SHIELDS STORIA DI UN MVP HINES CARISMA E VITTORIE MELLI L’UOMO DEI “BIG GAMES” GIUGNO/LUGLIO/AGOSTO 2022
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REDSHOESMAGAZINE3 24 Kyle Hines 28 Nicolò Melli 16 Chacho Rodriguez 20 Il Muro Rosso 4 Campioni d’Iitalia 12 Shavon Shields
La Supercoppa rappresenta il primo test per misurare le nuove squadre. L’Olimpia l’ha vinta quattro volte, di fatto consecutive, perché non l’ha vinta quando non ha partecipato. Con questo ruolino di marcia si era avvicinata il 21 settembre scorso all’Unipol Arena di Casalecchio per giocare la finale. Da cinque giorni, la squadra era segregata alla periferia di Bologna, a 11 uscite della tangenziale di distanza dall’arena. E perse. Lo scarto, sei punti, non era il vero specchio di quanto visto in campo. L’Olimpia aveva inseguito per tutta la gara, si era affidata ad un certo punto ad una folata di Sergio Rodriguez, ma non era riuscita a imporre la propria difesa e l’attacco non era stato abbastanza producente. Perdere la Super coppa non è la fine del mondo, ma si trat tava della quinta sconfitta consecutiva con la stessa squadra. Quella sera a Bologna, la squadra rimase in campo fino alla fine della premiazione. Una sorta di autopunizione. Gli occhi pieni della gioia avversaria, delle feste, le orecchie riempite di sfottò. Lo
scudetto nella testa di tanti giocatori è stato vinto quella sera, alla periferia di Bologna.
Nei nove mesi successivi quella sera è cambiato tanto. Se non tutto. La pandemia è stata debellata, almeno in gran parte, e il mondo è tornato a marciare regolarmente. Una guerra è scoppiata in Ucraina e da quella guerra sono scaturite le defezioni di giocatori in fuga che hanno rinforzato, di tutte le squadre, proprio la Virtus Bologna che altrimenti non avrebbe mai potuto aggiun gere a stagione in corso due fuoriclasse come Daniel Hackett e Tornike Shengelia. La stessa Virtus ha vinto l’Eurocup, renden do la propria stagione vincente, ha vinto la regular season senza mai perdere in casa, ha battuto l’Olimpia nella gara di Bologna condizionata dal Covid come quella di andata. Nove mesi dopo, la Virtus sembrava ancora più forte e difficilmente battibile, con il fattore campo a favore.
Ma in quei nove mesi, durante i quali l’Olim-
Dalla Supercoppa di settembre, tra disavventure, infortuni e avversari fortissimi, la storia di un trionfo fatto di dedizione, giocatori carismatici, difesa e tanto orgoglio
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d’Italia
pia ha perso per strada Riccardo Moraschi ni, Dinos Mitoglou e per infortunio anche Malcolm Delaney, oltre a vincere la Coppa Italia – l’appuntamento fallito dall’avversaria -, nella palestra del Mediolanum Forum si è lavorato. E tanto. La squadra dello scu detto numero 29 non era baciata dal talento offensivo, ma è stata una squadra dura, orgogliosa, forte mentalmente, in grado di eseguire il piano partita senza scomporsi, come ha detto tante volte Gigi Datome. For se la squadra difensivamente più forte che l’Olimpia abbia schierato dai tempi di Dino Meneghin e Mike D’Antoni. Una squadra che, piegata dagli infortuni, ha obbligato l’Efes bicampione d’Europa a vincere due partite in casa nell’ultimo minuto o quasi per vincerne l’eroica resistenza. Una squadra che, dura a morire, energica, seria, ha conquistato il pubblico stabilendo una connes sione che non si vedeva da molto tempo. I tre esauriti della finale sono figli di tante situazioni: la fine del campionato di calcio, l’importanza dell’evento, la rivalità storica con Bologna. Ma il calore, la passione, la voglia di contribuire alla vittoria non sono stati dettati dalle circostanze. No, Milano ha apprezzato la squadra, si è immedesimata nel suo sforzo supremo, ha combattuto al suo fianco. Quando l’allenatore avversario ha chiesto alla propria tifoseria, prima di Gara 5, di assicurare lo stesso supporto ri cevuto dall’Olimpia, a qualcuno è sfuggita la sottile ironia della frase. Nella storia del basket, nessuno, soprattutto a Bologna, ha mai invidiato all’Olimpia il sostegno della sua gente. Adesso è così.
