RED SHOES MAGAZINE | Ottobre 2022

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BILLY BARON CESARE RUBINI COURT FRANCO CASALINI
OTTOBRE 2022
KEVIN PANGOS

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3 REDSHOESMAGAZINE 30 Sergio Rodriguez 22 Cesare Rubini Court 26 Franco Casalini 4 Kevin Pangos 16 Billy Baron

KEVIN PANGOS

“Non mi stanco mai di giocare a basket, è lo sport che amo. Andare nella NBA, coronare un sogno, è stata la miglior decisione della mia vita. Penso ancora al Torneo NCAA mai vinto con Gonzaga, ma fa parte del gioco. L’Italia era nel destino, da quando esordii con la Nazionale del Canada a Trento”

I segni sono dappertutto. Inconfondibili. Il nonno e la nonna, entrambi sloveni, lasciarono il Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale scegliendo la libertà di separarsi dalle famiglie e dalle radici piuttosto che rimanere dietro la cortina di ferro, nell’allora Jugoslavia. Il nonno, Roman Pangos, si recò in Italia, a Udine, e alla fine fu trasferito a Capua, in un campo profughi dove conobbe la futura moglie. Insieme, a un certo punto, hanno lasciato l’Italia per andare dove alcuni parenti si erano già stabiliti, in Canada. Ma tutto è iniziato in Italia. Sì, in Italia, lo stesso Paese dove a 15 anni, così vicino a Milano da poterla quasi toccare, Kevin Pangos ha guidato una squadra dell’Ontario alla vittoria nel prestigioso torneo di Rho, determinante nel successo sulla squadra

lituana in finale. Per lui è stata una specie di Epifania. Non torni indietro quando realizzi qualcosa del genere. Diventi un nome riconosciuto, anche se vieni dal Canada, un paese in cui qualche volta sembra esistere solo l’hockey, persino a casa dei Pangos: lo zio, Jim Koudys, è stato scelto dai New York Islanders nel 1982 e il cugino Patrick dai Washington Capitals nel 2011.

E ancora, il padre, Bill Pangos, ex giocatore che ha allenato la squadra femminile della York University, a Toronto, per circa trent’anni (la sorella di Kevin, Kayla, ha giocato per lui al college), ha incontrato la sua futura moglie (a sua volta un’altra giocatrice di basket) in un camp di basket della zona, chiamato proprio Olympia. Vedete? I segni sono ovunque.

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Altre prove? Quando Kevin stava guadagnando credito nel mondo del basket canadese, ottenendo grande visibilità con le squadre nazionali giovanili, Leo Rautins - uno dei migliori giocatori canadesi di sempre - lo ha selezionato per la squadra maggiore prima di una trasferta in Italia, nel 2009. Kevin all’epoca aveva solo 16 anni. La prima uscita fu a Trento, l’Italia dominò quella partita contro il Canada, Andrea Bargnani fu protagonista con 28 punti, era presente Marco Belinelli, c’erano anche Gigi Datome e Peppe Poeta. A risultato deciso, Rautins scelse di fare del suo playmaker di 16 anni il giocatore più giovane che abbia mai giocato per la nazionale maggiore canadese. Kevin quel giorno ha battuto il record detenuto dallo stesso Rautins. Ma non fu un esordio banale: “Ricordo la partita; non ricordavo che Gigi fosse in campo. A quei tempi, Andrea Bargnani giocava nei Raptors. Io sono cresciuto guardando i Raptors. Il mio primo tiro era da tre punti, in transizione, dritto in faccia a Bargnani. Non ricordo nemmeno se segnai o meno. A quel punto non era importante, lo era essere in campo a quell’età, avevo 15 anni, è stata una grande esperienza”, ricorda Kevin. L’Italia è dappertutto nella sua storia, non solo cestistica. Ora può persino chiamare Milano la sua casa.

Kevin Pangos voleva diventare un giocatore di basket e l’ha voluto fin dal primo giorno in cui ha toccato palla. Era bravo a giocare a hockey, era bravo a giocare a calcio e decisamente

bravo a pallavolo. Seguendo l’esempio dei suoi genitori, era un maniaco della vita all’aria aperta, sempre alla ricerca di una partita o di un’attività fisica per intrattenersi, per divertirsi. Tuttavia, il basket scorreva nel sangue della famiglia. “Non mi stanco mai di giocare, è lo sport che amo”, dice. Il padre è stato un eccellente guardia tiratrice e in seguito un allenatore rispettato ovunque. La madre era una giocatrice, e così sua sorella. Pangos è nato e cresciuto a Holland Landing, a nord di Toronto, Ontario, lo stato canadese dove il basket è sempre stato un po’ più di uno sport minore, anche se in Canada l’hockey è tutto e Toronto non fa eccezione: è anche la città in cui ha sede la Hall of Fame dell’hockey. Ma di sicuro, Pangos e la sua generazione di giocatori hanno beneficiato dell’espansione canadese della NBA negli anni Novanta. Mentre Vancouver non è durata molto, Toronto è stata tutta un’altra storia. Vince Carter non è canadese, ma ha reso i Raptors rispettabili e persino di moda per una generazione di giovani giocatori. Steve Nash, un autentico canadese, è stato un’altra figura chiave, il giocatore a cui Pangos è stato sempre inevitabilmente paragonato, vista la taglia fisica simile e il ruolo in campo identico. Carter e i Raptors, Nash, hanno aperto una strada.

La maggior parte dei giovani giocatori canadesi, tuttavia, anche adesso sono costretti a lasciare il paese da adolescenti per andare a studiare negli Stati Uniti, ottenere la visibilità

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La prima esperienza di Pangos in EuroLeague è stata allo Zalgiris Kaunas Kevin Pangos era il playmaker di Gonzaga quando ha raggiunto il n.1 del ranking

necessaria per diventare nomi noti e magari raggiungere la NBA. Questo tipo di percorso ha funzionato bene per molti giocatori. Anthony Bennett non ha avuto successo nella NBA, ma è stato il giocatore scelto al numero 1 nei draft del 2013. Andrew Wiggins è stato selezionato primo assoluto nel 2014 ed è diventato un grande giocatore prima a Minnesota e ora a Golden State. Molti altri canadesi stanno producendo carriere NBA di successo: Jamal Murray a Denver, Shai Gilgeous-Alexander a Oklahoma City, RJ Barrett a New York e così via. Pangos in questo senso è stato diverso. Ha resistito alla tentazione di trasferirsi negli Stati Uniti e ha deciso di finire il liceo alla Dr. Denison High School, proprio a casa. “A tanti ragazzi che sono andati negli Stati Uniti è capitato di trovare brutte situazioni scolastiche e ci sono sempre tante incognite. In Canada, sapevo cosa avevo, ero in contatto con un grande preparatore atletico, Matt Nichol, a Toronto. Tutto ciò di cui avevo bisogno era lì. Ho pensato fosse il modo migliore per prepararmi al college, concentrarmi su me stesso, forza, condizionamento, tecnica”, racconta. Nel 2009, ha portato il Canada alla medaglia di bronzo ai campionati americani FIBA Under 16, segnando una media di 18.4 punti a partita. Grazie a quel risultato, il Canada si è qualificato per i Campionati del Mondo Under 17 del 2010 di Amburgo. Ancora una volta, Kevin ha pilotato il Canada alla conquista della medaglia di bronzo. C’era Anthony Bennett in

