeterminazione del malato e sul principio
dell’ habeas corpus, per cui la libertà personale è inviolabile e il medico non corre alcun rischio giuridico nell’applicarla, quindi non ha senso prevedere l’obiezione di coscienza. Inoltre, l’idratazione artificiale e la nutrizione forzata sono chiaramente indicati come trattamenti sanitari in tutta la letteratura medico-scientifica, per cui non si ravvede il motivo per cui la legge dovrebbe andare contro a ciò che la medicina stessa dichiara.
Di grande interesse i dati presentati dalle ricerche sociologiche svolte sul tema dai professori dell’Università di Bologna, che hanno dato un apporto scientifico incredibile al convegno Dalle ricerche condotte sul tema è infatti emerso che, nei Paesi in cui è stato introdotto il suicidio medicalmente assistito e/o l’eutanasia:
• Non si riscontrano differenze di genere: accedono a queste pratiche tanto gli uomini quanto le donne.
• È una strada scelta in massima parte da persone adulte, e in minima parte da giovani e da anziani, affette da malattie oncologiche (la SLA risulta marginale, anche perché è molto meno diffusa delle malattie oncologiche).
• Non si riscontra un calo nel numero di suicidi volontari: i suicidi assistiti si sono aggiunti ai suicidi volontari, non li hanno sostituiti.
• Le persone che pensano al suicidio assistito non contemplano l’idea di togliersi la vita da soli: il suicidio volontario non è considerato una forma di buona morte, è visto come un atto di disperazione ed è fortemente condizionato dal forte senso di solitudine e di isolamento (che nel suicidio medicalmente assistito non c’è) e dalla famigliarità all’utilizzo di armi o di mezzi letali (che non serve nella sua variante assistita).
• L’eutanasia è moralmente più accettata del suicidio assistito; le leggi dedicate a quest’ultimo sono tollerate, ma disapprovate dalla morale comune.
Nel corso del convegno, è emerso che in Italia, nella scheda delle cause di morte, non compare il suicidio medicalmente assistito o l’eutanasia. Nell’immediato, questo non rappresenta un problema, visto che in Italia solo otto persone hanno ottenuto la verifica delle condizioni poste dalla Corte Costituzionale. In futuro, però, se i casi di suicidio assistito dovessero aumentare, mancherebbero dati socialmente rilevanti che potrebbero far luce su quali tipi di persone scelgono questa pratica. Ad esempio: influisce la classe sociale di appartenenza? Il grado di istruzione? C’è una correlazione con alcune patologie più che con altre? Se non viene inserito un campo dedicato al suicidio medicalmente assistito e uno per l’eutanasia, queste domande rimarranno senza risposta.
I relatori del convegno:
1. Iole Benetello, Avvocato coordinatrice Cellula Coscioni Bologna.
2. Felicetta Maltese, Coordinatrice Cellula Coscioni Firenze, attivista e disubbidiente civile.
3. Asher Daniel Colombo, Professore Ordinario all’Alma Mater Università di Bologna, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali.
4. Niccolò Martini, Laureato magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia, specializzato nell’ambito dell’antropologia medica.
5. Stefano Canestrari, Professore Ordinario all’Alma Mater Università di Bologna, Dipartimento di Scienze Giuridiche. Membro del Comitato Nazionale per la Bioetica.
6. Fiorenzo Facchini, Professore Emerito di Antropologia all’Università di Bologna, Sacerdote dell’arcidiocesi di Bologna e consulente ecclesiastico dell’Associazione Medici Cattolici di Bologna.
7. Francesco Campione, Tanatologo, Psicologo clinico, Presidente dell’Associazione Rivivere e della Clinica della Crisi. Membro Fondatore e Presidente dell’International Association of Thanatology and Suicidology.
di
avv.
Alice Merletti e avv. Elena Alfero
La nuova frontiera della sostenibilità tra obblighi normativi e opportunità.
Gli Environmental, Social e Governance (cd. ESG) rappresentano un insieme di criteri che le aziende possono utilizzare per valutare e migliorare il loro impatto ambientale, sociale e la qualità della gestione.
Questi criteri non sono più solo una prerogativa delle grandi multinazionali, ma stanno diventando un elemento centrale anche per le piccole e medie imprese (PMI), che possono trarre enormi vantaggi dal loro utilizzo. Adottare pratiche ESG significa non solo migliorare la sostenibilità e la reputazione aziendale, ma anche rispondere alle crescenti esigenze normative e alle aspettative di clienti e investitori.
Un esempio concreto dell’applicazione degli ESG è, proprio, il settore funerario. Le imprese funebri possono adottare pratiche innovative e sostenibili che rispettino questi criteri, rispondendo al contempo alle esigenze della società sempre più attenta all’ambiente. Ma come fare? Vediamo nello specifico cosa sono gli ESG, come viene applicata la direttiva e cosa fare per introdurre nuove pratiche sostenibili.
Gli ESG stanno acquisendo un'importanza sempre maggiore come principio etico per le aziende, ma anche come obbligo normativo
in continua evoluzione. In Europa e in Italia il quadro legislativo è articolato, spingendo le imprese ad adottare pratiche sostenibili e trasparenti per allinearsi a standard ambiziosi e rigorosi.
Su tale aspetto, l’Unione Europea ha avuto un ruolo pionieristico nel promuovere gli ESG, introducendo normative specifiche che obbligano le aziende a misurare, rendicontare e migliorare il loro impatto ambientale, sociale e di governance. Una delle principali pietre miliari in questo ambito è stata la Direttiva CSR (Corporate Sustainability Reporting Directive), nata dalla Rendicontazione Societaria di Sostenibilità e adottata nel 2024. Questa direttiva rappresenta un significativo avanzamento normativo, ampliando gli
obblighi di rendicontazione non finanziaria per un numero maggiore di aziende rispetto al passato. Non solo le grandi imprese quotate, ma anche molte piccole e medie imprese sono ora soggette a questi obblighi, purché superino determinate soglie di fatturato, numero di dipendenti o attività transnazionali.
La CSRD, infatti, introduce il principio della doppia materialità, un concetto chiave che richiede alle aziende di valutare sia il proprio impatto ambientale e sociale (materialità esterna) sia come i rischi e le opportunità legati alla sostenibilità influenzino le loro performance finanziarie (materialità interna). Tale obbligo ha spostato il focus dalla semplice conformità normativa a una gestione strategica e integrata
della sostenibilità. Di conseguenza, le aziende sono obbligate a redigere report di sostenibilità dettagliati, che devono includere informazioni su:
• emissioni di gas serra e altri indicatori di impatto climatico;
• utilizzo delle risorse naturali, come acqua ed energia;
• equità sociale, inclusa la parità di genere e il rispetto dei diritti umani;
• trasparenza nei processi decisionali, in particolare per quanto riguarda la governance.
A supporto della CSRD, l’Unione Europea ha sviluppato gli ESRS (European Sustainability Reporting Standards), che forniscono un quadro metodologico uniforme per la rendicontazione. Gli ESRS sono progettati per garantire la
comparabilità delle informazioni fornite dalle aziende, stabilendo metriche standardizzate per valutare:
• parametri ambientali, come la riduzione delle emissioni e l’adozione di pratiche di economia circolare;
• aspetti sociali, tra cui l’inclusione e il rispetto dei diritti dei lavoratori;
• indicatori di governance, inclusa la trasparenza decisionale e la gestione dei rischi.