L’Olimpia ha vinto le prime 10 partite di questa stagione italiana, poi con l’EuroLeague a pieno regime come capita con questa formula e questo numero di partite (83), ha cominciato a lasciare qualcosa per strada e ha dovuto conquistare lo scudetto senza il vantaggio del fattore campo. Era dalla stagione 2011/12 quando perse in finale contro Sie na, che l’Olimpia non affrontava una serie di playoff senza il beneficio del campo. Poteva
succedere nel 2018, ma la Reyer Venezia, vincitrice della regular season, venne eliminata da Trento. Il fattore campo in una serie è arma a doppio taglio: ti assicura un vantaggio certo se arrivi all’ultima partita, ma in precedenza ti obbliga a giocare sempre con la pressione addosso. In questa finale, questo tipo di pressione l’ha pagata Bologna in Gara 1. Doveva essere una serie tra l’attacco e la difesa più forti del campionato, come avevano recitato i numeri per tutto l’anno. Ma nei playoff, l’Olimpia ha alzato i propri ritmi di gioco, il numero di possessi, si è presentata alla serie finale esibendo una media di 90.0 punti per gara, tirando bene ed eseguendo meglio. Contro una squadra con roster da EuroLeague, non poteva fare lo stesso, ma ha dimostrato quanto fosse in grado di cambiare pelle, giocare sui due lati del campo oppure usare la difesa per correre in transizione.
Ma soprattutto, alla finale, è arrivata un’O limpia più fresca. “Malauguratamente siamo stati eliminati dai playoff di EuroLeague. Avremmo voluto giocare le Final Four come un anno fa – ha spiegato Coach Ettore Messina -, ma se fosse successo saremmo stati più stanchi, come è capitato adesso anche all’Efes, ad esempio, o al Barcellona”. E infine un’Olimpia ferita nell’orgoglio. Bastava vedere gli occhi ferocemente determinati di Kyle Hines, che per la prima volta da quando gioca ad alto livello non ha raggiunto le Final Four di EuroLeague. Lo scudetto per lui rappresentava l’unico strumento per perdonare sé stesso. E l’ha fatto.
L’Olimpia negli ultimi due anni, quelli dell’esplosione in termini di credibilità e rispetto, delle grandi imprese europee (20 vittorie in trasferta in due stagioni), in Italia ha raggiunto la finale in sei competizioni su sei, vincendone quattro. Qualunque opinione si abbia della lega italiana, non è per nulla facile riuscirci. Lo scudetto numero 29, che apre ufficialmente il count-down verso la terza stella, è anche il 50° trofeo della storia
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Sergio Rodriguez ha lasciato Milano con un playoff da protagonista
Gigi Datome ha segnato 26 punti in Gara 6 della finale scudetto
oltre che il 12° dell’era Armani. La forza del la tradizione e della cultura del club è forte. Solo che questa volta è stata valorizzata, forse esaltata, dalla presenza di giocatori carismatici. Kyle Hines è il giocatore più rispettato d’Europa tra gli americani, una specie di leader carismatico di una comunità. Ma in campo è tanto corretto quanto spietato nell’usare le sue armi, forza fisica, intelligenza, desiderio, trattamento di palla, tempismo. Mom Jaiteh, circa 15 centimetri più alto, MVP di Eurocup, era stato un rebus insolubile nei tre precedenti. Bravissimo a prendere posizione vicino al canestro, a ri cevere le fucilate di Milos Teodosic, dotato di mani buone per finire al ferro, e con un vantaggio fisico enorme, aveva segnato 18 punti in tutti i tre precedenti scontri di retti. Ma Hines è arrivato preparato alla sfida più importante. Ha piegato le gambe e l’ha tenuto lontano dall’area il più possibile. Hines è un giocatore che sa essere decisivo anche segnando pochissimo, il trat to caratteristico del più vincente giocatore italiano della storia, Dino Meneghin. Hines è la versione moderna e americana. Ma potrebbe valere anche per Nicolò Melli, un altro giocatore che è disposto ad annullare sé stesso e il proprio ego per una vittoria. Scherzando dice sempre di essere stato nominato “co-capitano” dell’Olimpia perché si fidano di lui, sì, ma non del tutto. Per tutta la stagione, Melli è stato una presenza fissa nell’Olimpia, EuroLeague (dov’era sempre partito in quintetto) e campionato. Poi nel momento più importante della stagione, durante i playoff di EuroLeague, si è bloccato. Primo infortunio della sua stagione. Melli è un lavoratore incredibile, che ha una cura maniacale del proprio corpo. Quando si è infortunato la sera di Gara 1 avrebbe voluto stringere i denti e giocare Gara 2. Poi si sarebbe presentato in Gara 5 se ci fosse sta ta. Alla fine, ha saltato un mese abbondante, incluso il primo turno dei playoff. Un vero Capitano, come il partner Sergio Rodriguez.
