TIMOTHÈ LUWAWU

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Nato e cresciuto in Costa Azzurra, origini congolesi, la sua carriera ha percorso vie inusuali. Da Antibes alla Serbia per esplodere e andare sei anni nella NBA. Dove non ha esitato a rimettersi in gioco fino all’arrivo all’Olimpia Milano
Le origini sono congolesi, ma Timothé Luwawu-Cabarrot è nato e cresciuto in Costa Azzurra, a Cannes, un posto che può essere associato a tanti momenti di vita diversi, cinema, mare, lusso, sole, ma difficilmente allo sport e al basket in particolare. Ma basta spostarsi di pochi chilometri per ritrovarsi ad Antibes e il discorso cambia. Prima che emergesse l’AS Monaco, Antibes era la forza monopolista del basket di quest’area di Francia e non solo. Negli anni ’80 Antibes era il posto in cui giocava Bob Morse, il leggendario tiratore americano di Varese; negli anni ’90 ad Antibes hanno giocato David Rivers e Micheal Ray Richardson, americani
che hanno fatto epoca in Europa. La squadra locale, con alterne fortune, è sempre stata un punto di riferimento per il basket transalpino. Ha vinto tre titoli e quattro volte ha raggiunto una semifinale di coppa in Europa. Ed è qui che nel 2012 seriamente Tim ha cominciato a giocare. Nella stagione 2014/15 è diventato un giocatore della prima squadra, in pianta stabile, una promessa avviata a diventare realtà. A quell’epoca, Antibes era in seconda divisione, ma vinse la coppa di categoria, la Leaders Cup. e lui segnò 7.2 punti di media in 42 presenze stagionali.
Fu dopo quella stagione ad An-
tibes, l’unica spesa in Francia da professionista, che Luwawu-Cabarrot cominciò a flirtare con l’idea di raggiungere addirittura la NBA. Nel 2014 aveva debuttato nella Nazionale Under 20 francese agli Europei di categoria, ma nel 2015 era stato uno dei migliori giocatori della stessa nazionale, segnando oltre 11 punti di media per una squadra che aveva raggiunto la semifinale e di cui facevano parte Yabusele e Cornelie, attualmente al Real Madrid. In quel momento, aveva già accettato l’inusuale idea di trasferirsi in Serbia, al Mega Leks, una specie di fucina di talenti destinati ad altri lidi. Dal Mega Leks sono transitati giocatori come Nikola Jokic e Vasa Micic. Tra i compagni di squadra Tim aveva Ivica Zubac che oggi è il centro dei Los Angeles Clippers. Luwawu-Cabarrot ebbe una stagione straordinaria considerata l’età, 14.6 punti, 4.8 rimbalzi per gara, ma anche 1.7 assist.
La combinazione statura-atletismo-braccia lunghe e istinti difensivi rafforzarono l’interesse della NBA nei suoi confronti. E viceversa. Tim si dichiarò per i draft del 2016, quelli in cui i Philadelphia 76ers scelsero Ben Simmons. In possesso di un’ulteriore prima scelta, la numero 24, i Sixers scelsero proprio lui, Luwawu-Cabarrot. L’idea era trasformarlo nel
più classico dei “3-and-D”, solitamente giocatori di grandi attitudini difensive, ma dotati di un tiro da tre abbastanza efficace da non consentire alle difese di “battezzarli” o ignorarli. Fu così che cominciò una striscia di sei stagioni tutte spese in America.
Da rookie, quando Simmons era infortunato, i Sixers richiamarono in America per tamponare la falla della regia un giocatore cresciuto alle Canarie, Sergio Rodriguez, che aveva appena lasciato il Real Madrid. Ai Sixers, TLC come lo chiamavano già allora, è rimasto due stagioni, con un record di 24 punti in una singola gara. Nella seconda stagione, non c’era più Rodriguez, ma c’era Simmons e i Sixers arrivarono ai playoff. Erano una squadra in ascesa, in possesso della scelta numero 1 anche del draft successivo, che usarono per prendere Markelle Fultz, una combo-guard. In estate venne ceduto agli Oklahoma City Thunder quando non avevano più Kevin Durant, ma avevano ancora il miglior Russell Westbrook, avevano Paul George e scambiarono per Carmelo Anthony. Lo spazio era poco e LTC fu scambiato una seconda volta, a Chicago, dove avrebbe avuto alcune delle cifre migliori della carriera. Non abbastanza però da mettere radici.
