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Otto cose che la pandemia ha insegnato ai giornalisti

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SPILLER ANTONIO

SPILLER ANTONIO

La COVID-19 è stata una colossale prova di sforzo: abbiamo scelto un “pensiero giornalistico veloce” perché più facile e rassicurante. Abbiamo però imparato alcune cautele proprie della scienza. Che tornano utili ora che, apparentemente, siamo usciti dall’emergenza di Francesco Gaeta, giornalista, Innovation manager dell’OGL

Adesso che la polvere emotiva sollevata dalla pandemia pare depositarsi, è possibile chiedersi cosa ha rivelato questa esperienza alla (e sulla) categoria giornalistica. Una prima risposta, forse un po’ ostica: la Covid 19 è stata un colossale allenamento al tema dell’incertezza. Una prova di sforzo del metodo.

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Nella pandemia anche per noi giornalisti l’incertezza è stata cognitivamente insopportabile.

Eppure essa è parte strutturale del nostro mestiere

Non si parla di chi sta leggendo, e dunque nessuno si offenda, ma il virus ha fortemente affaticato la nostra capacità di sospendere il giudizio e di usare il dubbio critico come guida. Offrire ai lettori una certezza a qualunque costo, controfirmata da un qualunque esperto, è diventato il filo intermittente di un “pensiero giornalistico veloce” - per dirla con Daniel Kahneman – cioè forzatamente emotivo, data l’incapacità di adottare un pensiero lento, per definizione incerto, mentre tutto intorno sembrava precipitare. Anche per i giornalisti l’incertezza è stata cioè cognitivamente ed emotivamente insopportabile. Eppure l’incertezza dovrebbe essere un ingrediente costitutivo del giornalismo, quasi il presupposto del suo metodo di indagine.

Fine di questa premessa, un po’ malinconica. Guardiamo avanti: ci sono almeno otto cose che potremmo avere appreso dalla pandemia sull’accuratezza, sull’incertezza e sul modo in cui il giornalismo può farci i conti. Cose utili per il futuro.

1. La scienza procede per protocolli scientifici I protocolli sono un lavoro collettivo che richiede anni. Sia per chi elabora una teoria scientifica, sia per chi la sottopone a revisione tra pari. Nel 1971 Judah Folkman ipotizzò che occorresse colpire i tumori lavorando sulla vascolarizzazione. Il primo farmaco arrivò nel 2004. I tempi della scienza sono lunghi e, per quanto la cosa possa apparirci disdicevole, nessun giornale può accelerarli.

2. Nella scienza non vale il principio di autorità Antonino Zichichi o Carlo Rubbia furono scettici in tema di riscaldamento climatico antropico. Non avevano compiuto ricerche specifiche sul tema. Un singolo scienziato può essere molto

In assenza di specifiche competenze il parere di un esperto è una semplice opinione.Tra gli scienziati non esiste autorità se non guadagnata sul campo noto e giudicare sbagliato o falso il lavoro di centinaia di colleghi. Ma in assenza di specifiche competenze - e ponendosi fuori dal protocollo scientifico - la sua opinione è una opinione. Tra gli scienziati non esiste altra autorità se non guadagnata sul campo della ricerca. Anche noi dovremmo ricordarlo quando chiediamo un commento.

3. L’uso politico della scienza fa male a tutti Tutt’altro che infallibile, la scienza è strutturalmente incerta perché lavora su ipotesi da sottoporre a falsificazione. Da sempre, questo offre alla politica un argomento retorico per rivendicare un “primato sulla ricerca”. È accaduto anche sui vaccini. È importante che chi fa informazione sia consapevole di questa dinamica e possibilmente se ne sottragga (salvo che un giornalista preferisca fare politica, in tal caso basta dirlo). A dire il vero dovrebbero sottrarsene anche gli stessi scienziati (salvo che uno scienziato preferisca…).

4. Quando il giornalista parla di scienza affronta una asimmetria informativa Nessuno di noi è in grado di giudicare chi ci cura: tra noi e il nostro medico esiste una evidente asimmetria informativa. Come può un giornalista ridurre l’asimmetria informativa tra lo scienziato e il lettore? Facendo buona mediazione tra l’esperto e il grande pubblico, cioè evitando l’ipersemplificazione e soprattutto non sostituendosi all’esperto. Perché ogni nostra obiezione su una teoria scientifica sarà stata già vagliata dagli esperti o magari, se siamo stati davvero acuti, la verifica è in corso d’opera mentre la formuliamo. Non è fiducia cieca nella scienza, è come vanno le cose lì (vedi alla voce 1)

5. Il giornalismo non è fatto per produrre certezze

Non certezze facili, almeno. Perché come la scienza, anche il giornalismo dovrebbe procedere per ipotesi da falsificare. Nel caso della COVID-19 erano ipotesi molto difficili: durante la pandemia sapevamo tutti di non sapere. Ma accettarlo richiede umiltà e può renderci vulnerabili alla tentazione di creare o divulgare quelle che Alessandro Baricco (in The Game) definirebbe le “verità veloci”. Delle quasi verità, o dei falsi ben travestiti perché plausibili. Riducono l’ansia (o la fanno esplodere) ma restano falsi. Vanno forte sui social ma non sono giornalismo.

6. Ai giornalisti serve più formazione (e metodo) La pandemia ci dice che le nostre scuole di giornalismo dovranno in futuro occuparsi un po’ più di metodo e di accuratezza e magari un po’ meno di strumenti cioè canali, piattaforme, multimedialità. Un metodo (e potete leggerne da pag. 60 a 69) che abitui ad accettare l’incertezza, alleni a dare pesi giusti e diversificati a dati e opinioni, proceda per ipotesi da falsificare.

7. Al giornalismo servono nuovi protocolli. Come ha scritto il presidente dell’OgL Riccardo Sorrentino «alcuni vecchi protocolli - bastano due citazioni di persone diverse, cerca un’opinione a favore e un’opinione contro, sentiamo un uomo o una donna della strada, oppure un vip - sono oggi sicuramente superati, inadeguati». Lo sviluppo di un tema scientifico va costruito su altri protocolli, più simili a quelli della scienza, e pace se questo richiede tempo. Certi casi editoriali dimostrano che la scelta paga (potete leggerne a pag. 83). Paga cioè informare in modo “strategico”, non con articoli spot, né in una successione un po’ casuale di articoli.

8. Al giornalismo serve una diversa organizzazione del lavoro

È tema che meriterebbe un altro articolo, anzi un intero numero di questa rivista. Ma lo diciamo ugualmente: la pandemia ci ha insegnato che servono sempre più giornalisti e redazioni specializzate, che lavorino in team, addirittura in team di testate diverse. Redazioni grandi, strutturate, aperte. A cui sia concesso di approfondire. È difficile immaginare (e spingere per) un mondo ideale, significa fare i conti con lo scetticismo di molti di noi. Anche in questo la pandemia è stata un setaccio. Ci ha insegnato (dovrebbe avere insegnato soprattutto agli editori) che investire economicamente su un giornalismo ad alto valore aggiunto fa la differenza tra una società informata e una abbandonata agli influencer. Rassegnarsi vuol dire scegliere la seconda strada.

Sui temi scientifici servono redazioni specializzate, che lavorino in team, anche tra testate diverse. È forse un mondo ideale ma è l’unico possibile per fare oggi buon giornalismo

Crocevia

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