Chacho è arrivato a Milano nell’estate del
2019. È stato il primo grande nome del basket europeo a sposare il nuovo corso. Aveva giocato due anni a Mosca, aveva vinto l’EuroLeague da protagonista, e aveva bisogno di cambiare aria. Rodriguez è stato importante perché ha convalidato con la propria scelta la serietà del progetto, termine di cui normalmente si abusa, ma in questo caso corretto. Ha cambiato la men talità del gruppo. L’obiettivo è sempre stato giocare i playoff in Europa, ma lui ha spinto a guardare oltre, ha dato sicurezza a tutti. Ha portato il Chachismo a Milano. Significa che dietro l’aspetto da bravo ragazzo, che è, padre di famiglia serissimo, si nasconde l’anima del killer spietato. Rodriguez ha 36 anni e una carriera leggendaria alle spalle, ma di lui hanno colpito due cose solo appa rentemente contraddittorie. La prima è che gioca come un bambino, nel senso che si vede quanto gli piace e si diverta a giocare. La seconda è che, infortunato, ha fatto un miracolo di dedizione per giocare le due partite di Istanbul come se non ci fosse un domani. Nel Mount Rushmore dei playmaker dell’Olimpia, con Mike D’Antoni, Gian franco Pieri e Giulio Iellini ci va lui di diritto.
L’aspetto più bello è che i giocatori più gio vani, Shavon Shields e Devon Hall, presentano stimmate simili a quelle dei veterani. Il loro compito non è solo dare freschezza alla squadra sui due lati del campo (Shields in finale ha segnato 15.2 punti per gara mentre difendeva generalmente su Teodosic; Hall è una delle poche guardie che possono decidere una partita segnando tanto o segnan do niente, grazie alla propria difesa o alla forza fisica nell’andare anche a rimbalzo), ma ereditare il testimone e tramandare l’e sempio dei grandi vecchi a chiunque arrivi all’Olimpia e debba prima di tutto capire di trovarsi in un posto speciale. Speciale gra zie anche a loro, al loro esempio, quello ben recepito da chi ha dato quello che poteva giocando poco, come Kaleb Tarczewski, Paul Biligha, Tommaso Baldasso, Trey Kell, Davide Alviti non solo Pippo Ricci, in cer
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Shavon Shields abbracciato da Coach Messina: MVP unanime della finale
Jerian Grant si è fatto trovare pronto e nel momento più importante ha risposto
ti momenti della stagione osannato con la sua carica agonistica ed empatica, o Troy Daniels con il suo tiro micidiale. Lo scorso anno in finale, le riserve erano state criticate per quello che non avevano dato. Quest’anno che sia stata una tripla, un tap-in, un rim balzo o anche semplicemente supportando i compagni, hanno dato quello che dovevano. Vale anche per Malcolm Delaney.
In questi due anni, Delaney è stato un gio catore che la gente non ha compreso del tutto, per la personalità debordante, il passato e le aspettative che lui per primo ha applicato a sé stesso. Delaney è arrivato a Milano parlando di trionfi europei quando nessuno pensava fosse possibile. Ha gio cato alcune delle più straordinarie partite mai viste, basta ricordare i playoff con il Bayern dell’anno passato. È stato MVP di due dei quattro trofei vinti dal club. Purtroppo, gli infortuni non gli hanno dato tregua, ha dovuto riciclarsi in difensore prima che in realizzatore. Ha gestito questo ruolo senza mai venire meno alla propria professionalità. Delaney è stato un uomo squadra, in campo e fuori.
Gigi Datome era venuto a Milano con un obiettivo, dichiarato fin dal primo giorno: vincere in Italia, con una squadra italiana, da protagonista. L’ha fatto, perché ha vinto quattro titoli ed è stato MVP della Coppa Italia 2021. Ma la grande rivincita se l’è presa nei playoff. Dopo una stagione con tanti pic coli infortuni, era rientrato praticamente per l’ultima partita della sua stagione europea, tra l’altro la migliore della sua stagione. Ma da quel momento è entrato in ritmo e ha giocato nella post-season ad un livello molto più elevato rispetto ad un anno fa quando non era riuscito a dare tanto, aveva poi rinunciato alla Nazionale, criticato per quello che invece era stato un atto di umiltà, ovvero ammettere di non poter aiutare la causa. I suoi playoff sono stati una storia di riscatto personale.
