Mediaterraneo News 1-14 febbraio 2020

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Anno 12 - N. 80 Gennaio 2020 Distribuzione gratuita

Premio Giornalisti del Mediterraneo 2016

MEDI@TERRANEO news - Periodico del Master di Giornalismo di Bari Ordine Giornalisti di Puglia - Università degli Studi ‘Aldo Moro’ di Bari Editore: Apfg - Bari Direttore Responsabile: Lino Patruno Registrazione Tribunale di Bari numero 20/07 del 12/04/2007

La moglie del prete

Coronavirus la cineseria

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Orecchiette quel dito magico

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Redazione: Palazzo Chiaia-Napolitano via Crisanzio, 42 - Bari email: master@apfg.it

Benvenuti: “Io via dalle Foibe”

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Addio al celibato dei preti? Parlano gli sposati italiani La proposta è partita dal Sinodo dell’Amazzonia e riguardava alcune zone remote dell’America latina. Tanti hanno sperato in un’apertura

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L’ESORTAZIONE Nel documento “Querida Amazzonia” del 12 febbraio, Bergoglio non fa riferimento alla legge sul celibato

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Guai a chiamarli ex preti o, peggio ancora, spretati. “Il sacerdozio rimane per tutta la vita anche se alcuni hanno scelto di lasciare la propria comunità parrocchiale per dedicarsi alla famiglia”: sono le parole di Giuseppe Serrone, fondatore dell’associazione sacerdoti sposati, nata nel 2003. Sono i cosiddetti “viri probati” ai quali, forse inconsapevolmente, papa Francesco aveva regalato la speranza che il celibato, anche nella Chiesa romana di rito latino, potesse diventare facoltativo. Ad alimentarla è stato anche il “rescritto di dispensa”, una sorta di lettera che la congregazione del clero invia ai sacerdoti che decidono di sposarsi. Da non molto tempo, i preti che lasciano il ministero possono continuare a servire le loro comunità e insegnare nei collegi e nelle Università della Chiesa. “È un cambio di prospettiva importante – ha detto Serrone – in passato c’era un atteggiamento più discriminatorio. I preti dovevano allontanarsi e addirittura sposarsi in segreto”. Ma l’esortazione “Querida Amazzonia”, pubblicata il 12 febbraio, ha messo la parola fine alla discussione. Almeno per ora. Bergoglio, infatti, non solo ha scelto di non aprire spiragli a un cambiamento di regole sul celibato dei preti come alcuni giornalisti si sono affrettati a scrivere, ma non ha proprio fatto cenno alla questione. La storia è iniziata circa un anno fa. Nell’ambito del Sinodo amazzonico è avanzata una

proposta per permettere agli uomini cattolici sposati che vivono zone remote e isolate di questa regione dell’America latina, e che sono già diaconi, di essere ordinati sacerdoti. Dunque una questione di numeri. Laddove c’è una carenza di sacerdoti, “utilizziamo” i diaconi: questo in soldoni il senso. È bene ricordare che il celibato non è un dogma ma una legge della Chiesa introdotta intorno al 1200. Per far fronte a esigenze pratiche, si pensava che un prete non sposato potesse avere più tempo da dedicare alla cura pastorale dei fedeli. Ma alle origini non era così: lo stesso discepolo di Gesù, Pietro, era sposato. Bergoglio, per quanto definito progressista, non ha mai avuto dubbi sul celibato. Durante la conferenza stampa sul volo di ritorno da Panama a gennaio 2019, prendendo in prestito un’espressione di Paolo VI, ha dichiarato: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato. Non lo farò. Sarò chiuso? Forse”. Intanto anche il papa emerito è tornato sul tema affermando la sua contrarietà ai preti sposati. Le due posizioni non sono poi così lontane. Anzi, nella sostanza non lo sono affatto. Ma resistere al fascino della narrazione di una Chiesa dei “due papi” (per usare il titolo del film interpretato da Jonathan Pryce e Anthony Hopkins e diretto dal regista Fernando Meirelles nel 2019) non è semplice. In questo senso, il libro “Dal profondo del nostro


Non esiste la Chiesa dei due papi

cuore” (edizione Cantagalli) scritto dal cardinale Sarah con il contributo di Ratzinger ha alimentato l’immaginario di questo duopolio. Nel contributo del papa emerito si parla anche del celibato. Luci e ombre. Il 15 gennaio scorso, alla vigilia dell’uscita del libro in Francia, Ratzinger ha ritirato la firma come co-autore per mezzo dell’arcivescovo Georg Gänswein. Da quel giorno monsignor Geog, segretario personale di Ratzinger, mantenuto in carica da Bergoglio, non si è più visto pubblicamente. Alcuni hanno parlato di “pasticcio”. Ma il portavoce della Santa Sede ha tagliato corto parlando di “ordinaria redistribuzione dei vari impegni”. Altra data curiosa: l’esortazione “Querida Amazzonia” è stata pubblicata nel giorno in cui a Roma si stava svolgendo la conferenza stampa dell’incontro che si terrà nelle prossime settimane a Bari, “Mediterraneo frontiera di pace” organizzato dalla Conferenza episcopale italiana. All’evento parteciperanno circa 60 vescovi di 20 Paesi bagnati dal Mare Nostrum. La cinque giorni sarà chiusa dalla Messa di Papa Francesco. E infine, per restare in tema di date: sette anni fa, proprio in questi giorni, Joseph Ratzinger ha rinunciato alla carica di Pontefice perché, aveva detto, le sue forze “non erano più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero”. Un mese dopo il ministero petrino è passato nelle mani di del gesuita argentino. Anna Piscopo

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Riccardo Maccioni è il responsabile editoriale di Catholica, inserto del quotidiano cattolico Avvenire. Lo abbiamo raggiunto al telefono. Quali effetti avrebbe la rinuncia al celibato sull’evangelizzazione? La rinuncia provocherebbe una riduzione dell’impegno materiale, mentale e spirituale all’interno delle comunità. Il celibato sacerdotale esprime il dono totale del sacerdote a Gesù e alla Chiesa anche in termini di tempo. Anche se ci sono persone sposate in grado di portare avanti un impegno proficuo: se guardiamo alle chiese evangeliche e protestanti, i pastori sono sposati e portano avanti un impegno proficuo di evangelizzazione. Se lei fosse un prete opterebbe per il celibato? In passato ho pensato di fare il sacerdote, poi mi hanno detto che non era il caso quindi sono felicemente sposato. Come legge il ritiro della firma di Benedetto XVI da co-autore del libro del cardinale Robert Sarah? Dal punto di vista editoriale, avere come co-autore il papa emerito sarebbe stato un bel colpo. Sicuramente c’è stato un equivoco. Questo libro è diventato strumento per alimentare l’ipotesi che nella Chiesa esistono dei “partiti” pro e contro Francesco. Come definisce il racconto che i media fanno della Chiesa? Viviamo davvero nell’epoca dei due papi? Non ci sono due papi: c’è un papa e un papa emerito. I media fanno passare uno come conservatore, l’altro come progressista. Negli ultimi interventi Benedetto XVI ha dato un contributo alla Chiesa senza voler scardinare il ruolo di Francesco. Ma alcuni ci hanno marciato sopra. Chiesa e politica: qual è il loro rapporto oggi? Nella Chiesa non ci sono partiti. Ci sono diverse interpretazioni che hanno tutte lo stesso obiettivo: cercare di realizzare il Vangelo.

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Intervista a Riccardo Maccioni

IL FILM DEL 2019 Gli attori Anthony Hopkins e Jonathan Pryce in una scena del film “I due papi” diretto dal regista Meirelles

Le altre Chiese cattoliche

Il celibato nei riti orientali

All’interno della Chiesa cattolica ci sono diversi riti che non riconoscono la legge del celibato contenuta nel Codice di diritto canonico della Chiesa latina, promulgato da papa Giovanni Paolo II nel 1983. Lo stesso papa, nel 1990, ha emanato il Codice dei canoni delle Chiese orientali che comprende le norme comuni alle ventitrè Chiese di rito orientale. Qui si specifica che per l’ammissione al sacerdozio degli uomini sposati ogni Chiesa sui iuris è libera di seguire le proprie norme. Delle ventiquattro Chiese cattoliche soltanto sette rispettano l’obbligo del celibato. Sono le Chiese cattoliche: copta, sira, siromalabrase, siro-malankarese, etipe, eritrea. 1-14 febbraio 2019

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Ma mogli legali in alcuni riti cattolici

IL CASO Don Patrick Balland abbraccia la moglie dopo l’ordinazione sacerdotale (Corriere della Sera del 3 luglio 2005)

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Il celibato non è un dogma, ma una legge della Chiesa latina. Uniche eccezioni i preti protestanti già sposati che abbracciano il cattolicesimo