quella squadra e c’era Andrew Wiggins (che aveva due anni in meno di avversari e compagni in tutta onestà). Kevin ha segnato una media di 15.8 punti e 4.1 assist a partita (ha avuto 13 punti e cinque assist nella vittoria per il bronzo sulla Lituania). L’anno successivo ha guidato il Canada ai Mondiali Under 19 in Lettonia, con una media di 13.5 punti e 3.1 assist per partita. Rendimento e risultati ottenuti con le nazionali giovanili canadesi gli hanno fruttato numerose offerte di borse di studio dai college americani. Pangos, infatti, è stato molto vicino a firmare per Michigan. I Wolverines avevano uno slot di playmaker disponibile per Pangos o per Trey Burke, un futuro giocatore NBA. Burke ha detto di sì, Pangos ha chiesto tempo per visitare altre scuole e alla fine ha firmato per Gonzaga, nel nord-ovest del Paese, un college ribattezzato Guard University, perché John Stockton lo rese famoso negli anni Ottanta, quando però Gonzaga era “solo” una scuola situata a Spokane. In seguito, sono arrivati grandi successi e sono emerse tante grandi guardie, sulle orme di Stockton, a cominciare da Matt Santangelo per proseguire con Blake Stepp e David Stockton, il figlio di John che per un po’ è stato compagno di squadra proprio di Pangos. Nella sua prima partita con la maglia Gonzaga contro Eastern Washington, Kevin è partito dalla panchina. Ha segnato 11 punti, giocando bene, un modo incoraggiante di cominciare una carriera. Ma, sesto uomo, questo non lo è mai stato. Per i successivi quattro anni, non è mai più

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Kevin Pangos ha giocato una stagione strepitosa a San Pietroburgo L’esperienza al Barcellona è stata interrotta dagli infortuni

partito dalla panchina. Nella sua seconda partita, in una partita trasmessa in televisione, contro Washington State, Kevin ha centrato nove triple e segnato 33 punti. Un trionfo. Ha segnato 30 punti anche contro Brigham Young. Ha concluso la stagione con una media di 13.6 punti a partita, è stato nominato rookie dell’anno nella WCC ed è stato incluso nella prima squadra All-WCC. Ma allo stesso modo la stagione non è finita bene per gli Zags. Dopo la sua prova da 30 punti contro la BYU, Gonzaga è stata battuta da St. Mary’s, guidata dall’australiano Matthew Dellavedova. Pangos, che aveva segnato 27 punti nella partita precedente, venne limitato a sette punti. E nel torneo NCAA, la corsa di Gonzaga venne arrestata al secondo turno da Ohio State. Nella sua seconda stagione, Gonzaga ha perso due volte durante l’intera regular season, a un certo punto, si è trovata al primo posto del ranking nazionale, ha vendicato la sconfitta della stagione precedente sconfiggendo St. Mary’s nella finale della WCC ed è entrata nel torneo NCAA con aspettative altissime. Tuttavia, il secondo round ha rappresentato ancora una volta un ostacolo insormontabile. Colpa stavolta di Wichita State. Pangos però è stato nuovamente incluso nella prima squadra di conference. La stagione 2013/14 è iniziata a Maui, nelle isole Hawaii, Gonzaga ha vinto tre delle prime quattro partite e Pangos si è espresso a livelli altissimi, segnando una media di oltre 27 punti a partita durante la trasferta. Sfortu-

natamente, in quella stagione è stato afflitto da infortuni di ogni tipo, prima l’alluce, poi il ginocchio. Ha lottato, ha portato la squadra a un record promettente e alla conquista della WCC, oltre ad essere incluso una volta ancora nel primo quintetto della WCC. Nel Torneo NCAA, si è trovato subito costretto ad affrontare un avversario formidabile, Oklahoma State, a San Diego, la squadra guidata da Marcus Smart, una futura scelta di lotteria, adesso nominato difensore dell’anno nella NBA con i Boston Celtics. Kevin ha vinto il duello con Smart segnando 26 punti contro 23 e trascinando Gonzaga a una grande vittoria. Fu però l’ultima della stagione: gli Zags per la terza volta consecutiva furono eliminati al secondo turno del tabellone. Da senior, Pangos ha toccato i vertici di rendimento più alti, tanto da essere nominato giocatore dell’anno della WCC. Gonzaga ha prodotto un’altra stagione dominante, perdendo una sola volta nella propria conference e due volte in totale. Dopo aver vinto il torneo della WCC per la terza volta consecutiva, tutto quello che Pangos voleva era sopravvivere alla prima settimana del Torneo NCAA. E finalmente ce l’ha fatta. Gonzaga ha sconfitto North Dakota State, Iowa, poi UCLA e ha preparato il terreno per una sfida memorabile contro Duke con le Final Four in palio. In quella partita, Pangos è rimasto in campo 40 minuti filati, senza mai prendersi una pausa. Alla fine, Gonzaga ha perso lo stesso, ma il grande Coach Mike Krzyzewski ha avuto parole spettacolari per Kevin.

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La tecnica di Pangos è stata costruita fin da bambino con l’aiuto del padre allenatore

Kevin Pangos è un tiratore da tre punti capace di grandi fiammate

“Sembra sempre imperturbabile. Ha sempre una bella faccia. Ha una grande faccia da leader”, ha detto Coach K. “Penso spesso a tutte le partite che abbiamo perso nel corso della March Madness, soprattutto quella contro Duke nel mio anno da senior, la mia ultima – ammette Kevin -. Ma alla fine, nella March Madness, solo una squadra finisce l’anno con una vittoria, mentre ce ne sono altre 67 dispiaciute. Io sono stato abbastanza fortunato da giocare quel torneo e tutta quell’esperienza rappresenta già un successo. Ma ho sempre sognato di vincere il titolo nazionale e non ci sono riuscito”.