Jerian Grant è stato un modello di resilienza. Veniva da cinque anni di NBA e una stagione al Promitheas, giocando assieme al fratello e in un contesto ideale, per mi nuti e responsabilità. “Si è trovato a vivere in un regime di concorrenza che non aveva mai sperimentato prima, non al college, non nella NBA o in Grecia”, ha sottolineato Coach Messina. Chiaro che ci sono stati dei dubbi, ma alla fine ha rappresentato l’esempio di come lavorando bene, sen za demordere con serietà le opportunità si presentano e vanno sfruttate. L’Olimpia non ha mandato via nessuno durante la stagione. Grant non ha giocato la Supercoppa e non ha giocato la Coppa Italia. Non è facile per un ex prima scelta, che ha chiamato casa il Madison Square Garden, assorbire un ruolo come questo. Ma Grant è partito dall’energia difensiva per trovare la fiducia di essere utile, qualche volta risolutivo, anche in attacco. Ben Bentil rappresenta un caso simile, perché era arrivato per sostituire Dinos Mitoglou infortunato. Ha avuto un impatto di energia superiore alle aspettative, poi quando doveva tro vare un ruolo diverso è tornato ad essere fondamentale. Complice l’infortunio di Melli, ha finito la stagione in quintetto. Il suo potenziale è illimitato: ha il fisico per dominare dentro l’area e il tiro per essere uno scorer. Ha reso orgoglioso Meme Fal coner, la grande star del basket ghanese che un giorno lo notò su un campo di calcio e gli propose di diventare non Lukaku ma magari Olajuwon. Questa è la storia di uno degli scudetti più belli. Non è stato la fine di un digiuno come nel 2014, ma il co ronamento di un lavoro portato avanti da un gruppo vero senza tentennamenti, nella convinzione come dice Coach Ettore Messina che si possa essere “vincenti offrendo la miglior versione di sé stessi”. In questo caso la miglior versione della squadra è stata la versione Campione d’Italia. L’ere dità lasciata alla nuova squadra è questa.
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La difesa di Milano, qui Hines e Hall, ha annichilito l’attacco avversario in finale
Ben Bentil ha dato carica e fisicità all’Olimpia nei playoff
Nella stagione in cui ha subito il primo grave infortunio della carriera, tre mesi fuori, si è confermato nel secondo quintetto di EuroLeague e ha dominato la finale scudetto Shavon SHIELDS
Shavon Shields dal 2017 al 2022 ha giocato cinque finali per il titolo in sei stagioni, quattro in Italia, una in Spagna. Ne ha vinte due, a Vitoria nella bolla di Valencia 2020 e quest’anno a Milano. Sembrava ci fosse una sorta di maledizione su di lui nel campionato italiano. Nel 2017 a Trento perse contro Venezia pagando, la sua squadra, alcuni infortuni nel corso della serie, ma oggettivamente la Reyer era favorita. Nel 2018, giocò una partita memorabile al Mediolanum Forum contro l’Olimpia. Era Gara 5, la partita spartiacque. L’Olimpia si salvò con la stoppata di Andrew
Goudelock su Dominique Sutton. Ma oggettivamente anche lì l’Olimpia era favorita. Lo scorso anno doveva essere quello buono per rompere l’incantesimo. La squadra però era senza energia per l’ultimo assalto, cominciato subito dopo aver giocato le Final Four di EuroLeague a Colonia. Shields non ce la face a guidarla verso un livello accettabile di competitività. Quest’anno, è stato tutto diverso. La stagione di Shields è stata complicata: “L’infortunio alla mano è stato il primo infortunio serio della mia carriera. Non ero
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mai stato fuori per un periodo di tempo così lungo e mi sono venuti dei dubbi. E’ normale. Ho anche impiegato del tempo a recuperare la piena mobilità del polso. Per fortuna, sono stato assistito da uno staff medico eccezionale e sono tornato ai livelli precedenti”, ha spiegato. Nelle 12 partite di playoff giocate, è andato in doppia cifra 10 volte. Shields non è un realizzatore naturale, spesso lascia che la partita vada da lui, quindi il dato è importante. In finale, non ha segnato in doppia cifra solo una volta, in Gara 5, quando si è anche infortunato ricadendo, dopo un tentativo da lunga distanza, sul piede di un avversario. Ha segnato 73 punti nelle quattro gare vinte e non ha mai giocato in finale meno di 31 minuti. Questo dimostra la sua importanza per la squadra. Non solo attacco (nei playoff ha tirato con il 42.4% da tre) ma anche difesa. Ha sempre marcato un giocatore dei più pericolosi, spesso Milos Teodosic quando si sono incrociati sul campo.
Il trofeo di MVP non poteva essere più meritato per un giocatore che da due anni è nel secondo quintetto All-EuroLeague: “Ma alla fine è un gioco di squa-
dra e si gioca per vincere le partite. I titoli individuali vengono di conseguenza, ma quello che conta è vincere. Conta che l’allenatore ti metta nella posizione migliore per esprimerti e che lo stesso facciano i compagni”, dice. Shields aveva conosciuto l’entusiasmo del Mediolanum Forum da avversario nella finale del 2018. Quest’anno l’ha conosciuto da beniamino: “E’ stato un supporto eccezionale, ci ha dato quasi una marcia in più in alcuni momenti”.
Dopo aver giocato in tre squadre lungo quattro anni di carriera, a Milano ha trovato forse la sua stabilità. Lo scorso anno sorpre se tutti firmando l’estensione del contratto con un anno di anticipo sulla scadenza. “Ma questo è il posto in cui voglio essere, in cui la mia famiglia vuole essere, è il posto in cui mi trovo bene. Non ho bisogno di nient’altro”, ha spiegato. Prima che si infortunasse contro il Real Madrid a metà stagione di EuroLeague, era un candidato come MVP assoluto. Il secondo quintetto stagionale è un bel riconoscimento, ma comincia a stargli stretto. Anche se lui guarda giustamente solo ai risultati.