Una schiacciata di TLC, che è una guardia-ala di due metri
Nell’estate del 2019 si trovò per la prima volta senza contratti in corso, un po’ com’è successo prima di venire a Milano. Lo chiamarono a Cleveland per il training camp, poi a Brooklyn dove ha giocato con contratti a termine per alcuni mesi. Il contratto garantito se l’è conquistato sul campo. Il suo allenatore era Kenny Atkinson, che da giocatore tra l’altro era stato in Italia. A Brooklyn è rimasto due stagioni. Poi è finito ad Atlanta: doveva avere un ruolo del tutto marginale, quasi da polizza assicurativa in caso di infortuni o turnover, ma ha finito per giocare 52 partite e quando l’ha fatto – è successo dappertutto – l’ha fatto bene. Tra i suoi compagni di squadra aveva Danilo Gallinari, “che in ogni città – scherza – sapeva sempre quale fosse il ristorante migliore”.
Primi di finire agli Hawks, Luwawu-Cabarrot ha giocato la prima grande competizione internazionale con la Nazionale francese maggiore. Alle Olimpiadi di Tokyo, ha vinto la medaglia d’argento segnando 11 punti nella finale contro gli USA che la stessa Francia aveva battuto nella gara di esordio. TLC ormai fa parte della generazione d’oro del basket francese, quella che aspira a vincere le Olimpiadi del 2024 a Pa-
rigi, tirata da Rudy Gobert. Con lo stesso gruppo, i francesi hanno vinto l’argento anche agli ultimi Europei. Macabramente, sia alle Olimpiadi che agli Europei la Francia ha vinto contro l’Italia nella fase ad eliminazione diretta. Il successo a Berlino, lo scorso settembre, è stato quasi rocambolesco. In quella gara, ha segnato 13 punti. La sua schiacciata in transizione nel finale del supplementare è stata quasi l’emblema della gara. Ma in quel momento, dopo gli Europei, Luwawu-Cabarrot era di nuovo senza contratto NBA. A chiamarlo sono stati i Phoenix Suns, quando l’idea di tornare in Europea aveva ripreso a diventare forte. Ha fatto il training camp in una squadra oggettivamente da titolo NBA. Ma non avevano spazio nel roster e nonostante qualche buona apparizione ha finito per rimanere fermo. Quello è stato il momento in cui si è manifestata l’opportunità di venire a Milano. E TLC l’ha afferrata. Milano non è casa, non è la Francia, ma nel suo piccolo grande mondo aveva già un ruolo, non solo per la relativa vicinanza con i luoghi dell’adolescenza, ma perché è anche la città della madre della fidanzata. Alle volte il mondo è piccolo.
Dopo sette anni alla Reyer e tante grandi esperienze con la Nazionale, l’ultimo triestino arrivato all’Olimpia sta coronando quel sogno che il padre Alberto ha solo sfiorato
Durante il riscaldamento con la maglia dell’Olimpia al Mediolanum Forum, circa 15 minuti prima a due, Stefano Tonut sente echeggiare le note della canzone di Lorenzo Jovanotti che accompagna le immagini storiche del club. Tra queste ad un certo punto appare quella del padre, grosso modo quando aveva l’età attuale di Stefano, un po’ più alto, la maglia numero 7. Solo che in quel video Alberto Tonut indossa la maglia numero 7 avversaria. Alberto Tonut
corre in contropiede verso due punti facili per la sua formazione dell’epoca, la Libertas Livorno. È Gara 5 della finale scudetto del 1989. Stefano era a quattro anni di distanza dal vedere la luce per la prima volta. Alberto Tonut, un talento straordinario, un grande giocatore nei due ruoli di ala, non segnò quel canestro, perché alle sue spalle un uomo che aveva vinto due titoli NBA con i Lakers e anche il titolo di MVP, noto per le sue doti di attaccante,
non certo di difensore, istintivamente si tuffò sul parquet scivoloso di inizio estate, per deviare la palla oltre la linea di fondo. Uno dei gesti più famosi, iconici, della storia del nostro basket. Bob McAdoo e il suo tuffo. Alberto Tonut nella parte sbagliata della storia, immeritatamente.
per poi andare ad affrontare i migliori giocatori d’Europa. È quello che cercavo”, dice.
