Maffin e la bussola che non indica il nord

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Massimo De Nardo

Maff in

e la bussola che non indica il nord

Illustrazioni Andrea Tentori Montalto

Il Quaderno Ready Made



Massimo De Nardo

Maff in e la bussola che non indica il nord Illustrazioni

Andrea Tentori Montalto



A Chiara per molti buoni motivi



“Le storie, semplicemente, cominciano. Raramente si sa dove, e quasi mai perché. Non ha nessuna importanza. Non c’è più niente di sicuro, ormai.” Fredrik Sjöberg L’arte della fuga



Angelo Vlad guidava l’Alfa Romeo 430 biancorosso con la mano sinistra. La mano destra era sospesa sulla testa di Maffin, che dormiva. Voleva svegliarlo, perché qualcosa da mangiare bisognava pur cercarla, lungo la strada o in un paese, sebbene fosse già pomeriggio, e c’era da accontentarsi di fare merenda più che il pranzo. Poi ci ripensava e non lo svegliava. Il braccio restava sospeso, e saltellante. Le minuscole ferite sul volto davano prurito, ma Vlad sapeva che non doveva grattarsi. L’occhio destro era molto arrossato e ancora bruciava. Al Pronto soccorso gli avevano messo delle gocce e una garza incerottata. Vlad se l’era tolta appena salito sul camion. Non ci si “vedeva” con quella benda da pirata. Che già un po’ pirata dicevano che lo fosse, per il viso magro e abbronzato più dal cielo che dal mare, per le basette lunghe, i capelli tirati indietro e un po’ lunghi sul collo, gli occhi grigi come i fachiri d’O7


riente. Un bel pirata, Angelo Vlad, secco e alto, dalle spalle larghe. Però non era il caso – diceva tra sé – di aggiungere una benda marinaresca. Meglio comunque usarli tutti e due, gli occhi, anche se quello impomatato metteva sopra ad ogni immagine una sottile nebbia gelatinosa. Vlad era stato colpito al viso dalle schegge di un grosso dado penzolante nella cabina del suo camion. Centrato dalla pallottola di un fucile che un tipaccio della “gang dei ladri del tempo” gli aveva puntato contro, sparando da lontano. Era andata così: tre proiettili avevano bucato il parabrezza con traiettoria a un palmo dalla testa di Vlad. A volte è questa l’unità di misura che unisce e poi divide la vita e la morte: un palmo della mano, e neanche tanto largo. Due proiettili si erano conficcati nella lamiera del tettino, il terzo aveva centrato un dadone frantumandolo. In genere, c’è un portafortuna che dondola nella cabina di un camion. Il parabrezza, pieno di buchi triangolari e taglienti, era stato poi sostituito con un vetro un po’ più grande, tenuto fermo da abbondante mastice. Era già un fatto straordinario l’aver trovato subito un carrozziere disponibile e il parabrezza di un altro camion più o meno simile all’Alfa Romeo 430 biancorosso. Ancora più straordinario era che tutto fosse accaduto solo qualche ora prima (non più di mezza giornata), ma si aveva la sensazione che fosse trascorsa una settimana. E in una settimana ci possiamo 8


mettere un bel po’ di cose fatte e da fare. Non dite? Il tempo che si scombussola dilata sé stesso, trasforma le ore, allarga lo spazio oppure lo restringe. Insomma, una bella confusione, e allora bisogna procedere con cautela, con determinazione, con volontà. Non esistono storie che vanno dritte, lineari, in un percorso senza curve, ostacoli, impedimenti, imprevisti e contrattempi. La vita “vera, vera” è così, e i racconti, anche quelli più fantasiosi e inverosimili, in parte vogliono assomigliarle, alla vita “vera, vera”. La strada era un nastro adesivo grigio sopra un paesaggio di colline morbide, disegnate a rettangoli marroni. L’inverno aveva scavato le sue buche, rimaste così anche in primavera, e ogni tanto si sobbalzava. Tra una decina di giorni sarebbe entrata l’estate. Faceva ancora fresco. Le giornate si erano allungate e a cena sembrava di stare a pranzo, perché era pieno giorno, e anche perché a volte la stessa pastasciutta, in molte famiglie, veniva riscaldata per la sera. Ogni tanto incontravano delle auto provenienti dalla parte opposta e qualcuna sulla stessa carreggiata; quando poteva Vlad la sorpassava annunciando la manovra con un clacson gracchiante, quasi un corvo allegro. Era una strada secondaria e anche il paesaggio, comunque bello, sembrava la periferia disabitata di un altro paesaggio. Vlad era abituato ad attraversare spazi ancora più vuoti. Martino (detto Maffin) dormiva appoggiato al cor9


po di un border collie, che se ne stava scomodamente rannicchiato sul sedile. Restavano una trentina di chilometri e finalmente sarebbero arrivati a casa della zia di Maffin, la signora Elga Torren. Maffin avrebbe trascorso dalla zia Elga i prossimi cinque anni. Il tempo necessario per frequentare una scuola superiore, ancora da decidere quale. Nei cinque anni precedenti era stato con la zia Emma (quarta e quinta elementare, prima, seconda e terza media, il tempo si conta anche con le classi che abbiamo frequentato). Dal momento che questo è l’inizio di una storia, è probabile che non sia così facile e veloce arrivarci – nella distanza di poche pagine – a casa della zia Elga, che aspettava Maffin già da qualche giorno. Non vedendolo arrivare si era preoccupata davvero tanto, com’era nel suo modo di fare. Preoccuparsi troppo di tutto. Poi, quella stessa mattina, era stata avvisata del ritardo, causa “tempo che si era scombussolato”, e il sospiro di sollievo – pur non capendo cosa fosse sul serio accaduto – era stato un lungo soffio che aveva spostato dei pezzettini di carta sopra la sua piccola scrivania. Faceva la maestra elementare, e su quella scrivania correggeva una quantità di compiti di italiano. Il suo tempo era dedicato a quei bambini che erano ancora bambini ed era stato dedicato a quei bambini che oggi sono diventati dei giovanotti, non tutti felici, non tutti disgraziati. La scrivania era sempre occupata da fogli, matite colorate, temperini, gomme per cancellare e fazzoletti di cotone. La zia 10


Elga usava con frequenza il fazzoletto, ma invece di soffiare tirava su. Un piccolo tic, e ogni volta sembrava che stesse piangendo. Era la seconda volta che la zia Elga si prendeva cura di Maffin. Le due sorelle Torren se lo dividevano amorevolmente, quel mingherlino senza genitori, e chissà se era davvero un loro nipote. Maffin si era addormentato quasi subito, appena lasciata la fabbrica di orologi solari di Michele Krons, a Villad’aria, paese con l’apostrofo. La stanchezza, e forse qualche linea di febbre. Uno straccio, il nostro Martino detto Maffin. Però aveva portato a termine il suo compito, come promesso al signor Gen, l’orologiaio: riconsegnare al suo proprietario, Michele Krons, uno strambo orologio di legno, che il signor Gen aveva riparato. Tutto era stato così incredibile, e anche pericoloso: Angelo Vlad, detto Radar, camionista, incontrato per caso, che si era preso cura di Maffin e ora lo stava accompagnando dalla zia Elga. Per un paio d’ore erano stati costretti a separarsi, Vlad ferito e Maffin che aveva poi raggiunto Villad’aria facendo di corsa un paio di chilometri, con addosso ancora un cappottino ormai fuori stagione (le zie, si sa, hanno sempre paura che i nipoti prendano il raffreddore, perché di sera rinfresca, anche a primavera inoltrata) e poi in auto con Manieri detto Man, ammaestratore di animali per il cinema, che gli aveva offerto un passaggio, 11