Tutti cristiani, tutti cattolici, tutti con una stessa vocazione: diventare preti. Studiano fianco a fianco nello stesso seminario, poi, prima dell’ordinamento sacerdotale, alcuni possono scegliere se abbracciare il celibato o sposarsi, mentre per altri la scelta di diventare presbitero comprende necessariamente quella di restare celibe. Può sembrare un paradosso ma la spiegazione in realtà è semplice. L’obbligo del celibato non è un dogma del Cristianesimo, ma una legge (canone 277 del Codice di Diritto Canonico ndr) che riguarda esclusivamente la Chiesa latina che, sebbene sia la più diffusa, è solo una delle 24 Chiese cattoliche. Non c’è quindi da stupirsi che, ciclicamente, il celibato dei preti torni d’attualità nel dibattito pubblico. In questi giorni è nuovamente alla ribalta per l’attesa delle decisioni di Papa Francesco sulla possibilità, scaturita dal Sinodo dell’Amazzonia, di ordinare al sacerdozio in quelle remote regioni diaconi permanenti già sposati. Ma nessuna apertura, per quanto ipotizzata, c’è stata da parte del Papa nella sua “Querida Amazonia”: nonostante “il lamento di tante comunità private dell’Eucaristia domenicale per lunghi periodi di tempo”, per ora non si concedono eccezioni alla norma del celibato. Eppure un’eccezione già esiste. Riguarda essenzialmente i preti protestanti che scelgono di “rientrare” nella Chiesa cattolica. Già nel 1980, durante il pontificato di Gio-

vanni Paolo II, la Congregazione per la Dottrina della Fede espresse parere favorevole alla richiesta presentata dai Vescovi degli Stati Uniti d'America in merito all'ammissione nella Chiesa Cattolica di alcuni sacerdoti, inclusi quelli già sposati, appartenenti alla Chiesa Episcopaliana (Anglicana). Nell'accoglierli tra il clero cattolico, la Santa Sede precisò che l'eccezione alla norma del celibato sarebbe stata concessa in favore di queste singole persone, senza implicare alcun cambiamento del pensiero della Chiesa sul valore del celibato sacerdotale. Ancora prima, come ricorda don Antonio Sciortino in un’intervista del 2015 su Famiglia Cristiana, già Pio XII aveva concesso a sacerdoti protestanti di esercitare il loro ministero restando sposati e uniti alla famiglia (la prima «dispensa» fu accordata ad un pastore luterano, nel 1951 ndr). Don Sciortino, attualmente a capo delle attività del Gruppo Editoriale San Paolo, affermò in quell’occasione: “II celibato non è un dogma. E mai nella storia ne è stata rivendicata l'origine divina...La Chiesa, quindi, potrebbe un giorno decidere diversamente”. Nell’articolo fece anche riferimento alle possibili cause dell’introduzione del celibato citando, tra l’altro, il rischio che i figli dei preti potessero reclamare diritti ereditari su beni ecclesiali. Negli anni novanta durante il papato di Giovanni Paolo II decine di preti anglicani chiesero di essere accolti da Roma perché


contestavano il sacerdozio femminile deciso dalla Chiesa d’Inghilterra, incrementando il numero di preti sposati nella Chiesa di rito latino. Lo stesso Joseph Ratzinger, all’epoca prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, aiutò don Patrick Balland nel suo travagliato percorso, durato 13 anni, per lasciare i calvinisti. Don Patrick, sposato e con quattro figli, fu ordinato sacerdote in Belgio due mesi dopo l’elezione di Benedetto XVI. Se da un lato la Chiesa di Roma ha scelto di accogliere sacerdoti sposati provenienti da altre confessioni, dall’altro, quando concede la dispensa dal celibato nega la possibilità a chi la ottiene di continuare ad amministrare il culto, nonostante l’ordinamento a sacerdote sia un sacramento indelebile. La resistenza alla possibilità di variare la legge canonica può apparire ancora meno comprensibile se si considera che nel decreto di Paolo VI “Presbyterorum ordinis” emanato nel 1965, più di cinquant’anni fa, a proposito del celibato si legge che la continenza “non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio” e che nelle Chiese orientali “vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati”. La risposta potrebbe essere nelle parole del cardinale Carlo Maria Martini in un’intervista pochi giorni prima della sua morte: “La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura?” Claudio Carbone

Incontriamo don Domenico Pietanza nella sagrestia dell’unica chiesa di Cellamare (Bari). Don Domenico, non ancora quarantenne, guida una comunità di fedeli legata alle tradizioni, cercando un’attenta mediazione tra il rispetto per gli anziani e l’accoglienza per le nuove generazioni di un mondo che cambia sempre più in fretta. Parliamo di obbligo del celibato È una questione di tradizione. Nella Chiesa Cattolica ci sono sacerdoti, ad esempio quelli di rito Maronita, che hanno libertà di scelta riguardo al matrimonio. La Chiesa latina decise di scegliere la legge del celibato per i suoi ministri. Ma è una legge che potrebbe essere superata qualora il Pontefice lo ritenesse opportuno. Certo, nei confronti dei fedeli il celibato manda il chiaro segnale della totale donazione e di essere 24 ore su 24 al servizio del popolo. Con una famiglia il rischio è di essere visti come il “professionista del sacro”. Cosa pensa del ciclico riemergere del dibattito sulla possibilità dei preti di sposarsi? È sempre utile aprire discussioni, percorsi, processi perché come diceva il cardinal Martini prima di morire “la Chiesa è 200 anni indietro” e qualche riforma va fatta perché il mondo va avanti e noi dobbiamo essere in sintonia con il mondo. Quali sarebbero le sue reazioni se venisse lasciata libera scelta sul matrimonio? Non griderei allo scandalo, accetterei, chiaramente per me non cambierebbe nulla perché è vero che il celibato non è un dogma ma nella mia formazione di prete ha assunto un valore spirituale. Il celibato, insieme alla povertà e all’ubbidienza, è un voto che assume valore escatologico, anticipando in terra quello che saremo un domani. Secondo lei, come potrebbero reagire i fedeli? Certo noi non siamo abituati. Mi rendo conto che il nostro popolo farebbe fatica, almeno all’inizio, ad accettare il sacerdote con la moglie, i figli. È evidente che qui c’è una tradizione e la questione andrebbe calata piano piano, spiegata, ma credo che anche i fedeli, dopo averla compresa, non rimarrebbero così scandalizzati.

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Parla un giovane prete barese

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L’intervista

IN ALTO Don Domenico Pietanza, parroco di Santa Maria Annunziata (Cellamare - BA) IA SINISTRA Una scena dal film di Dino Risi del 1970 “La sposa del prete”

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“Gradisce un sushi?”“Per ora meglio una pizza”

La psicosi da Coronavirus si sta diffondendo rapidamente anche a Bari, soprattutto sui social. La situazione preoccupa gli imprenditori cinesi

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I RISTORANTI Gli imprenditori cinesi in Italia rischiano un periodo di ferie forzate. La gente ha paura di mangiare cibo asiatico

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Qualcuno indossa la mascherina in aeroporto, in pochi frequentano ristoranti orientali, in pochissimi spendono nei negozi cinesi, anche a Bari la psicosi da Coronavirus sta diventando virale. Se fino a qualche settimana fa i ristoranti di sushi erano super affollati a qualsiasi ora e le pizzerie adiacenti vuote, negli ultimi giorni c'è stata un'inversione di tendenza. Sebbene nessun intervistato ci abbia confermato di evitare la cucina orientale per timore del virus di Wuhan, i ristoranti orientali in città rischiano di chiudere. Ce l'ha confermato Anna, proprietaria di un noto locale di sushi in città. È stata lei la prima ristoratrice a cercare di rassicurare la clientela, mostrando sui social le fatture che testimoniano come i prodotti usati in cucina provengano esclusivamente dall'Italia: "Abbiamo perso l'80% del fatturato, ieri a cena avevamo solo una decina di coperti, in un locale che ha la capienza di un centinaio di posti a sedere". Ma lo sfogo social non è bastato: il telefono del locale non squilla da giorni, e non c'è nessuna prenotazione. La situazione è la stessa anche negli altri ristoranti orientali, e i gestori stanno pensando a un periodo di ferie forzate. "Le spese sono troppe, occorrono dei mesi prima che questo panico

rientri, chiuderemo e torneremo, quando tutto sarà finito, per offrire alla nostra clientela un menù pieno di prelibatezze", ci ha detto Anna. A suo dire la psicosi da Coronavirus è del tutto infondata perché tutti i collegamenti con la Cina sono stati interrotti. Ci ha inoltre spiegato che quello cinese è un popolo unito, che si autotutela ed adotta tutte le precauzioni per evitare il contagio. “Non vogliamo essere degli untori, su questo il nostro governo sta adottando tutte le misure", ha concluso. Molti cinesi residenti a Bari e rientrati di recente da viaggi in Cina sono in auto quarantena. Una quarantena “su base volontaria”, come l'ha definita Peng Shen, il portavoce dell'associazione cinesi di Bari. I dieci cinesi che hanno aderito vivranno segregati in casa per quattordici giorni, tempo massimo di incubazione del virus. Nonostante l’auto isolamento, la psicosi da Coronavirus continua a contagiarsi tra i baresi, soprattutto sui social. Anche in aeroporto, dove la situazione è apparentemente tranquilla c'è gente che fa il check in indossando la mascherina. Da una settimana a questa parte sono migliaia, ogni giorno i passeggeri sottoposti a misurazione della temperatura corporea nell'Aeroporto di Bari. Per motivi logistici, non tutti i transiti sono