Un ulteriore strumento normativo di rilievo è il Regolamento 2019/2088 (SFDR - Sustainable Finance Disclosure Regulation), che impone obblighi di trasparenza sugli investimenti sostenibili. Questo regolamento si applica non solo agli operatori finanziari, ma anche alle aziende che ricevono finanziamenti da istituzioni obbligate a rispettare i criteri ESG. Le aziende devono dimostrare un impegno concreto verso la sostenibilità per attrarre investimenti e mantenere la fiducia degli stakeholder
Le normative sopra citate si inseriscono nel quadro del Green Deal Europeo, che mira alla neutralità climatica entro il 2050. In questo contesto, le imprese sono chiamate a contribuire con azioni concrete, quali:
• riduzione delle emissioni di carbonio, anche attraverso l’efficientamento energetico;
• adozione di fonti di energia rinnovabile e tecnologie innovative;
• implementazione di pratiche di economia circolare, favorendo il riutilizzo di risorse e la riduzione dei rifiuti.
Venendo al nostro Paese, in Italia, il recepimento della posizione europea sul punto, si è tradotto in una serie di provvedimenti legislativi che integrano la sostenibilità nei bilanci aziendali. Di particolare rilievo è il d.lgs. 36/2023, che disciplina gli appalti pubblici, introducendo clau-
"molte
naturali, e bare in legni certificati
sole ambientali e sociali nei bandi di gara. Le imprese partecipanti devono dimostrare la conformità ai CAM (Criteri Ambientali Minimi), che definiscono standard di sostenibilità per materiali e processi produttivi. Il mancato rispetto di tali criteri può portare all’esclusione dalle gare e a sanzioni amministrative. Non solo.
Il Piano d’Azione per la Sostenibilità Ambientale dei Consumi della Pubblica Amministrazione (PAN GPP) rappresenta un ulteriore strumento operativo.
Questo piano promuove l’adozione di criteri ambientali nei processi di approvvigionamento pubblico, incentivando le aziende a integrare la sostenibilità nelle loro strategie operative. Questo articolato pano-
rama normativo sottolinea come la sostenibilità non sia più un'opzione, ma un elemento centrale per la competitività e la responsabilità sociale delle imprese.
Inoltre, come spiegavamo sopra, l’aspetto sociale degli ESG è supportato da normative che promuovono la parità di genere, il rispetto dei diritti umani e l’inclusione.
Per una PMI, integrare gli ESG può sembrare una sfida complessa, ma si tratta in realtà di un processo che può essere affrontato gradualmente e con significativi benefici. Ad esempio, per quanto riguarda l’aspetto ambientale, un’azienda può iniziare riducendo i consumi
energetici, ottimizzando la gestione dei rifiuti e adottando materiali più sostenibili. Questi piccoli passi non solo riducono l’impatto ambientale, ma possono anche portare a risparmi operativi nel lungo termine. Sul fronte sociale, è possibile promuovere migliori condizioni di lavoro per i dipendenti, garantendo sicurezza e benessere, oltre a investire nelle comunità locali. Infine, una governance solida, basata su trasparenza e etica, è fondamentale per costruire fiducia tra clienti, partner e investitori.
Nel settore funerario ci sono molte azioni che si possono valutare per integrare un sistema più sostenibile che risponda alla direttiva europea. Ad esempio, molte aziende stanno già introducendo urne biodegradabili, realizzate con materiali riciclati o naturali, come bambù, e bare in legni certificati FSC. Questo non solo riduce l’impatto ambientale, ma rappresenta una scelta etica che risponde alla crescente domanda di soluzioni green da parte dei consumatori.
Anche i costruttori di casse funebri stanno poi giocando un ruolo chiave nella transizione verso pratiche più sostenibili. Utilizzando materiali riciclati o innovativi e ottimizzando i processi produttivi, stanno contribuendo sempre più a ridurre l’impatto ambientale dell’intera filiera funeraria.
Inoltre, ottenere certificazioni che attestino la sostenibilità dei prodotti rientra nell’ambito di quelle politiche aziendali che sempre più aziende sposano non solo per migliorare la competitività, ma anche per aprire le porte a nuove opportunità e partnership: non è un segreto che grandi gruppi oramai vedono la propensione alla tutela ambientale dell’azienda come requisito essenziale per approcciare nuovi business.
di Serena Spitaleri
Le emozioni, chi opera nel settore funerario, le tocca davvero con mano.
Chi si confronta con il lutto, infatti, lo subisce sotto ogni aspetto: è sopraffatto dalla perdita e dal dolore, sperimentando emozioni negative ed estreme.
Gestire la comunicazione del brand, il suo tone of voice e le strategie di marketing che si rivolgono al pubblico del settore funerario è un’attività estremamente delicata non solo per questioni di sensibilità e umanità, ma anche perché è facile essere
fraintesi, risultare sterili rispetto alla comunicazione di un prodotto o poco sensibili nella descrizione di un servizio. Inoltre, ancora più che in altri contesti, il rapporto fra l’etica e la comunicazione deve essere chiaro e inequivocabile
Abbiamo parlato nei numeri precedenti della rivista, del fil rouge che percorre i contenuti e la loro capacità di persuadere i consumatori. Messaggi promozionali, contenuti digitali e non, storie che hanno l’enorme potere di spingere le persone a prendere determinate decisioni
e mettere in atto specifici comportamenti di consumo.
Le discipline afferenti alla psicologia dei comportamenti di consumo rappresentano la base per chi si occupa di comunicazione; argomenti e studi ai quali negli ultimi decenni il neuromarketing ha dato un supporto rilevante, che danno spunto a riflessioni sul loro rapporto con l’etica nella misura in cui vi si fa ricorso in modo scorretto.
Si tratta di una disciplina che applica le conoscenze che derivano dalle pratiche neuroscientifiche alla comunicazione e al marketing. L’obiettivo è quello di risalire ai processi che avvengono nella mente del
consumatore in modo inconsapevole. Processi che guidano le decisioni di acquisto influendo sulle reazioni emotive che i brand possono generare su ognuno di noi.
Il neuromarketing conferma che la maggior parte delle decisioni che spingono le persone a fare una determinata scelta di acquisto (circa il 95%), avviene in modo irrazionale Indagare quindi i meccanismi che generano determinati comportamenti rappresenta la chiave di volta per persuadere i consumatori ad avvicinarsi alla propria azienda.
E quali sono i driver che guidano il pubblico verso il tuo brand secondo il neuromarketing? Sono proprio le emozioni.
Il neuromarketing ha infatti sancito il ruolo fondamentale delle emo-
zioni nella comunicazione: gli studi neuroscientifici confermano che nel nostro cervello si formano emozioni che danno vita a comportamenti. Ma l’aspetto rilevante in questo contesto è il legame che tali emozioni riescono a creare con il brand, influenzando dunque il business.
Ci addentriamo in un territorio che gli operatori del settore hanno modo di osservare quotidianamente: emozioni come la tristezza e la paura pervadono le persone con cui intrattieni un rapporto intimo.
E divengono la parte preponderante di un territorio emotivo che disegna marcatamente il dolore: scopo del servizio offerto è dunque anche quello di supportare chi subisce una perdita, accompagnandolo nel modo più delicato possibile
nell’attraversamento di quest’ultima. E la maniera in cui ogni individuo vive questo dolore e sperimenta queste emozioni è completamente soggettiva: si tratta di processi mentali complessi, generati da vissuti differenti per ogni persona, territori emotivi che secondo il neuromarketing hanno la capacità di creare un legame con il brand poiché influiscono su tre aspetti fondamentali nella comunicazione:
• la possibilità di attirare l’attenzione;
• la percezione della realtà;
• il ricordo.