e l’affettuoso border collie (del gruppo di Manieri), in cabina a far loro compagnia, ma poi sarebbe sceso, con qualche bau malinconico, e le tre aquilotte reali (sempre del gruppo Manieri), che avevano protetto Maffin, di cui una purtroppo aveva lasciato per sempre il suo volo magnifico, colpita al petto dal fucile di uno della “gang dei ladri del tempo”, e il signor Manieri detto Man, che su preghiera dell’orologiaio Gen aveva fatto correre il border collie e fatto volare le tre aquile per difendere Maffin, e la piccola Nelly e sua mamma, la signora Ros, guardiana di un faro e anche pittrice del mare e amica di vecchia data del signor Gen, arrivate a Villad’aria per accogliere Maffin e accompagnarlo dal signor Krons, e il signor Michele Krons, proprietario di quello strambo orologio che non doveva andare né avanti né indietro, e tanto meno fermarsi. Invece si era fermato e quando ticchettava era andato un po’ avanti e un po’ indietro, scombussolando tempo e luoghi. Però, carissime lettrici e carissimi lettori, bisogna mettere a posto l’inizio di questa nostra seconda storia. Se avete letto il primo libro (che si intitola semplicemente Maffin) conoscete già i personaggi e tutto il resto. Se invece non lo conoscete, cercherò di spiegarvi cosa è accaduto. Un po’ alla volta, per non essere frettolosi. Ogni tanto, girerò le pagine di questo racconto e tornerò indietro. 12


E allora riprendiamo dall’inizio: Angelo Vlad guidava l’Alfa Romeo 430 biancorosso con la mano sinistra. La mano destra era sospesa sulla testa di Maffin, che dormiva. Voleva svegliarlo, perché qualcosa da mangiare bisognava pur cercarla, lungo la strada o in un paese, sebbene fosse già pomeriggio, e c’era da accontentarsi di fare merenda più che il pranzo. Poi ci ripensava e non lo svegliava. Il braccio restava sospeso, e saltellante. La strada era un nastro adesivo grigio sopra un paesaggio di colline morbide, disegnate a rettangoli marroni. L’inverno aveva scavato le sue buche, rimaste così anche in primavera, e ogni tanto si sobbalzava. Poi, ecco pronto all’improvviso un paese da attraversare. Pontelungo. Sulla carta stradale, che Vlad controllava spesso, quel paese non era segnato. Pontelungo. Misurando le distanze, la prossima doveva essere la piccola città nella quale viveva la zia Elga: Roccalta. Che buffi, certi nomi, pensò Vlad. Si allargano, si restringono come vogliono, si mettono in orizzontale oppure in verticale. La sua carta stradale indicava anche i borghi minuscoli e quel Pontelungo, ora che lo stavano attraversando, non era poi così piccolo. Sulla carta ci sarebbe dovuto essere un cerchietto, sopra la riga rossa della strada, e il nome. Invece, niente. Pontelungo. Viene subito da pensare a un ponte che per un centinaio di 13


metri unisce due estremità, o forse due sponde se si immagina che sotto vi scorra un fiume. Ma nemmeno il fiume esisteva sulla carta stradale. Forse bisognava ingrandirla di più, quella carta, per far comparire accanto alle strade asfaltate e alle stradine bianche della campagna anche i sentieri dentro i campi che si costruiscono a forza di attraversarli a piedi. Ingrandirla a tal punto da vedere i nidi tra i rami, le tegole dei tetti, le pozzanghere lasciate dal temporale qualche giorno prima e che non si sono ancora asciugate. E già questo è un indizio, carissimi voi, per intuire la “natura” della nostra storia, che però è meglio non sottolineare, non adesso, non ancora. Pontelungo era lì, con la strada principale, la piazza, le vecchie case del centro, qualche palazzina di tre piani segmentata dai balconi con le ringhiere di ferro verde, alcune automobili che transitavano nei due sensi, un po’ di gente che pedalava con lentezza o andava a piedi, un motociclista che aspettava qualcuno, un cane che zampettava per i fatti suoi. Un posto senza il fiume e senza il ponte. Probabile che ci siano stati, secoli prima. Vlad appoggiò con delicatezza la mano destra sulla fronte di Maffin, per controllare se fosse calda di febbre, e un po’ calda ancora lo era. L’avrebbe lasciato dormire, ma il border collie inarcò un sopracciglio e poi alzò il muso e Maffin si svegliò. «Come ti senti, giovanotto? Va un po’ meglio?». Maffin disse che i brividi erano passati e toccando14


si la fronte annunciò con sollievo che non scottava più. Un po’ mentiva, ma era per non far preoccupare l’amico Vlad, che già aveva i suoi fastidi con le punzecchiature sul viso e l’occhio che faceva male. «Dove siamo?». «A Pontelungo» rispose Vlad. «Stiamo per arrivare?». «In teoria sì, in pratica non lo so. C’è solo questa strada, ma è come se avessimo preso una strada più lunga». Attraversando il paese, a non più di trenta all’ora, Maffin notò una targa di marmo, accanto al portone di un antico palazzo, con su scritto, a lettere incise, “Il museo del dopo”. «Hai visto, Vlad». E sottolineò le parole: «Il… museo… del… dopo». E sorrise, togliendosi dalla bocca un paio di peli appartenuti alla pancia del border collie. «Che posto sarà?». «Forse è il museo del futuro» ipotizzò Vlad. «Bello. Ci andiamo?». «Sicuro di star bene? Ma non hai fame?». Non era il caso di farsi troppe domande. Così Vlad disse che un posto del genere incuriosiva anche lui. Parcheggiò il camion in uno spiazzo, non distante dal museo. Probabile che fosse un museo privato, gestito dalla famiglia proprietaria del palazzo, che a calcolarne l’età dall’intonaco, dai cornicioni delle sette finestre tutte uguali e allineate al primo piano, 15


dal portone grande nero lucido e da altre piccole finestre quadrate al piano terra, poteva essere un palazzo della metà del Settecento. I nostri tre amici scesero dal camion con un leggero saltello. Maffin e il border collie da un lato, Vlad dall’altro. L’aria era ancora fresca. Se tutto è uguale a sempre, più fresca di come dovrebbe essere una normale giornata che si stava allungando verso l’estate. Ma niente è come sempre. Meglio così. L’aria era fresca, e anche gradevole, senza far le misure con ciò che è normale o non lo è. Appena saltato giù, il cane andò a piazzarsi in un punto dello slargo che riprendeva a essere una strada. Alla sua maniera: seduto, con le zampe anteriori ben dritte, muso in avanti e lingua appena fuori modellata dai denti, la coda di fianco. Maffin capì le sue intenzioni e ingoiò un respiro. Aveva imparato a conoscerli quei momenti che assomigliano ai saluti. Anzi, lo sono proprio. “C’è un momento in cui ci si saluta per davvero”. E tocca lasciarsi. Può darsi per sempre o per alcune giornate o per anni. Chissà. Il border collie doveva tornare dal suo maestro, quel Manieri che addestrava gli animali per il cinema. Maestro e non padrone, perché padrone è una parola che si dovrebbe dimenticare. Almeno era quella l’idea di Angelo Vlad, che prima o poi dovrà raccontarci qualcosa sul suo conto.