Avrebbe dovuto andare NBA. La carriera a Gonzaga parlava per lui. Ma non è stato così, non è stato scelto. I Dallas Mavericks lo hanno ingaggiato per la loro squadra estiva ma dopo avrebbe dovuto prendere la strada della G-League e mettersi alla prova ripartendo da zero. Invece ha deciso diversamente: Pangos voleva giocare al livello più alto possibile, Gran Canaria gli ha offerto una buona opportunità nel campionato spagnolo e in Eurocup, lui ha accettato. I fatti gli hanno dato ragione: la squadra ha raggiunto le semifinali di Eurocup e Pangos è stato nominato nel secondo quintetto della competizione. “A Gran Canaria, il primo obiettivo era dimostrare di essere un professionista. Ed ero entusiasta di avere la possibilità di giocare a basket come mestiere. Diventare un professionista era sempre stato il mio sogno. E volevo davvero portare il mio gioco ad un livello superiore. Per me,

ogni anno da quando sono diventato un pro, la mia ossessione è diventare il miglior giocatore possibile e raggiungere la NBA. A Gran Canaria ho capito che potevo farcela. Ho anche avuto la fortuna di trovare un allenatore come Aito, che mi ha insegnato tanto. Mi ha dato la chance di giocare ad alto livello. A quei tempi non avevo realizzato quando fossero competitive l’Eurocup e la lega spagnola soprattutto per un ragazzo esordiente. Giocare a quel livello, fare quell’esperienza è stato fondamentale. Al mio primo anno da pro non avrei potuto chiedere di più”.

Il che l’ha portato dritto in EuroLeague, allo Zalgiris Kaunas sotto la guida di Sarunas Jasikevicius. Nella sua seconda stagione in Lituania, giocando accanto a Brandon Davies, Pangos ha portato la squadra a un’inaspettata qualificazione alle Final Four di Belgrado, ed è stato incluso nella seconda squadra All-EuroLeague. Quelle Final Four che non aveva giocato a Gonzaga, le ha giocate a Kaunas. “Abbiamo affrontato ogni partita durante la stagione convinti di vincerla. Chi non era nel nostro spogliatoio può essersi sorpreso, soprattutto quando ci siamo qualificati per le Final Four, ma noi eravamo sicuri di farcela”. Da lì è approdato al Barcellona, dove ha ritrovato Davies tra i suoi compagni di squadra. La sua prima stagione è stata eccellente, ma la seconda è stata rovinata, distrutta, dagli infortuni proprio quando Jasikevicius è arrivato al Barcellona per ricreare un pezzo di Lituania in Catalogna. “Ma la

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Kevin Pangos durante uno dei tanti viaggi che lo attendono Milano e l’Italia erano nel destino di giocatore di Pangos, le cui origini sono slovene

mia esperienza a Barcellona è stata complicata – ricorda -. Mentalmente e fisicamente, perché non sono mai davvero stato sano. Anche quando ho giocato ho sempre avuto problemi di infortuni che mi hanno condizionato e ho perso anche un po’ di fiducia. Non sono mai stato in grado di fare ciò che normalmente posso fare. È stata dura. Ma è stata un’esperienza dalla quale ho appreso molto. Ho giocato insieme a grandi campioni e questo mi ha permesso di imparare e crescere come persona e come giocatore”.

Si è trasferito allo Zenit San Pietroburgo, per disputare un’altra grande stagione, forse ancora migliore dell’ultima di Kaunas. È stato nominato nella prima squadra All-EuroLeague e ha portato lo Zenit per la prima volta ai playoff, ironicamente proprio contro il Barcellona. Ne è venuta fuori una serie memorabile, in cui lo Zenit ha portato il più quotato avversario alla quinta partita dopo aver vinto in trasferta Gara 1 e sfiorato l’impresa anche in Gara 2. Nella serie, Pangos ha segnato 16.2 punti e distribuito 7.2 assist a partita. “Non so se sia stata la miglior versione di me come giocatore quella di San Pietroburgo – spiega -. Di sicuro mi sono divertito e ho giocato bene per gran parte della stagione. I giocatori hanno assorbito facilmente la filosofia dell’allenatore e alla fine è venuta fuori una stagione speciale. Non so se sia stata la migliore, penso che ogni anno abbia avuto la possibilità di dimostrare qualcosa di più o di diverso, ma di sicuro a San Pietroburgo sono stato bene”. Troppo bene per

non avere finalmente una possibilità NBA. Ha accettato meno soldi ed è tornato al di là dell’oceano firmando per i Cleveland Cavaliers.

Non è andata come previsto, in vero. Cleveland era una squadra di alto livello nel suo ruolo, con Collin Sexton, Darius Garland e persino Ricky Rubio. Il suo era un ruolo marginale. “Andare nella NBA è stata una delle migliori decisioni che abbia preso in vita mia. Capisco che dall’esterno possa sembrare il contrario, ma era un sogno che avevo da quando ero bambino. Giocare al livello massimo è un obiettivo che ho sempre sognato di coronare. Non ho potuto dimostrare ciò che sapevo fare o giocare come mi sarebbe piaciuto, ma non voglio togliere nulla a quell’esperienza. I Cavs e le persone che ho conosciuto hanno fatto il massimo. Tentare è stata una delle scelte migliori che abbia fatto, non lo rimpiango in alcun modo”, spiega. È andato in G-League un paio di volte, è apparso in 29 partite e poi alla fine ha ceduto. Il CSKA Mosca lo voleva nel basket cui appartiene, quello di EuroLeague. Ma non ha mai raggiunto Mosca. La guerra in Ucraina ha fermato il suo trasferimento in Russia, non il suo trasferimento in Europa. I segnali sono dappertutto. Udine dove il nonno andò in fuga dalla Jugoslavia, Capua dove il nonno conobbe la nonna, Rho dove divenne un prospetto da seguire, Trento dove divenne il giocatore più giovane in assoluto a vestire la maglia della Nazionale canadese e infine Milano. Un posto che adesso può chiamare casa

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BILLY BARON

“Per essere un grande tiratore devi essere un grande tiratore dal palleggio, usando la mano destra, usando la mano sinistra, perfezionando il crossover o usando un blocco sulla palla. Ho lavorato per anni, appena vedo un po’ di luce posso tirare. Adesso è soprattutto un fatto mentale, questa è la ricetta di un bomber nato”

Billy Baron è un tiratore naturale, ma essere un grande tiratore naturale non sempre è sufficiente. Devi andare in palestra, tirare, lavorarci sopra e migliorare ogni giorno. Poi, quando sei diventato un grande tiratore, le difese si preparano per affrontarti. Le difese cercano di eliminarti. Ti spingono sempre più lontano dal canestro. E non ti fanno vedere nemmeno uno spiraglio di luce. Quindi, devi essere creativo, devi essere veloce, l’esecuzione deve diventare fulminea. E ciò che è più importante sono… le gambe. Sì, le gambe. “La gente fa attenzione alla parte superiore del corpo – dice Billy Baron -, alla tua forma, ma tutto parte dalle gambe, da quanto sei capace di schizzare in aria e tirare più velocemente, eseguire il gesto il più rapidamente possibile. Ora, a 31 anni, non importa dove mi trovo sul campo, fintanto che le mie gambe sono nella posizione corretta e posso schizzare verso l’aria, so di avere buone possibilità di fare canestro, che venga da

destra o che provenga da sinistra. Penso che la mia rapidità d’esecuzione cominci dalle gambe”.

