Sonia Maria Luce Possentini
Nome di battaglia Nero Introduzione Francesco Filippi
Il Quaderno quadrone
Sonia Maria Luce Possentini
Nome di battaglia Nero Introduzione Francesco Filippi
A Massimo che voleva raccontare il mondo e ci è riuscito.
La memoria dei luoghi liberi Fu molte guerre in una, la Resistenza. Fu guerra civile, patriottica, di classe, di generazioni. E fu anche guerra di luoghi. Un conflitto in cui alle città umiliate e occupate dalla violenza fascista, in cui regnano il terrore e la fame, si contrappongono le campagne e i monti, con la loro fredda libertà protetta da boschi fitti, con la sicurezza donata da una natura estranea eppure accogliente. I luoghi plasmano gli esseri umani con la loro forza evocativa di immagini perse in memorie ancestrali. Plasmano pure i conflitti, perché anche i più feroci combattenti sono infine solo uomini e donne che vivono in spazi determinati. Che siano mura oppure alberi a delimitarne i confini, e l’asfalto incandescente o un tappeto di foglie a sostenerne i passi, chi combatte sa che la propria storia di vita e morte è raccontata e cambiata in presa diretta dai luoghi in cui essa si svolge. La Resistenza italiana, specie nella sua fase più cruda, nel terribile inverno 1944-’45, è soprattutto un conflitto in cui i partigiani, magari poco più che ragazzi scappati da case accoglienti per sfuggire alle leve omicide della Repubblica di Salò, devono imparare a riconoscere attorno a sé gli spazi che li accolgono come maestri severi. Imparare a conoscere i corsi d’acqua, i profili dei monti, le misere bacche che avrebbero alleviato i crampi della fame. Imparare a conoscere i ripari sicuri, a distinguere la legna che avrebbe dato calore e conforto da quella che avrebbe fatto tanto fumo da rivelare al nemico la propria posizione.
E soprattutto i sentieri: ogni giovane combattente deve subito distinguere quelli sicuri, sconosciuti ai fascisti e agli invasori tedeschi, da quelli troppo battuti, tenuti d’occhio dalle spie. Sentieri da imboscate e da rastrellamenti. Sentieri di morte. Nell’aprile del 1945 insieme alla primavera scendono a riconquistare le città anche i partigiani. Il lungo inverno fascista sta finalmente lasciando il posto a una nuova stagione di libertà. Per mesi i boschi hanno accolto queste donne e questi uomini nascondendoli dai massacri e permettendo loro di colpire il nemico. In quell’aprile è la libertà dei boschi e dei sentieri di montagna a rinverdire le strade delle città, a rinverdirne le speranze. Chi sopravvive si porta dietro l’esperienza dei bivacchi sotto le stelle, del freddo, delle foglie umide. Chi non sopravvive al lungo inverno rimarrà sempre parte delle voci del bosco, che raccontano sofferenze e gioie. Se oggi vogliamo continuare ad alimentare la Memoria di quei giorni difendendone e diffondendone la storia, dobbiamo necessariamente tornare a quei paesaggi e risentirne le voci. Perché raccontare oggi la Resistenza è anche questo: saper ritrovare gli spazi, conoscere gli ambienti in cui nacquero le idee che animarono chi riuscì a far scaturire un mondo nuovo dalle macerie di quello vecchio. In queste pagine trovano posto immagini e parole importanti, che ripercorrono e descrivono quei luoghi, portando alla mente i nomi e le storie di coloro che resistettero: Nero, Saetta, Ribelle e gli altri, i tanti altri che lasciarono la loro impronta su quei sentieri e nella memoria di questo Paese. Una memoria che dobbiamo preservare e continuare a far fiorire. Francesco Filippi
Sentire il cammino. Sentire.