Mariamichela Sarcinelli

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intercettati e ci sono controlli solo sui voli internazionali ritenuti dal Ministero della salute “più a rischio”, e per i voli provenienti da Roma Fiumicino. La paura dei contagi non rimane solo circoscritta al cibo, gli italiani hanno timore di acquistare nei negozi cinesi. A sottolinearcelo è stato l'assistente alle vendite di un ingrosso cinese, alle porte di Bari. "La clientela è nettamente in calo, hanno anche paura di toccare la nostra merce, siamo vittime di razzismo", ci ha detto. Una psicosi dilagante che anche nel capoluogo pugliese inizia a mettere in ginocchio le attività commerciali, che inventandosi formule convenienti come quella degli "all you can eat", mangia tutto ciò che vuoi, erano riuscite dopo anni a battere le barriere sociali e a integrarsi. Nei ristoranti cinesi gli italiani hanno cominciato a familiarizzare con i sapori asiatici e a conoscere nuovi ingredienti, hanno iniziato a giocare con le bacchette - e dopo qualche anno hanno imparato anche ad usarle. Sono la terza comunità straniera più presente sul suolo italiano, e ora, come all’inizio del loro esodo, dall’Italia sono nuovamente emarginati.

Fra gli italiani tornati a casa dalla Cina c'è anche una ragazza del liceo linguistico di Trani, che si trovava lì per il progetto Intercultura. La città in cui alloggiava si trova a circa 800 km da Wuhan, focolaio dell'epidemia. La studentessa ci ha raccontato che gli spostamenti interni alla Cina sono davvero pochissimi e che per salire su treni o altri mezzi di trasporto si devono fare controlli, e in caso di sintomi analoghi a quelli del Coronavirus non è possibile viaggiare. Lei ci ha descritto un Pese “deserto”, per la paura dei contagi, con gente rintanata in casa e strade vuote. “Le poche persone che circolano nella metropoli camminano frettolosamente e a testa bassa, indossando sempre la mascherina che sui mezzi pubblici è diventata obbligatoria”, ci ha detto. Uno scenario completamente differente da quello incontrato qualche mese fa, appena iniziata l'esperienza di studio in Cina. La ragazza è in Italia, ed è da poco tornata dalla sua famiglia. Ha scritto una lettera indirizzata alla sua scuola nella quale denuncia ogni forma di razzismo contro gli asiatici. “È vero che c'è l'emergenza e non bisogna sottovalutarla, ma credo che il virus non giustifichi gli episodi di razzismo e discriminazione che si stanno verificando nei confronti dei cinesi residenti in Italia. Ho scritto questa lettera per invitare la gente a documentarsi correttamente, evitando il web perché sta diffondendo fake news. L’ignoranza- ci ha detto- sta facendo più vittime dell’epidemia”. Il suo rammarico è forte soprattutto perché nei cinque mesi in cui ha vissuto in Cina si è sentita accolta dalla gente e dalla famiglia che l’ospitava: “Nonostante quella cinese sia una cultura che fa sentire forte il suo tradizionalismo, fatto anche di contraddizioni, io mi sono sentita accolta da quel popolo, che è stato da subito ben disposto ad approcciarsi alla mia cultura e stile di vita. Questi cinque mesi in Cina mi hanno aperto allo scambio interculturale. Sono sconcertata per il comportamento che noi italiani stiamo riservando alla popolazione cinese che risiede nel nostro Paese, mi fa rabbia”. M. S.

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Tornata dalla Cina attacca gli italiani

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Studentessa italiana

LE PRECAUZIONI L’utilizzo delle mascherine è diventato obbligatorio sui mezzi di trasporto pubblici in tutta la Cina

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Un caffè al bar o la democrazia? A noi la scelta... Il 29 marzo si voterà per il referendum confermativo sul taglio dei parlamentari. Se approvato sarà esecutivo dalla prossima legislatura

8 L’EMICICLO La camera del Senato della Repubblica a Palazzo Madama

La democrazia e la rappresentanza possono valere il costo di un caffè? È, sostanzialmente, la domanda che gli italiani dovranno porsi il 29 marzo quando si chiuderanno nella cabina elettorale. Si voterà per il referendum confermativo alla riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari, approvata lo scorso ottobre dopo un iter che prevedeva una doppia lettura da entrambe le camere del Parlamento. Con questa legge sarebbe di fatto ridisegnata la composizione del Parlamento: sono 345 le

La nuova legge elettorale

Fuori i piccoli gruppi

La nuova proposta di legge elettorale che dovrà accompagnare l’eventuale taglio dei parlamentari è già stata ribattezzata Germanicum perché intende riprendere il modello tedesco. È stata presentata alla Camera dal presidente della Commissione affari costituzionali Giuseppe Brescia, in quota Movimento 5 Stelle. Tre sono i capisaldi di questa legge: metodo proporzionale, sbarramento al 5% e diritto di tribuna. I due maggiori azionisti di governo (M5S e Pd) sembra stiano convergendo sempre più verso questa soluzione, ma mentre il rialzo della soglia di sbarramento potrebbe far sparire i partiti minori dal Parlamento, è il diritto di tribuna il nodo più difficile da sciogliere. Consiste, in sostanza, nel cedere uno o più seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama a quelle formazioni politiche che non raggiungono il 5% a livello nazionale e che in una o più circoscrizioni riusciranno ad eleggere uno o più rappresentanti. 1-14 febbraio 2020

poltrone in meno previste, 115 senatori e 230 deputati. In totale quindi, si passerebbe da 945 parlamentari a 600 (400 deputati e 200 senatori). Il risparmio? Cento milioni di euro lordi all’anno, 57 al netto, più o meno il costo di un caffè per ogni cittadino. Subito dopo l’approvazione della riforma, sono state molte le proteste da parte delle opposizioni tanto che si è iniziato subito l’iter per indire il referendum e rimettere tutto nelle mani del popolo. Si sarebbe potuto concretizzare in tre modi: una petizione che avesse raccolto 500mila firme, la proposta di referendum da parte di cinque consigli regionali oppure la raccolta delle firme di un quinto dei componenti di una delle due Camere. E sono stati proprio 71 senatori a raccogliere le firme e presentare la domanda di referendum. Era cominciata anche la raccolta firme con alcuni banchetti organizzati dal Partito Radicale, ma non è stato un gran successo. Ne sono state raccolte meno di 700 in tutta Italia a fronte delle 500mila necessarie. Il partito però ha deciso di depositare comunque le firme raccolte, come forma di protesta dice Michele Macelletti, esponente del comitato del Partito Radicale di Bari. Una protesta contro gli organi di informazione (vedi box) e contro il fumo che è stato buttato negli occhi dei cittadini. «Noi pensiamo che la politica ha bisogno di rappresentanza e tagliare di netto operando solo sul numero dei parlamentari comporterà dei rischi per l’intero


Denuncia all’AGCOM

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Informare bene i cittadini

Il Partito Radicale ha denunciato all’AGCOM la mancata informazione sulla riforma costituzionale e sul referendum confermativo a essa relativo. In particolare, i radicali si sono scagliati contro la Rai che dovrebbe, secondo Michele Macelletti, svolgere un servizio pubblico e invece relega i programmi di informazione su questo tema alla tarda notte. Lo scorso 8 febbraio, infatti, esponenti e attivisti del partito hanno manifestato davanti alla sede Rai di Roma. Il sale della democrazia consiste nel permettere ai cittadini di andare a votare consapevolmente ed è su questo presupposto e sul fatto che la campagna dei 5 Stelle abbia fuorviato l’opinione pubblica che si è basata la denuncia all’AGCOM. Per riempire questo gap il Partito Radicale porterà avanti una campagna informativa fino al 29 gennaio attraverso iniziative in tante città italiane.

