Orfeo, la ninfa Siringa e le percussioni pazze dei Coribanti

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Franco Lorenzoni

orfeo la ninfa siringa e le percussioni pazze dei coribanti Tre miti sull’origine della musica

Illustrazioni Federico Maggioni Introduzione Andrea Satta

Il Quaderno quadrone



Franco Lorenzoni

orfeo la ninfa siringa e le percussioni pazze dei coribanti Tre miti sull’origine della musica

Illustrazioni Federico Maggioni Introduzione Andrea Satta


dirotta su Giove Giove è un piccolo paese dell'Umbria. A Giove fa scuola un marziano, il maestro elementare Franco Lorenzoni. Mi ha invitato nella sua classe, la quarta, e sono andato. Mi aprono le bidelle, il maestro è accucciato accanto a Peter, insieme stanno facendo dei buchi su piccoli pezzi di legno. Piccoli misteriosi segmenti. Peter è appena arrivato dal Sudan e, anche se ha il padre italiano, per ora parla solo arabo e inglese: «Attento qua, reggi qui, spingi che ce l'abbiamo fatta!». Franco mi presenta e l’aula si presenta a me. È confusionaria e creativa, quindi intelligente. Campeggia sull’ultima parete una grande carta geografica dell'Africa con il Mediterraneo in testa. Le sedie hanno una zampa ficcata in una palla da tennis verde, è la soluzione al rumore, inevitabile con i ragazzi sempre in movimento. Sedie silenziate con questo lavoretto artigianale degli alunni. La sfera verde e pelosetta accoglie il ferro della sedia e la parte rimasta intatta della palletta da tennis scivola dolcemente sul pavimento. Geniale. Dico le mie cose, da spettinato pediatra, senza svelarmi troppo. Racconto una favola che fa ridere. Franco fa un bel gioco: «Che lavoro fa questo strano tipo?». Un bambino, dopo mille tentativi e incoraggiato da chissà quale indizio, spara: «ll consulente di cicogne!». «Esatto!» dico io. Poi è il momento dei piccoli segmenti di legno. I bambini li uniscono con delle viti e delle farfalline di metallo, avvitano, stringono, e stimolati dal maestro artigiano disegnano il triangolo, il quadrato, l'esagono, s’ingegnano su quale sia la superficie più grande che si può ottenere maneggiando sul mattonato dodici listarelle di legno. Stanno cercando la risposta a Didone. Sono settimane che ragionano su come e perché Didone abbia potuto costruire la più grande città della storia antica, Cartagine, avendo a disposizione soltanto la pelle di un toro. Didone ebbe un'idea fantastica: prese quella pelle e la tagliò in sottilissime striscioline. Il re le aveva consegnato solo quella pelle di toro e là sopra, certo, niente ci si sarebbe potuto costruire, ma un’anima può avere uno spazio infinito se lo sai cercare. Anche i bambini hanno preso una stoffa grande come la pelle di un toro e l'hanno tagliata a striscioline, talmente sottili che la settimana scorsa sono riusciti tutti insieme a circondare, con quelle striscioline di stoffa, il campo da calcio di Giove. Abbiamo fatto tutto questo seduti, in cerchio. Eravamo nell'aula di una scuola di questa nostra Italia che ha paesi che sono pianeti e maestri che sono marziani come il maestro Franco. Ad ogni lato corrisponde un angolo, in una figura geometrica chiusa. In ogni uomo batte un cuore, è una legge della fisica.