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Ma tu da dove vieni, Angelo Vlad? E dov’è che andrai, una volta che avrai accompagnato Maffin dalla zia Elga? Vlad non dava ascolto. Aveva visto il border allontanarsi e mettersi in posizione del saluto. Se i pensieri prendono la forma delle parole, chissà che lingua stava parlando il border collie in quel momento. Maffin ingoiò un altro respiro. Fa così quando devi lasciare qualcuno che ti sta caro. Non è una questione di tempo, a certe persone ti affezioni subito, e pure verso certi animali fa così. Con il border collie c’era stata l’avventura dei due tipacci della “gang dei ladri del tempo” che volevano rubare a Maffin lo strambo orologio, e il cane era là, pronto a difenderlo, ed era saltato addosso a uno dei due. Erano poi scese in picchiata le tre giovani aquile reali, e quei tipacci erano scappati. Vlad osservava, annuendo. Annuire significava dare retta ai propri pensieri, essere d’accordo con loro. Sapeva bene che il piccolo Maffin avrebbe dovuto ingoiare altri respiri, che in certe situazioni sono più simili a singhiozzi. Le storie che ti fanno star male ci sono, inevitabile, non serve inventarsele, e ogni tanto ti vengono addosso. Grandi o piccole storie, che alla fine sono uguali, perché la loro misura dipende da noi. Ecco perché certe cose piccole appaiono enormi. E viceversa.

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Il border collie non aveva ancora mosso la coda. Non aveva voglia di feste, il fedele border. Doveva tornare a casa, però se ne dispiaceva. Si era affezionato a quel mingherlino e sentiva che lui gli ricambiava la simpatia. Il border emise un guaito. Si rizzò, e andò verso Maffin. Si lasciò accarezzare sotto il muso e sulla testa, che spinse verso il corpo di Maffin, a prendersi tutte le carezze. E poi corse via. Vlad salutò il cane alzando un braccio. E a Maffin sembrò che volesse dirgli di fermarsi. Maffin tirò su col naso e sorrise. Mandò un bacio con la mano, ma ormai era un bacio dato all’aria, poiché il border era già sparito.

Il Museo del dopo era aperto soltanto in alcune ore. Vlad e Maffin erano giusto in tempo per la prima visita del pomeriggio. Il pranzo era rimandato alla merenda. Bisognava suonare il campanello con la targhetta del museo (le altre due erano dei cognomi) e aspettare. «Arriviamo. Solo un attimo. Grazie». Voce di donna, un po’ metallica, dal citofono. Nell’attesa, Vlad sintetizzò il programma della giornata, che non sarebbe stata troppo lunga. Quindi, programma minimo. Mancavano pochi chilometri alla fine del viaggio. Probabile che, una volta arrivati, avrebbe trascorso un’ora buona con la zia Elga 18


a raccontarle i come e i perché di quel loro ritardo, e poi bisognava salutarsi, con qualche promessa da mantenere, tipo rivedersi, incontrarsi ancora e tutto quello che, quando ci si saluta, serve a non farci sentire che sarà un addio. Una sbarra di ferro era stata sfilata dal suo passante e il portone si era aperto, lentamente. Si era affacciata una ragazzina, sui dodici tredici anni. Capelli lunghi, ondulati, colore del grano maturo, tirati indietro da un cerchietto nero. Occhi azzurro verde, vivaci. Indossava un vestito color panna, lungo fino alle ginocchia, stretto in vita da un cinturino giallo, a maniche corte sbuffate dagli elastici. Color panna anche i calzettoni, che davano risalto alle scarpe nere, modello ballerine. Era abbastanza alta e molto graziosa. Maffin la guardava con insistenza, ammesso che si possano paragonare all’insistenza quei pochi attimi. C’era il fatto che a quattordici anni si hanno delle naturali trasformazioni, nei desideri e nel corpo, e diventa facile dire che quella ragazzina ti è piaciuta subito. Anche Nelly gli era piaciuta molto, e subito, con le sue lentiggini che sembravano coriandoli. A quell’età gli amori, dei quali non sai proprio nulla, durano si e no qualche ora. Però sono momenti che rendono interminabile una fantasia. In concreto, ti vengono però solo dei brufoli. «C’è la mamma? O il papà» chiese Vlad. «Buon giorno, signore» disse la ragazzina. Salutò Maffin con un ciao della mano, amichevole, come 19


una compagna di scuola. Maffin ricambiò il saluto e sorrise. Lei continuò la presentazione, che aveva qualcosa di imparato a memoria, perché evidentemente non era la prima volta che, aprendo lei il portone, i visitatori chiedevano dei suoi genitori. «Sono io che mi occupo della visita al museo. Prego, entrate pure» disse con gentilezza. Era comparso un gatto, tutto bianco. Esagerando un po’, poteva essere anche un coniglio dalle orecchie molto corte e dai lunghi baffi. L’ingresso era una grande stanza quadrata. Sul lato di fronte, una breve rampa di scale con il tappeto rosso tenuto fermo da asticelle d’ottone lucido. Sul lato destro e sul lato sinistro, due porte nere, un po’ lucide, che avevano forse la stessa età del palazzo. Accanto alla porta di sinistra, un tavolino moderno fungeva da biglietteria. Si entrava però dalla porta di destra e i biglietti, disse la ragazzina, si facevano dopo, terminato il giro. Calcò la voce sul “dopo” per lasciar intendere che era più che normale fare così, era cioè nella “condizione” di quel museo. Sottolineò anche la parola “condizione”, e se avesse avuto un gessetto le avrebbe evidenziate, quelle parole, con varie sottolineature. Se non hai i gessetti scrivi con la voce. «Il giro dura quasi un’ora. Quando troverete più porte, scegliete la direzione che volete. Le stanze si visitano comunque tutte. In ogni stanza ci sono dei cartellini che illustrano gli oggetti esposti. Se per una 20


qualche ragione vi dovesse servire un “aiuto” (altra parola sottolineata), in ogni stanza c’è un campanello». La ragazzina era come se stesse leggendo delle istruzioni. A Maffin venne spontaneo rassicurarla: «Nessun problema, lui è Radar». Lei lo guardò con gli occhi che erano due punti interrogativi. Maffin non poteva certo spiegarle con poche battute perché il suo amico Angelo Vlad era un Radar. «È come un labirinto?» domandò Vlad. «Potrebbe sembrare, il palazzo è grande e ci sono tante stanze, e soprattutto molte porte. Però il percorso è facile. I visitatori lo trovano anche divertente». «Davvero interessante» commentò Vlad. «E cosa si può vedere in un museo del dopo?». «Il futuro» disse una donna scendendo le scale, che di sicuro aveva sentito i loro discorsi. Il futuro. Lo aveva detto anche Vlad quando Maffin gli aveva chiesto che posto fosse un posto con quel nome. «O meglio» continuò la donna, avvicinandosi «sono esposte delle sorprendenti ipotesi. Delle idee che probabilmente si realizzeranno nei prossimi anni e che, se davvero realizzate, potrebbero modificare molti nostri comportamenti. Se non i nostri, quelli delle generazioni di chi oggi è giovane come questi due ragazzi». Indicò con lo sguardo prima la ragazzina e poi Maffin. 21