Spieghiamo meglio il concetto.
In un mondo in cui l’attenzione è estremamente frammentata e difficile da mantenere viva, servirsi della comunicazione per generare emozioni positive che conducano al tuo brand e ai suoi valori diviene fondamentale. Rifarsi a emozioni positive per ricevere e mantenere l’attenzione del tuo pubblico è importantissimo in un mondo in cui la comunicazione cavalca feed, algoritmi e tempistiche sempre più ristrette.
Il neuromarketing ci mostra come un particolare stato emotivo possa influire sulla percezione della realtà. Il classico esempio è quello della musica: quante volte sentire una canzone ha richiamato alla mente anche il modo in cui ti sei sentito mentre la ascoltavi e le esperienze vissute?
Una comunicazione che stimola i vissuti emotivi delle persone ha infinite possibilità di essere ricordata rispetto a una strategia che non contempla questa pratica. Quando un vissuto emotivo è collegato ai valori
di un brand, la memoria ne avvantaggia il recupero del ricordo.
Appare chiaro il motivo per cui comunicare in questo contesto rappresenti un’attività da non considerare con leggerezza: limitarsi a descrivere i prodotti e servizi offerti nel settore funerario preclude ulteriori possibilità, come quella di essere percepiti come supporto, di mostrare la capacità e la possibilità di andare oltre ciò che il brand sta descrivendo.
Raccontare e descrivere ciò che fai è necessario, ma farlo attingendo ad emozioni che possano generare un legame positivo con la tua attività deve essere il fulcro della tua strategia di comunicazione
Sorge spontanea una domanda: che ruolo e che peso hanno queste pratiche nella strategia di comunicazione sulla quale ogni brand fa leva?
Abbiamo appunto fatto cenno alla capacità delle emozioni di influire sulle modalità con cui si percepisce
la realtà; della possibilità (direi necessità), di utilizzarle nell’ambito della tua strategia di comunicazione per spingere i consumatori a compiere determinate azioni avendo contezza del fatto che si tratta di emozioni e vissuti emotivi che condizionano ogni persona, il loro modo di agire, in misura differente.
Possiamo dunque immaginare che il confine tra persuasione e manipolazione - in questo contesto - possa divenire labile o percepito come tale da chi ascolta i tuoi messaggi? Si, ma la differenza tra una strategia di comunicazione che fonda le proprie radici nell’etica e una che non lo fa risiede nella capacità di dosare le emozioni nella tua comunicazione, di ottenere un mix funzionale a farti percepire per quello che vuoi e puoi offrire.
Ti auguro quindi di fare buon lavoro con le emozioni: maneggiale con estrema cura, nel rispetto dei tuoi clienti e del tuo brand.
di Linda Savelli
La morte è un evento naturale che prima o poi ci riguarderà tutti, in quanto esseri viventi ma finiti, eppure ci fa paura, ne rifuggiamo il pensiero, non vogliamo immaginarcela, la teniamo a bada in mille e più maniere.
Cerchiamo di esorcizzarla come possiamo; creiamo rituali per “addomesticarne” almeno l’immagine, così misteriosa e abissale che non siamo in grado di contemplarla. Eppure, la morte e la perdita le
abbiamo sempre accanto, come ben sa chi, per lavoro, con la morte ha a che fare quotidianamente. Da sempre nelle società esiste il culto dei defunti, la cura del corpo dopo la morte, la celebrazione del deceduto attraverso monumenti funebri grandiosi o poetici, circondati da piante ornamentali. Anche la contemporaneità, benché terrorizzata dalla morte (come dalle malattie e dall’invecchiamento), non può totalmente rifuggire dai rituali funerari che
mediano il trapasso e attestano l’affetto di coloro che rimangono in vita. Per tutti questi motivi, il lavoro degli operatori funerari è prezioso, ricco di cura e significato. Essi offrono professionalità, stabilità e conforto ai dolenti, confusi e spaesati nel primo momento della perdita e del dolore acuto. Ma proprio per questo chi ha a che fare con la morte, e soprattutto con il dolore e la sofferenza tutti i giorni per molte ore al giorno, è a rischio di burnout non meno degli operatori sanitari che quotidianamente lottano per strappare alla morte le vite umane.
Con burnout s’intende “un quadro sintomatologico riscontrabile in persone che si trovano a lavorare costantemente sul fronte di relazioni umane particolarmente intense dal punto di vista emotivo, quali le
professioni di “aiuto alla persona” (helping professions), come gli operatori sanitari, insegnanti, poliziotti, assistenti sociali" (Rossetti, 2005, p. 18), ai quali possiamo aggiungere gli operatori funerari che, a qualsiasi titolo, hanno rapporti con i familiari e gli amici dei deceduti nel periodo più acuto del lutto. Il burnout si può descrivere come un esaurimento psicofisico dell’individuo, che si determina come risposta a una condizione di vita altamente stressante data dal ruolo lavorativo stesso. Chiunque, per lavoro, si ritrovi a contatto con la sofferenza umana è a rischio di sviluppare, nel tempo, la sindrome da burnout. Ciò avviene perché l’individuo costantemente coinvolto in una relazione d’aiuto, che, per sua definizione, è “asimmetrica” (c’è un operatore che supporta, orienta, sostiene e contiene e una
persona in sofferenza, confusa, disorientata, spaventata), si “svuota” più o meno velocemente delle sue energie psicofisiche, tutte volte al sostegno dell’altro in difficoltà, che, quindi, non è in grado di restituire. Una volta che il “serbatoio” è vuoto e non ci sono le risorse fisiche e mentali per riempirlo nuovamente, la persona può provare spossatezza, insofferenza al lavoro, sensazione di non farcela, ansia e tristezza, finendo per diventare indifferente al proprio lavoro e cinica con gli altri. Da tutto questo è facile evincere come sia di fondamentale importanza arginare il rischio di burnout nelle professioni che ne sono maggiormente soggette.
Per prima cosa, ricordiamoci che il burnout non è un problema che riguarda il singolo operatore, ma tutto l’ambiente di lavoro, che influisce
significativamente sul benessere psicoemotivo di dipendenti e collaboratori. Un ambiente lavorativo con un clima sereno e collaborativo, in cui ognuno è tenuto nella debita importanza e il cui ruolo è adeguatamente riconosciuto (non soltanto in termini economici) e apprezzato per la sua importanza, funge da fattore di protezione contro il fenomeno del burnout
Gli operatori funerari fanno un lavoro importante e prezioso, ma può accadere che la persona in lutto, che si trova a dover richiedere i loro servizi in relazione a un decesso, soprattutto se repentino e inaspettato (una morte per incidente stradale, per esempio, o il decesso di una persona molto giovane), sia talmente sopraffatta dal proprio dolore da non riuscire a relazionarsi con l’operatore con lucidità, se non con cortesia e gentilezza. Ecco che anche questo può alimentare lo stress del professionista, che deve attingere a tutte le proprie risorse relazionali per poter portare avanti il suo lavoro. Il contesto lavorativo dell’operatore funerario deve essere in grado di fornire supporto e collaborazione in ogni caso, anche in quelli più difficili da trattare, mentre risulta importante che tutti gli operatori conoscano le basi della comunicazione efficace e perfezionino le loro capacità di ascolto empatico, che gli permette di costruire una buona relazione anche con la persona più disorientata. Per arginare il rischio di burnout è anche opportuno che i turni di lavoro
non siano massacranti e che sussista l’opportunità di poter condividere con i superiori difficoltà o perplessità. Non è banale ricordare che anche il contesto fisico dell’ambiente lavorativo influisce sul benessere psicoemotivo dell’individuo; pertanto, un contesto pulito, tranquillo, funzionale, con attrezzature adeguate e piccoli spazi personalizzabili (scrivanie o armadietti in cui poter riporre piccoli oggetti personali) può contribuire a mantenere lo stress quotidiano a un livello accettabile. Il burnout è una condizione da non sottovalutare, che va adeguatamente e tempestivamente trattata nell’ottica di ripristinare il benessere fisico e mentale di chi la sta sperimentando; perciò, alle prime avvisaglie di sintomi che ci sembrano andare oltre la normale stanchezza, è bene ricorrere a un professionista della salute psicoemotiva, che potrà fornire un valido supporto e appropriate strategie per gestire al meglio le situazioni stressanti sul lavoro.