assetto istituzionale così come è stato disegnato dai nostri padri costituenti»: sono le parole di Michele Macelletti contro il Movimento 5 Stelle autore, secondo lui, di una campagna demagogica dedita solo alla disinformazione e all’illusione di un risparmio che potrebbe impattare decisamente in maniera positiva sulle casse dello Stato. È stato Carlo Cottarelli, economista, a ridimensionare la cosa: il risparmio impatterebbe per lo 0,007% sul bilancio annuale. Ma forse, ubriacati dalla martellante campagna dei 5 Stelle a favore del taglio, i cittadini hanno già scelto da che parte stare. In un sondaggio condotto in Puglia a gennaio su un campione di 190 persone a cui è stato chiesto che cosa voteranno il 29 marzo, l’82% ha risposto di essere a favore del taglio dei parlamentari. Alla richiesta di una motivazione, nessuno ha risposto diversamente da “Ci sarebbe sicuramente un risparmio economico”. Tra i più severi quelli che definiscono il Parlamento una casta e la causa della rovina economica dell’Italia. Mentre il Movimento 5 Stelle sembra essere sparito dai radar (le nostre richieste di un’intervista sull’argomento sono state ignorate), il Partito Radicale ha iniziato a fare una campagna di informazione per permettere ai cittadini di conoscere quali sono i pericoli di una riforma pensata, secondo loro, senza una visione di insieme dell’assetto istituzionale. Perché pensare a una riforma che si limiti sol-

tanto a diminuire i rappresentanti parlamentari significa effettivamente non aver pensato a tante implicazioni non da poco conto. Attualmente, il rapporto è di un deputato ogni 96.006 cittadini e di un senatore ogni 188.424. Con il taglio dei parlamentari il rapporto passerebbe ad un deputato ogni 151.210 cittadini ed un senatore ogni 302.420 (per la Camera si tratta della percentuale più bassa in Europa, 0,7 ogni 100.000 abitanti). Sarebbe una vera e propria crisi di rappresentanza e lo scollamento tra il popolo e i politici sarebbe a quel punto insanabile, tenendo anche conto dell’eccessiva sfiducia che già gli italiani nutrono verso la classe dirigente. Non solo, sarebbe necessario studiare una nuova legge elettorale che sostituisca la Legge Rosato attualmente in vigore e ridisegnare tutti i collegi, oltre che modificare la legge sull’elezione del Senato e del presidente della Repubblica dopo la riduzione dei delegati regionali. Giuseppe Brescia, presidente della Commissione affari costituzionali in quota 5 Stelle, ha presentato alla Camera una proposta di legge elettorale già denominata Germanicum. Le opposizioni, tra cui anche il Partito Radicale, ne hanno già evidenziato le criticità. Comunque, il taglio dei parlamentari, se dovesse essere confermato dal referendum, entrerà in vigore solo dopo il prossimo scioglimento delle Camere. Tra tre anni, salvo imprevisti. Maria Cristina Mastrangelo

9 IL GRAFICO In alto uno schema di come sarà il nuovo Parlamento confrontato anche con altri Paesi

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Dramma delle foibe Nino Benvenuti: “una ferita dolorosa”

Il campione di pugilato racconta in un fumetto il suo esodo dall’Istria dopo la seconda guerra mondiale: ‘Voglio arrivare ai giovanissimi’

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IL FUMETTO Edito nel 2020 da Ferrogallico realizzato a quattro mani con M. Grimaldi illustrazioni di G. Botte

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“La vittoria del primo titolo nazionale a 16 anni. Quello è un ricordo indelebile, un’emozione unica. Ho toccato il mondo con un dito e quello è rimasto il mio mondo”. La voce di Nino Benvenuti arriva dal telefono forte e decisa, appena increspata dalla potenza del ricordo. La sua memoria conserva un passato glorioso che l’ha reso il pugile migliore che l’Italia abbia avuto. “Da ragazzo, per allenarmi, riempivo sacchi di iuta con stracci e frumento, li appendevo a una trave e tiravo pugni. Sentivo già il sacro fuoco della passione per questo sport, amatissimo anche da mio padre, che poi è stata la mia vita”. Mentre Nino improvvisava un ring triangolare nella tavernetta di casa sua a Isola d’Istria, cominciavano a vedersi in città i primi soldati juogoslavi con la stella rossa sul berretto. La sua memoria conserva infatti anche il dramma di quasi 250mila italiani, costretti ad abbandonare la propria abitazione, i propri averi per sfuggire alle persecuzioni del dittatore Tito dopo la seconda guerra mondiale. E alle famigerate foibe. Una storia a lungo dimenticata che però di recente si è trasformata in immagini, in fumetto, grazie a Nino e allo scrittore Mauro Grimaldi. “È certamente un modo per entrare non soltanto in libreria ma, anche, nelle scuole. È proprio lì, sui libri di testo, che mancano alcune pagine- spiega Benvenuti- Credo quindi che la scelta del fumetto

sia non solo originale; ma soprattutto semplificativa di un argomento assai tragico. Abbiamo considerato che un linguaggio apparentemente leggero per trattare contenuti così pesanti fosse l'ideale per arrivare dritti ai giovani, anzi ai giovanissimi”. Grazie alle illustrazioni di Giuseppe Botte, nel fumetto “Il mio esodo dall’Istria” Nino è diventato un nonno che racconta quelle vicende a suo nipote. Nino Benvenuti è nato a Isola d’Istria nel 1938, città che affaccia sul Mare Adriatico. Oggi è un comune della Slovenia, ma nel ’38 faceva parte dell’Italia. Tra il 1943 e il 1947, terminata la seconda guerra mondiale, le province della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono cedute alla Jugoslavia. Le truppe del dittatore Tito cominciarono subito a “liberare” il territorio dalla presenza degli italiani. Nino, con i genitori e i suoi quattro fratelli, era tra coloro che dovettero lasciare tutto. Qualcuno spariva, arrestato dall’Ozna, la forza di polizia al servizio di Tito. Non si sapeva quale destino li attendesse, delle foibe all’inizio dell’esodo non si sapeva nulla. Quelle grotte naturali del terreno carsico, riempite con i cadaveri degli esuli italiani sono state scoperte tempo dopo. E per molto tempo ignorate. “Non voglio entrare nel merito - risponde Nino alla domanda sul perchè del silenzio Ma certamente quelle omissioni pesano sulla coscienza di chi o ha negato o ha ta-


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ciuto. Certe esperienze, però, restano un solco profondo e doloroso nella memoria di chi come me le ha vissute”. Nel 1954 Trieste tornò a essere territorio italiano e la Jugoslavia nazionalizzò definitivamente le proprietà degli italiani rimaste in Istria. La famiglia Benvenuti perse tutto definitivamente. Ma come molti altri italini non smisero di lottare. Appena sei anni dopo arrivò la vittoria che consacrò Nino nell’Olimpo dei campioni: l’oro alle olimpiadi di Roma del 1960. E l’elenco di riconoscimenti si riempì velocemente: 90 incontri 82 vittorie, 2 titoli mondiali, un oro olimpico conquistato nel ’60 a Roma. Una leggenda che compare in tutte le “Hall of fame” del pugilato. È stato poi testimonial della FAO per la Giornata mondiale dell'alimentazione. Il racconto e le parole di Nino sono un po’ come i suoi diretti sinistri: decisi, forti. E l’avversario che tengono lontano stavolta è lo spettro dell’oblio. Raccontare per salvare. Il giorno del ricordo del dramma, il 10 febbraio, è stato istituto soltanto nel 2004. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha dichiarato in Sentato che “oggi il vero avversario da battere è quello dell’indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi”. Da inizio gennaio infatti gli atti di razzismo sembrerebbero essere moltiplicati proprio in corrispondenza dei giorni dedicati al ri-

cordo delle foibe e alle vittime della Shoah, il 27 gennaio. È sempre bene ricordare, poiché gli italiani talvolta hanno memoria corta e tengono più a difendere il proprio colore politico. Come dimostra la penosa vicenda accaduta alla foiba di Basovizza, vicino a Trieste, quando i parlamentari del Partito democratico e di Forza Italia e Lega nord si sono scontrati, di fatti, su chi avesse più diritto a partecipare alla commemorazione. Le atrocità hanno tutte le stesso colore.

NINO BENVENUTI Accanto a Tomas Ferrari ambasciatore argentino e al dottor Giorgio De Lorenzi

Saverio Carlucci

Parere del campione

Il pugilato in Italia oggi

Chi sono i migliori pugili in Italia secondo Nino Benvenuti? “In realtà, ho interrotto la mia carriera di giornalista sportivo già da un po'...Tuttavia, come Ambasciatore Italiano della Boxe nel mondo (incarico conferitomi dalla FPI), posso segnalare campioni e testimonial come Giovanni De Carolis o Emiliano Marsili, ex campioni del mondo, o Emanuele Blandamura ex campione europeo. Questi, senza dubbio, i più rappresentativi che, insieme a me, hanno partecipato a diverse iniziative sociali”. Nel 2017, durante la cerimonia per il cinquantenario della vittoria del titolo mondiale al Madison Square Garden di NY, ideata e organizzata dalla sua storica collaboratrice Anita Madaluni con il patrocinio del CONI e dell'Ambasciata Americana, è stato nominato ambasciatore Italiano della Boxe nel mondo dalla Federazione pugilistica Italiana. Di recente è stata inoltre proposto come senatore a vita. 1-14 febbraio 2020

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E guardo Bari da un oblò...