Canossa, gennaio 2021 Il crinale che costeggia la vita da sempre è stato calpestato da piedi giovani e infreddoliti. Da respiri sulla neve. Da faggi in fila indiana sugli spigoli dei suoi fianchi. Da ricordi tumulati nei cassetti dentro scatole di cartone. Dalla forza di custodire quel che si può. Orme d’ombre di ieri, da incidere forte dentro il ricordo. Ripercorro oggi i sentieri che dal paese fino alle colline si attaccano alle radici nude della Linea Gotica. In ogni zolla di terra c’è tutto, mi dico. C’è la sostanza. Sentire il cammino. Sentire. Qualche cippo, scorticato dal tempo, segna il mio passo. Poi un altro e un altro ancora, uno alla volta, i piedi seguono un tragitto. Il cammino è faticoso, il silenzio è rotto dal respiro dell’affanno. Il tempo qui sembra si sia fermato, l’inverno ancora più freddo gela i fili d’erba mentre il vento ha spogliato gli alberi, cancellato le tracce. Sentieri che portano a luoghi come case, rifugi, vita e morte. Non avere ali comporta la fatica di percorrerli.
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Mi fermo. Il mondo, oltre questo spazio, continua il suo correre. Apro lo sguardo che scollina fino a diventare polvere azzurra. A ridosso di un fosso un altro cippo ricorda, a memoria perenne, la morte eroica di alcuni partigiani: guardo le foto in posa fiera, un accenno di sorriso. Sguardi impavidi. Sbiaditi nei tondi di ceramica sbeccata. I nomi a uno a uno sottovoce li pronuncio. Nomi di battaglia: Saetta. Nomi semplici: Mario. Diretti, per non farsi riconoscere: Lupo. Per non tradire l’identità: Gufo. Per segnare il carattere: Fulmine. Nomi che rivelano ambizioni, letture, passioni, infanzia, mai semplici da capire né facili da dare: Tina. Un mondo e un’identità per esorcizzare la paura: Achille. Nomi con il coraggio di schierarsi: Ribelle. Nomi troppo spesso dimenticati.
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I nomi a uno a uno sottovoce li pronuncio.
Una piccola folata calda segna un appuntamento.
Sto evocando le ombre che si aggirano su questi sentieri per liberare un vuoto. Il mio. Traccio linee sottili per segnare una strada da percorrere piano negli anni a venire. Cerco il respiro. Mi sfiora il pensiero che un soffio di vento è stato prima di me, un’eco ritorna. Una piccola folata calda segna un appuntamento. Qui ora, adesso. Guardo il cielo che è stato anche vostro. Un cielo forte, bianco, lucente fino ai denti. Vedere senza fine. Entrare nell’inconsistenza delle nuvole. Abitarvi e farsi domande. Ovunque voi siate. Ovunque tu sia, chiedo: «Circondami!». Non ti ho mai conosciuto. Memorie tramandate di voce in voce. Ma sei nella mia pelle, nel mio sangue. Rimangono oggi una medaglia, una lettera e un nome racchiuso nell’albo d’oro. E la tua storia. Un nome sulla lapide che vi riunisce tutti nella piazza della città. Il tuo nome era Nero. Capo squadra, classe 1925. 144ª Brigata Garibaldi. Torturato e ucciso il 30 gennaio 1945.
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Come tanti ragazzi, avevi finito la scuola elementare a tirate d’orecchi. Una morosa e una bicicletta da dividere in cinque. Iniziavi un mestiere: il magnano, lo stagnino. Un lavoro destinato a scomparire come i vecchi Orsari della montagna che scendevano nei paesi ad alleviare i giorni con i loro spettacoli. Un lavoro che non ti ha dato il tempo di affaticarti.
Ovunque voi siate.