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Come sono grandi i pensieri dei ragazzi della quarta elementare. Basta cercarli. Me ne torno a casa pensando a questa straordinaria mattinata e a Franco, un grande maestro, e non c'è immagine più necessaria che questa. Si scrive fra le prime la parola maestro. È un primo volo fuori dal garantito, il maestro, se l'amore a casa c'è. Spesso è l'amore che resta e che ti porti nel tempo. Franco ha un modo di ricevere e di trasmettere se stesso, di imparare dai bambini quello che la vita un po’ alla volta sottrae, di non perdere il gusto della scoperta, la capacità di meravigliarsi, di stupire, il senso del gioco. In questa opportunità si tuffa in aula ogni giorno, l'ho visto. Così, nella sua piccola scuola, quando Franco prende dei pezzettini di legno fa sociologia e antropologia; quando assembla i pezzi fa applicazioni tecniche. Quando conta con Peter i pezzetti di legno preparati fa aritmetica, se racconta che devono essere dodici i legnetti, ciascuno con due buchi e li propone alla classe ottenendo che vengano sistemati sul pavimento esercita ruolo e autorità, e con tutti i bambini seduti a terra fa psicologia della relazione costruendo comunità. Quando suggerisce che vengano disegnati sul pavimento dei poligoni, sempre con quei pezzettini di legno, Franco insegna geometria e quando accetta risposte fantasiose e creative fa poesia. Tutto finisce nella poesia, anche il pezzettino di pizza che la signora del bar gli mette da parte (chissà ormai da quanto tempo, a cinquanta centesimi a mattina), fuori dall'arco del piccolo borgo di Giove. Poi mi leggo di miti e storie e la fantasia si libera e i lettori possono andare per le loro strade e immaginare trasformazioni irreali, evoluzioni e coraggiose soluzioni. Le coraggiose soluzioni vengono da qui, dal tempo perso, dal tempo del gioco, dal suggerimento e non dalla regola imposta, dalla condivisione e dalla carezza, dall'insegnamento. Vengono dall’amore e l’amore è tempo dedicato e attenzione. Ve lo dicevo: guardiamoci attorno, questo nostro paese ha tesori nascosti, ricchi sia della base tecnica dell'impostazione didattica, sia della passione che consente di avvicinarci ad ogni essere umano con un linguaggio appropriato e personale, oltre il protocollo e la serializzazione. È questa una suggestione importante e utile anche nel mio lavoro di pediatra. C’è un’intesa specifica per ognuno. Stiamo accettando una semplificazione troppo pericolosa, nella scuola, in molti altri campi (io potrei dire nella pediatria), e dobbiamo invece essere più coraggiosi nelle scelte e nelle soluzioni, più innamorati negli sguardi, più tecnici nella qualità delle risposte, più unici nella dedica personale. Dobbiamo recuperare il valore delle differenze, rischiare l'intesa che non è prevedibile, avere la capacità di non indossare divise e autotutele. Franco è già molto avanti e ora ci leggiamo le sue leggende e i suoi miti. 3

Andrea Satta


a Nina, Emma e Giona a Tommaso che suona a Lorenzo che balla e naturalmente al piccolo Orfeo


il canto di Orfeo

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el tempo lontano in cui le cose nel mondo si andavano formando accadde un fatto strano, molto strano. Un bambino, appena uscito dalla pancia della mamma, invece di piangere e urlare, fin dal suo primo respiro cominciò a cantare. Cantava in un modo così particolare che gli uccelli che volavano lì intorno si appollaiarono al bordo della sua culla e si misero ad ascoltare. C’è chi dice che fu allora che gli uccelli cominciarono a cantare, imitando quel neonato dalla voce piena di melodia, e chi sostiene invece che fu Orfeo che imparò a cantare intrecciando la sua voce ai gorgheggi di tutti quegli uccelli arrivati dal cielo. Orfeo cantava così bene che, quando cominciò a crescere e a camminare, era sempre circondato da ogni sorta di animali e da ragazze e ragazzi, che lo seguivano ovunque per ascoltare la sua voce. Raccontano che quando passeggiava lungo il mare anche i pesci saltavano fuori dall’acqua per ascoltare il suo canto. Persino gli alberi, commossi da quel suono, si sollevavano da terra di nascosto e la notte lo seguivano camminando silenziosamente sulle punte delle loro radici. Alcuni dicono che persino i sassi e le montagne si muovevano piano piano per seguirlo, e questo deve essere vero perché la regione della Grecia in cui viveva, che si chiama Tessaglia, ancora adesso è piena di alberi e montagne.