Aveva parlato con disinvoltura, e sottolineato pure lei alcune parole, aggiungendovi una delicata enfasi (non sembri un controsenso), che le dava un non so che di aristocratico. Era magra e di media statura. Aveva i capelli corti, castano scuri, con la frangetta a toccare le sopracciglia. Andavano di moda così. Una bella donna. Vlad l’aveva guardata, e ancora la guardava, con piacere e curiosità. Maffin invece era stato preso dal suo abito, a tubo (cioè tutto intero, non stretto in vita), con grandi scacchi colorati. Un abito senza maniche, e bisognava aggiungere un maglioncino, dal momento che l’estate – sia pure non lontana, almeno sul calendario – se ne stava ancora dentro una primavera fresca. Gli ricordavano qualcosa, a Maffin, quei rettangoli bianchi, blu, rossi, e la striscia gialla che bordava il vestito, appena sopra il ginocchio. La stava cercando nella zona dove teniamo da parte le immagini, senza essere necessariamente dei ricordi. Forse proprio per questo facciamo un po’ di fatica a riacchiapparle, quelle certe immagini. Ma i ricordi che uno non ricorda subito sono come le cose che cerchi e non trovi, e prima o poi escono fuori, quando meno te lo aspetti. La bella signora augurò «Buona visita» e tornò al piano superiore. La ragazzina si avvicinò alla porta del museo, la aprì e anche lei augurò «Buona visita».

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La prima stanza era completamente vuota. Tutta bianca. Senza finestre. Anche la porta che si apriva nella successiva stanza era bianca. Un lampadario a globo, acceso, pendeva dal soffitto arrivando fin quasi a metà altezza. Il che faceva supporre che, pur illuminando la stanza, non era da considerare unicamente come un lampadario. Vlad e Maffin si guardarono. «Una Luna senza crateri» disse Vlad. Maffin allargò un poco gli occhi, che era come dire “sì”. Poi Vlad ripeté, sottovoce, “la Luna”, sottolineando oltre alla parola anche un ricordo. Chissà quante volte era stato a guardarla, viaggiando di notte, quella palla bucherellata, sulla quale la nostra fantasia ha disegnato una faccia, per renderla forse abitata almeno da qualcuno. O da sé stessa. Un cartellino bianco quasi si confondeva con l’intonaco. Maffin si avvicinò e lesse: «Un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l’umanità». Poi guardò Vlad e gli chiese: «Che vorrà dire?». Vlad scosse un poco la testa, quasi a far ballonzolare i pensieri, per mescolarli, perché i pensieri che si mescolano possono creare altri pensieri. Può darsi che sia così. «Prima o poi l’uomo andrà sulla Luna. Andrà pure su Marte o chissà dove, a cercare quello che sta anche qui, ma che qui non vede o, se lo vede, tratta male».

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Voi lo sapete bene che quella frase sui passi l’ha detta l’astronauta Neil Armstrong, il primo uomo a poggiare i piedi sulla Luna. Era il 20 luglio del 1969. Era, per noi che siamo qua, adesso, con questo libro in mano. Ma quel 20 luglio del 1969 doveva ancora venire per Maffin, per Vlad e per tutti quei miliardi di individui che i piedi li avevano sulla Terra. Però non era distante, quella data. C’erano già stati degli astronauti che avevano fatto il giro del mondo, dall’alto, molti giri del mondo in una sola giornata. Quel cartellino, appeso alla parete come la didascalia di un quadro, informava di una “ipotesi”, neanche troppo difficile da immaginare. Siamo stati da sempre sulla Luna, appena l’abbiamo vista e ci ha incantati. Senza annoiarvi con troppi esempi, mi è venuto in mente il film muto di Georges Mèliés, Viaggio nella luna, del 1902, ispirato a un romanzo di Jules Verne, con il razzo che si conficca in un occhio del nostro satellite che ha la faccia bitorzoluta di un terrestre. Conoscete? Non dico il film, che non ho mai visto, ma la faccia della Luna scambiata per un bersaglio da freccette. Probabile che il manifesto l’abbiate visto, riprodotto in un libro di scuola. Maffin indicò il lampadario, e ripeté una battuta di Vlad: «La Luna senza crateri» aggiungendo alla meraviglia una malinconia. Si vede, la malinconia.

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La vuoi nascondere, ma ti fa gli scherzetti, la malinconia, ti sta dietro le spalle e ogni tanto si affaccia come se giocasse a cucù. Vlad conosceva Maffin da un paio di giorni, che si erano dilatati a tal punto da contenere diverse settimane, ma non per via del tempo che si era scombussolato era per via di un certo sentimento che non si misura con niente. E arrivò un segnale. Cerchietti di malinconia, in espansione. Allora Vlad chiese a Maffin se prima, mentre stava lì a fissare il vestito della bella signora, lui… Puntini. Maffin aveva già capito cosa volesse sapere Vlad. Vlad detto Radar, in grado di captare anche i segnali che emette il nostro corpo, e se poi ci sono di mezzo i sospiri allora il segnale arriva forte e chiaro, senza intervalli, senza sfrigolii di sottofondo. «Zia Emma» disse Maffin, tossendo. Un po’ le assomigliava, la zia Emma, da giovane, alla signora del museo. La zia Emma, che forse non stava troppo bene. Forse. Quando il tempo si scombina (e si era davvero scombinato) produce situazioni strane, e ti fa pure vedere il futuro che non si vede, ed è inutile cercarne il senso, che è anche una direzione. In quel tempo che si era scombussolato – e lo sa bene chi ha letto il primo libro – Maffin aveva visto, in un cimitero, durante il viaggio con Vlad, la tomba della zia

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Emma, morta tre anni prima di quel momento. Assurdo. Com’era possibile? Aveva salutato la zia solo qualche giorno prima. Il tempo che si scombina fa accadere cose impossibili. La visita al museo era durata un’ora e un quarto. C’erano stanze nelle quali erano esposti diversi oggetti e altre stanze nelle quali era in bella mostra un solo oggetto, da considerare protagonista indiscusso del nostro futuro. Come aveva detto la signora, quegli oggetti, quelle cose, erano delle “ipotesi”, prodotti da immaginare nelle loro funzioni che ancora non possono essere messe in pratica. Facciamo un esempio, per spiegarci meglio. È come se, vivendo noi tra il Quattrocento e il Cinquecento, incontrassimo un signore, tutto barba e capelli, che ha un bel po’ di fogli arrotolati sotto il braccio. Sono dei disegni e lui, con un accento fiorentino-milanese-francese, ci spiega che questo meccanismo di ruote e ingranaggi è un trabiccolo a molla per portarci sopra le persone (come una automobile), che quest’altro è un’elica o macchina volante (un elicottero), che questa piramide di telo serve per lanciarsi da una altezza senza farsi male (il paracadute), e che quest’altro disegno ci mostra una giacca, dei pantaloni, una maschera con occhiali e servono per andare sott’acqua (lo scafandro). Capito sì chi avremmo potuto incontrare?