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La to fo 13

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Hello Brexit I don’t know why you say goodbye

L’intervista al direttore della Lord Byron, John Credico: “A Bari prima che l’Inghilterra entrasse in Europa. Nessuno era preparato ad uscirne”

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ATTESA PER L’ORA X Il Big Ben di Londra tra due bandiere: il 1°gennaio 2021 segnerà il definitivo addio della Gran Bretagna dall’Ue

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Non cambierà niente, almeno fino al 31 dicembre 2020. Poi, quel gran guazzabuglio di nome Brexit diventerà realtà. E ci sarà da rinegoziare tutto, o quasi. Stabilite le linee guida dal governo Boris Johnson (sulle quali si sono impanati prima di lui David Cameron e Theresa May) ricomincerà la giostra. Le montagne russe del divorzio dall’Unione Europea riguardano principalmente la libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali. Tanta roba, perché la mobilità degli ingressi alla quale sono legati studio, lavoro e affari è un mare magnum che l’abbattimento delle frontiere aveva reso più navigabile. Dal suo ingresso ad oggi, infatti, l’Inghilterra ha messo in piedi uno scambio straordinario con l’Europa: linguistico, culturale, economico e commerciale. Un rapporto privilegiato di “fluidità” dal valore inestimabile. L’inglese, su tutto. La lingua regina dell’Europa e del mondo, che ha permesso (e tutt’oggi consente) a milioni di giovani di viaggiare, studiare, lavorare, conoscere e farsi conoscere fuori dai confini nazionali. Un antidoto a tutti i sovranismi. Amata dalla città di Bari, da quando John Credico iniziò ad insegnarla al Lord Byron College: “Noi siamo qui dal 1972, cioè l’anno prima dell’ingresso della Gran Bretagna in Europa. Abbiamo sperimentato di persona cosa significa avere l’Inghilterra fuori e dentro l’Unione. Essere fuori significava visto di la-

voro, permessi, soggiorno, libertà di movimento limitata. La Gran Bretagna come un’isola a parte: spero che non torni lo stesso stato di cose”. Ma se la Brexit complica la vita a tutti, come si è arrivati a questo cortocircuito? “Anche gli inglesi si fanno la stessa domanda”, risponde ironicamente il direttore della Lord Byron, che prosegue: “È un problema legato all’età, alla regione e alla mentalità. C’è una fascia di persone che vivono in Inghilterra che non ha mai viaggiato, che non ha la minima idea di cosa è l’Europa. Il governo ha giocato su questa categoria di persone. I conservatori hanno inventato tutta questa storia della Brexit pensando di non riuscire ad ottenerla, per accontentare l’elettorato: poi sono rimasti fregati perché la nazione ha votato a favore. Nessuno era preparato. Una volta votato, sono andati avanti in maniera testarda. Man mano hanno cominciato a capire quali sono le conseguenze. Ad un certo punto, dopo due anni, qualcuno ha detto: ‘E dell’Irlanda che dobbiamo fare?’ e qualcun altro: ‘E come facciamo per i medicinali che vengono dall’Europa?’ Ci sono 60mila camion che entrano da Dover ogni giorno, come si fa con quelli? Non hanno pensato proprio a niente”. Un vero e proprio ‘pasticcio all’inglese’, insomma, soprattutto per chi sulla spendibilità di una lingua universale ha costruito un’opportunità di lavoro per sé e gli


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altri: “Abbiamo docenti di lingua madre che sono cittadini europei. Loro hanno la possibilità di esercitare il loro lavoro ovunque: è una carriera che dà buone possibilità a tutti i livelli. Un americano, un australiano o canadese non ha questa possibilità: ci sono rigidi controlli. Un giovane inglese laureato con una buona cultura si mette sull’aereo e scende dove vuole. Prima o poi trova un buon lavoro come avvocato, commercialista o insegnante di inglese, perché hanno tutti i vantaggi: a partire dalla laurea di una università britannica che è un titolo prestigioso, la perfetta conoscenza dell’inglese e un passaporto che dice che sono cittadini europei. Le università inglesi si stanno dando da fare per aprire succursarli in Europa, perché non possono perdere gli europei. È chiaro che adesso tutto è un punto interrogativo: se l’Italia e l’Inghilterra riusciranno a negoziare un accordo il nostro lavoro sarà più semplice, perché ci occupiamo di moltissime persone per il viaggio al contrario. Prepariamo infermieri, medici, architetti, camerieri, croupier, parrucchieri, per andare in Inghilterra e non solo. Non so come faranno gli inglesi senza cuochi, ingegneri, medici italiani”. Brexit o meno, il legame tra Bari, Inghilterra ed Europa andrà avanti, ripartendo dal presupposto che la fluidità dello scambio economico, culturale, di mobilità internazionale non può essere cancellato da un

semplice colpo di spugna: “Noi siamo stati sempre attivi a Bari - afferma John Credico - I nostri studenti sono centinaia: ieri ho ricevuto dei cioccolatini gourmet con la firma Emirates da uno dei nostri studenti di Bari, che oggi è responsabile di tutti i piloti della compagnia. Un altro è primario ad un ospedale di Londra e ha cominciato con noi. Potrei citare tanti altri esempi: i baresi sono in gamba e grazie all’inglese riescono a far carriera”.

Attualità

SCUOLA DI INGLESE La Lord Byron, fondata a Bari da John Credico (in foto), ha formato centinaia di ragazzi che oggi lavorano all’estero

Michele Mitarotondo

Eures-Erasmus in stand-by

Transitorietà. È la parola d’ordine fino al 31 dicembre 2020. Anche il progetto Erasmus e i piani europei legati alla mobilità del mondo del lavoro restano in stand-by. Il ponte tra gli studenti europei e quelli inglesi dovrà essere rinegoziato. Tutti i dubbi sono quindi rimandati all’ormai nota deadline. I timori che la Brexit possa incidere negativamente sulla mobilità di persone ed aziende in ambito lavorativo sono anche più forti: “Per ora non cambia nulla, ma non posso nascondere le preoccupazioni per quello che succederà dopo”, dichiara Bernadette Greco di Eures Puglia (associazione per la ricerca economica e sociale, rete di servizi per l’impiego nei paesi dell’UE) e aggiunge: “Per noi verrà meno una grande risorsa. La richiesta dei candidati è già stata dirottata verso l’Irlanda. Per l’Inghilterra, penso che ci sarà uno spostamento dell’offerta da una richiesta di lavoro meno specializzato ad uno altamente qualificato”. 1-14 Febbraio 2020

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Dopo settant’anni la Palestina non è ancora una priorità Il presidente americano Donald Trump ha presentato il piano di pace per la regione: oltre 100 le pagine per il presunto “accordo del secolo”

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THE WALL Dal 2002, Israele ha costruito la “barriera di sicurezza”; sul lato palestinese si possono ammirare i graffiti

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Il Trump Show che ormai va in onda dal 2016, si arricchisce di un nuovo episodio. Quello degli ultimi giorni è incentrato sul Medio Oriente, più specificatamente sul conflitto Israelopalestinese, che sembra aver trovato una “soluzione” grazie al Presidente americano Donald Trump. “Peace to Prosperity – A Vision to Improve the Palestinian and Israeli People” è il nome dell’ “accordo del secolo” pensato da Jared Kushner, genero, ebreo e senior advisor del Presidente americano e presentato dallo stesso circa due settimane fa. Annessione di tutte le colonie e gran parte della Cisgiordania al territorio israeliano; sicurezza affidata alla Israel Defense Forces e Gerusalemme unica capitale di Israele. La Palestina, in cambio della promessa di de militarizzare il suo esercito riceverebbe 50 miliardi di dollari per 10 anni in investimenti internazionali (l’America ha ipotizzato un raddoppiamento del PIL interno entro il 2030), sarebbe riconosciuta come Stato con capitale Gerusalemme Est e avrebbe la costruzione di un tunnel sotterraneo per mettere in comunicazione la Striscia di Gaza con i villaggi della Cisgiordania. Cento ottantuno pagine che sembrano richiamare “la Risoluzione 181” firmata dall’assemblea delle Nazioni Unite nel 1947, e che prevedeva che il 55% del territorio fosse affidato a Israele e il 40% agli arabi, con Gerusalemme posta sotto controllo internazionale. Un provvedimento che, complice anche

il fine mandato inglese nel territorio, portò allo scontro armato e alla proclamazione – il 14 maggio 1948 – della nascita dello Stato di Israele e di più di 700mila profughi palestinesi, costretti a lasciare le loro case. “Nessuno, né israeliani né palestinesi, verrà sradicato dalle proprie abitazioni” ha assicurato Trump. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha subito approvato il progetto di allontanando, sempre di più, l’ipotesi della creazione di due Stati ipotizzato nel 1993 quando furono firmati gli accordi di Oslo. I palestinesi sono ormai convinti che quegli accordi non siano più attuabili: due Stati, democratici e con pari diritti, sembrano un miraggio ben più lontano di quanto non potesse apparire 25 anni fa, nonostante vi siano alcuni movimenti interni a Israele che criticano fortemente la politica di occupazione dei territori palestinesi (uno su tutti “Breaking the Silence”). Ad oggi, molti palestinesi chiedono l’annessione totale a Israele in modo da ottenere pari diritti e doveri ma sembra che anche questa soluzione non sia possibile da attuare perché “i palestinesi pretendono di ottenere la cittadinanza israeliana per 11 milioni di persone trasformando di fatto il carattere del Paese che sarebbe così composto da una maggioranza assoluta musulmana. Di fatto una negazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele come stato ebraico” spiega il console onorario di Israele Luigi De