Bibliografia di riferimento:
Rossetti, D., D ove ti porto? Il burnout dell’operatore funebre e cimiteriale, in «I Servizi Funerari», 2005, n. 4 www.funerali.org
di Asher Colombo
La festa dei morti, il 2 novembre 2024, potrebbe aver celebrato un anniversario storico: mille anni dalla sua istituzione.
Introdotta dai monaci di Cluny tra il 1024 e il 1033, secondo le ricerche del grande storico francese Jacques Le Goff, quella che chiamiamo più correttamente la “Commemorazione dei defunti” ha visto mutare profondamente il proprio ruolo e significato nel tempo. Pur avendo perso parte della rilevanza pubblica e cerimoniale che aveva in un passato ancora recente, continua a essere una ricorrenza profondamente sen-
tita. I dati delle indagini campionarie che Orme ha condotto in questi anni ci dicono che circa la metà, o poco meno, della popolazione adulta italiana visita i propri cari al cimitero il 2 novembre, nei giorni immediatamente precedenti o successivi. E ci dicono che i visitatori non si limitano a una fugace apparizione. Molti rendono omaggio, una dopo l’altra, a tutte, o almeno ad alcune, delle tombe delle persone care, a volte spostandosi tra un cimitero e un altro. Dedicano tempo ed energie a sistemarle, pulirle, restituire loro decoro. Ricordano, a sé stessi o a chi li accompagna, la vita di chi le
occupa, le forme e le modalità della loro uscita di scena.
Ma cosa fanno, concretamente, gli italiani in queste visite? Sono da soli o condividono questo momento con altri? E dentro i cimiteri, il loro comportamento si discosta da quello quotidiano? A queste, e altre domande, hanno provato a rispondere le studentesse e gli studenti del laboratorio di ricerca qualitativa attivo presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna che hanno condotto, proprio in occasione del 2 novembre 2024, una sessione di “osservazione partecipante” in due cimiteri del Nord Italia: uno di un comune capoluogo di provincia, l’altro di un comune non capoluogo.
La tecnica dell’osservazione partecipante, sviluppata dagli antropologi culturali per studiare popolazioni e pratiche considerate “esotiche”, prevede la presenza del ricercatore sul campo e la trascrizione sistematica di quanto osservato. Applicata ai cimiteri italiani, ha rivelato una complessa combinazione di rituali, abitudini e dinamiche sociali
Vista indossando gli occhiali di un antropologo venuto da un mondo lontano, l’esperienza della visita degli italiani al cimitero in occasione della Commemorazione dei defunti appare piuttosto eterogenea e tutt’altro che malinconica. Già avvicinandosi al perimetro della città dei morti il quadro si presenta piuttosto vivace. I parcheggi esterni al cimitero sono rapidamente riempiti già dalla tarda mattinata, piccoli gruppi di famigliari scendono incessantemente dalle auto, ma anche dagli autobus urbani, le cui linee sono state potenziate per l’occasione. Una folla di fiorai, vivaisti, venditori più o meno stabili circonda il perimetro del cimitero di fiori e vasetti con prezzi variabili da € 1,50 a molte decine di euro. Banchetti di associazioni caritatevoli o parrocchiali sono piazzati agli ingressi per mettere alla prova i sensi di colpa dei visitatori, una parte dei quali cede alle richieste di sostegno della causa, se non addirittura di affiliazione. Mendicanti, strategicamente piazzate anch’esse, manifestano con una certa visibilità la loro preoccupazione per la presenza di concorrenza, e deve passare molto
tempo prima che si convincano che si tratti davvero di innocue studentesse il cui interesse è limitato alle caratteristiche, anziché alle tasche, di chi entra. È proprio grazie a queste osservazioni sistematiche che sappiamo che, in prevalenza, si entra al cimitero da soli e che solo nel 7% dei casi a entrare sono aggregati formati da almeno tre persone o più. Gli anziani, poi, prevalgono sugli adulti, le donne sugli uomini e solo una quota variabile tra il 6% (nel piccolo comune) e il 10% (nel comune capoluogo) include la presenza di bambini al di sotto dei 14 anni di età, almeno per quanto è possibile ricavare dall’osservazione diretta. Sono quindi anziane vedove, qualche isolato vedovo, poche coppie con figli, più facilmente nonni con i nipoti, aggregati di sorelle e gruppi di amiche a varcare le soglie dell’ingresso. Buona parte di essi, poi, varca la soglia facendosi il segno della croce, un gesto osservabile in circa la metà dei visitatori. Una quota tutt’altro che trascurabile, anche se probabilmente inferiore a quella rilevabile tra i calciatori quando fanno il loro ingresso in un altro, ben diverso, “campo”. Farsi il segno della croce non è, però, l’unico gesto rituale che sancisce, per alcuni, l’atto di varcare la soglia tra due luoghi percepiti come soggetti a regole ben diverse. Dentro al cimitero, infatti, il volume della voce si riduce, almeno quanto basta per marcare un passaggio. La riduzione sarà ancora superiore avvicinandosi alle tombe, fino a lasciare il posto a intervalli alquanto variabili di silenzio totale. Una pratica che rafforza l’idea che lo spazio che si sta
visitando abbia regole proprie, e sia in qualche modo soggetto al dominio di chi non c’è più.
Buona parte dei visitatori, poi, porta fiori. Per la verità questo accade più nel grande comune (53% dei casi) che nel comune più piccolo (28% dei casi), ma è facile che molti abbiano affrontato questo nodo già nei giorni precedenti, probabilmente, ed è plausibile che anticipare i tempi di sistemazione della tomba sia più facile nei piccoli centri che in quelli maggiori. È nei primi che si passa più facilmente davanti, o vicino, ai cimiteri anche nei giorni ordinari. Ma almeno una parte di coloro che hanno portato fiori ha chiaro che anche questo gesto è segnato da una separazione radicale tra un “dentro” e un “fuori”. Come ha sentenziato la cliente di un supermercato che, nel comune capoluogo studiato, è solito aumentare l’offerta di crisantemi e ciclamini proprio per rispondere al picco stagionale della domanda: «ah, no. Per i fiori dei morti bisogna spendere quel che c’è da spendere, perché lassù poi lo vedono che gli hai portato i fiori già appassiti del supermercato»
Sembra che il centro della visi-
ta sia quindi solo il rapporto tra i vivi e i morti. Ma un’osservazione più attenta rivela anche altro. Così, mentre un marito pulisce la lapide, una nonna include la nipote nella catena di vincoli famigliari, condividendo con quest’ultima la storia della propria sorella maggiore, morta per una malattia oggi curabile con gli antibiotici. E, ancora, un padre risponde alla scomoda domanda del figlio in età prescolare, colpito dalla vista delle molte foto di bambini di generazioni, ma non di età, molto lontane dalla sua. E che la visita del 2 novembre abbia lo scopo prevalente di rinsaldare i legami tra i vivi lo segnala anche un altro inatteso risultato dell’analisi sistematica dei dati raccolti dai ricercatori.