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Cartellini con le informazioni scritte a macchina accompagnavano gli oggetti. Anche se lì per lì non era stato semplice trasformare “fantasticamente” una cosa per un’altra cosa. Al centro di una stanza, sulle cui pareti erano stampate delle frasi, forse tratte da pagine di romanzi, sopra un tavolo erano sistemati una macchina per scrivere e un televisore. Leggiamo una di quelle frasi: “Chi dice che una cosa è impossibile, non dovrebbe disturbare chi la sta facendo”. Appena sotto la frase, il nome di un simpatico e geniale signore tutto capelli bianchi e baffi: Albert Einstein. Bè, c’è da dargli ragione. La macchina per scrivere era un modello portatile, con un nome da scrivano matematico: Lettera 22. Una delle prime portatili realizzate dalla Olivetti. Davanti alla macchina per scrivere, un televisore che

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sembrava un enorme cubo di legno. Il cartellino informava che le parole scritte compaiono direttamente sullo schermo, e che possiamo cancellarle senza usare il bianchetto e aggiungerne altre anche dentro una frase già scritta, e pure ingrandire le parole. “Un computer” direte voi. Proprio così, ma in quel momento era solo una “ipotesi”, un assemblaggio di due oggetti che lì per lì avevano davvero poco in comune, ma la meraviglia era il loro “dopo”. Ci vuole una bella testa per pensare oltre. Lascio indovinare a voi il “dopo” di un telefono con un dischetto trasparente che ha una serie di piccoli fori, e sotto ci sono i numeri da 1 a 0, e per comporre il numero da chiamare bisogna girare con la punta dell’indice il dischetto, e questo telefono ha il filo tagliato e sta davanti ad un piccolo specchio. Era stato un “giro” che davvero portava i visitatori più in là del proprio presente. Trovarono la signora (forse era la mamma della ragazzina) seduta al tavolo della biglietteria, impegnata a mettere in ordine fogli e documenti. Appena li vide si alzò e sorrise con gentilezza. «Spero sia stato interessante. Sì?». Prese due biglietti da un cassetto e li porse a Vlad. Il costo del biglietto era scritto su un piccolo cartello appoggiato sul tavolo.

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Vlad annuì soddisfatto e Maffin disse «molto». Vlad cercò delle monete nella tasca interna del giubbotto. Posò le monete sul tavolo e le spinse un po’ in avanti con l’indice, un gesto che serviva per contarle, ma veniva da pensare allo spostamento di una pedina nel gioco della dama. «Qualcuna di quelle ipotesi verrà certo realizzata» disse la donna. «Probabile che avrà una forma diversa, ma l’uso sarà quello. No?». Era passata dal sì al no, però non c’era differenza tra i due avverbi. Forse era il suo modo di aprire altri discorsi, con le risposte degli altri. Salutandoli, la signora li invitò a ritornare: «Se capiterete da queste parti, venite a trovarci. Il museo si rinnova continuamente». «Verrà di sicuro Maffin. Vero, Maffin? Lui abita a Roccalta. Io… chissà». Bastano tre puntini per farci entrare un tempo non misurabile, che può essere di settimane, mesi, anni, oppure di un “per sempre” che ora è meglio non pensarlo, perché farebbe venire un po’ di malinconia. Incontri qualcuno e può essere che non ci si riveda più. Meglio non pensarlo. Allora Maffin disse «Te lo farò sapere. E così ci torneremo insieme». Vlad gli accarezzò la testa. «Pensavo foste… padre e figlio. Ecco» disse la signora. «Più o meno» fece Vlad sorridendo. Maffin ingoiò una piacevole emozione. La signora aggrottò la fron-

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te, che era come una domanda alla quale nessuno avrebbe risposto. «Arrivederci». «Arrivederci». La ragazzina aprì il portone. Salutò con la mano, aggiungendo un sorriso e un cenno della testa. Arrivò il gatto-coniglio, si strusciò su una gamba ed emise una specie di miagolio, una specie, perché poteva anche essere un “gu gu” conigliesco, appunto. La ragazzina non richiuse subito il portone. Li osservò allontanarsi. Chissà chi sono, e dove vanno, ora, quell’uomo alto e magro, un po’ claudicante (i lettori del primo Maffin sanno che Vlad zoppica un po’, a causa della gamba sinistra più corta di un centimetro), che ha la faccia da pirata e un occhio tutto rosso e il viso punzecchiato, e quel ragazzino con il ciuffo arricciato e lo sguardo un po’ dolce e un po’ birichino. Maffin si girò, giusto in tempo prima che lei chiudesse il portone. Una ragazzina gentile e molto carina, che sembrava ritagliata dall’illustrazione di una favola. Ripresero la strada verso Roccalta. E siccome il languore allo stomaco era diventato per tutti e due un brontolio che rovistava lo stomaco, bastò poco per decidere che si sarebbero fermati al primo bar. Biscotti e latte caldo o qualcosa di salato con una birra, una limonata o un succo di frutta. Andava bene tutto. Percorsero cinque chilometri. Strada deserta. 30


Quel vuoto era strambo, pareva assorbire anche il paesaggio, come se il silenzio fosse capace di cancellare gli spazi, le cose, i colori, i fruscii. A volte può succedere, anche se non te lo spieghi. Può succedere. Quando era così, che tutto si cancellava un po’ come se ci fosse una patina di nebbia, Vlad seguiva i fili della luce, che tra un palo e l’altro si inarcavano verso il basso, senza peso. Anche se il tracciato non seguiva sempre il bordo della strada, ma tagliava per la campagna. Quei segmenti di filo che ora osservava attraversavano la strada e portavano a un casolare. Vlad rallentò. «Ci fermiamo qui?». «Sì, sì» rispose subito Maffin. Se andava bene a Vlad andava più che bene anche a lui. Un cartello dipinto, inchiodato accanto alla porta del casolare, informava che c’erano bevande e sigarette, panini e caramelle. Non mancava l’insegna sopra la porta, anch’essa dipinta su una tavola a forma di leggero arco: Osteria della vecchia. Vlad parcheggiò nello spiazzo dietro il casolare. C’erano una motocicletta tutta rossa (una Guzzi), un motociclo azzurro a tre ruote (una Ape. Trattandosi di un veicolo da lavoro, probabile che il nome voglia significare “laborioso” come lo sono, laboriose, le api), due biciclette appoggiate al muro, e un bidone arrugginito. Al di là dello spiazzo di terra battuta si allungava un campo, con il grano già alto. Nessuna recinzione. Le colline sullo sfondo ritagliavano un 31


orizzonte fatto di alberi, che sembravano quelli che i bambini delle elementari disegnano sui loro album (tanti triangolini senza base, impilati), e fatto di cielo, che non sembrava altro se non il cielo e basta (e non è poca cosa, a pensarci). Vlad si fermò a guardarli, paesaggio e cielo, per qualche attimo, quasi volesse cercare una certezza: che quella fosse cioè la direzione da prendere e c’era quindi d’andare al di là dell’orizzonte. Sembra facile. «Dai, che tra non molto saremo dalla zia Elga. Sarà felice di vederti». Nel dirlo, Vlad batté una mano sulla spalla di Maffin. Un gesto che sostituiva le parole, senza perderne il significato: “Bravo, Maffin. Bravo”. «Pensi che mi riconoscerà?». Erano cinque anni che non lo vedeva. Solo in foto, tre quattro istantanee, scattate ad ogni suo compleanno, che la zia Emma inviava alla sorella Elga. La mamma di Maffin, come qualcuno di voi già sa (se avete letto il primo libro), era morta poco dopo il parto. Povera mamma. Quel piccoletto sgambettante, dal corpo un po’ arrossato, restò per un paio di settimane in ospedale, poi venne affidato alle cure affettuose di una brava infermiera che lavorava all’orfanotrofio. Martino trascorse i primi quattro anni lì, nell’istituto, assieme ad altri bambini, più o meno della stessa età. Non se lo ricorda proprio quel periodo. Il tempo non solo si scombussola, ma va anche via, da un’altra parte. E se non ci sono i ricordi il tempo 32