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Shavon Shields a canestro contro Shengelia: in finale ha segnato 15.2 punti per gara
Shavon Shields va a schiacciare: nei playoff solo due volte su 12 non è andato in doppia cifra
Sergio RODRIGUEZ
Tre anni in cui ha cambiato la storia andandosene da protagonista e da Campione d’Italia. Sergio Rodriguez ha amato Milano. Milano ha amato Sergio Rodriguez. Questo non cambierà
Da dove cominciamo Chacho Rodri guez? Da quel giorno di luglio del 2019 quando ha varcato la soglia del Mediolanum Forum potendolo chiamare casa. La sua casa. Da avversario l’aveva visto e sentito molto più caloroso di quanto fosse la percezione pubblica. Nel giro di tre anni ha potuto dire, “Visto? Avevo ragione io”. Chacho Rodriguez. Sce gliendo Milano ha cambiato la storia, la chimica del club, ha dato un segnale. Se Rodriguez, uno che gioca con il motore al massimi dei giri, uno che ha sempre giocato ai massini livelli, per vincere, sceglie Milano qualcosa vuol dire. E’ la convalida di un progetto. Dopo hanno scelto Milano in ordine sparso, Luis Scola, Kyle Hines, Gigi Datome, Nicolò Melli. Ma tutto è cominciato con Sergio Rodriguez. Praticamente dopo le Final Four di Vitoria che aveva vinto da pro tagonista con il CSKA. Voleva un posto
diverso. Milano l’ha convinto. La storia è cambiata lì, è cambiata così.
Ha vinto quattro trofei, ha portato la squadra alle Final Four di EuroLeague. Delusioni vere non ce ne sono state, non dopo la sconfitta in semifinale di Coppa Italia alla vigilia della pandemia. Da quel momento, l’Olimpia ha vinto la Supercoppa, la Coppa Italia, ha conqui stato le Final Four, ha vinto un’altra Coppa Italia e infine lo scudetto. L’eccezio ne è stata la finale del 2021, quello 0-4 frutto di tante ragioni, inclusa la bravura avversaria in quei sette giorni di batta glie combattute senza tanta energia fisica e mentale. “E’ sempre difficile dopo una Final Four - ha detto, parlando con la voce dell’esperienza - Dai tutto per pochi giorni, poi finisce e mentalmente hai finito anche te. Invece nel giro di 48 ore devi andare a giocare per lo scu-
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CHACHOOOOOO!
detto”. I playoff di quest’anno sono stati una missione per lui, un testamento alla sua grandezza. Ha giocato per il titolo e per la sua personale eredità. L’ultimo sforzo per coronare un ciclo, l’ultima impresa per diventare eterno, amato, indimenticabile. Il Chachismo non era solo a Madrid. Il Chachismo ha conquistato anche Milano. E Milano ha conquistato lui. Nell’implorazione della folla, dopo lo scudetto, “Resta con Noi”, c’era tutto l’amore di un popolo per un simbolo. Che se ne vada è doloroso. “Dobbiamo assorbire il colpo”, come ha detto Coach Ettore Messina. Ma c’è anche una parte bella, romantica in questo. Chacho va via, ma va via da eroe.
Con lui a Milano, ci sono state imprese. L’Olimpia ha battuto il Real Madrid, anche a Madrid, ha vinto a Tel Aviv, ha vinto a Barcellona, a Istanbul quattro volte in due anni, ha vinto a Mosca, ha vinto dappertutto. Ha sfiorato il titolo eu ropeo, non è detto sia quello del 2021. Chacho Rodriguez si è fatto male durante i playoff con l’Efes, un’epidemia di infortunati traumatici. Ha stretto i denti e ha giocato Gara 3 e 4 a Istanbul a dispetto del dolore, di una caviglia gonfia, della prudenza. Il giorno di Gara 4 ha mostrato lui un video che ritraeva tutti i compagni di squadra nei momenti mi gliori di questa stagione. Il messaggio: “Abbiamo fatto tutto questo tutto l’anno. Facciamolo anche stasera”. L’hanno fatto per 39 minuti, poi è mancata l’ultima zampata. Ma quell’eliminazione ha avvicinato ancora di più l’Olimpia alla sua gente, la gente all’Olimpia. La sintonia nei playoff è stata straordinaria. C’è stata un’Olimpia prima di Rodriguez e ce n’è un’altra adesso.