Santis. Un diritto all’esistenza che spetta però anche allo Stato Palestinese. Come ha sottolineato il quotidiano israeliano Haaretz, l’“accordo del secolo” è stato formulato in modo da essere bocciato dalla controparte araba. Abu Mazen, Presidente dell’Autorità per la Liberazione della Palestina, ha rifiutato un colloquio telefonico con Trump e ha precisato di non essere intenzionato a “svendere Gerusalemme” né a continuare a rispettare gli accordi di Oslo se il piano sarà attuato perchè “Israele è patria non solo degli ebrei, ma anche dei musulmani e dei cristiani”. “Israele ha accettato di negoziare la pace con i palestinesi sulla base di questo piano [americano, ndr], spero Abu Mazen voglia rifiutare la via della violenza e accettare la prospettiva di un futuro migliore per le nuove generazioni palestinesi - spiega De Santis - In questa direzione, l’apertura al piano dichiarato da alcuni Paesi arabi infonde fiducia. Se Abu Mazen dovesse scegliere di proseguire nell’incitamento all’odio insieme agli alleati di Teheran nella regione, Hamas e Hezbollah, a pagarne le conseguenze sarebbero per l’ennesima volta i due popoli”. Ma si sa che se “nella prosperità la scelta è difficile, nelle avversità non si può scegliere”. E la Palestina si è trovata di nuovo a non poter scegliere. Purtroppo.

Simona Latorrata

Luigi De Santis, imprenditore, da cinque anni ricopre il ruolo console onorario di Israele. Unico a ricoprire questa carica nel nostro Paese, è anche il più giovane console onorario di uno Stato nominato nella nostra nazione. Lo abbiamo intervistato - in forma scritta - in merito alla proposta fatta dal Presidente Trump. Di seguito le risposte che il Console gentilmente ci ha fornito: Quanto pensa che sia attuabile concretamente il “progetto di pace” per Israele presentato da Donald Trump? “Questo accordo propone l’equilibrio tra la sicurezza vitale di Israele e le aspirazioni dei palestinesi all'autodeterminazione. La proposta ha il merito di porre delle nuove basi per future trattative dirette tra le controparti e di riconoscere la realtà sul terreno. L'accordo non sradica nessuno dalle proprie case, né israeliani né palestinesi. Piuttosto, propone soluzioni innovative, in base alle quali i territori designati saranno contigui”. Lei lo condivide? “Mi limito ad osservare che il progetto affronta la causa principale del conflitto, insistendo sul fatto che i palestinesi debbano finalmente riconoscere Israele come stato ebraico. Israele, sin dal momento della sua fondazione, ha desiderato fortemente la pace con i suoi vicini palestinesi e il resto del mondo arabo. Auspico che la leadership palestinese colga questa opportunità e non tradisca per l’ennesima volta la voglia di pace del popolo palestinese”. Gerusalemme fu volutamente esclusa dagli accordi di Oslo del 1993. Non pensa che la proposta del Presidente americano sia un intervento a gamba tesa che rischia di sconvolgere gli equilibri non solo politici ma anche – e soprattutto – religiosi? “L'accordo prevede che l'antica capitale ebraica di Gerusalemme rimanga unita sotto la sovranità di Israele. Una democrazia in cui la libertà religiosa è garantita, unico paese nel medioriente in cui la comunità cristiana è aumentata negli ultimi anni a fronte di una persecuzione terribile nel resto della regione. La proposta garantisce che i siti religiosi rimangano accessibili a tutte le fedi e mantiene inalterato lo Status Quo sul Monte del Tempio, riconoscendo il ruolo speciale della Giordania nella gestione dei luoghi santi per i musulmani”.

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Israele, De Santis console onorario

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L’intervista

GERUSALEMME Cartelloni pubblicitari per la campagna pro Netanyahu: il 9 aprile prossimo Israele voterà per la 3 volta in un anno

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Orecchiette amore e fantasia: il lavoro manuale stupisce New York Travel Show, reportage mondiali e ora norme comunitarie: il turismo di Bari parte dalle mani delle pastaie

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U’ ARC VASC Attraversando l’Arco basso si arriva nella via in cui si trova l’abitazione di Nunzia e di altre pastaie

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Le orecchiette sono una cosa seria. Dagli eventi turistici mondiali, come il New York Travel Show, ai reportage sul New York Times, fino alla regolamentazione della preparazione fatta in casa secondo le linee guida comunitarie. La consacrazione del turismo di Bari ha trovato senza dubbio nel cibo un grande punto di partenza. La Puglia ha partecipato per il secondo anno consecutivo al Travel Show, svoltosi dal 24 al 26 gennaio nella Grande Mela. Il tacco d’Italia si è presentato con una delle rappresentanti più famose dell’arte delle orecchiette fatte in casa, Nunzia Caputo, che da anni impasta farina a Bari vecchia, deliziando turisti e residenti. Nunzia è stata accompagnata dal sindaco di Bari, Antonio Decaro e da Nancy Dell’Olio, ambasciatrice della Puglia nel mondo. “È stata un’esperienza irripetibile a New York. Non è stato il primo viaggio che ho fatto, sono stata a Varsavia, a Milano, ma questo viaggio è stato diverso. Sono stata lì 4 giorni” ha dichiarato Nunzia. Poi continua: “I turisti erano stupiti, perché non era una macchina a lavorare, ma erano le mani di una persona. La pasta veniva fuori da lì. Erano meravigliati, molti di loro non avevano mai avuto modo di vedere le orecchiette fatte così, in maniera naturale. La manualità del lavoro oggi lascia a bocca aperta”. La storia di Nunzia, simile a quella di tante

donne che sono nate e cresciute a Bari vecchia, rappresenta la tradizione e il fascino del passato: “Il primo ricordo che ho delle orecchiette mi riporta a quando avevo 5-6 anni. Io che piangevo perché mia nonna mi obbligava a imparare a farle. Avevo un papà che navigava, era un marinaio, quindi l’educazione veniva tutta da mia nonna materna Nardina (Leonarda). Io volevo uscire per giocare. Questa per noi non era una semplice strada, per i bambini del quartiere queste strade rappresentavano la vita, lo svago: erano parco giochi, giardini, erano tutto. Le case di Bari vecchia, i cosiddetti “sottani” non hanno balconi, sono ciechi, quindi la vita era tutta fuori l’uscio della porta. Oggi invece la vita è tutta dentro le mura di casa, sui telefonini”. Le fa eco la madre, la signora Franca, 88 anni, che ammette di essere stata la prima pastaia di orecchiette nel famoso Arco Basso (U’Arc Vasc) del Borgo Antico: “Imparare a fare le orecchiette richiede tanta pazienza, cosa che oggi non si ha. Si va tutti di fretta, si sta tutti su internet, non si ha più tempo di esercitarsi e di imparare i mestieri che le mamme e le nonne vorrebbero e potrebbero insegnare”. Se non avesse fatto questo mestiere, Nunzia avrebbe continuato a studiare, avrebbe frequentato l’università, ma non le è stato permesso. Ha continuato a fare un lavoro umile e oggi è comunque soddisfatta: “Nel mio