davvero non torna più, per sempre. Addio, tempo. La brava infermiera era poi venuta a sapere che forse la maestra Elga Torren poteva essere una lontana parente della mamma di Martino. E così, con qualche correzione al registro dell’anagrafe, con la complicità di un impiegato comunale (forse aveva un debole per l’infermiera), Martino Elvèris divenne Martino Torren, e fu affidato alla maestra Elga, nubile, trasformata in legittima parente, alla quale non era dispiaciuto fare da zia/mamma a quel mingherlino. Un po’ per ciascuno, con la sorella Emma, dattilografa. Due zie/mamme. Vlad e Maffin entrarono nell’osteria. Uno stanzone arredato con alcuni tavoli lunghi e altri da quattro posti, tutti di legno, sedie di quelle che si piegano, un bancone ingombro di bicchieri e boccali lasciati ad asciugare sopra degli strofinacci, due madie, una credenza, un attaccapanni. Sulla parete dietro al bancone erano appese molte foto in bianco e nero, incorniciate con passepartout e listelli color mogano dai sottili intagli. Un caminetto chiuso da uno sportellone smaltato di grigio, sul quale era sbiadito da tempo un ghirigoro floreale. Due finestre, con le tendine ricamate, di qua e di là della porta d’ingresso. La luce veniva da quattro lampadari a boccia, che già accoglievano moscerini e piccole farfalle stecchite dal calore delle lampadine. Maffin osservava. 33


L’osteria gli ricordava la cantina nella quale andava ogni due settimane a comprare il vino, quando abitava con la zia Emma. Ci voleva andare lui a prendere il vino, bianco, un po’ frizzante, e mentre aspettava che gli riempissero il bottiglione da due litri si immaginava una taverna frequentata da personaggi che provenivano da chissà quali racconti. A quell’ora non c’era mai nessuno nella cantina, seduto ai tavoli, con una caraffa da mezzo litro davanti, il sigaro toscano spento bagnato dalla saliva, un mazzo di carte. Tavoli vuoti, con le impronte a cerchietto dei bicchieri che il legno ha assorbito in un momento di secchezza, che non andranno via, e che pure loro avranno qualcosa da raccontare. Quando Martino ritirava il bottiglione e pagava (un gesto che gli piaceva), l’oste non gli faceva mancare una manciata di noccioline, che lui si metteva subito in tasca, e lo salutava con la solita inevitabile battuta «Non berlo tutto te, il vino, mi raccomando». Maffin se l’aspettava ogni volta, la battuta, e quindi si agganciava al finale, ripetendo pure lui “mi raccomando”. E sorridevano. All’Osteria della vecchia c’erano delle persone. A contare una moto, due biciclette, un’Ape parcheggiati fuori, forse la metà dei presenti era venuta a piedi. Anche Vlad, sebbene tenesse l’occhio arrossato più chiuso che aperto, inquadrava la scena, cercando di captare qualche buon segnale. Che subito venne trasmesso dall’uomo che stava al bancone. Un cordiale «Accomodatevi dove volete. Arrivo subito». 34


I presenti si girarono verso i nuovi venuti. Una rapida occhiata, poi tutto continuò come prima. Maffin volle scegliere il tavolo più vicino al caminetto. Anche quando non c’è legna che arde, un caminetto ha qualcosa che ti attira, e siccome aveva pure il portellone che chiudeva il focolare quel qualcosa non stava lì, ma nella testa di Maffin. Chissà. Comunque, non è che uno deve sempre sottolineare i propri pensieri, dar loro delle forme visibili, altrimenti avremmo bisogno di un bel po’ di fogli sui quali scrivere o disegnare e, soprattutto, di un sacco di tempo. Caminetto, pensieri, e finisce lì. Va bene anche così. Arrivò l’oste. Un uomo sulla cinquantina, di media statura, abbastanza robusto. Per lo più calvo, con una sottile corona di capelli chiari. Camicia beige, con le maniche arrotolate fino ai gomiti. Indossava un grembiule da cucina bianco (quasi bianco), con la pettorina abbassata che gli nascondeva un po’ di pancia. Quando si lavava le mani, se le asciugava sul grembiule. Impronte che svanivano presto. Un oste che fa l’oste, nella più tranquilla tradizione. A Vlad ricordava qualcuno, uno dei tanti volti incontrati strada facendo. In quale parte di mondo, eh, Vlad? Nelle piazzole di sosta, nei magazzini delle fabbriche, negli ospedali, nelle frontiere, nei posti di blocco? Dove, Vlad? 35


L’oste consigliò del pane abbrustolito con sopra spalmato un salame morbido, tipico di quelle parti. Anche qualche fettina di formaggio fresco, sempre della zona. Birra per Vlad e limonata per Maffin. Il tavolo era pulito, ma l’oste passò ugualmente lo strofinaccio a scacchi azzurri e bianchi che teneva appoggiato sulla spalla. «Un simpatico viso porchigno» disse Vlad, appena l’oste se ne fu andato. Naso schiacciato verso l’alto che gli evidenziava le narici rotonde, bocca carnosa, guance paffute, mento che prendeva subito la forma del collo, tutto in tonalità rosa chiaro. Maffin rise.

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La voce dell’oste, che aveva decantato la bontà e la qualità dei prodotti delle norcinerie locali, non era un “oink, oink”, perché questo è il verso dei maiali, giusto? La voce no, non era porchigna. Maffin, che voce gli diamo all’oste? La voce di una tartaruga. Di una tartaruga? E come mai? Boh! (con una alzata di spalle) È per il fatto che l’oste parla lentamente? Mi è venuta in mente la tartaruga. Non so perché. Una tartaruga! Interessante. Eppure, anche quello che in apparenza consideriamo fuori posto, in un modo o nell’altro poi si piazza da qualche parte, e lo scopriamo più vicino al suo senso. La tartaruga, ad esempio, probabile che la incontreremo, con il suo corpo, o solo come un’idea, una immagine che ci servirà per fare un ragionamento. Tutto potrà essere possibile. Specialmente in questa nostra storia. Siete d’accordo, sì, che tutto potrà essere possibile? Un uomo magro, gambe lunghe, sui quarant’anni, con il viso ombrato di barba di qualche giorno, seduto da solo a un tavolo, guardò Martino e gli fece un sì con la testa. Cosa mai stava pensando il tipo? E che intenzioni aveva?