Alberto Tonut tante volte era stato in procinto di venire a Milano (nell’anno della finale scudetto della sua Libertas segnava 12.7 punti per gara), ma i destini del mercato non gliel’hanno permesso. Quando nacque Stefano, giocava a Cantù. Lo dice anche la carta d’identità del nuovo giocatore dell’Olimpia. Quel privilegio spetta oggi al figlio. “Venezia è stata un’esperienza bellissima, lunga sette anni, ma questo è il posto giusto per l’opportunità di fare uno step in avanti. Alla fine, sarà un percorso quotidiano importante per me, che nascerà dal confronto con Coach Messina e Christos Stavropoulos,
Anche se è nato a Cantù, Stefano in realtà è un mulo triestino, una terra che all’Olimpia ha dato tantissimo in termini di giocatori, Romeo Romanutti, Cesare Rubini, Gianfranco Pieri, Giulio Iellini, Sandro De Pol. E adesso lui. Di Pieri indossa lo stesso numero 7. Da bambino giocava a basket, ma non era tanto considerato, forse perché il cognome pesava sulle aspettative. Aveva provato a giocare a calcio fino a quando, crescendo di statura, decise che comunque avrebbe provato a giocare a basket. Ha cominciato nell’Azzurra Trieste, poi a Monfalcone dove si allenava due volte, con i ragazzi e con la prima squadra, poi proprio nella squadra maggiore di Trieste, allora in A2. Esplose nella stagione 2014/15, oltre 19 punti di media; subito dopo aver vinto il titolo europeo con la Nazionale
Under 20 di cui facevano parte anche Amedeo Della Valle e Awudu Abass. Lui non era una stella di quella squadra, ma segnò 10 punti in finale contro la Lettonia, in trasferta. Dopo l’esplosione in A2, venne firmato da Venezia e il resto fa parte della storia del basket italiano. Alla Reyer ha vinto due scudetti, una Coppa Italia, una FIBA Europe Cup. In tutto, è rimasto sette anni alla Reyer, quasi un record nel basket di oggi. È stato MVP del campionato nel 2021, ma cinque anni prima, nel 2016, quando non aveva ancora 23 anni e lottava per trovare minuti nella sua squadra di club, Coach Ettore Messina lo portò al Preolimpico di Torino. Negli anni seguenti, grande protagonista in Italia, ha legittimato quella convocazione e nel 2021 è stato tra i giocatori chiave della conquista del Preolimpico di Belgrado e poi del viaggio a Tokyo, ricordato dai cinque cerchi che si è tatuato sul petto. A Belgrado
dove l’Italia strappò il pass olimpico contro la Serbia segnò 15 punti in 34 minuti contro una squadra formata da dieci giocatori di NBA o EuroLeague. Non proprio male per un giocatore che, per vari motivi, è stato per anni sottovalutato. Non era abbastanza buono per tradurre il suo rendimento in A2 nel massimo campionato, poi non era abbastanza forte da avere un ruolo importante nella Reyer o in Nazionale o nelle coppe europee. I fatti dicono che è sempre riuscito a smentire tutti. “Sono un giocatore che vuole migliorare ogni giorno –si descrive -. Ma quando dico che devo migliorare in tutto non lo dico per dire, è quello che intendo fare. Posso indicare nel tiro e nel palleggio i fondamentali nei quali più ho bisogno di avere continuità, di perfezionarmi, ma in realtà voglio crescere in ogni aspetto, perché a questo livello tutto è importante e soprattutto lo è farsi trovare mentalmente pronto, sempre”.