La frequenza con cui si portano fiori cresce all’aumentare del numero di membri che costituiscono l’aggregato di visitatori. A entrare al cimitero con fiori, infatti, è il 32% dei solitari, ma questa percentuale arriva a raggiungere il 56% dei casi quando il gruppo è formato da quattro persone o più. L’offerta di fiori è profondamente radicata nella celebrazione dei morti in aree di tradizione cattolica. Ma questa può sancire anche l’esistenza di un
vincolo, tanto con i morti, quanto tra i vivi. Forse la notizia è che sembra che la nostra società, in fondo, possa averne ancora bisogno.
Nella cornice dei cambiamenti culturali e sociali anche radicali degli ultimi decenni, la “Commemorazione dei defunti” continua, infatti, a trovare un proprio spazio nella vita di molti, perfino tra i “nuovi” italiani venuti da lontano. E i rituali e le pratiche che animano i cimiteri oggi confermano il ruolo cruciale che gli operatori cimiteriali e funebri svolgono nel mantenere viva una dimensione essenziale della nostra umanità: il legame tra passato, presente e futuro.
La ricerca è stata coordinata da chi scrive e condotta dagli studenti: Caterina Andreetto, Iman El Mansri, Alexandra Fabbri, Mariagrazia Forino, Alessia Ingrassia, Sara Leonori, Stefano Lopes, Paolo Magnani, Simona Marrone, Lorenzo Mazzocchin, Sofia Noviello, Camilla Pelizzari, Margherita Pentassuglia, Luca Romano, Chiara Sergio Leggio, Lucia Tartari, Erika Toderi, Ivan Traversi, Elda Vata, Antonio Villani, Cecilia Zappacosta
parliamo di...
di Elisa Mencacci
In Italia, secondo le stime dell'Osservatorio Demenze, circa 1,2 milioni di persone soffrono di questa terribile malattia (di cui il 50-60% sono malati di Alzheimer) e sono circa tre milioni le persone direttamente o indirettamente coinvolte.
Si tratta di una malattia destinata ad aumentare in maniera costante (si stimano più di 3 milioni di malati entro il 2050), ma soprattutto di una condizione per la quale, ad oggi,
non vi è possibilità di guarigione. La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza, una patologia neurodegenerativa che uccide progressivamente le cellule nervose, fino ad arrivare a una perdita totale delle autonomie e alla morte della persona. Data la progressiva degenerazione fisica e, soprattutto, cognitiva del paziente, è fondamentale per la famiglia, che si troverà a dover disporre anche delle scelte del malato sul fine vita, potersi affidare
al supporto degli operatori del settore che potranno consigliare sul da farsi.
Lungo il percorso della demenza di Alzheimer si assiste a una serie di perdite, progressive e irreversibili, che la persona si trova ad affrontare, ancora prima del sopraggiungere della fase terminale. La perdita finale – ovvero la perdita fisica e irreversibile di sé come corpo (morte fisica) – sarà preceduta da altre perdite importanti.
La persona si troverà quindi a sperimentare un vissuto di lutto anticipatorio (prima della morte effettiva), provando tre tipologie di perdite diverse e spesso sovrapposte:
1) passate: le opportunità perdute e le esperienze passate che non potranno più ripetersi;
2) presenti: il deterioramento progressivo, l’incertezza e la perdita di controllo correlata alla patologia; 3) future: le incertezze, la solitudine, i momenti che non torneranno più, il futuro a cui non si potrà assistere a causa della progressione della malattia infausta.
E così come il malato, anche il fami-
liare vivrà queste perdite in maniera altrettanto significativa. Ogni tappa, ogni perdita, diviene una sfida per il caregiver, il quale si trova a vivere veri e propri lutti, in concomitanza di ognuno di questi punti-chiave.
Il lutto che vive il familiare di una persona con demenza non viene riconosciuto come un evento unico, ma comprende diversi tipi di perdita al suo interno.
Questo evento si associa a una delle perdite più stressanti per il familiare: la persona malata di demenza è fisicamente presente, ma psicologicamente cambiata, in maniera spesso estrema. Questa "doppia faccia" della situazione, questa duplice realtà presente nello stesso momento (vita/ morte, presente/assente) è ciò che porta a identificarne proprio l’ambiguità
Deriva da perdite che sembrano non finire mai, generando un confronto continuo tra il passato che non c’è
più e il presente. Assistere un proprio caro con demenza implica diventare testimone di un declino costante e progressivo dell’altro, delle sue capacità cognitive, con il ricordo fisso di quello che il familiare è, di quello che era, di quello che speravamo sarebbe stato.
Lutto anticipatorio (che anticipa la morte finale).
Essere il caregiver di un anziano malato implica provare costantemente la percezione di una perdita imminente, in aggiunta a quelle già sperimentate all’interno della nuova realtà di malattia: perdo la capacità di ricordare, di mangiare, di camminare, poi di parlare. Il lutto anticipatorio fa parte di quel processo di adattamento continuo alle perdite derivate dalla malattia evolutiva del malato, ed è quindi un percorso fondamentale per l’elaborazione da parte del familiare.
Lutto senza diritto o Disenfranchised grief
Disenfranchised grief letteralmente significa «lutto senza diritto», ed è
percepito da chi perde una persona cara ma ha un ruolo che non le dà socialmente il diritto di viverlo.
Ad esempio, è caratteristico di chi perde un compagno, se l'unione non è riconosciuta in termini di diritti civili, o un amante o qualcuno morto per una causa socialmente non accettabile.
È un lutto senza diritto, ovvero non legittimato a livello sociale, che può portare ulteriori complicazioni nel processo di elaborazione.
Le perdite e il lutto che si vivono prendendosi cura di una persona con demenza sono inoltre continui: non sono paragonabili al trauma che si verifica in un unico momento, come la morte improvvisa di un famigliare o di un amico.
La perdita che vive un familiare di una persona con demenza è senza dubbio "speciale". Una delle difficoltà più rilevanti di questa situazione è il fatto che solo pochi di loro sono effettivamente consapevoli che quello che stanno vivendo è proprio un lutto; questo non permette di
vivere l’esperienza come naturale, universale e normale e può portare a sofferenza ulteriore.
Per questo diventa importante accompagnare anticipatamente il malato e la famiglia, già dalla diagnosi, e in particolar modo prima che il malato perda irrimediabilmente tutte le proprie capacità di comprendere e di esprimersi.
Appare fondamentale, anche per il familiare, poter avere degli spazi di dialogo e di riflessione sulle volontà, i desideri, le scelte importanti del malato, anche rispetto al proprio fine vita. Come voglio essere curato quando non sarò più in grado di essere autonomo? Dove e in che modo voglio essere curato nella parte finale della mia vita? Come morirò, cosa
succederà al mio corpo quando non sarò più in grado di esprimermi? Viene di conseguenza che anche le conversazioni rispetto alle scelte di fine vita diventino in queste situazioni sempre più necessarie e da anticipare, così che il malato possa davvero esprimere cosa vuole e il familiare non sentirsi sovraccaricato di eccessive responsabilità o sensi di colpa.