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piccolo ho fatto quello che volevo e sono riuscita a crescere i figli e i nipoti facendo le orecchiette”. Ma con le sue mani, la signora Caputo ha fatto crescere anche la città. Mentre racconta vari aneddoti, in casa di Nunzia entrano decine di ospiti (tra cui attrici baresi o l’ex prefetto di Pescara). Come confermano i suoi figli, ogni giorno a Bari arrivano almeno due navi di turisti. Si tratta di quasi 10mila persone al giorno. Poi con ironia Nunzia ammette: “Ora arriverà anche papa Francesco, se dovesse passare da qui, mi piacerebbe abbracciarlo. Sarebbe il massimo poter incontrare una Santità”. Nunzia lancia un messaggio ai giovani: “Tenete duro ragazzi, bisogna essere tecnologici ma anche manuali! Io non vi critico perché so che la tecnologia è utile, però non dimentichiamo da dove veniamo. La pasta fatta in casa è la nostra identità!”. Se il lavoro comincia ad essere robotizzato, il rischio è quello di sradicare certe tradizioni e i valori di un tempo. La signora Nunzia continua anche la sua battaglia per promuovere corsi per imparare a fare le orecchiette: ha proposto di fare lezioni nelle scuole (anche se ci sono molti ostacoli burocratici) e nelle parrocchie. Ha consigliato a Don Franco Lanzolla, parroco della Cattedrale di Bari, di dare questo tipo di insegnamento ai ragazzi. “Ci sono tante catechiste che sanno fare le orecchiette, si potrebbero togliere tanti ragazzi dalla strada. I bambini sono attratti da

queste attività, si fermano a guardare con curiosità quello che facciamo”. Nunzia alla fine fa un elogio al sindaco Antonio Decaro: “Si rivolge a tutti senza assumere un tono istituzionale, è uno di noi. A New York mi faceva intervenire e dialogare con le persone. Diceva: “Nunzia spiega alle persone come si fa” e io rispondevo: “Lo posso dire Anto’? S fasc’n cu disct ‘n gul” (“Con un dito nel sedere”: tecnica con la quale si forma l’orecchietta, la si fa rigirare sul pollice della mano sinistra). Michela Lopez

MANI IN PASTA Nunzia Caputo, famosa pastaia di Bari Vecchia, mentre prepara orecchiette di ogni dimensione e di ogni tipo

Le linee guida

Bisogna farle in regola...

La giunta regionale pugliese ha approvato la normativa sull'igiene degli alimenti prodotti in abitazioni private, regolamentando il settore dell’"Home Food”. Il sistema di preparazione e vendita di orecchiette al pubblico, viola alcune leggi, fra cui quella della tracciabilità dei prodotti. La Regione ha sottolineato infatti che “sebbene si tratti di quantità non elevate, la mancata applicazione della normativa comunitaria e nazionale sulla sicurezza alimentare può costituire un problema di salute pubblica non trascurabile”. Quindi tra le linee guida c’è il controllo delle condizioni d’igiene dei locali dell’impresa alimentare (cucina, bagno, dispensa), delle attrezzature utilizzate per la preparazione degli alimenti (elettrodomestici, frigorifero, forno, posate, stoviglie) e naturalmente, lo stato degli alimenti (conservazione, scadenze). L’igiene e la sicurezza devono essere garantite anche quando non è in corso la preparazione della pasta. 1-14 febbraio 2020

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Videogiocare con le “maid”: stile e senza pregiudizi

Il canale Youtube “Parliamo di Videogiochi” ha sede a Bari e 460 mila iscritti. Siamo stati nei nuovi studi per sentire lo youtuber Francesco Miceli

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FRAWS Così è noto su YouTube il barese Francesco Miceli, in “Pdv” dal dicembre 2009, quando ha iniziato da redattore

Parliamo correttamente… di videogiochi. È il titolo di una delle rubriche dei primi anni del canale YouTube, è rappresenta anche l’obiettivo di “Parliamo di Videogiochi”, gestito dal barese Francesco Miceli, conosciuto sul web anche come “Fraws”. Lo abbiamo incontrato nel suo studio, nonché sede di “Pdv”, nel centro di Bari. Si è trasferito da pochi mesi, ancora non è tutto in ordine, però non mancano gli spazi dedicati al gaming, dal cabinato di Dance Dance Revolution (gioco musicale in cui i pulsanti si de-

Il territorio

Spazio agli sviluppatori pugliesi

“Parliamo di Videogiochi” concede un ampio spazio ai progetti indipendenti italiani, con un’attenzione particolare a quello che succede sul territorio pugliese. Ha raccontato, ad esempio, la prima stanza VR d’Italia (in cui in un grande camerone vuoto di 400 metri quadri si può giocare muovendosi in un mondo virtuale visto attraverso i caschi VR), sviluppata dai ragazzi del team di sviluppo Portal VR a Barletta. “Molti sono rimasti sorpresi sul perché non si trovi a Milano. Questo mi ha divertito tantissimo. Ci sono stati tantissimi commenti di persone incredule del fatto che non sia a Milano, neanche a Roma, ma che sia nella Bat” ci dice Francesco Miceli, gestore del canale YouTube di “Pdv”. Il settore di sviluppo di giochi indipendenti, costituito spesso da ragazzi con pochi mezzi economici ma idee e passione, è in salute in Puglia, “Qui a Bari e provincia abbiamo tantissime software house molto interessanti che non tutti conoscono, ma ci sono e lavorano bene”, dichiara Miceli. L’importante è avere l’idea, “Minecraft” insegna. 1-14 febbraio 2020

vono premere con i piedi a ritmo di musica) alla sala per i giochi da tavolo. “Parliamo di Videogiochi” è nato nel 2010 come supporto all’omonimo sito fondato nel 2008. Francesco ha iniziato come redattore, nel 2009, e proprio da una sua proposta è nato il canale YouTube dedicato, diventato più seguito dello stesso portale web. Dal 2011 Francesco è proprietario, oltre che del canale, anche del sito. Il canale vuole raccontare l’universo videoludico in modo serio e completo, in tutte le sue sfaccettature. È una maniera diversa di trattare l’argomento, soprattutto rispetto ai canali più famosi in cui, spesso, si cercano più il sensazionalismo e lo scontro tra youtuber che la qualità. “Io mi reputo una persona tranquilla, non ho bisogno di urlare e fare cose strane per risaltare - dice Francesco - cerco sempre di mostrarmi come sono e trasmettere le cose che mi piacciono nella maniera più genuina, senza ricorrere a mezzucci o clickbait. Bisogna rimane coerenti con ciò che si fa – continua – e farlo nel modo migliore possibile”. Non può, però, mancare l’ironia e l’argomento deve essere affrontato in modo “professionale, ma nel contempo anche con una chiave comica”. Alcune delle rubriche più famose, chiamate Giochi brutti, Giochi di pessimo gusto e Giochi what a f*ck, rappresentano proprio questa doppia anima del canale. Non mancano poi le recensioni, le riflessioni, i video sulla storia del video-


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Le novità

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gioco e quelli sulle componenti tecniche (su questo Francesco ha aperto, nel 2019, un canale dedicato: Parliamo di Hardware). “Parliamo di Videogiochi” è famoso per essere stato tra i primi canali a trattare gli “eroge”, (dal giapponese erochikku gemu), ovvero giochi con contenuti pornografici, e gli “ecchi” (spinti ma basati più su allusioni), provenienti dal Sol Levante. Senran Kagura, Gun Gun Pixies, Gal Gun e Custom Maid 3D sono solo alcuni dei titoli analizzati. L’ultimo consente di creare e personalizzare nei minimi dettagli le proprie “maid”, e può essere utilizzato anche con uno speciale controller, il Chu-b Lip, nel quale si deve inserire il pene per giocare. Secondo Francesco non ci devono essere discriminazioni di sorta: “È pur sempre un genere di videogiochi, che rende come gli altri e alcune volte anche di più. Ho cercato di approcciarli sempre nella maniera più tranquilla ed educata possibile per poterli mostrare in maniera non volgare, alludendo soltanto”. Questi giochi sono tabù perché è un tabù parlare di sesso, e, in Italia, il videogioco è “associato al bambino, e non a mezzi come film o libri che possono essere apprezzati da tutti, adulti e giovani. Quindi sesso e violenza devono rimanerne fuori”. Tuttavia, chi si approccia adesso al videogioco ha una mentalità più aperta e questi pregiudizi si stanno, piano piano, erodendo. Ma come mai questi giochi vengono dal Giappone? Non perché il sesso sia meno tabù, ma perché là, a detta di Francesco, “se resta nel virtuale va bene. Fino a quando determinate cose le sfoghi nel videogioco eviti di farlo in altri modi. Essendoci un approccio diverso, si vedono le cose per quello che sono e non per cosa rappresentano”. Eppure, nonostante una mentalità più aperta, la censura, nei giochi giapponesi, è obbligatoria e sono i “modders” (chi pratica modding: il creare o modificare elementi di un gioco) a rimuoverla dagli eroge. Il rapporto di Parliamo di Videogiochi con il Giappone, al di là di tutto, è forte. A tal punto che, da quattro anni, il canale orga-

nizza un viaggio in terra nipponica, a settembre in occasione del Tokyo Game Show, uno degli appuntamenti a tema più importanti del Paese. “Molta dell’utenza che segue “Parliamo di Videogiochi” è legata ai prodotti giapponesi – dichiara Francesco -. Dall’esterno può sembrare assurdo fare un viaggio a tema videogiochi, ma essendoci un approccio diverso a questa cultura è sempre qualcosa di particolare. E poi è sempre andata molto bene, abbiamo fatto tutto esaurito a prescindere dagli slot che mettiamo a disposizione”. (Luigi Bussu)