Tirare è una peculiarità familiare a casa di Billy Baron. Forse essere il figlio di un allenatore aiuta a sviluppare certi automatismi. Commetti un piccolo errore e lui è lì pronto a correggerlo. E che dire del fratello maggiore, un altro fantastico tiratore che una volta ha segnato 10 triple in una singola partita della BCL? “Mio fratello Jimmy è un tiratore meccanico, ha cercato di insegnarmi la giusta meccanica di tiro, ma da ragazzino io ero un tipo molto testardo – confessa Billy -. Volevo imparare da solo. Lo guardavo, cerco sempre di imparare osservando, e guardandolo mi sono detto che è così che ogni tiro dovrebbe apparire. Ma poi ho aumentato i tentativi, ho eseguito più tiri e quando sono diventato più forte da ragazzino, sono anche stato in grado di usare meglio le gambe e la forma è lenta-

mente cambiata fino ad arrivare al punto che desideravo. Io e mio fratello abbiamo imparato a tirare in modo diverso, lui molto tecnico, io più visivo. Ho imparato così”.

I tiratori si esercitano ogni giorno. Centinaia di tiri. C’è chi ti prende i rimbalzi, ti passa la palla, sceglie tempi e modi giusti per arrivare a trasformare un tiro in un automatismo, un gesto automatico. C’è solo un piccolo problema: quando sei in una partita non c’è nessuno che ti passa la palla nella posizione giusta, al momento giusto, anzi hai avversari che ti corrono incontro, con le braccia alzate, urlando, non importa se sia legale o illegale, e il passaggio non è quasi mai perfetto, non arriva al petto, è sempre troppo basso o troppo alto, un tantino a destra o a sinistra. I difensori invece non ti concedono un millesimo di secondo, ti piombano addosso, ti distraggono. Allora, a cosa è servito tutto il lavoro svolto in allenamento, con un allenatore a prendere i rimbalzi e passare la palla? “Il lavoro non finisce mai, ma adesso a 31 anni, è soprattutto un fatto mentale. Non credo mi servano tante ripetizioni, ma devi riprodurre il più possibile i tiri che prenderai in partita, avvicinarti a quelle situazioni di gioco. Se aggredisci ogni tiro come fai in partita, diventi più continuo. Fin da ragazzino, ho cercato di lavorare sui tiri dal palleggio. Quando qualcuno ti prende i rimbalzi e ti passa la palla arrivi ad eseguire un tiro istintivo. A quel punto diventa una questione di testa. Ma per essere un grande tiratore devi essere un grande tiratore dal palleggio, usando la mano destra, usando la mano sinistra, perfezionando il crossover o usando un blocco sulla palla. Gli allenatori in Europa adorano chi può tirare dietro un blocco, in isolamento o uscendo dai blocchi per fare un passo a destra, uno a sinistra, poi uno dietro così sembri sbilanciato, ma in realtà non sei davvero sbilanciato. È essenziale, imparare a tirare differenti tipologie di tiro e poi diventare continuo: questo è ciò che ti

rende un grande tiratore”.

DINAMICHE FAMILIARI

Billy lo ricorda come se fosse ieri. Quando ha firmato la sua lettera di intenti con Virginia c’erano telecamere ovunque. Stava per andare in un college importante, in una delle conference più competitive, dove avere enorme visibilità non è mai un problema. Era sulla strada giusta. Il padre era accanto a lui. Avrebbe voluto allenarlo a Rhode Island proprio come aveva fatto in precedenza con Jimmy. Ma quel giorno era lì da padre, orgoglioso di esserlo. Billy era piccolo, giovane e duro. “Si è trattato di una situazione dinamica; mio fratello ha giocato per mio padre a Rhode Island. In quei momenti il loro rapporto era diverso, mio fratello era la sua guardia tiratrice e questo ha generato qualche tipo di conflitto. Mia madre era nel mezzo. Ho assistito a tutto questo, si trattava delle tipiche discussioni a tavola tra padre e figlio, un tipo di dinamica molto comune, frustrante, accentuata dal fatto che mio padre era anche il suo allenatore. In quella fase della mia carriera, giocavo come playmaker e con la palla in mano sentivo di avere più controllo sulla squadra. Sono andato a Virginia anche perché come coach c’era Tony Bennett e avevo grandi giocatori come compagni di squadra. Ma soprattutto perché mio padre, mia madre e persino il mio allenatore del liceo mi avevano consigliato di provare quella strada perché sarebbe stato difficile giocare per mio padre”, ricorda Billy.

Ma c’era qualcosa di sbagliato a Virginia. Non gli allenatori o i compagni di squadra. Il suo preferito era Joe Harris, che ora è uno dei migliori tiratori della NBA con i Brooklyn Nets. La verità è che Billy non voleva davvero giocare a Virginia. Voleva giocare per il padre. Nient’altro contava di più per lui. “Uno dei miei obiettivi era giocare per la squadra della mia città e arrivare a disputare il torneo NCAA, cosa che mio