La presenza di persone competenti e sensibili, che riconoscano e legittimino questo lutto nei familiari, prima che arrivi la perdita del proprio caro, potrebbe non solo favorire il processo di distacco ma anche tutti i passaggi e le scelte che accompagnano la morte e i momenti successivi.
Elisa Mencacci : Psicoterapeuta, tanatologa, perfezionata in bioetica e cure palliative.
Mencacci, E. (2024). D ove ti porto? Accompagnare la persona anziana alla fine della vita. Piacenza. Editrice Dapero.
Mencacci, Busato, Bordin. (2020) “Non sono più io. Come fronteggiare l’interminabile lutto nella demenza”. Piacenza. Casa editrice Dapero.
COSTUMI E CURIOSITà
di Raffaella Segantin
Una bici tutta bianca per non dimenticare e per promuovere la sicurezza stradale.
Forse è capitato anche a qualcuno di voi di notare in città o su strade extraurbane delle strane biciclette legate a un palo o a qualsiasi altro tipo di supporto, verniciate completamente di bianco.
Sono le cosiddette Ghost bikes o, tradotto dall’inglese, bici fantasma Si tratta di installazioni a carattere commemorativo che vengono posizionate a bordo strada nel punto in cui un ciclista ha perso la vita o è stato gravemente ferito a causa di un incidente per lo più provocato da automobilisti distratti o poco prudenti. Solitamente le biciclette utilizzate sono proprio quelle delle vittime ed è abbastanza comune che rechino una targhetta con il nome della persona deceduta e la data del sinistro. A volte sono adornate con
fiori o piccoli oggetti che testimoniano l’affetto della comunità.
Questi insoliti monumenti, oltre a rendere un tributo alla memoria di chi ci ha lasciato in modo così tragico, vogliono anche essere un monito per tutti gli utenti della strada e un sottointeso invito alle amministrazioni pubbliche a porre maggiore impegno per rendere la viabilità più sicura.
L’usanza è nata negli Stati Uniti agli inizi degli anni 2000 e si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. In realtà ci sono dei precedenti che vanno molto più indietro negli anni. L’idea di dipingere le bici di bianco è stata messa in pratica per la prima volta ad Amsterdam negli anni '60, ma con uno scopo ben diverso Si trattava, infatti, di una iniziativa
di un gruppo di giovani anarchici che intendevano rendere la bicicletta un mezzo democratico: se qualcuno ne trovava una completamente bianca significava che apparteneva a tutti e poteva utilizzarla gratuitamente lasciandola poi, a sua volta, a disposizione di altre persone.
Non sappiamo se l'artista californiano Jo Slota quando cominciò a dedicarsi al suo progetto nel 2002, fosse a conoscenza del fenomeno olandese. Slota si era incuriosito alle numerose biciclette abbandonate che vedeva in giro per la città di San Francisco, chiuse da lucchetti o assicurate a sostegni con robuste catene, ma spogliate di elementi essenziali quali ruote, selle o manubri. Iniziò a dipingere di bianco quanto rimaneva di queste bici, per poi fotografarle e pubblicare gli scatti su un sito web dedicato, che aveva chiamato ghostbike. Quella di Jo Slota non era altro che una visione artistica, ma è stato proprio il suo lavoro lo stimolo che ha dato il via all’idea delle bici fantasma a scopo commemorativo
Il primo progetto in tal senso vide protagonista la città statunitense di St. Louis, in Missouri, nell'ottobre 2003. Fu l’allora ventenne Patrick Van Der Tuin ad iniziare questa
tradizione, dopo aver assistito in prima persona ad un incidente tra un’auto e una ciclista. Non si trattò di un sinistro mortale, ma il ragazzo ne fu molto colpito perché egli stesso era solito percorrere il medesimo tragitto sulla sua due ruote. Pensò così di fare qualcosa per impressionare l’opinione pubblica, affinché ci fosse una generale presa di coscienza riguardo ai pericoli del traffico cittadino. Riallacciandosi all’opera dell’artista californiano cominciò a sua volta a cercare biciclette danneggiate, a verniciarle di bianco e, controllando i rapporti della
polizia, a posizionarle nei luoghi teatro di incidenti mortali con un cartello recante la scritta "Ciclista investito qui". Dalla sua impresa è nato il movimento “Ghost-Bike” che si è espanso rapidamente in tutti gli Stati Uniti, e successivamente anche fuori dai confini nazionali, e al fine primario di promuovere la sicurezza delle infrastrutture, si aggiunse quello emotivo di silenzioso memoriale per le vite perdute.
Per la cronaca, ora Patrick Van Der Tuin è direttore generale di un'organizzazione no-profit rivolta ai più giovani che, oltre a mettere a disposizione biciclette gratuite per i bambini, ha come obiettivo principale quello dell’educazione alla sicurezza stradale.
Nel 2017 si sono potute contare circa 650 bici fantasma distribuite in almeno 210 località dislocate in tutto il mondo. Ce ne sono anche in Italia, in particolare a Bari, ma ne possiamo trovare anche a Roma, a Milano, a Bologna, come pure in città di provincia quali Carpi (MO) e Poirino (TO). Non esiste nessuna regola riguardo alla loro installazione e a volte vengono rimosse, ma spesso si trasformano in una sorta di piccoli
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santuari, guarnite con fiori, candele o oggetti ricordo accompagnati da messaggi di cordoglio, perché ogni bicicletta bianca è il racconto di una vita spezzata, di una tragedia che forse poteva essere evitata Sono quasi sempre le famiglie a prendersene cura mantenendo così vivo il ricordo del loro caro.
Il fenomeno delle ghost bikes ha coinvolto anche Genea Barnes, una famosa fotografa americana, che grazie alle tecniche di foto digitale, ha realizzato una serie di immagini molto toccanti combinando foto di bici fantasma con ritratti di persone giovani, manipolate in modo da sembrare spiriti, per rammentare che non sono più con noi. "Ho voluto realizzare questi scatti - ha spiegato - per non dimenticare mai le vittime e per aumentare la consapevolezza della gente". (Un piccolo assaggio di questo lavoro può essere visto sul sito www.kickstarter.com/ projects/1004330446/the-ghostbike-project/)
Lo scorso 17 novembre la città di Auckland, in Nuova Zelanda, ha reso omaggio alla giornata nazionale delle vittime del traffico con una installazione di 59 biciclette bianche, corrispondente al numero di ciclisti morti sulla strada negli ultimi 5 anni, invitando la comunità a partecipare e rendere loro omaggio con un fiore o con dei nastri colorati con cui ornare le bici.
In Italia sono circa 200 i ciclisti che ogni anno perdono la vita sulle nostre strade. Molte responsabilità sono da attribuire alle istituzioni e in particolare agli enti locali che investono poco o non abbastanza per rendere la viabilità più sicura e ridurre così i rischi per gli utenti più vulnerabili, ossia i pedoni e gli utilizzatori delle due ruote. Purtroppo anche questi ultimi hanno il loro carico di responsabilità poiché non
sempre mettono in atto tutte quelle accortezze per non essere protagonisti di incidenti.