In
Quella su Fall, 23 centimetri più alto di lui, è solo la più recente delle perle confezionate dal centro dell’Olimpia, capace di usare tempismo, stacco da terra e velocità di salto
La stoppata di Kyle Hines su Youssoupha Fall, nel primo round di EuroLeague, ha destato scalpore, per la differenza di statura tra i due giocatori. 2.21 Fall, 1.98 Hines. Fanno 23 centimetri di differenza. Ma nel corso della sua carriera, Hines è puntualmente riuscito a ridurre il gap e riservare lo stesso tipo di trattamento a giocatori di diversa statura, ma soprattutto in differenti situazioni di gioco. La stoppata su Fall è stata il classico intervento da “Helpside Defender”. Hines è arrivato dal lato opposto del
canestro per incontrare Fall, tradito forse da un eccesso di sicurezza. Così Hines ha messo la sua mano molto in alto, sfruttando una caratteristica tipica dei grandi stoppatori, la rapidità di salto. Saltare in alto, saltare velocemente, saltare al momento giusto sono le tre qualità dei grandi stoppatori. Ma Edy Tavares del Real Madrid può stoppare usando anche l’estensione delle sue braccia e la statura, perché è alto circa 220 centimetri. L’unico paragone credibile con Hines è rappresentato da Bryant
Dunston dell’Efes Istanbul, che lo precede nella graduatoria “All-Time”, perché è alto non più di 2.03. Quindi sfrutta le sue stesse caratteristiche. Quello che Kyle Hines riesce a fare con continuità è stoppare in contesti differenti: aspettando l’avversario al ferro, arrivando da difensore di aiuto per respingere la schiacciata, alzando un muro o anche da dietro (“chase down block”) ovvero quando l’attaccante è in vantaggio, ma il difensore ri-
monta fino a mettere la mano sul pallone, quasi senza farsi vedere. Questo tipo di stoppata, ad esempio, nella NBA è stata resa famosa da LeBron James. Quella su Toko Shengelia nell’ultima finale scudetto è una stoppata simile a quella eseguita su Fall. Shengelia è sfuggito al suo difensore per arrivare al ferro. Hines ha così abbandonato il suo uomo, Jaiteh, per andare a salvare la situazione. Classico intervento calcisticamente parlando da ultimo uomo. Nel football americano è quella che chiamano “Goal-line defense”, in pratica la difesa sulla linea di meta. Di questo Hines è uno specialista. Lo scorso anno ha eseguito due stoppate “incontrando” gli avversari al ferro salendo alto come loro. Shaquielle McKissic dell’Olympiacos e Nigel Hayes, allora al Barcellona, sono giocatori di statura paragonabile alla sua, ma hanno provato ad arrivare al ferro di pura velocità e forza. Solo che lui si è fatto trovare nel punto giusto. Ed è fisicamente più forte. Contro
Hines vai a sbattere e rimbalzi. Il motivo per cui Kyle Hines è considerato un abituale candidato al titolo di difensore dell’anno in EuroLeague è proprio per questa straordinaria abilità di ancorare la difesa, proteggendo il ferro. La stoppata eseguita due anni fa su Joel Bolomboy del CSKA Mosca resta una perla. Bolomboy, che oggi è all’Olympiacos, è andato su per schiacciare con tutta la sua potenza atletica, senza immaginare che Hines,
non solo si sarebbe fatto trovare lì dal nulla, ma gli avrebbe opposto abbastanza forza da respingerlo. Il numero di “Iconic Shots Blocked” di Hines anche solo pensando alla sua carriera milanese è impressionante.
Ovviamente la stoppata più importante è stata quella eseguita su Wade Baldwin, all’epoca al Bayern Monaco, in Gara 5 dei playoff di EuroLeague del 2021. Non è stata una stoppata paragonabile alle altre per spettacolarità. E si è anche trattato di un raro caso in cui il giocatore stoppato è più piccolo di Kyle. Infine, non è stata una stoppata di quelle regolari, con la palla spazzata via e magari recuperata dalla difesa. Hines ha generato semplicemente una palla contesa, mettendo le mani sulla palla. Ma Baldwin è una guardia fisicamente forte e in grado di arrivare al ferro contro chiunque. Hines ha eretto un vero muro tra lui e il canestro e poi mettendo le mani sulla palla ha impedito qualsiasi cosa, un tiro, un passaggio, un’improvvisazione.