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A San Pietroburgo ha anche vinto il titolo della VTB League Billy Baron al tiro con la maglia della Stella Rossa Belgrado

fratello è stato in grado di fare. Quindi, la verità è che il mio cuore non è mai stato a Virginia. Coach Bennett e il suo staff sono stati fantastici, ma per tutto il tempo che ho trascorso a Virginia, la mia mente e il mio cuore erano a Rhode Island. Ecco perché ho deciso di trasferirmi, tornare a casa e cercare di salvare il posto di mio padre. Non ho rimpianti”, spiega. Quando Jim Baron fu licenziato e si trasferì a Canisius, Billy lo seguì. “È strano come sono andate le cose, ho frequentato tre college in quattro anni. Non è una cosa che ti aspetti. Ma è divertente come è andata a finire perché nel mio ultimo anno, in una piccola scuola, sono stato in grado di mostrare quanto talento avessi. Ho fatto tanti provini NBA, non so se sarei stato in grado di farne di più se fossi rimasto a Virginia, perché a Canisius ho potuto mostrare molto di più il mio repertorio”. Molto, molto di più. È stato infatti uno dei migliori realizzatori d’America a oltre 24 punti di media. “Era un momento in cui avevo fortissime motivazioni, volevo dimostrare che avevano sbagliato sul mio conto, anche se avevo iniziato a Virginia e sono finito a Canisius che è una scuola molto più piccola e meno importante. Avevo il fuoco dentro, volevo dimostrare che potevo giocare ad alto livello e che ero un professionista, che potevo arrivare a giocare nella NBA o in EuroLeague. Andare da Virginia a Canisius non ha mai cambiato i miei piani, ma mi ha dato grandi motivazioni e, onestamente, ripensandoci, è stato anche divertente dimostrare che su di me si sbagliavano in tanti. Mi ha aiutato a guardare avanti per raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi. Inoltre, ho incontrato mia moglie a Canisius e ora abbiamo due bellissimi bambini”.

IL BASKET CHE AMORE!

Billy è cresciuto in una famiglia di cestisti. Il basket ha portato Jim Baron a St. Bonaventure, dove era una discreta guardia, il basket ha fatto di lui un allenatore al termi-

ne della carriera. È stato assistente a Notre Dame, poi capo allenatore a St. Francis dove ha allenato Mike Iuzzolino. E ancora, a St. Bonaventura e Rhode Island. La famiglia l’ha seguito lungo il percorso. “Io e mio fratello ci siamo innamorati del basket in modo naturale – racconta Billy -. Siamo cresciuti negli spogliatoi. Fin da bambino andavo alle partite di college ed era divertentissimo. Mio padre non ci ha mai spinto a giocare a basket, ma io e mio fratello volevamo stare solo con i suoi giocatori, la sua squadra e ci sentivamo come se fossimo parte di una famiglia. Quindi, è stato un fatto naturale, per noi i suoi giocatori erano i nostri eroi. Volevamo essere proprio come loro, sin da quando eravamo bambini”. Alcuni di loro erano David Vanterpool, che in seguito ha giocato per Coach Ettore Messina al CSKA Mosca, JR Bremer e Marques Green, che in seguito hanno giocato a Milano. È un mondo piccolo qualche volta. Jimmy Baron ha trascorso un anno in Italia, a Roma. E hanno anche giocato insieme a Charleroi, per una stagione. “È stato un anno speciale. La mia prima stagione all’estero è stata difficile. Avevo molta nostalgia di casa. Mio fratello ha detto che avrei dovuto essere felice; che sarebbe stato divertente. Ripensandoci, ci siamo divertiti molto. Penso che fossero passati sette anni da quando era andato all’estero per la prima volta; quindi, non avevamo passato molto tempo insieme, tranne 3 o 4 settimane in estate. È stato fantastico, lui era la guardia tiratrice, io il playmaker. È qualcosa che non avrei mai pensato sarebbe successo, ma è successo. È stato come tornare al college, lui viveva al terzo piano e io al secondo. Ci vedevamo ogni giorno e questo ci ha permesso di recuperare il tempo perso”.

AVVENTURE RUSSE

Quando si è trasferito allo Zenit San Pietroburgo, Billy Baron ha incontrato Kevin Pangos. “Lui abitava al primo piano, io al

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Il tiro di Billy Baron è il frutto di un’applicazione e una cura dei dettagli maniacale

Billy Baron in questa stagione ha lasciato subito il segno in EuroLeague

secondo piano, le nostre mogli erano molto amiche, i nostri figli sono nati a due settimane di distanza uno dall’altro. Siamo diventati subito amici. Durante il primo mese non avevamo le famiglie (a San Pietroburgo) perché c’era il Covid ed era difficile entrare nel Paese; siamo stati tutto il tempo insieme, notte e giorno, preparavamo la cena insieme, giocavamo ai videogame, guardavamo il football, andavamo all’allenamento insieme. Sono stato fortunato ad avere Kevin con me in quel momento, è stato un anno complicato. Avevamo grande chimica in squadra, siamo arrivati ad una partita dal raggiungere le Final Four. Abbiamo fatto molto più di quanto pensavamo. Quando si è presentata l’opportunità di venire qui e ho sentito che forse ci sarebbe stato anche Kevin, non ho avuto bisogno di altri argomenti”. Pangos ha lasciato San Pietroburgo nell’estate del 2021 per inseguire il suo sogno NBA a Cleveland. Baron è rimasto allo Zenit. La scorsa stagione è stata particolarmente dura, soprattutto quando è scoppiata la guerra in Ucraina e le squadre russe sono state eliminate, a metà stagione, dall’EuroLeague. Eppure, lo Zenit è riuscito a vincere uno storico campionato VTB rimontando da 1-3 e battendo il CSKA Mosca nella settima partita, in trasferta. “È stato un anno mentalmente estenuante, fisicamente punitivo. Tornare a casa a marzo, portare a casa la famiglia, tornare indietro è stato difficile. Spero di non trovarmi mai più in una situazione simile, con la mia famiglia, per due mesi e mezzo cercando di capire cosa stesse succedendo. Vincere, battere il CSKA è stata una specie di ricompensa per tutti i giocatori coinvolti. Guardando indietro, è stato come comprimere tre stagioni in una. All’inizio della stagione abbiamo avuto un sacco di infortuni, poi a metà stagione e poi nell’ultima parte della stagione tanti sono andati via e avevamo quattro o cinque stranieri. Sono state tre squadre diverse in una stagione. Un anno

così fortifica il carattere, impari a combattere le avversità. Ecco perché quel titolo è stato speciale”.