Non è stato rimarcato abbastanza che Sergio Rodriguez nei playoff ha cambiato anche il modo di essere utilizzato. Non più dalla panchina, ma in quintetto, dal primo possesso, in campo il più possibile, 36 anni o meno. Il suo canestro da tre da dieci metri in Gara 6 è stato il colpo del k.o. Rodriguez ha giocato sei partite in finale contro Milos Teodosic, Alessandro Pajola, Daniel Hackett. Mai un attimo di respi ro, un avversario abbordabile o poco fastidioso. Ha dovuto competere sulle due estremità del campo, aggredire ed essere aggredito. Se n’è andato da campione.
Quando è arrivato nel 2019 aveva detto che avrebbe parlato italiano alla conferenza stampa dello scudetto. Ha mantenuto la parola e non ha mancato di ricordarlo. Il terzo figlio è nato a Milano. E’ successo una notte, di rientro da una trasferta di EuroLeague, una delle tante, a notte fonda. Un legame emotivo diventato un legame a vita. Suerte Chacho. La notte dello scudetto ha postato su Instagram una foto al Duomo insieme ad Ana. Sotto ha scritto “Milano Nostra”. Resta tua, resta vostra.
Il prossimo novembre tornerà a Milano per giocare con il Real Madrid. Sono le sue due squadre. Il Mediolanum Forum sarà pieno e gli tributerà l’accoglienza degli eroi. Saranno attimi emozionanti, lunghissimi. Poi sarà battaglia. Ci saranno passaggi no-look e triple da otto metri, ci saranno palleggi funambolici. Fa parte del gioco. Poi ci saranno solo applausi. Interminabili.
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“Right on target”: un passaggio alla Chacho Rodriguez, dritto, veloce, preciso momento suo personale trionfo dopo la conquista dello scudetto
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Il
del
Il tifo, il pienone, simboli di passione e una simbiosi perfetta con la squadra, quella dei lottatori e della difesa come pretendono cultura e tradizione del club, fin dagli anni ‘50 IL MURO ROSSO
Il Muro Rosso mancava da tanto tem po, mancava dal 1° novembre del 2019 quando a Milano sbarcò il Barcellona, venne rimontato e battuto nell’ultimo quarto. Poi ci furono altre partite oltre i 10.000 presenti, che vengono sempre considerati una sorta di barriera, tra un pubblico folto e uno importante. Infine, è arrivata la pandemia. Ci sarebbe stato il pienone per l’arrivo del Real Madrid nel marzo del 2020, invece quella fu la prima partita a porte chiuse di tante che ne sarebbero seguite. Così, il Muro Rosso della finale è stato qualcosa di eccezio nale.
In realtà, la simbiosi tra questa squadra e il suo pubblico non è mai mancato. In termini di sostegno e affetto, la risposta è sempre stata positiva, ma quando an che l’anello più alto si riempie, quando tutti si vestono di rosso, quando Milano si stringe attorno alla sua squadra, quando canta la Madonnina e applaude “Il più grande spettacolo” di Jovanotti perché in tre minuti ripercorre tutta la storia del club, il feeling è davvero unico.
Il tifo di Milano per l’Olimpia è stato sempre sottovalutato. A Milano la con correnza è tremenda, del calcio e di qualsiasi attività di intrattenimento, le distanze sono lunghe, ci sono tanti fattori che soprattutto di inverno complottano contro le grandi affluenze. Ma l’amore e la passione per l’Olimpia non sono in di scussione. Che in una finale per il titolo, Milano abbia più pubblico di Bologna e risponda in modo più caloroso, al punto da spingere uno come Malcolm Delaney a definire la tifoseria “la più calda d’Europa in queste circostanze” è molto significativo.
La spinta del tifo si traduce in campo in quel surplus di energia nervosa che in certe gare può fare la differenza, come è successo in Gara 4, aspetto puntualmente sottolineato da Coach Ettore Messina: “Quando sei stancho, il sostegno del pubblico magari ti spinge a fare uno sforzo extra”. Dicono che alla gente di Milano piacciano le squadre che lottano, difendono, combattono. Tutte le tifoserie vogliono vedere questo, vogliono vedere gente che ci tiene e lotta. Qui però la difesa è una questione di cultu ra, lo spirito combattivo è sempre esi stito. È nato con Sandro Gamba negli anni ’50, è proseguito con Giando Ongaro negli anni ’60, Arthur Kenney negli anni ’70, Vittorio Gallinari nella Banda Bassotti, poi Dino Meneghin con Mike D’Antoni e in tempi più recenti Mason Rocca, che non ha vinto, ma avrebbe meritato di farlo. Ora questa squadra in cui lo spirito guerriero è interpretato da Kyle Hines e Nicolò Melli.