Prima di Kyle Hines, prima di Mason Rocca, prima di Vittorio Gallinari, poco dopo Sandro Gamba nell’albo d’oro dei grandi difensori dell’Olimpia, dei mastini c’è stato Giandomenico Ongaro, Giando per tutti. È stato il numero 13 originale dell’Olimpia, un uomo che da gregario prezioso ha vinto otto scudetti e la Coppa dei Campioni del 1966 con il Simmenthal. Nel 1964 quando l’Olimpia – costretta a giocare dai regolamenti senza stranieri anche in campo internazionale – raggiunse la semifinale europea perdendola contro il Real Madrid, Giando era una delle colonne portanti della squadra, sostegno indispensabile del talento di Pieri, Riminucci, Vianello, Vittori prima che questi andasse via, fino ad arrivare ai giovani della generazione successiva, Masini e Iellini. Il suo primo campionato in Serie A risale al 1957, l’ultimo al 1968. Non si fosse infortunato, sarebbe durato ancora a lungo. Era abbastanza bravo da essersi guadagnato anche cinque presenze in azzurro in un’era in cui la Nazionale giocava molto meno di adesso.
La sua storia di atleta è bella anche perché Ongaro è stato un autentico prodotto delle giovanili dell’Olimpia e ha fatto tutta la trafila fino a spendere praticamente l’intera carriera in biancorosso. Non è mai stato del tutto un professionista: lo è stato come impegno, ma poi studiava, si è laureato in ingegneria, e dopo ha cominciato a lavorare. A fine carriera, si è trasferito per lavoro negli Stati Uniti e vi è rimasto per oltre vent’anni.
Il suo legame con l’Olimpia non è mai venuto meno. Quando venne ritirata la maglia numero 18 di Arthur Kenney, lui volle esserci. Quando il club celebrò i suoi 80 anni di storia, lui c’era e ritirò la maglia personalizzata con il numero 80. Quando c’erano le partite importanti, da non perdere, lui c’era. Quando è stato ritirato il numero 8 di Sandro Gamba, lui c’era, “per Sandro ci sarò sempre”, aggiunse. Quando il parquet di gioco è stato intitolato a Cesare Rubini, Giando Ongaro era lì, a celebrare l’unico allenatore che abbia avuto durante la sua lunga parentesi all’Olimpia. Giando Ongaro è nato uomo Olimpia e lo è rimasto tutta la vita, fino alla notte del 5 novembre 2022 in cui ci ha lasciato.
Cinque spareggi, uno scudetto assegnato a tavolino, colpi di mercato per rinforzarsi e indebolire l’avversario. Tra Olimpia e i cugini varesini la storia è quasi un giallo
Quest’anno il derby Milano-Varese va in scena il giorno di Santo Stefano. Anche se la sfida Milano-Bologna conta un maggior numero di scudetti complessivi e la definizione di “derby d’Italia”, questa gara non ha nulla da invidiare in termini di prestigio e tradizione ad alcuna altra sfida oltre ad essere un derby vero anche a livello territoriale. La rivalità tra i due club trova conforto nei numeri, 10976 per l’Olimpia che vuole 185 scontri diretti. Queste due squadre hanno giocato cinque spareggi per assegnare lo scudetto, di cui tre consecutivi. Nel 1985 hanno giocato la finale di Coppa Korac. Nel 1973 hanno giocato la semifinale di Coppa dei Campioni. E poi bisognerebbe aggiungere per completare lo scenario quanto accaduto fuori dal campo inclusi i passaggi di giocatori simbolo da un club all’altro. E se la cessione di Dino Meneghin da Varese a Milano nel 1981 fece scalpore, ma fu un’operazione necessaria; fecero discutere molto i passaggi di Gabriele Vianello, stella dell’Ignis al Simmenthal (con obbligo di stop per un anno), e successivamente di Paolo Vittori in senso inverso. In seguito, anche Giulio Iellini, grande simbolo della Milano dei primi anni ’70, passò a Varese dove ritrovò Sandro Gamba, Mister Olimpia, che nel 1973 lasciò l’Olimpia per diventare capo allenatore del club avversario per eccellenza.