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Quando crebbe e si fece ragazzetto, Orfeo si innamorò di una ragazza di nome Euridice. Euridice aveva lo sguardo dolce ed era esile e leggera. Quando correva verso Orfeo sembrava volasse come gli uccelli che lo seguivano da quando era nato.






Orfeo cominciò a cantare il suo amore in modo così struggente, così coinvolgente, che donne e fringuelli, asini e gazze, cervi e tartarughe, insieme a vecchi contadini, scoiattoli, ghepardi, serpenti e pastori con le loro greggi lo seguivano per godere del suo canto, accompagnati a volte da qualche nube, che si srotolava nel cielo per bagnare di pioggia sottile quello strano corteo. Il canto di Orfeo innamorato era così appassionato e pieno di armonia da infondere buon umore in chi lo ascoltava. Come la brezza di vento frizzante che viene dal mare al mattino, la sua musica spirava con forza e faceva ridere e piangere e danzare tutti la danza del suo amore. Euridice era felice di tanta espansione contagiosa di allegria, ma un pomeriggio d’autunno, mentre lo seguiva, incrociò lo sguardo di un ragazzo che si rattristò al passaggio di Orfeo. Vedere quel ragazzo rabbuiarsi e fremere di rabbia dispiacque a Euridice, che era molto sensibile e desiderava che nessuno soffrisse. Il ragazzo si chiamava Aristeo ed era innamorato anche lui di Euridice.

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Non poteva tollerare l’amore e la gioia che circondava il suo rivale, tanto che una notte, morso da una gelosia che non lo faceva respirare, decise di rapirla. Così si appostò vicino alla sua casa e attese tutta la notte che Euridice uscisse. Sentendo rumori insoliti fuori dalla porta, prima dell’alba Euridice uscì a guardare chi c’era. Ma come si accorse che Aristeo era lì appostato con l’intenzione di afferrarla e prenderla con sé, cominciò a scappare, correndo a perdifiato. Euridice, pur esile nel corpo, aveva una forza straordinaria e un carattere deciso. Non sopportava che qualcuno potesse decidere per lei. Continuò così a precipitarsi nel fitto del bosco che circondava la sua casa e riuscì ben presto a seminare Aristeo. Nel correre veloce in quell’oscurità, non si accorse però di un serpente che le attraversava la strada così lo calpestò. Il serpente la morse e, poiché era molto velenoso, in pochi minuti lei morì. La notizia della morte di Euridice volò rapidamente di bocca in bocca e, prima che sorgesse il sole, arrivò alle orecchie di Orfeo. Come il ciclone che giunge dal mare abbatte e devasta alberi e costruzioni sulla costa, così il dolore per la morte di Euridice investì Orfeo, sconvolgendo ogni suo pensiero. Orfeo si sentì perso e cominciò a vagare senza una meta. Non riconosceva gli alberi, le colline, il paese che aveva abitato fino ad allora. Non riconosceva la luce che, filtrando e muovendosi attraverso le foglie, lo aveva sempre ispirato. Non riconosceva se stesso, il suo corpo e i sentimenti che gli trapassavano il cuore. E poiché non conosceva altro modo di reagire, Orfeo cominciò a cantare. Ma ora il canto di Orfeo era così disperato e struggente che donne e uomini e animali di ogni sorta, giunti da lontano ad ascoltare la sua musica, si rattristarono così tanto da non voler più vivere. Gli animali della selva rinunciarono ad accoppiarsi e coniglie e cavalle non diedero più alla luce i loro piccoli. Persino l’erba, così verde al suo