FINALMENTE A MILANO

Milano potrebbe essere il luogo della definitiva affermazione di Billy Baron. “Penso di essere cresciuto tanto mentalmente e fisicamente, dentro e fuori dal campo. Le esperienze mi hanno cambiato in modo positivo, penso alle avversità dell’anno scorso, alle condizioni ambientali estreme che ho vissuto in Serbia, in Turchia, occupando ruoli diversi. Milano è il passo avanti perfetto per me, per tentare di vincere in EuroLeague oltre che in Italia. A fine carriera, quando torni a casa e ti ritiri, tutto ciò che vuoi esibire sono le vittorie. Qui a Milano, con tutte queste persone, tutti i compagni di squadra, strutture di questo livello, questo è il motivo per cui lavori ogni giorno”. È stata la conversazione con coach Messina a chiudere l’accordo. “L’allenatore mi vuole pronto, nelle grandi partite. Ed è quello che voglio anche io, voglio le aspettative, le partite di EuroLeague, uscire dalla panchina, partire in quintetto, è lo stesso, lo voglio qualunque sarà il mio ruolo. Sono qui per essere pronto per qualsiasi cosa mi chieda Coach Messina. Questo è ciò che vuole da me, esperienza, tiro, ma vuole anche che giochi duro in difesa, che aiuti la squadra. Qualunque cosa mi chieda, sono qui per dimostrare che sono disposto a farla, portare la palla, prendere uno sfondamento, tirare, passare all’uomo libero, qualunque cosa. Non voglio essere un problema in difesa, non voglio essere quello che ti dà problemi in difesa. Ho detto a coach Messina che sono qui per dare tutto, ho 31 anni, è la mia nona stagione all’estero e quello che voglio di più è un titolo di EuroLeague. Sono qui per fare quello che vuole lui, per dare il massimo per tutto il tempo che trascorrerò qui e spero che alla fine si possa alzare un trofeo”.

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Cesare Rubini COURT

Nel Mount Rushmore dei grandi dell’Olimpia, Il Principe non può mancare. L’Olimpia ha deciso di onorare l’uomo dei 15 scudetti intitolandogli il campo su cui giocherà le sue partite

Nel Mount Rushmore dei grandi personaggi della storia dell’Olimpia, Cesare Rubini non potrebbe mancare. Non è nato nell’Olimpia come il suo delfino Sandro Gamba, non era milanese e arrivò all’allora Borletti nel 1947 quando aveva 25 anni. In quel momento, il triestino Rubini era già un giocatore della Nazionale italiana e anche un grande giocatore di pallanuoto. Nel 1948, dopo la sua prima stagione a Milano, gli dissero di scegliere. Le Olimpiadi estive erano l’unico momento in cui non poteva permettersi di giocare sia a basket che a pallanuoto (Camogli, Canottieri Milano e Rari Nantes Napoli sono state le sue squadre). C’erano i Giochi di Londra, i primi del dopoguerra. Rubini scelse di giocare a pallanuoto, nel primo Settebello della storia dello sport italiano. Tornò da Londra con la medaglia d’oro al collo. Quattro anni dopo vinse

quella di bronzo. Fu anche Campione d’Europa. E infatti è stato incluso nella Hall of Fame degli sport d’acqua. Si trova a Fort Lauderdale, in Florida, vicino a Miami. Quando venne eletto era già stato nominato nella Hall of Fame del basket a Springfield. Nessun europeo c’è mai riuscito e solo un americano oltre a lui. E le enormi differenze tra i due sport, basket e pallanuoto rendono l’impresa unica.

Rubini scoprì il basket a Trieste quando arrivarono gli americani, lui si definiva un uomo cresciuto in un porto. Aveva già venti anni quando cominciò a giocare. Arrivò a Milano su proposta di Adolfo Bogoncelli, altro membro del Mount Rushmore di cui sopra. È stato lui a inventare l’Olimpia che conosciamo: era trevigiano, e aveva fatto basket prima a Modena, poi a Como e a Milano, ma

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con una squadra di triestini. Infine, di fatto aldilà di complicate ricostruzioni storiche, la sua squadra prese il posto del Borletti, la famosa all’epoca Borolimpia, ereditandone la sponsorizzazione e gli scudetti che erano già stati vinti ai tempi di Giannino Valli come allenatore, Sergio Paganella e Enrico Castelli come giocatori simbolo. Bogoncelli scelse Rubini per guidare il suo progetto. Rubini era di fatto tutto, allenatore, giocatore, poi manager. Incredibilmente, ha avuto successo in tutti i ruoli. Cinque dei suoi scudetti li ha vinti da giocatore-allenatore, i 10 seguenti li ha vinti come allenatore. Sandro Gamba era la sua estensione in campo, poi il suo primo grande assistente quando smise di giocare. Un binomio che ha fatto le fortune dell’Olimpia prima e della Nazionale poi. Gamba era l’uomo della

tattica, degli allenamenti, era il conoscitore di avversari e giocatori da portare a Milano. Rubini era una presenza, era carisma, intimidazione, era un motivatore. Ha allenato tutti i grandi giocatori dell’Olimpia di quegli anni in cui in sostanza, in media, vinse uno scudetto ogni tre campionati. Segio Stefanini, Romeo Romanutti, Enrico Pagani, Sandro Gamba, poi Gianfranco Pieri che arrivò da centro e venne trasformato in un playmaker, Gabriele Vianello, Paolo Vittori, Sandro Riminucci, Massimo Masini, Giulio Iellini, Pino Brumatti, Renzo Bariviera, Paolo Bianchi, Vittorio Ferracini. Si parla di almeno quattro generazioni di giocatori.

Se il greco Mimi Stephanidis fu il primo straniero allenato da Rubini, il primo americano fu Ron Clark, pivot bianco transitato per Kentucky. Dopo di lui arrivarono George Bon Salle di Loyola-Chicago che fu scelto al numero 7 dei draft NBA ma non andò mai a giocarci preferendo dopo Milano la Industrial League a Denver dove lo pagavano e gli davano un lavoro (nel 1959 vinse anche i Giochi Panamericani), e Pete Tillotson, da Michigan (Capitano dei Wolverines), che venne a Milano perché un infortunio gli consigliò di rinviare di un anno l’approdo a Syracuse nella NBA. Quindi, la Federazione chiuse le porte agli stranieri e nel 1964 l’Olimpia diventata Simmenthal raggiunse una semifinale di Coppa dei Campioni con una squadra tutta italiana, diretta da Rubini, perdendola con un Real Madrid imbottito di naturalizzati. Due anni dopo, riaperte le frontiere, Rubini convinse Bill Bradley e giocare la Coppa a Milano e Skip Thoren a giocare da noi la sua prima stagio-

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Cesare Rubini, numero 9 dell’Olimpia

ne da professionista. Il risultato fu la più grande stagione della carriera di Rubini da allenatore, culminata con la conquista della Coppa dei Campioni. E fu ancora lui a portare in Italia, dietro i suggerimenti di Gamba, americani che hanno fatto epoca come Austin Robbins, Steve Chubin, fino ad Arthur Kenney, per molti il suo giocatore preferito per lo spirito indomito. Kenney, per difendere Rubini, aggredito da un giocatore slavo a tradimento in una gara di Coppa delle Coppe contro la Stella Rossa a Belgrado, andò in tribuna, sfidando la Polizia locale ai tempi della Guerra Fredda, per inseguire il colpevole.