Il tuffo di Bob McAdoo, un artista spinto dal clima a diventare gladiatore, la stoppata di Andrew Goudelock che riflette esattamente lo stesso concetto sono quasi un segno del destino. Sono state il rovesciamento delle abitudini. La squa dra di quest’anno non aveva bisogno di modificare pelle, perché ha difeso dal primo giorno. La difesa è stata la cosiddetta “Calling Card” dall’inizio dell’anno. Shavon Shields che agisce da prima punta in attacco ma poi difende su Te odosic; Devon Hall che non si fa mai superare da nessuno; Nicolò Melli che marca tutti, dai centri ai playmaker; Kyle Hines che è il muro per antonomasia del basket europeo. Questa è stata l’Olimpia 2021/22. L’Olimpia e la sua gente.
CARISMA E VITTORIE HINES
Kyle Hines si è preso la propria rivincita: sullo 0-4 di un anno fa contro la Virtus, sulla sua prima mancata qualificazione alle Final Four dopo otto presenze, anche sulla propria età
Nello spogliatoio di Pesaro, dopo la conquista della Coppa Italia, Nicolò Melli lo prendeva in giro per ché, ebbro di gioia, festeggiava “il 64° trofeo della sua carriera”. Non sono così tanti, ma sono comunque tantissimi e comunque il numero non ha mai impedito a Kyle Hines di festeggiarli tutti come se fossero i primi. Qualcuno li ha contati? Sono quattro vittorie in EuroLeague, nove titoli nazionali in quattro paesi differenti, tre coppe naziona li, una Supercoppa. Sarebbero 17 vittorie, ma è giusto aggiungerne altre due, le due Coppe Italia di A2 conquistate a Veroli. “Per me è tutto: non gioco mai per le statistiche, per i trofei personali, gioco
24 solo per vincere”, dice, un mantra ripetuto all’infinito ma reale. Lo scudetto conquistato in Italia però ha avuto un significato particolare per Sir Hines. Non solo perché sta per diventare padre per la terza volta o perché realisticamente a 36 anni di età ogni vittoria non può essere la prima di una lunga serie. “Ho cominciato a giocare da professionista in Italia, in Italia ho vinto la prima volta e questo successo completa un ciclo”, spiega. Ma c’è molto di altro. Tutto comincia la stagione scorsa, quello 0-4 subito in finale che è ancora una ferita aperta nel suo orgoglio di campione. Non ha bisogno di motivazioni speciali per vincere, Hines
Kyle
è un campione che si automotiva. Ma un anno fa era rimasto folgorato dalla resa. E si era imposto di evitare che accadesse. Per medicare quella ferita esisteva un solo strumento, la vittoria.
E poi durante la stagione è suc cesso altro: per la prima volta dal 2012, da quando andò a giocare all’Olympiacos, Hines non è riuscito a portare la sua squadra alle Final Four di Euroleague. Ce l’aveva sempre fatta, ad Atene, a Mosca, infine a Milano. Non quest’anno. Ha giocato una serie strepitosa contro l’Efes, non si è mai arreso, neanche di fronte al destino che sembrava congiurare contro l’Olimpia. Ma non è riuscito a sconfiggerlo. Prendersi lo scudetto è stato un buon modo di rifarsi.
Quello che ha fatto in campo nella finale contro la Virtus, ma in generale nei playoff, non ha bisogno di descrizioni. Hines ha giocato 36 partite di EuroLeague su 36 che a 36 anni appunto rappresentano già un’impresa. Ha giocato 30 partite in Italia, ma tra queste ci sono le sei ad eliminazione diretta di Supercoppa e Coppa Italia, le 12 giocate nei playoff, durante i quali ha tirato con il 66.7% da due, ha capeggiato la squadra nei rimbalzi offensivi e ha dato via 1.7 stoppate di media in 25 minuti in campo.
Nelle sei gare di finale, i suoi numeri sono cresciuti ancora: 8.2 punti, 4.8 rimbalzi, anche 2.2 assist, 13.2 di valutazione media, dietro i soli Shavon Shields e Nicolò Melli, infine +7.8 di plus/minus. Significa che nei suoi 26.5 minuti in campo, l’Olimpia ha segnato quasi otto punti di media in più della Virtus. E il centro titolare della Virtus è stato l’MVP di Eurocup. Al termine della serie, quando Mam Jaiteh era in un angolo in lacrime, è stato Hines il primo a rendergli omaggio. “E’ uno degli avversari più duri che abbia mai incontrato, gli ho detto che non aveva niente di cui vergognarsi e avrebbe avuto altre chance”, ha raccontato Hines che è campione anche nei modi e proprio per questo è il più rispettato e carismatico dei giocatori americani in Europa.
Alla fine della serie, durante i festeggiamenti, ha anche esteso il contratto con l’Olimpia. In realtà, il rendimento offerto in finale ha solo convalidato la scelta che era stata presa da settimane. Ad inizio stagione, in un’intervista, aveva detto di essere cosciente che avrebbe potuto essere al passo d’addio. Era stata interpretata come una manifestazione d’intenti, un ritiro annunciato. “Non scherzare”, gli aveva scritto Coach Ettore Messina pochi minuti dopo. Infatti.