Aumentare la sicurezza in sella alla propria bici si può, basterebbe seguire delle norme elementari. Innanzitutto è essenziale conoscere e rispettare il codice della strada. Poi bisogna accertarsi che il proprio mezzo sia in ordine, indossare sempre il caschetto protettivo, e rendersi ben visibili, soprattutto quando la luce è scarsa, sia con le luci anteriori e posteriori che con catarifrangenti da applicare sui pedali. Meglio ancora se in aggiunta a ciò si indossa anche una pettorina catarifrangente. È importante non pedalare mai affiancati, tenere sempre entrambe le mani sul manubrio ed evitare di ascoltare musica con gli auricolari che impediscono di percepire i rumori della strada. Una manciata di regole “auree” che costano pochi soldi e nessuna fatica e che, se applicate, tanto possono fare perché sempre meno biciclette vengano verniciate di bianco.
Un’altra Ghost bike fotografata nella capitale inglese
Quattro strutture innovative e professionali a disposizione di tutte le imprese funerarie italiane, per servizi di alta qualità. Gianni Gibellini
di Tanja Pinzauti
inediti
Nello scorso novembre le elezioni del nuovo presidente U.S.A. hanno monopolizzato le prime pagine dei giornali e le tribune politiche mondiali.
Dopo una lunga campagna elettorale tra colpi di scena, defezioni e dibattiti, Donald Trump è stato eletto alla presidenza di una delle più grosse potenze mondiali per la seconda volta, tra il disappunto e lo stupore di molti.
Mentre la maggior parte dei media, durante la corsa alla presidenza, si è concentrata sui candidati, sulla loro storia politica e sulle loro dichiarazioni, Connecting Directors, strumento di informazione del settore funerario, ha realizzato un divertente Election Day Trivia (Curiosità sul giorno delle lezioni) su alcuni fatti storici “particolari” riguardo alle morti degli ex presidenti U.S.A., analizzando e mettendo a confronto le curiosità che hanno riguardato la dipartita dei diversi protagonisti
durante la storia degli Stati Uniti d’America. Le informazioni riportate non riguardano solo le stranezze ma anche scelte ricorrenti in merito alla cassa, la fatalità del luogo in cui è avvenuto il decesso e qualche piccolo mistero
La concomitanza di questo articolo con la ricorrenza, sempre in novembre, dell’anniversario della tragica scomparsa di uno dei presidenti americani più amati, John Fitzgerald Kennedy avvenuta durante l’attentato di Dallas, in Texas, nel 1963, ci ha portato a voler seguire l’idea di Connecting Directors e portarvi uno spaccato sulla parte meno pubblica della potenza mondiale americana.
Sapevate che ben 8 presidenti U.S.A. sono morti durante il loro mandato, mentre erano impegnati a svolgere il loro ruolo politico? Tra quelli che perirono per cause naturali ricordiamo
William Henry Harrison (deceduto a causa della polmonite dopo soli 31 giorni di presidenza), Zachary Taylor (gastroenterite causata da ciliegie avariate), Warren G. Harding (infarto) e Franklin D. Roosevelt (emorragia cerebrale). Sicuramente, tra questi citati, è proprio Roosevelt quello più conosciuto, forse anche per la durata del suo mandato (4 marzo 1933 – 12 aprile 1945) e per il suo ruolo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Quattro presidenti furono invece assassinati brutalmente. Tutti conoscono la storia di Abraham Lincoln che ricoprì il ruolo dal 4 marzo 1861 al 15 aprile 1865 e che fece la storia del Paese rimanendo, ad oggi, uno dei presidenti più amati: morì per un colpo di pistola alla testa durante un attentato mentre era a teatro con la moglie e i figli. La sua salma fu riesumata nel 1901 per essere posta in una sorta di mausoleo bunker in modo da evitare che venisse trafugata. James A. Garfield morì per shock settico a causa di un’infezione propagata da alcune ferite da arma da fuoco, William McKinley morì di cancrena provocata da ferite da arma da fuoco e infine, John Fitzgerald Kennedy, morto nell’attentato di Dallas.
L’omicidio Kennedy e le due casse
Come accennato all’inizio dell’articolo, Kennedy morì nel novembre del 1963 in seguito a uno degli attentati più famosi della storia. L’omicidio Kennedy avvenne infatti durante una parata ufficiale mentre il presidente, a bordo della limousine presidenziale decappottabile insieme alla moglie Jacqueline, al governatore Connally e a sua moglie, era in visita alla città. L’attentato venne ripreso da tutte le Tv nazionali e locali presenti all’evento e le immagini sono rimaste impresse nella memoria di milioni di americani e non, diventando il simbolo della fine di un’era a livello internazionale.
Una curiosità sulla morte del presidente Kennedy è quella che riguarda la sua cassa. Il primo cofano dove venne custodito il corpo di Kennedy era un Handley Britannia dell’azienda Elgin Casket. Purtroppo la cassa subì talmente tanti danni interni a causa delle condizioni del cadavere posizionato all’interno per il trasporto, che non era possibile esporla in pubblico e venne rimpiazzata da una Marcellus 710 in mogano africano. La Handley Britannia rimase negli archivi nazionali fino al 1966 quando, su richiesta della famiglia Kennedy, fu seppellita in mare dalla U.S. Air
Force dopo che venne riempita di 37 chili di sabbia e fatta calare con dei paracaduti perché non si rompesse.
Sembra che la “causa” delle morti dei presidenti durante l’esercizio del loro mandato fosse in qualche modo legata alla storia di Tecumseh (Cometa Fiammeggiante) leader indiano della tribù Shawnee che lanciò una maledizione su William Henry Harrison e tutti i suoi successori che venivano eletti in anni terminanti per zero. Ovviamente si tratta solo di una leggenda, ma coloro che alimentano questo tipo di miti hanno sottolineato come a rompere questa maledizione sia stato il presidente Ronald Reagan (eletto nel 1980) che morì nel 2004 ben lontano dall’esercizio del suo mandato.
Reagan è anche rimasto nella storia per aver avuto il funerale presidenziale più costoso. Una cerimonia da 400 milioni di dollari che ha anche eclissato quello di Kennedy, fino ad allora il più fastoso, che era costato 15 milioni di dollari. Il motivo per cui il funerale di Reagan costò così tanto, però, non fu a causa di una cassa d’oro o di un mausoleo particolarmente lussuoso ma perché l’allora presidente, George W. Bush, dichiarò
lutto nazionale facendo chiudere il mercato azionario e dando un giorno di ferie a tutti gli impiegati federali del Paese.
Essere eletti Presidente degli Stati Uniti d’America comporta doversi assumere delle importanti responsabilità. Per questo motivo, una delle prime cose che un presidente fa appena prende posto dietro la scrivania, è pianificare il proprio funerale.
Il presidente deve decidere come vorrebbe lasciare traccia della propria eredità politica per l’ultima apparizione nazionale
Un’altra curiosità è che 4 presidenti sono stati seppelliti nella casse
Marcellus. L’azienda Marcellus Casket, fondata nel 1872, è conosciuta per produrre cofani di grande pregio, paragonati alle Rolls Royce delle casse. Kennedy, Nixon, Truman e Reagan sono tutti sepolti in una Marcellus e il modello “The President” 710 è esposto al Museo Nazionale della Storia Funeraria a Huston I 39 presidenti U.S.A. scomparsi sono sepolti in soltanto 18 dei 50 Stati americani e nel distretto di Columbia. La Virginia è al primo posto nella classifica di Stati che hanno accolto i resti dei presidenti americani ed è qui che si trovano le tombe di Washington, Jefferson, Madison, Monroe, Tyler, Taft e Kennedy.