PIZZA DIAVOLA È la “maid” ufficiale del canale di “Parliamo di Videogiochi”. Creata sul gioco giapponese Custom Maid 3D

Dalla realtà virtuale al gioco in streaming

Che futuro per e-sport e gaming? Al quartier generale di “Parliamo di Videogiochi” abbiamo fatto due chiacchere su questi argomenti con Francesco Miceli, tra i fondatori del team di e-sport Racoon. Gli e-sport sono i tornei sui videogiochi, in cui ci si sfida su piattaforme virtuali (pc, console, simulatori). C’è la possibilità che arrivino alle Olimpiadi, a esclusione, però, di quelli in cui è prevista “l’uccisione” dell’avversario. “Per me è sbagliata come cosa – sostiene Francesco - anche se è vero che non tutti i giochi sono adatti all’e-sport, come i battle royal (sopravvivenza di tutti contro tutti), dove ci sono troppe variabili per essere standardizzate”. Il caso, dunque, sarebbe eccessivo, come se si giocasse a uno sport ma con regole diverse a ogni partita. Ma ad esempio in Counter Strike, sparatutto in prima persona tattico, anche se si spara “ci sono delle mappe omogenee, delle regole, degli standard interni e dovrebbe considerarsi e-sport”. E i caschi per la realtà virtuale VR? Sono pochi quelli che possono permettersi gli spazi e una macchina abbastanza potente per supportarli. Un fallimento dunque? Secondo Francesco no, “anche se è vero che non tutti possono permettersi i mezzi e dedicarci una stanza, uno gioca in maniera tradizionale e ha risolto. Il VR ha trovato più utilizzi in altri campi, ad esempio la medicina e l’architettura”. Il futuro potrebbe essere il cloud gaming, ovvero il giocare in streaming eliminando la necessità di avere hardware, come una console, diversi da uno schermo e un controller. Per Miceli “sì, con le linee attuali si riesce a giocare bene, ma con un incremento della tecnologia potrebbe andare meglio. In fondo, sembravano qualcosa di futuristico, all’epoca, anche l’Adsl e gli streaming video”. 1-14 febbraio 2020

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‘Sup’ per l’ambiente quando lo sport agita le coscienze

Per contrastare l’inquinamento delle acque di Bari, le associazioni sportive del territorio organizzano eventi funzionali alla raccolta della plastica dal mare

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STAND UP PADDLE Monica Lippolis (47 anni) durante un’uscita con il Sup nella zona costiera del Molo di Bari

“Non abbiamo un piano B, perché non abbiamo un pianeta B”, figuriamoci i tempi supplementari. La frase, ormai celebre, del Segretario delle Nazioni Unite, Ban Kimoon, ha fatto il giro del mondo, segnando “a porta vuota” nelle coscienze di adulti e ragazzi. Anzi, specialmente nei più giovani che l’hanno capito bene: questa non è una partita, non si vince nulla, ma c’è tanto da perdere. È dal 2015, infatti, che in corrispondenza con la prima Conferenza sul clima a Parigi,

Personaggio dell’anno

Greta Thunberg

Fonte di ispirazione per molti, l’attivista svedese Greta Thunberg, è riuscita a diseppellire un importante tema d’interesse globale, a soli 16 anni. Tutto è iniziato nel 2018, quando la ragazzina ha deciso di saltare la scuola per scioperare, restando seduta difronte al parlamento del suo paese, con un cartellone e una sola scritta: “Sciopero della scuola per il clima”. Il suo obiettivo era quello di spingere il governo svedese a ridurre le emissioni di anidride carbonica, come previsto dall’accordo di Parigi sul cambiamento climatico, a fronte delle ondate di calore e degli incendi boschivi che hanno colpito Stoccolma durante l’estate. Ha continuato poi a manifestare ogni venerdì, lanciando il movimento studentesco “Fridays for Future”. Un fenomeno che ha inevitabilmente attirato l’attenzione dei media di diverse nazioni e che, di conseguenza, ha suscitato la voglia di reagire tra le diverse organizzazioni di altri paesi, tra cui l’Italia. 1-14 febbraio 2020

milioni di studenti di tutto il mondo hanno deciso di reagire all’inevitabile degrado ambientale, formando una squadra che giocasse unita contro il riscaldamento globale e il cambiamento climatico. La Terra può e deve essere salvata. È vero, non c’è molto tempo e quello che resta è poco. Però sì, è possibile aiutare il nostro pianeta, anche facendo sport. A Bari, ormai da anni, molte associazioni locali organizzano eventi particolarmente attenti alla tutela del mare, che puntano alla sensibilizzazione cittadina sulle tematiche ambientali, attraverso la pratica di alcune attività sportive come le “uscite” in Sup (lo stand up paddle, che utilizza una particolare tavola da surf, anche gonfiabile, e una pagaia per la propulsione). GreenRope, ad esempio, è un’organizzazione pugliese composta da un gruppo di ragazzi, nata nel 2013 da un progetto Erasmus Plus for Youth, che ha a cuore le tematiche ambientali. I progetti dell’associazione riguardano la conservazione e la valorizzazione del territorio, anche attraverso la pratica sportiva. “Abbiamo realizzato uno scambio interculturale in Puglia sul tema dell’educazione ambientale, in cui circa una trentina di giovani provenienti da più Paesi Europei hanno vissuto un’esperienza di vita e formativa unica, che ha cambiato loro e noi”, ha detto Stefano Bellomo, fondatore dell’associa-


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zione. È importante, secondo Stefano, creare una connessione tra sport e natura: “Invogliare più persone a praticare sport outdoor, porta sempre più persone a mantenere il contatto con la natura e, quindi, a innamorarsi di essa. La conseguenza è che si crea, così, un pubblico sempre più vasto di persone appassionate di Madre Natura e noi tendiamo a difendere solo ciò a cui teniamo”. A questo proposito, tra le tante iniziative pensate per l’associazione, Stefano ha organizzato il “Dolphin Sup Fest”: un evento previsto per settembre, in cui si alterneranno attività di Paddle Surf all’educazione ambientale per grandi e piccoli. Inoltre ci sarà la possibilità di poter ammirare delfini e balene in mare con il programma “ricercatori per un giorno” (un progetto della “Jonian Dolphin Conservation” di Taranto), che consente a chiunque ne abbia voglia, di poter trascorrere una giornata a bordo di un catamarano di ricerca, per identificare, fotografare e ascoltare i delfini. Anche “Big Eye”, una scuola di stand up paddle di Bari, cavalca l’onda della sensibilizzazione ambientale, organizzando uscite sportive con l’intento di ripulire il mare dai rifiuti. Lo sport, quindi, utilizzato come strumento di formazione psicofisica dell’individuo, dei giovani e dei bambini. Anna Occhiogrosso, presidente della scuola, insieme ad altre organizzazioni come: Retake,

Greenpeace, Motus Project, Decathlon, Amiu, Club Sommozzatori Bari e Pattinatori Bari, si impegnano a trascorrere la domenica mattina a liberare il mare dalla plastica. Tra i volontari, Monica Lippolis, che crede fermamente nell’utilità di questi eventi: “Mi piace l’idea di vivere Bari anche dall’altra parte. Amo l’acqua, lo sport e la mia città. Fare questo genere di attività è un modo per appropriarmi di Bari in tutti i suoi spazi”. Marìcla Pastore

GREENROPE L’associazione che coinvolge i giovani pugliesi nelle attività dedite alla tutela ambientale

Decarbonizzazione

Ambiente digitale: l’UE a favore

Prendersi cura dell’ambiente nell’era digitale, è possibile. Il Green Deal dell’Unione Europea ha bisogno di “digitalizzazione come fattore abilitante per la decarbonizzazione” (un tema molto caro ai giovani attivisti del “Friday For Future”) in tutti i settori dell’economia, compresi i trasporti e l’energia, ha affermato la Commissione europea in un documento politico. Le tecnologie digitali possono supportare politiche ambientali come rifiuti e riciclaggio. Potrebbero persino aiutare l’Europa a ridurre più emissioni di CO2 di quelle che emette. L'Europa prevede di sfruttare il "potere dei dati" a sostegno del Green Deal. Per quanto riguarda i trasporti, propone di istituire “corridoi 5G” per la mobilità connessa e automatizzata da implementare nel 20212027. 1-14 febbraio 2020

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