primo spuntare, incupita dall’ascolto del canto disperato di Orfeo, si rifiutava di sbucare dalla terra. Il mondo entrò in un inverno senza fine e preoccupò gli dei che abitavano il monte Olimpo. Bisogna fare qualcosa, si dissero, e così Orfeo fu raggiunto in sogno da una voce che gli proponeva un’impresa inaudita, mai concessa ad alcun uomo prima di lui. Avrebbe dovuto esplorare il limitare del bosco e cercare il pertugio che gli permettesse di penetrare nel mondo dei morti. L’idea di poter rivedere e riportare in vita Euridice fece ritrovare ad Orfeo la fiducia che sempre l’aveva animato. Svegliatosi nel mezzo della notte, si mise in cammino e cominciò a cercare senza sosta. Dopo nove giorni, finalmente, all’ora del tramonto Orfeo trovò un anfratto, che nascondeva il passaggio che collegava il mondo dei vivi al mondo dei morti. Vi si infilò senza esitare ma, appena entrato in quel mondo di tenebre, fu colto da paura e spavento. Tutti gli uomini varcano infatti quel confine al termine della vita, ma nessuno è mai tornato indietro dal misterioso mondo dei morti. Il grande amore che provava per Euridice spinse Orfeo a procedere in quell’oscurità e, per farsi coraggio, fece la cosa che meglio sapeva fare: cominciò a cantare. Cantò con voce spezzata il suo terrore insieme alla speranza più audace, in una tensione che donava al fiato del suo respiro una sonorità che riempiva e faceva vibrare ogni spazio. Se ne accorsero le anime dei morti che vagavano in quel mondo scuro, abitato da soli suoni. Se ne accorsero e si stupirono e si rallegrarono, perché mai avevano udito note così cariche di paura e desiderio uniti insieme, che davano alla voce di Orfeo profondità e risonanze mai udite prima. Lo aiutarono così a scendere sempre più giù, nelle viscere della Terra, accompagnandolo come il vento che si fa suono infilandosi tra le rocce.

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Mentre accelerava il passo scendendo, a un tratto Orfeo ascoltò una voce che gli diceva: “Puoi prendere e riportare con te Euridice, Orfeo, ma stai attento: non devi mai voltarti a guardarla prima di uscire dall’oscurità del nostro mondo”. Orfeo era così desideroso di ritrovare la sua amata che non diede peso alle parole che gli aveva sussurrato Persefone, la giovane regina del mondo dei morti. Affrettò dunque il passo tenendo le mani avanti, per cercare di orientarsi in quelle grotte senza fine, di cui intuiva le forme solo ascoltando l’eco del proprio canto. A un tratto la sua mano incontrò un’altra mano. Era sottile, con le dita affusolate, e al primo sfiorarla un brivido attraversò tutto il corpo di Orfeo come una scossa. Riconobbe subito la mano di Euridice, che tante volte aveva sentito sulla sua pelle e accarezzato. La strinse forte e d’istinto, senza attendere un solo istante, l’afferrò e cominciò a correre indietro, risalendo insieme il cammino percorso. Più correva e più sentiva il calore di Euridice che lo accompagnava e il suo canto, che gli era stato fedele compagno in quell’incredibile viaggio, acquistò un ritmo galoppante, abbandonando asperità e dissonanze dovute alla paura. Orfeo ora cantava a piena voce la felicità dell’amore ritrovato, commuovendo ogni anima che lo ascoltava. Giunto alla fine del suo viaggio, Orfeo riconobbe il pertugio in cui si era infilato, appena illuminato da un sottile raggio di sole che bucava quell’oscurità senza fine. Allora il suo canto conobbe un volteggio inaspettato verso l’alto, quasi lo stridio di un uccello, e fu in quell’istante che Orfeo si voltò a cercare il volto di Euridice, i suoi occhi, il suo sorriso. Fu in quell’istante che il volto della sua amata, il volto che tante volte aveva sognato di rivedere, come apparve ai suoi occhi così scomparve e si dileguò, sciogliendosi e annegando nuovamente nell’immensa oscurità che Orfeo aveva appena attraversato. 13



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