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Visto dai giornalisti: la via stretta dell’autodisciplina

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SPILLER ANTONIO

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Non c’è che l’interpretazione caso per caso per regolamentare il sottile confine tra informazione e pubblicità. Da qui l’importanza del Consiglio di Disciplina Territoriale come organo di orientamento per la categoria di Vincenzo Ferrari, professore emerito di diritto dell’Università statale di Milano, componente del CDT dell’OgL

La moltiplicazione dei materiali d’ogni sorta che circolano nei media e in rete ha riproposto con urgenza il problema del confine tra informazione e pubblicità, argomento delicatissimo della deontologia giornalistica. Se l’informazione è diritto e dovere del giornalista, la ragion d’essere della professione, per contro è un principio etico consolidato quello che gli vieta di svolgere attività pubblicitaria se non in modo trasparente, come avviene con i “pubbliredazionali” ben noti ad ogni lettore di giornali. Peraltro, al di là di tali servizi, è chiaro che l’immissione sul mercato di prodotti, soprattutto se nuovi, costituisce di per sé una notizia degna di essere commentata e diffusa.

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Questa ovvia considerazione riguarda tutti i settori economici, alcuni dei quali – moda, bellezza, motori – appaiono con maggiore evidenza, ma altri, meno palesi, sono comunque rilevanti: la pubblicità di un farmaco può contenere margini di ingannevolezza non percepibili da un lettore medio e, per questo, risultare pericolosa. Ogni cultore di diritto della pubblicità conosce i casi, per esempio, delle lozioni contro la caduta dei capelli e soprattutto delle diete dimagranti, tante volte oggetto di controversia e censurate.

Il mondo del giornalismo in ritardo Va qui segnalato un paradosso. Il mondo della pubblicità si è dato delle regole dettagliate, che la legge non era mai riuscita a definire, ma ciò non è accaduto nel campo del giornalismo. Una pubblicità sospetta può essere segnalata all’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), organismo autonomo esistente in molti paesi fra cui, da più di 50 anni, anche l’Italia, e chiedere una inibitoria che sarà pronunciata o rifiutata in poche settimane; oppure portata dinanzi all’AGCM, organo amministrativo, che può anche comminare multe (Si vede all'articolo di Vincenzo Guggino, segretario generale dello IAP, a pagina 47). Lo IAP, in particolare, s’ispira a un codice che man mano è stato adattato alle nuove esigenze poste dalla rivoluzione nelle comunicazioni (da ultimo alle sfide dei social networks) e si pronuncia attraverso un “giurì” specializzato, composto di giuristi e di esperti di comunicazione, il quale decide secondo i principi-cardine del contraddittorio processuale.

Va segnalato un paradosso: il mondo della pubblicità si è dato delle regole dettagliate, che la legge non era mai riuscita a definire, ma ciò non è accaduto nel campo del giornalismo

Dal canto suo il giornalismo ha affrontato la questione della pubblicità con le poche parole che si leggono nell’art. 10, comma 1, del Testo unico dei doveri del giornalista: “Il giornalista: a) assicura ai cittadini il diritto di ricevere un’informazione corretta, sempre distinta dal messaggio pubblicitario attraverso chiare indicazioni; b) non presta il nome, la voce, l’immagine per iniziative pubblicitarie. Sono consentite, a titolo gratuito e previa comunicazione scritta all’Ordine di appartenenza, analoghe prestazioni per iniziative pubblicitarie volte a fini sociali, umanitari, culturali, religiosi, artistici“.

I labili confini dell’attività giornalistica

Questa norma è stata oggetto di precisazioni nella Carta Informazione e Pubblicità, concordata dalle rappresentanze sia del giornalismo sia della pubblicità, che riafferma i principi di trasparenza, riconoscibilità e indipendenza, disponendo inoltre l’obbligo di rispetto reciproco fra i due sistemi professionali e delle rispettive fonti normative, ma non risolve tutti i problemi di confine fra lecito e illecito. Dove deve fermarsi una redattrice di moda nel descrivere la presentazione di una collezione? Può un giornalista scientifico illustrare i benefici di una crema o di un integratore alimentare? E un giornalista sportivo che segue il Giro d’Italia può dire di aver mangiato bene nel ristorante di un paese attraversato? In tali casi, ci si deve astenere dal menzionare le case produttrici, come generalmente si fa in televisione, o il silenzio su tali particolari rende monca l’informazione? Certo, non si deve, per tali citazioni, ricevere un compenso, neppure indiretto: il capo di abbigliamento, la crema, il conto offerto dalla ditta. Questo è ovvio. Ma, come esprimersi, fuori da tali estremi?

Può un giornalista che segue il Giro d’Italia dire di aver mangiato bene nel ristorante di un paese che è attraversato dalla gara?

Dal legislatore all’interprete della legge

In questo genere di controversie, dove si sperimenta che il linguaggio comune, ora verbale ora iconico, è “rotondo” e la norma giuridica “quadrata” (penso a un aureo libretto, La parola e il rispetto, scritto trent’anni fa da Richard L. Abel, notissimo giurista americano), fatalmente la questione si scarica dal “legislatore”, privato o pubblico, all’interprete che legge e applica la norma. E qui, non rimane in fondo che richiamarsi alla ragionevolezza del decisore, nel caso del giornalista i Consigli di disciplina.

Così si leggono massime “giurisprudenziali”, appunto ragionevoli, come “Il giornalista diffonde notizie in materia di salute solo se verificate con autorevoli fonti scientifiche”; oppure, “ha dunque violato il T.U. dei doveri del giornalista, prestando la propria immagine per pubblicizzare un prodotto alimentare: non conta che gli sia stato chiesto di farlo in ragione della notorietà acquisita nella professione di chef, piuttosto che in quella giornalistica”.

Il linguaggio comune è rotondo e la norma giuridica quadrata: fatalmente la questione si scarica dal legislatore privato o pubblico all’interprete che legge e applica la norma

Naturalmente, contare sull’interprete significa rassegnarsi all’idea che il diritto non è certo, anche se si deve sempre tendere alla massima certezza possibile. Ma non aveva torto Paolo Grossi, presidente emerito della Consulta, da poco scomparso: sono ampi i margini in cui il diritto deve essere inventum (trovato) in ogni singola circostanza, scavando nella cultura e nella coscienza.

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