IL TRIPLICE SPAREGGIO – Nel 1971, 1972 e 1973 lo scudetto del campionato italiano, prima che venissero istituiti i playoff, venne assegnato con una sorta di “Superbowl” nostrano, uno spareggio secco per sbrigliare la parità. Dal 1957 al 1969, Olimpia e Varese avevano vinto in tutto 13 scudetti su 14 (eccezione, la prima affermazione nel 1968 di Cantù). In nove dei dieci anni precedenti erano finite prima e seconda. Tuttavia, Milano era alle prese con una sorta di ricambio generazionale per il ritiro o il declino dei vecchi campioni del decennio precedente, Pieri, Riminucci, Vianello, Ongaro. Varese era in ascesa: aveva ancora Vittori, ma l’asse portante era composto da Bisson, Ossola, Meneghin, Flaborea e avrebbe avviato una striscia di 10 finali europee consecutive. Nel 1970/71 finirono l’anno con 21 vittorie e una sconfitta a testa. La sconfitta era maturata nello
scontro diretto in campo avverso. Così lo spareggio andò in scena a Roma, campo neutro, e vinse Varese. L’anno successivo, persero tre partite a testa. Fu di nuovo spareggio, di nuovo a Roma, ma esito inverso, con il trionfo del Simmenthal 74-70. In quella stagione, l’Olimpia vinse la Coppa delle Coppe e la Coppa Italia. Varese si “accontentò” della Coppa dei Campioni ottenendo la possibilità di disputarla anche l’anno successivo. Nel 1972/73 lo spareggio si disputò a Bologna. Varese aveva sostituito Manuel Raga con Bob Morse, un debuttante. I suoi 31 punti furono decisivi. Le due squadre si incontrarono anche nella semifinale di Coppa dei Campioni, ma il Simmenthal aveva deciso di giocare la competizione con un solo americano senza tesserare il cosiddetto “straniero di coppa”. Semplicemente, non era abbastanza forte per battere il colosso varesino. Quella era l’Olimpia di Iellini, Brumatti, Masini, Bariviera e come americano di Arthur Kenney, preso da Le Mans per contrastare la furia fisica e agonistica di Dino Meneghin. Celebre la super rissa del Palalido a fine gara, un episodio che ambedue hanno poi minimizzato.
IL CASO GENNARI – Varese aveva vinto lo scudetto nel 1961, ma in estate Gabriele Vianello aveva deciso di lasciare l’Ignis e trasferirsi a Milano. I regolamenti dell’epoca prevedevano, in mancanza di un accordo tra le parti, che il giocatore restasse fermo un anno. Nella stagione 1961/62 Vianello non giocò né a Varese né a Milano. Il Simmenthal acciuffò lo spareggio di Bologna nel finale di stagione. Furono decisivi Paolo Vittori, il solito Pieri e Giando Ongaro, che segnò 12 punti in quella gara pur avendo altre caratteristiche. Il Simmenthal vinse il primo di due scudetti consecutivi, Varese si ri-
prese il titolo nel 1964 impendendo all’Olimpia – dopo la semifinale controversa persa con il Real Madrid – di riprovare a vincere in Europa. Conquistato lo scudetto nel 1965, fu il momento di Varese di restituire il “favore” strappando all’Olimpia proprio Vittori. Nel 1965/66 però vennero riaperte le frontiere: l’americano del Simmenthal era Skip Thoren, un’ala-centro, quello di Varese era Toby Kimball. L’Olimpia vinse il titolo europeo, ma per imporsi in Italia fu necessario uno spareggio. l’Olimpia vinse ambedue gli scontri diretti con Varese in quella stagione, ma nel corso del torneo perse tre partite considerate di routine, forse distratta dalla grande attenzione rivolta alla Coppa dei Campioni. Per questo fu necessario lo spareggio. A