La squadra dei primi anni ’70 vinse anche due Coppe delle Coppe, giocò tre spareggi consecutivi contro Varese vincendone uno. L’ultimo nel 1973, perso, fu il più doloroso. Per uno scherzo del destino, la sconfitta più difficile da digerire ebbe luogo nello stesso impianto bolognese, Piazza Azzarita, in cui Rubini aveva ottenuto nel 1966 il suo successo più eclatante, la Coppa dei Campioni. Dopo quella partita, allenata contro il grande Asa Nikolic, Gamba –stanco di aspettare il proprio turno – se ne andò a Varese. Rubini rimase ancora un anno poi decise di ritirarsi, dopo 26 anni in panchina. Anagraficamente ne aveva solo 51. Nel 1979 si riunì a Gamba in Nazionale. E nel 1980 vinse la sua terza medaglia olimpica, l’unica nel basket, a Mosca quando l’Italia si qualificò per la finale battendo a casa sua l’Unione Sovietica. Per molti, è stata la più grande vittoria nella storia della squadra azzurra. Rubini c’era anche nel 1983 a Nantes, quando per la prima volta l’Italia diventò Campione d’Euro-

pa. Quando venne incluso nella Hall of Fame, alla cerimonia, fece morire di invidia tutti i presenti (con lui c’era Chuck Daly, due volte Campione NBA con Detroit, coach del Dream Team di Barcellona 1992) perché a salutarlo via video intervenne, su assist di Bill Bradley, allora Senatore democratico del New Jersey, fu Bill Clinton, che all’epoca era alla Casa Bianca. Rubini era questo.

Alla fine del suo discorso quando venne ammesso alla Hall of Fame ha pronunciato, in italiano, c’era Sandro Gamba a fare da interprete, una frase che si adatta perfettamente alla giornata di domenica 2 ottobre quando il parquet dell’Olimpia è diventato il “Cesare Rubini Court”: “Questo giorno dovrà essere sempre così nella mia memoria: stupendo e affascinante”.

Il parquet sul quale gioca l’Olimpia oggi

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FRANCO CASALINI

- il Ricordo -

Aveva per le mani una squadra fortissima, indimenticabile ma anche una grandissima responsabilità per un allenatore alla prima esperienza come head-coach, un allenatore che arrivava dopo il mito Dan Peterson e dopo un Grand Slam. Franco Casalini, nella stagione 1987/88, riuscì nell’impresa di diventare campione d’Europa al primo anno da capo, alla guida dell’Olimpia, ovvero la sua squadra. Da allora un solo allenatore italiano ha vinto l’Eurolega, Ettore Messina. Prima di lui ci sono riusciti solo Cesare Rubini, Sandro Gamba, Valerio Bianchini e Giancarlo Primo. “Avevamo lo stesso nucleo di campioni, sapevo di poter contare su una squadra fortissima, solida anche fuori del campo; sapevo di allenare una macchina da guerra ma fu lo stesso una stagione difficile. Gestire una squadra reduce dal Grande Slam era una responsabilità enorme. Già

dopo la sconfitta in casa con il Barcellona in Coppa Intercontinentale avevamo i fucili puntati contro. A Gand arrivammo senza alcun pronostico a favore, anche perché l’Aris ci aveva battuto nettamente in casa e avevamo faticato a superarlo a Milano. Però vincemmo. Era una squadra speciale”.

Come cambiarono i rapporti con i giocatori diventando capoallenatore?

“ Tre di loro, Meneghin, D’Antoni e McAdoo erano sia pur di poco più anziani di me, quindi non potevo inventarmi un atteggiamento diverso ma in generale dovetti cambiare molto. E persino con quei tre diminuirono gli scherzi: ognuno giocava con la propria vita e la propria professione”.

Kenny Barlow andò via e prese Ri-

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Per ricordare Franco Casalini che ci ha lasciato in estate a soli 70 anni di età ripubblichiamo l’intervista che concesse a questo magazine alcuni anni fa.

ckey Brown…

“Mi dissero un mercoledì che Barlow se ne sarebbe andato e io in automatico chiesi Brown. che aveva già giocato molto bene a Brescia, era stato un buon giocatore NBA. Il giovedì aveva già firmato per noi, anche lui era contentissimo di venire in una squadra che rappresentava moltissimo per ogni giocatore americano in Europa. Era un giocatore che mi piaceva tantissimo, per me era il lungo ideale da mettere assieme a Meneghin e McAdoo. Non ci preocupammo tanto dell’ala piccola e in infatti lo pagammo in finale contro Pesaro: Darren Daye ci massacrò”.

Fu un’impresa: far giocare assieme tre centri in pratica… “In attacco non ci fu un problema, Brown e McAdoo tiravamo bene da fuori, viaggiammo oltre i 100 di media. Giocavamo con due guardie, due ali larghe e Meneghin era in mezzo. In difesa era un po’ più complessa, la situazione. Da Sibilio del Barcellona a Daye di Pesaro tutti gli esterni piccoli e atletici ci misero in difficoltà. Infatti l’anno dopo facemmo una scelta differente”.

E quando arrivaste in semifinale, contro l’Aris, l’avversario si chiamava Slobodan Subotic. “Decisi di affidarmi al mestiere di Dino Meneghin. Ebbi l’idea di far marcare un’ala piccola, grande tiratore perimetrale, ad un centro. Dino non l’aveva mai fatto. Aveva 38 anni, non ebbe un problema a rispettare le consegne e lo cancellò dal campo. Lo decidemmo durante un pranzo, io, Toni Cappellari e Mike D’Antoni con il quale mi consultavo sempre. Ne parlai con Dino: era di-

sponibile… Il resto del lavoro lo fecero i giovani Pittis e Montecchi marcando Nick Galis”.

E ritrovaste il Maccabi come un anno prima. “Avevano cambiato molto, li avevamo battuti a Tel Aviv. Onestamente avevo grande fiducia di vincere. Pensavamo che la squadra più forte fosse il Partizan che si autoeliminò in semifinale con una scelta tattica a mio avviso folle, tenere Vlade Divac libero in mezzo all’area fingendo di fargli marcare il playmaker. Persero così. Contro il Maccabi fu meno dura che nel 1987 a Losanna ma vincere una finale non è mai facile. L’Olympiacos lo scorso anno poteva essere felice: aveva raggiunto la finale, invece ha battuto il CSKA comunque”.