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La fenomenale stoppata di Kyle Hines su Cordinier vista da… dietro
L’intervento sulla linea dei tre punti con cui ha soffiato palla a Belinelli
Nicolò MELLI
Il suo basket migliore lo riserva per i momenti più importanti. Era stato così nel 2014, era stato così al Fenerbahce. E ancora nella finale scudetto di quest’anno. Sui due lati del campo
Un indizio è un indizio, ma Nicolò Melli giocò la miglior partita della sua stagione 2013/14 in Gara 7 della finale scudetto, una doppia doppia eccezionale contro Siena, coronata dal record carriera (allora) di rimbalzi. Quand’era al Fenerbahce giocò la partita cosiddetta della vita in una finale di EuroLeague beffardamente persa a Belgrado contro il Real Madrid. Quest’anno, tornato a Milano, ha giocato il basket mi gliore della sua stagione in finale scudetto. Gli indizi appartengono al passato, adesso siamo alle prove. Se c’è un giocatore che non va giudicato attraverso i numeri quello è proprio Melli. Come Kyle Hines tra i contemporanei e Dino Meneghin
28 tra i giocatori storici, Melli si misura con le vittorie. Ma nell’ultima finale ha segnato 11.5 punti per gara con 5.7 rimbalzi, numeri superiori alla stagione regolare, superiori a quelli accumulati in nove gare di playoff. Ha segnato 22 punti in 20 minuti nella cruciale Gara 3, ne ha segnati altri 20 in Gara 5, quella persa, ma in generale è stato sempre una presenza sui due lati del campo. Impegnato da una parte a contenere Toko Shengelia e dall’altra ad apri re la difesa della Virtus. Non è stato nominato MVP, ma avrebbe potuto esserlo. Melli ha avuto una stagione sfortunata, perché non ha avuto problemi
BIG TIME!
fino a Gara 1 dei playoff di Euro League. Fino a quel momento, era partito in quintetto in tutte le gare europee tranne l’unica in cui non era stato disponibile per un malessere. L’infortunio al polpaccio gli ha impedito di giocare le ultime tre gare della serie con l’Efes e il primo turno dei playoff con Reggio Emilia. È rientrato per la semifinale contro Sassari con minutaggio in crescendo, ma partendo dalla panchina. Visto che le cose funzionavano, ha continuato a partire dalla panchina, giocando talvolta insieme al secondo quintetto che aveva bisogno di maggior impatto offensivo. Ed è quello che Nicolò ha garantito alla squadra. Eppure, pur essendo stato il terzo realizzatore di squadra durante la finale, l’apporto di Melli è andato ben oltre i punti segnati. Insieme ad Hines ha ancorato la di fesa dell’Olimpia, letale in molti mo menti proprio grazie alla capacità di “cambiare” sui blocchi e non pagare troppo né i mismatch (le situazioni in cui un piccolo si trova a difendere contro un lungo vicino a canestro) né gli isolamenti delle guardie contro giocatori più alti e meno rapidi. Il simbolo di questa capacità è stata la sequenza di Gara 4, il famoso 18-0 dell’ultimo quarto, in cui Hines si è trovato isolato contro Marco Belinelli a otto metri dal canestro e gli ha portato via la palla. Melli nel suo modo di difendere è diverso, più tradizionale nello scivolare sulle
gambe e restare assieme all’attac cante.
Quello che però lo rende diverso è la lettura delle situazioni. Quando capisce in anticipo cosa sta per accadere e si porta sulle linee di passaggio. Melli è uno dei pochi giocatori con un saldo palla perse-recuperate attivo. In Italia, ha avuto 26 palle perse e 36 recuperate, nei playoff, tre palle perse e sette rubate; in finale due perse e cinque rubate.
Lo scudetto è stato il secondo della sua carriera italiana, ma il primo da Capitano. Dell’Olimpia era il giocatore più esperto di cose milanesi. L’unico che aveva già visto l’impatto del Mediolanum Forum pieno e totalmente al fianco della squadra. “Avevo detto ai miei compagni che le cose sarebbero cambiate alla fine della stagione del calcio: tutta la passione sportiva si sarebbe riversata su di noi”, ha detto. Nel 2014, in Gara 7, il pubblico spinse la squadra a rimontare da meno otto nel quarto periodo. Contro la Virtus, ha sostenuto la squadra per 120 minuti consecutivi a Milano. In Gara 4, la difesa spaziale del quarto periodo, il momento decisivo della finale, è stata sorretta dalla gente. Per quella gente che vede in lui quello che il pubblico degli anni ’80 vedeva in Dino Meneghin, una roccia.
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Nicolò Melli cadendo all’indietro contro Toko Shengelia
Lo stesso tipo di tiro visto da un’altra angolazione
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