quei tempi, in campionato ogni squadra poteva schierare un solo giocatore straniero, era Skip Thoren per l’Olimpia, era Toby Kimball per l’Ignis Varese, che tra l’altro segnò 27 punti nello spareggio di Roma. Ma alla vigilia dello spareggio stesso, la Commissione Esecutiva Gare della Federazione autorizzò la registrazione di Tony Gennari, americano di Trenton, New Jersey, ma origini italiane, il classico oriundo. Gennari era a Varese dall’inizio della stagione, ma aveva fatto lo straniero di coppa mentre in campionato non aveva mai potuto giocare per lungaggini nell’ottenimento del passaporto italiano (in realtà ottenne cittadinanza e domiciliazione). Ad aggiungere mistero alla vicenda: i membri della Commissione, dopo aver autorizzato il tesseramento di Gennari, si dimisero in blocco, sostenendo che legalmente non avevano strumenti per bocciare una richiesta che moralmente ritenevano ingiusta. Diventò un giallo. L’Ignis portò Gennari in panchina, ma non lo utilizzò per tutto il primo tempo. Ma nel finale di una gara tirata, con il Simmenthal carico
di falli, Varese fece alzare Gennari. Vianello uscì per falli, poi anche Riminucci. Così mentre Milano perdeva pezzi, Varese aggiunse il suo secondo straniero, che segnò 10 punti in quel finale, finendo per dilagare 75-59. Ma il dopo gara fu terribile. Bogoncelli sottolineò come Gennari avesse giocato tutto l’anno da straniero, salvo l’ultima partita di campionato, in cui venne schierato da italiano e che lo status fosse stato ottenuto dopo la fine della stagione, dunque, come poteva giocare lo spareggio un giocatore mai tesserato prima? La storia andò avanti per due mesi e venne risolta da un intervento “esterno”: il padre di Gennari, Secondo, ottenendo il passaporto americano aveva rinunciato implicitamente, forse a sua insaputa, come spiegavano le leggi dell’epoca, alla cittadinanza italiana che avrebbe potuto riottenere se solo l’avesse chiesta. Ma non lo fece.
Questo venne appurato da un’indagine speciale richiesta dalla Fip. Quindi Gennari, il giorno della gara, non era ancora diventato italiano. Con oltre due mesi di ritardo, e anche dopo l’ulteriore ricorso di Varese, la gara venne omologata con il 2-0 a tavolino a favore del Simmenthal.
40 MINUTI DI ZONA – Varese aveva ancora Dino Meneghin e Bob Morse, ma Milano era una squadra di nuovo in ascesa nel 1979 quando in semifinale, un po’ a sorpresa, arrivò a sfidare l’allora Emerson. Era l’anno della cosiddetta Banda Bassotti, che oggi non sembrerebbe tale, ma a quell’epoca si giocava quasi sempre con due lunghi alti e pesanti e le ali piccole erano regolarmente oltre i due metri. L’Olimpia non aveva centri di ruoli e schierava di fatto due ali piccole e un’ala forte. Dopo aver eliminato la Stella Azzurra, il Billy in Gara 1 partì 31-10 dopo 10 minuti e vinse 86-76. Varese rispose andando a sbancare il Palazzone di San Siro. Ma in Gara 3, Coach Peterson cavò dal cilindro magico una sorpresa, utilizzando i cinque titolari per 40 minuti filati senza sostituzioni. A sei minuti dalla fine, aveva tre uomini con quattro falli e due con tre. Gli ultimi due commisero due falli nei restanti sei minuti. Tutti finirono con quattro falli, la mitica zona 1-3-1 fece il resto e Milano eliminò Varese volando in finale. Finì 87-84- I fantastici cinque: Mike D’Antoni, Franco Boselli, Mike Sylvester, CJ Kupec, Vittorio Ferracini.