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L’uomo si alzò, si diresse all’attaccapanni a muro, sul quale erano appesi una giacca con sotto qualcosa e un cappello. Tolse la giacca e sganciò dal piolo una piccola fisarmonica, nero lucido, che, non fissata dai perni di chiusura, emise un lamento di note a causa della mano dell’uomo che l’aveva afferrata dalla parte dei tasti. Rimise a posto la giacca e tornò al suo tavolo con la fisarmonica. Martino osservava, ma con lo sguardo a scatti, di quelli che usi quando non vuoi farti accorgere che stai guardando gli altri. Vlad, che è pur sempre un radar, gli chiese: «Che c’è?». Poi, accortosi che Martino sbirciava l’uomo con la piccola fisarmonica, disse «Magari ci suona qualcosa. A te piace la musica, Maffin?». Gli piaceva, sì. Anche se per un po’ di tempo aveva odiato un ritornello che in genere si utilizzava nelle prime lezioni di musica. E in quel ritornello, possiamo immaginarlo, c’era il nome Martino, che era un frate campanaro, al quale si domandava se dormisse, perché c’era da suonare le campane. “Fra Martino campanaro, dormi tu, dormi tu? Suona le campane, suona le campane, din don dan”. Do, re, mi, do, do, re, mi, do. Mi, fa, sol, mi, fa sol. Sol, la, sol, fa, sol, la, sol. Fa, re, sol, do, re, sol, do. L’oste portò quanto avevano ordinato. Rivolto a Vlad gli domandò se fosse lui il camionista al quale dei brutti ceffi avevano sparato. 38


«Si vede così tanto?» rispose Vlad, indicandosi il volto. L’uomo con la piccola fisarmonica nera fece un accordo, aprendo e chiudendo il mantice. «Lo abbiamo saputo dal suo collega camionista. È passato un paio d’ore fa». Vlad rivide quel collega sconosciuto, che aveva captato il suo segnale inviato dalla ricetrasmittente e che, dopo un’ora, era arrivato in suo soccorso, imboccando una strada che non era quella del suo tragitto. Lo ringraziò di nuovo, dal profondo del cuore. Disse proprio così all’oste «Lo ringrazio dal profondo del cuore» e a Martino fece un bell’effetto quella maniera di ringraziare, ci sentiva la solennità di un giuramento. Erano transitate un paio di auto, alcune motociclette, qualche trattore in attraversamento da un campo ad un altro, ma il camion di Vlad sembrava tranquillamente parcheggiato e nessuno aveva fatto caso al vetro ridotto ad una serie di ragnatele, nessuno poteva pensare che in cabina ci fosse il “trasportatore” Angelo Vlad con il volto coperto di sangue, punzecchiato da fastidiose schegge di plastica. Un po’ di tempo doveva per forza farlo trascorrere da quando quei tipacci che lo avevano colpito se l’erano svignata, convinti di averlo lasciato lì moribondo. Non ci si vedeva granché con quelle ragnatele che avevano pure annebbiato il paesaggio (il cristallo frantumato prende un colore quasi grigio) e annebbiato l’inter39


no della cabina vista da fuori, ma era soprattutto il fastidio delle piccole e innumerevoli ferite, la voglia di grattarsi, e quindi Vlad aveva aspettato, inviando segnali di soccorso. “Trasportatore”, messo tra virgolette. Ci avete fatto caso? Le parole tra virgolette, di solito, sono parole verso le quali dobbiamo fare più attenzione, perché vogliono dire anche qualcos’altro. “Trasportatore”. Quando sarà il momento, queste virgolette aggiunte ce le faremo togliere direttamente da Angelo Vlad, che è sì un trasportatore, un camionista, ma c’è una parte della sua vita che a Maffin farebbe piacere conoscere. Piacerebbe anche a noi. L’oste era curioso di sapere perché Angelo Vlad fosse stato aggredito. Volevano rapinarlo? E quel ragazzino che stava con lui chi era? Aveva a che fare con quanto era accaduto? Vlad rispose che lo avevano scambiato per chissà chi. Un’altra persona. E non sapeva cosa cercassero quei tipi che si davano delle arie da sbruffoni, che si credevano di stare dentro un film d’azione e di avventura. E che erano anche molto ridicoli in una parte recitata male. Maffin ascoltava, e gli veniva un sorrisetto che cercava di trattenere mordendosi il labbro inferiore. Gli piaceva quel gioco del “caro oste curioso, non possiamo raccontarti nulla”. 40


E come le racconti certe storie che riguardano il tempo che si è scombussolato? E siccome il tempo si era davvero scombussolato, lo scombussolamento aveva coinvolto anche l’oste, la sua famiglia, i suoi clienti. Il tempo riguarda tutti. Ma quel tempo che si era fatto strambo, che spostava le ore, e trasformava anche gli spazi, forse a questo genere di tempo uno può anche non farci caso, le giornate vanno per conto loro, ci sei o non ci sei le giornate vanno. Per conto loro. Il tempo per qualcuno non esiste nemmeno. Sì, certo, ci sono il giorno e la notte, le stagioni, che si susseguono, chissà da quanto e per quanto ancora, ma la misura del tempo l’abbiamo costruita noi, perché può far comodo. C’era, nei tempi passati, da mettersi d’accordo sulle misure da dare al tempo. Ogni civiltà, come sappiamo, ha avuto il proprio strumento per misurarlo. Egizi, babilonesi, greci, indiani, cinesi, celti, romani, maya, aztechi, inca. Ognuno con un proprio calendario, fatto su misura, come un vestito tagliato e cucito da un sarto. Però, se il tempo è come un vestito, ci sarà un giorno in cui questo abito, preciso preciso al tuo corpo di quel momento, quando il sarto ti prendeva le misure, non ti starà più bene. Ti sei ingrassato oppure dimagrito, e puoi anche metterlo via, nell’armadio, lasciandolo lì, o chissà, e quando ti decidi a fare un po’ di spazio lo prendi e lo metti in un sacchetto per poi andare ad infilarlo nei cassettoni fatti apposta per la raccolta degli abiti. Ma si può fare così con il 41


tempo? Lo metti da parte e poi lo dai via? Complicato il tempo, quello cosiddetto normale, figuriamoci il tempo scombussolato. Ci penseremo su. Vlad, con la storiella dello scambio di persona, non aveva convinto più di tanto l’oste, che però dovette accontentarsi di quella sommaria versione dei fatti. Lui voleva sapere per poi raccontare ad altri, magari mettendoci qualcosa di suo. Disse di stare comunque all’erta, perché quei tipi balordi potevano tornare, per concludere un lavoro sporco lasciato a metà o per vendicarsi. Martino ebbe un brivido di paura. Vlad, un po’ per rassicurarlo, un po’ perché ne era davvero convinto, rispose con un pizzico di soddisfazione: «Mi sa che a questo punto non riusciranno più a raggiungerci». L’oste lo guardò aggrottando la fronte e chiudendo un poco gli occhi. La sua curiosità ora si spostava verso quell’affermazione, che non gli era per nulla chiara. Dovette però mettere da parte la sua intromissione, augurò buon appetito e ritornò al bancone, c’era un cliente che aspettava. Era, quello di Vlad, ottimismo oppure consapevolezza? L’ottimismo rende possibile parecchie cose: è una maniera di affrontare la realtà con più slancio (a volte mescolando qualche ingenuo entusiasmo); anche

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se il risultato non sempre è come lo vorresti, meglio caricarsi di energia. Vlad aveva una sua teoria riguardo allo spazio, ai luoghi, al territorio. Non una “sua” teoria, formulata cioè da lui stesso, ma una idea espressa da qualcun altro e che aveva fatto sua. Più semplicemente, era d’accordo. Si tratta di vedere, per noi che non lo sappiamo, a cosa Vlad si riferisse. Ma non abbiamo fretta, giusto? Lasciamo procedere la storia così come dovrebbe. Facciamo sempre in tempo a ritoccarla, la nostra storia, a modificarla. Con la dovuta cautela, comunque, perché le storie non è che le rimodelli, le mescoli a caso, le scombini alla cieca. Possiamo farlo, per gioco, tirando fuori le parole da un sacchetto, come nella tombola, per comporre frasi buffe e assurde, però brevi. Con le storie da raccontare è, verrebbe da dire, tutta un’altra storia. Anche nelle storie il caso (pescare nel sacchetto senza vedere dentro) ha una sua importanza, ma una direzione, sia pure piena di curve, di saliscendi e di incroci, bisognerebbe averla, davanti a noi o nella testa. Procediamo. «Buono, eh?» disse Vlad, dopo qualche morso alla fetta di pane abbrustolito con il salame spalmato sopra. Martino finì il suo boccone. Buono, sì. Con l’aggiunta però di una preoccupazione: «Davvero quegli