Le curiosità in merito ai presidenti U.S.A. sarebbero ancora molte, ma queste sono sicuramente quelle che hanno fatto più notizia nei secoli; sarà interessante vedere se e come si evolveranno le modalità di sepoltura nei prossimi anni, magari ipotizzando un'eventuale apertura delle disposizione dei resti in modalità alternative.
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di Raffaella Segantin
“Sei una peste!”, si usa dire ancora adesso in tono affettuoso ad un bambino troppo esuberante e propenso a combinare guai.
Ma in origine la peste non aveva nulla di bonario: è stata una delle epidemie più terrificanti dell’umanità che nelle sue diverse fasi ha mietuto milioni di vittime, causando un significativo calo demografico tale da modificare il corso della storia.
Presente nel Medio Oriente fin dall’antichità (era annoverata tra le piaghe d’Egitto), in Europa si presen-
ta più tardi e si registrano tre principali ondate pandemiche. La prima è la cosiddetta “Peste di Giustiniano” scoppiata a Costantinopoli a metà del VI secolo d.C. che molto probabilmente segnò la fine dell’impero bizantino e, più in generale, del mondo antico. Il numero di morti fu così elevato che non solo causò una grave crisi economica in quanto le campagne si spopolarono, ma fu responsabile anche dell’indebolimento dell’esercito, aprendo così la strada alle invasioni arabe.
La “Peste nera”, che si diffuse in
pieno Medioevo tra il 1346 e il 1353, fu una delle più terribili. Difficile ovviamente fare una conta delle vittime, ma stando ai dati in possesso degli storici, si stima che la popolazione complessiva europea passò da 80 a 30 milioni di persone; la sola Toscana perse oltre il 50% dei suoi abitanti, mentre nella penisola iberica la malattia decimò circa il 65% dei residenti.
Data 1630 la “Peste manzoniana”, così denominata perché raccontata
con dovizia di particolari da Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi. Quell’anno la malattia fu particolarmente virulenta nel nord Italia dove fece oltre 1 milione di vittime su una popolazione complessiva di 4 milioni. Va però precisato che l’intero secolo fu testimone di numerosi focolai che si sono propagati in diverse zone del continente, mietendo numeri impressionanti di vite.
Ora sappiamo che la trasmissione della malattia avviene attraverso le pulci che hanno morso un roditore infetto, ma all’epoca le cause erano sconosciute e le pessime condizioni igieniche non facevano altro che rinvigorire i focolai. Mentre i medici del tempo abbracciarono la teoria dei “miasmi”, attribuendo le ragioni a qualcosa di infetto che circolava nell’aria, e giravano bardati con palandrane e inquietanti “becchi” ripieni di essenze aromatiche e paglia imbevuta di aceto nella convinzione di impedire il passaggio del morbo, la credenza comune era che le pestilenze fossero un castigo di Dio per i peccati dell’umanità.
Queste tremende epidemie ebbero pesanti ripercussioni anche sull’aspetto psicologico della gente che
doveva assistere attonita ed impotente ad una incontrollata devastazione. L’imprevedibilità e la violenza delle infezioni generarono un diffuso senso di terrore nei confronti della morte che non mancò di influenzare gli artisti del tempo Abbiamo evidenze sia nella letteratura che nella musica, ma soprattutto nelle arti figurative. La pittura ci offre molte testimonianze del sentimento comune nei confronti di questi autentici flagelli e la morte diventa il soggetto protagonista dell’opera
Caratteristiche del Medioevo, ai tempi della “Peste nera”, sono le Danze Macabre realizzate dalla seconda metà del 1300 e per buona parte del 1400. Si tratta di affreschi dipinti in luoghi sacri che raffigurano uomini benestanti inframmezzati da scheletri, allineati come per esibirsi insieme in un ballo popolare. Produzioni di questo tipo erano frequenti in Germania, Francia, Polonia, Estonia, Slovenia, Croazia, Svizzera e anche nel nord Italia (famosa quella dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone in provincia di Bergamo). La più celebre è stata sicuramente quella di Lubecca, andata purtroppo perduta a
seguito di un bombardamento avvenuto durante la II guerra mondiale.
Tema correlato, e ancor più incisivo, è quello del Trionfo della Morte, dove troviamo la personificazione della morte stessa che si impone beffarda sui vivi. Anche questo filone, analogamente alla danza macabra ha un forte intento didattico: quello del memento mori (ricordati che devi morire), un invito a riflettere sulla caducità della vita e sull’inconsistenza dei valori terreni che nulla possono dinanzi alla nera signora.
Un’opera molto significativa del Trionfo della Morte è quella che possiamo ammirare nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo. Si tratta di un affresco, di autore sconosciuto, che è stato
staccato dalla sua sede originale e che sfortunatamente reca i segni di questa operazione mal eseguita. Ciò nonostante la scena non perde nulla della sua potenza drammatica. Al centro domina la Morte, rappresentata da uno scheletro che cavalca un irruente destriero, anch’esso raffigurato nella sua macabra anatomia. Cavallo e cavaliere irrompono con prepotenza in un incantevole giardino dove vari personaggi giovani e ben vestiti si stanno svagando ignari del destino che li attende. La Morte scocca i suoi dardi letali senza pietà colpendo indistintamente gli astanti, incurante della loro posizione sociale, tanto che i potenti, tra cui si può distinguere il Papa, giacciono proprio al centro, sotto al cavallo.
Questo affresco ispirò Pieter Bruegel il Vecchio che più tardi, nel 1562 circa, realizzò una sua versione del Trionfo della Morte, in un famoso quadro conservato al Museo del Prado di Madrid (vedi foto pag. 69). La scena descritta è simile, ma lo stile
è quello tipico dell’arte fiamminga, dove ogni spazio viene riempito da oggetti e dove domina la ricerca del dettaglio.
Se l’opera di Palermo è pervasa da un profondo pathos, da un senso di raccapricciante sbigottimento e di orrore, nel dipinto di Brughel, caratterizzato da evidenti tratti caricaturali a rappresentazione delle umane debolezze, prevale il gusto del grottesco tale da sfociare quasi in una garbata ironia.
Di tenore completamente diverso è La Peste di Azoth, capolavoro di Nicolas Poussin del 1631, custodito al Louvre di Parigi (vedi foto pag. 71). L’opera, che vide la luce durante la “peste manzoniana”, racconta una storia dell'Antico Testamento quando la città di Azoth fu colpita da una pestilenza per essersi resa colpevole di aver sottratto l'Arca dell'Alleanza agli Israeliti.
Sullo sfondo di un tempio in rovina è ritratta una folla terrorizzata. Qui la morte non è personificata, ma non per questo la scena è meno drammatica: la paura e la disperazione che leggiamo sui volti delle persone, enfatizzata anche grazie all’abilità dell’artista nella gestione dei chiaroscuri, sono davvero impressionanti.
Concludiamo con un accenno di come l’arte fu influenzata anche dalla fine delle pestilenze. Il XVII e XVIII secolo videro, infatti, la fioritura delle cosiddette “colonne della peste”, monumenti votivi sormontati da una statua della Vergine Maria o da altri simboli religiosi, erette a ringraziamento per la fine dell’epidemia. Sorsero un po’ in tutta Europa, soprattutto nei Paesi a Nord e a Est delle Alpi, come pure in Italia. Tra le più famose quelle in stile barocco di Vienna e di Olomouc, nella Repubblica Ceca, annoverata tra i siti patrimonio mondiale UNESCO.