L’Eurolega oggi è più difficile? “Vincere è sempre difficile ma allora era più complicato partecipare perché per farlo dovevi vincere il campionato oppure detenere la Coppa. Il girone finale era di otto squadre, tutte reduci dai titoli nazionali. Dovevi arrivare nelle prime quattro per andare alle Final Four, che nel 1988 erano al primo anno di svolgimento. Il fortissimo Barcellona si autoeliminò perdendo in Olanda, dove noi avevamo tutti vinto. Non potevi sbagliare nulla”.

Pagaste lo sforzo in campionato? “No, pagammo una formula assurda: chi aveva il vantaggio del campo giocava la prima fuori. La perdemmo e poi perdemmo in casa dopo una tripla di Walter Magnifico. Sullo 0-2 eri finito. Ma la Scavolini era fortissima a prescindere. Semmai pagammo Darren Daye”.

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Franco Casalini quando era capo allenatore della grande Olimpia degli anni ’80, con Dino Meneghin

IL RITORNO DEL CHACHO

Sergio Rodriguez il 3 novembre 2022 tornerà a giocare al Mediolanum Forum. Lo farà da avversario. Ma non lo sarà mai. Sarà una serata da pelle d’oca. Tutti in piedi, una volta ancora

Da dove cominciamo Chacho Rodriguez? Da quel giorno di luglio del 2019 quando ha varcato la soglia del Mediolanum Forum chiamandolo casa. La sua casa. Da avversario l’aveva visto e sentito molto più caloroso di quanto fosse la percezione pubblica. Nel giro di tre anni ha potuto dire, “Visto? Avevo ragione io”. Chacho Rodriguez, non serve aggiungere altro. Scegliendo Milano ha cambiato la storia, la chimica del club, ha dato un segnale. Se Rodriguez, uno che gioca con il motore al massimo dei giri, uno che ha sempre giocato ai massimi livelli, per vincere, sceglie Milano qualcosa vuol dire. È la convalida di un progetto. Dopo hanno scelto Milano in ordine sparso, Luis Scola, Kyle Hines, Gigi Datome, Nicolò Melli. Ma

tutto è cominciato con Sergio Rodriguez. Praticamente dopo le Final Four di Vitoria che aveva vinto da protagonista con il CSKA. Voleva un posto diverso. Milano l’ha convinto. La storia è cambiata lì, è cambiata così.

Ha vinto quattro trofei, ha portato la squadra alle Final Four di EuroLeague. Dopo la sconfitta in semifinale di Coppa Italia alla vigilia della pandemia, l’Olimpia ha vinto la Supercoppa, la Coppa Italia, ha conquistato le Final Four, ha vinto un’altra Coppa Italia e infine lo scudetto. L’unica delusione è stata la finale del 2021, quello 0-4 frutto di tante ragioni, inclusa la bravura avversaria in quei sette giorni di battaglie combattute senza tanta energia fisica e mentale. “E’ sempre

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difficile dopo una Final Four – ha detto, parlando con la voce dell’esperienza – Dai tutto per pochi giorni, poi finisce e mentalmente hai finito anche te. Invece nel giro di 48 ore devi andare a giocare per lo scudetto”. I playoff della scorsa stagione li ha giocati come se per lui rappresentassero una missione. Sono diventati una testimonianza della sua grandezza. Ha giocato per il titolo e per la sua personale eredità. L’ultimo sforzo per coronare un ciclo, l’ultima impresa per diventare eterno, amato, indimenticabile. Il Chachismo non era solo quello che aveva costruito a Madrid. Il Chachismo ha conquistato anche Milano. E Milano ha conquistato lui. Nell’implorazione della folla, dopo lo scudetto, c’era tutto l’amore di un popolo per un simbolo. Che se ne sia andato è stato doloroso. Ma c’è anche una parte bella, romantica in questo. Chacho è andato via, ma è andato via da eroe. Con lui, a Milano, ci sono state imprese che non si cancelleranno. L’Olimpia ha battuto il Real Madrid, anche a Madrid, ha vinto a Tel Aviv, ha vinto a Barcellona, a Istanbul quattro volte in due anni, ha vinto a Mosca, ha vinto dappertutto. Ha sfiorato il titolo europeo, non è detto sia stato solo quello del 2021. Chacho Rodriguez si è fatto male durante i playoff con l’Efes, durante un’epidemia di infortuni traumatici. Ha stretto i denti e ha giocato Gara 3 e 4 a Istanbul a dispetto del dolore, di una caviglia gonfia, della prudenza. Il giorno di Gara 4 ha mostrato lui un video che ritraeva tutti i compagni di squadra nei momenti migliori di questa sta-

gione. Il messaggio: “Abbiamo fatto tutto questo tutto l’anno. Facciamolo anche stasera”. L’hanno fatto, i ragazzi, per 39 minuti, poi è mancata l’ultima zampata. Ma quell’eliminazione ha avvicinato ancora di più l’Olimpia alla sua gente, la gente all’Olimpia. La sintonia nei playoff è stata straordinaria. C’è stata un’Olimpia prima di Rodriguez e ce n’è un’altra adesso. Non è stato rimarcato abbastanza che nei playoff del 2022 è cambiato anche il modo in cui Rodriguez è stato utilizzato. Non più dalla panchina, ma in quintetto, dal primo possesso, in campo il più possibile, 36 anni o meno. Il suo canestro da tre da dieci metri in Gara 6 è stato il colpo del k.o. Rodriguez ha giocato sei partite in finale contro Milos Teodosic, Alessandro Pajola, Daniel Hackett. Mai un attimo di respiro, un avversario abbordabile o poco fastidioso. Ha dovuto competere sulle due estremità del campo, aggredire ed essere aggredito. Da Milano va via, ma va via da campione. Quando è arrivato nel 2019 aveva detto che avrebbe parlato italiano alla conferenza stampa dello scudetto. Ha mantenuto la parola e non ha mancato di ricordarlo. Il terzo figlio è nato a Milano. È successo una notte, di rientro da una trasferta di EuroLeague, una delle tante, a notte fonda. Un legame emotivo diventato un legame a vita. Sergio Rodriguez il 3 novembre 2022 tornerà a giocare al Mediolanum Forum. Lo farà da avversario. Ma non lo sarà mai. Sarà una serata da pelle d’oca. Tutti in piedi, una volta ancora, per il Chacho.

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La Coppa Italia vinta a Pesaro nel 2022 La Coppa Italia vinta nel 2021 al Mediolanum Forum
REDSHOESMAGAZINE 36 PALLACANESTRO OLIMPIA MILANO S.S.R.L. Via G. di Vittorio 6, 20090, Assago (MI) Tel +39 0270001615 - Fax +39 02740608 - olimpia@olimpiamilano.com olimpiamilano.com FOLLOW US

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