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uomini si vendicheranno? Ci verranno a cercare?». Vlad rispose con dolcezza: «Tranquillo, caro Maffin, tranquillo. Non è detto che chi cerca trova». Uno non trova perché non è capace di trovare. Oppure non trova perché la persona da cercare non si lascia trovare. Diciamo che siamo per questa seconda ipotesi. C’è da scappare? Noi andiamo, magari più svelti del normale, e ci guarderemo ogni tanto le spalle. L’oste rivolto all’uomo con la piccola fisarmonica lo invitò a suonare. «Regalaci qualcosa, va’». Era sottinteso che il regalo fosse per Vlad e Martino. L’uomo fece sì con l’indice e il medio uniti a mo’ di saluto militare. E annuì con la testa, rivolto ai due ospiti. Il sottile brusio delle chiacchiere diminuì fino a farsi silenzio. Allargando poco il mantice, per smorzarne il respiro e non fare troppo forte, l’uomo iniziò a suonare un motivo lento e dolce, un po’ ripetuto nelle tonalità perché la tastiera era composta solo da dieci tasti bianchi e da sette tasti neri, e da otto bottoni per i bassi. Sembrava un giocattolo, quella piccola fisarmonica nera, lucida, con degli inserti traforati in alluminio. Forse gli era stata regalata quando era un ragazzino. Non possiamo conoscerle tutte, le storie, questo è ovvio, e di sicuro tante belle storie ci sono passate vicine, quasi a sfiorarci, solo che non 44


le abbiamo sentite o viste. Allo stesso modo è con le storie brutte, e ce ne sono tante. Anche se le cose che non ci piacciono, prima di buttarle, ci sarebbe da osservarle bene, per capirle meglio, così magari la prossima volta si potranno affrontare senza paura. Può darsi. L’uomo continuò a suonare, dando al motivo un ritmo più accelerato, aggiungendo il battere del piede sul pavimento, come fosse un metronomo. A Vlad venne un brivido. Mosse la testa, accennò un sorriso, e socchiuse appena gli occhi che formarono ai lati delle piccole rughe. Guardò Martino, ma poi il suo sguardo oltrepassò i muri del locale. Cosa c’è Vlad? Conosci questa musica? Ti ricorda qualcosa? Martino ebbe l’impressione che gli occhi di Vlad fossero diventati lucidi. Allora si ricordò di quando la zia Emma gli diceva che per conoscere le storie di qualcuno bisogna fargli delle domande, perché – diceva lei – siamo come un libro che se non lo apri quello che ha dentro non esiste. Anche se non è facile fare delle domande, specialmente quando sei frenato da quello che chiamiamo pudore, da una prudenza che ti fa fermare perché pensi di essere inopportuno, invadente, a scoprire qualcosa che era stata messa via, nascosta, fino a dimenticarla. 45


Gli occhi di Vlad non erano ancora tornati davanti a Martino. Ci sono dei ricordi che si mescolano al paesaggio, e quindi è inevitabile dover raggiungere un posto, per trovarsi davanti ad una casa che non c’è più. Come non c’è più, Vlad? L’ha buttata giù il terremoto? Era troppo vecchia, la casa, ed è stata abbandonata? Dov’è che sei, Vlad? Faccelo sapere. «Tu sei sposato?». «Eh?». «Sei sposato?». Vlad tornò a guardare Martino. Sorrise. Era una domanda importante. Non si poteva rispondere con un “sì” o con un “no”. C’è sempre qualcos’altro attaccato a queste due minuscole parole. Non hanno il plurale, il “sì” e il “no”, però abbiamo perso il conto di quanti sì e di quanti no abbiamo detto fino ad oggi. Molto più di un plurale. «Sì, sono sposato. Ma è un po’ di tempo che non vedo mia moglie». L’espressione di Vlad aggiunse una malinconia. «Sei sempre in giro con il camion». Maffin che cercava una giustificazione. «Quando finisce di suonare, ti racconto. Va bene?». Martino sorrise soddisfatto. Tra amici ci si racconta sempre delle proprie storie personali. 46


Dal momento che l’uomo con la fisarmonica stava dedicando loro quel piccolo motivo – ora sembrava un valzer lento – Vlad e Martino si girarono di più verso di lui. Quando terminò il suo pezzo ricevette l’applauso di tutti. L’oste tornò al loro tavolo – si era accorto che avevano finito il pane, il salame e il formaggio – e chiese se gradivano un dolce, di quelli fatti a casa. Scelsero alcune fette di ciambellone appena sfornato, con la crosticina calda. Piaceva molto a Martino il ciambellone con la crosticina calda. La zia Emma lo faceva la domenica. Quello che avanzava era per la colazione, con il latte. Martino tutte le volte si divertiva a vedere il latte che assorbito dall’impasto saliva, scurendo leggermente la superficie del dolce. Lo incuriosiva il movimento del liquido. Nulla di straordinario, fa così quando una sostanza assorbe un liquido (una spugna, per esempio), ma per lui era “un fatto scientifico” che osservava con curiosità e meraviglia. Un semplice gioco, alla fine. «Prima di fare il camionista facevo il tassista». Vlad iniziò così a raccontare qualcosa di sé stesso. Le promesse vanno mantenute. L’uomo con la piccola fisarmonica pigiava di nuovo sui tasti e sui bottoni, ma senza aprire il mantice. Una musica silenziosa, che però non dava l’impressione di sentire solo lui. Muoveva le dita sui tasti, nessun suono, soltanto un leggero ticchettio, ma la 47


musica c’era lo stesso. Mezzo mondo è fatto così, non lo vedi, non lo senti, però c’è. Martino non si aspettava quell’inizio deciso, con un argomento che lì per lì lasciava da parte la sua domanda («Tu sei sposato?»). Forse con Vlad, a quel punto della loro amicizia, non era troppo necessario fare delle domande. Vedremo. «Trasportavo le persone. Da qualche tempo trasporto le cose. Per delle aziende. Avevo un taxi verde e nero». Martino vede un’automobile passare nella corsia della sua immaginazione, ma non sa dargli una forma precisa. «Ti intendi di macchine, Maffin?». Maffin sorride. «No. Conosco solo qualche modello. Quelli più famosi. La Topolino, la 500, la 600 (pure quella “multipla”), la Lancia coupé, la Giulia (che usa anche la Polizia), la Mercedes». «Beh, una discreta lista. Il mio taxi era una Fiat 124. Hai presente?». «Se la vedo, forse…». «Allora te la faccio vedere». Dalla tasca di dietro dei pantaloni Vlad estrasse un portafogli di pelle color bordeaux, consumato in alcuni punti. Lo aprì e da uno scomparto, tra altre piccole foto, ne prese una quadrata, a colori, scattata con una Polaroid. Fiat 124, parcheggiata in un piazzale (si vedono altre macchine). Metà nera e metà verde (zona superiore). Tra il tettino e il parabrezza 48


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