LA FINALE DI COPPA KORAC – Nel 1985, Milano e Varese si sono date battaglia anche in una finale europea. Non era mai successo prima. L’Olimpia era reduce da due secondi posti consecutivi e due finali europee perse, in Coppa dei Campioni contro Cantù nel 1983, in Coppa delle Coppe nel 1984 contro il Real
Madrid. Di fatto, sempre all’ultimo tiro. Nel 1985 però l’Olimpia aveva Joe Barry Carroll e passò come un trattore sopra la competizione vincendo otto partite su otto per strappare il pass per la finale di Bruxelles. Varese era una squadra forte, con Meo Sacchetti, due ex come Francesco Anchisi e Dino Boselli, il giovane Cecco Vescovi, Riccardo Caneva e due americani strepitosi, John Deveraux e Corny Thompson. L’Olimpia dominò il primo tempo nonostante una prestazione inusualmente negativa di Carroll, grazie a Roberto Premier (23 alla fine). All’intervallo era avanti di otto, poi Carroll uscì addirittura per falli. Poi successe anche a Premier e Varese trascinata da Sacchetti (28 punti) risalì fino a meno uno. Nell’ultima parte di gara fu Russ Schoene, che a inizio stagione aveva rischiato il taglio, a dominare la scena finendo addirittura a 33 punti nel successo 91-78.
La NextGen Cup è una via di mezzo tra un campionato primavera come lo chiamano nel calcio e il Torneo NCAA come lo chiamano in America. La NextGen Cup raccoglie le squadre giovanili di tutte le 16 società del massimo campionato, che non sono necessariamente tutte le migliori, ma rappresentano una buona vetrina e un livello di gioco ragionevolmente elevato. Quest’anno, la competizione è stata spalmata in tre momenti diversi. A Pesaro, le 16 squadre hanno giocato tre gare a testa del girone eliminatorio. A febbraio, tra Trento e Rovereto, ne giocheranno altre quattro completando la regular season. Infine, giocheranno le Final Eight (di qui la similitudine con il Torneo NCAA) a fine stagione.
L’Olimpia ha risposto secondo pronostici: la favorita del proprio girone è Trento e con Trento è arrivata una sconfitta di cinque punti in volata; con Venezia e Scafati aveva bisogno di fare classifica e l’ha fatta vincendo ambedue le gare. Nel prossimo round dovrà affrontare Napoli (che è 2-1 come l’Olimpia), Brescia, Verona e Bologna. L’obiettivo è qualificarsi per le Final Eight nella miglior posizione possibile.
La squadra che affronta questo impegno è la Under 19 che include tre giocatori che hanno già spiccato il volo per i campionati maggiori, ovvero Francesco Gravaghi che è Gallarate in B, Lionel Abega che è sempre in B ma a Pavia e Marco Restelli, di Magenta, che gioca a Oleggio. Non a caso sono stati loro a trascinare la squadra. Restelli è un playmaker dotato di tiro da tre e di un’interessante penetrazione
effettuata proteggendo il braccio destro con il resto del corpo; Gravaghi, vogherese arrivato all’Olimpia quando era bambino è una guardia di stazza fisica, forte a rimbalzo, e dotato di tiro da tre anche dal palleggio; Abega, che viene dal Camerun ma ha fatto la formazione italiana cominciando da Roma prima di arrivare qui, è una guardia di straordinario atletismo, che sta maturando un gran tiro da tre punti, ed è difficilmente battibile in difesa. A questi va aggiunto Samuele Miccoli, teramano da due anni a Milano, che è del 2006, il più giovane del gruppo, ma sa già esprimersi a livello alto per personalità, ritmo, atletismo.
Gli altri ragazzi portano sempre mattoni importanti alla causa: Francesco Marcucci è un eccellente tiratore; Davide Trovarelli ha estro; Jacopo Rapetti è un centro generoso come Luca Panna; Andrea Leoni è un’ala che alza un po’ il livello fisico del quintetto; Achille Martino è il capitano; Riccardo Bortolani, Gianmarco Fiorillo, Theo Anchisi, Matteo Todisco rendono il roster profondo. Non è una squadra di grande taglia fisica e per questo soffre a rimbalzo, ma si fa valere nelle guardie, ha buoni tiratori e quando corre è anche divertente.