Era la primavera del 1940. Una primavera calda che sembrava pronta al balzo della vita per chi nasce con un cuore selvaggio, imprendibile, fatto di sistole che impazziscono al pensiero di legami. Giovanni era un piccolo germoglio d’uomo, toscano di origine, con un sopracciglio sensibile e pronto a inarcarsi per esprimere furore e disappunto. Non ci voleva molto a farlo arrabbiare e lo capivi subito da quel sopracciglio. Anche se i suoi occhi blu, appena ti guardavano, ti mettevano subito in pace con il mondo. Secondo di quattro fratelli, aveva fin da piccolo il temperamento di chi non vuole niente dagli altri e vuole fare tutto da solo. Voleva lavorare sodo per non chiedere soldi e favori a nessuno. Della scuola, per carità, non ne voleva sapere: arrivò alla quinta elementare a furia di scapaccioni di suo padre e preghiere di sua madre. Voleva fare il mestiere da subito. Andare per le strade montane a esercitare il mestiere di famiglia, lo stagnino. Bello era proprio bello, un farfallone in piena regola. Le ragazzine impazzivano per lui. Sapeva raccontarle bene e tra uno sguardo e l’altro era capace di farle innamorare subito. Ma Giovanni non voleva legami, lo diceva sempre ai suoi fratelli. “Ho un cuore selvatico” ripeteva spesso. E aggiungeva che con quei fascisti in giro, a dettar legge e a picchiare chi non ci stava alle loro regole, c’era da metter mano al fucile e difendere la libertà a tutti i costi. E lo diceva con quell’accento toscano un po’ emiliano che faceva sempre ridere tutti. “Non posso innamorarmi” ripeteva sempre. 14
Ma la piccola Laura aveva il profumo delle pesche mature il mattino di quella calda primavera, e, mentre passava dal paese per andare al canale a lavare i panni, Giovanni, pur assorto nei suoi pensieri, la vide passare. Quel profumo gli aprì il cuore. Laura e Giovanni avevano compiuto da poco quindici anni. A quell’età l’amore è una lava incandescente e inarrestabile. Poco importava, scattata la scintilla, che la guerra fosse alle porte. L’amore apre voragini di speranza che annientano il male. L’amore apre le porte di un possibile futuro. È un punto di riparo, la tettoia dalla grandine, la protezione dal vento freddo. Un maglione caldo che toglie la paura. Laura andava a lavare i panni al canale del paese ogni lunedì. Giovanni finiva il lavoro in fretta e furia e la accompagnava con la sua bicicletta. Le portava il cesto dei panni. Le raccontava del loro futuro. La aspettava e la riaccompagnava a casa. Un rito sacro, fatto di promesse e baci rubati. Il rito dell’amore.
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La situazione nel Paese andava ogni giorno peggiorando. L’amore nutre di speranza e Giovanni e Laura ormai innamorati vivevano l’imminente estate con passione. Ma il vento della guerra non fa sconti a nessuno e Giovanni, partito per il servizio militare a Rovereto scrive lettere a Laura e ai genitori, spedisce foto, sorride. Dice che va tutto bene. Ma sono giorni di tensione e paura e i propositi di lotta di Giovanni e dei suoi compagni diventano ogni giorno più forti e importanti. La parola che li unisce è ribellione. Ribellarsi al nemico che annienta le persone. “Io sono un Ribelle” ripete a se stesso.
La aspettava e la riaccompagnava a casa.
Giovanni diventa ribelle perché un luogo dentro di lui, pieno di amarezza, sovrasta la speranza. Diventa ribelle perché difendere il suo amore è la cosa più importante. Diventa ribelle perché c’è un intero Paese, un’intera comunità, che vive insieme a lui quello che sta subendo. Un Paese invaso dalla violenza e dalle leggi razziali, che lo porteranno alla tragedia della guerra. Giovanni si convince che avere fiducia nel popolo e nella sua forza politica non è sprecato e tutto questo lo induce ben presto ad agire.
Rovereto, aprile 1943 Cari genitori, caro fratello, vi mando queste poche foto per farmi ricordare. La situazione si fa sempre più tragica e la guerra, che in principio sembrava lontana, ci piomba addosso con ferocia. Da che parte stare? Abbiamo tutti un dovere di scelta. Ribellarci al nemico, per essere finalmente liberi.
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Ecco chi sei, ecco chi ho cercato. Occhi azzurri che affondavano nei contorni neri delle orbite. Un sorriso largo e ospitale. Un uomo che credeva a un sogno di libertà. Un uomo che come tanti ha sacrificato la vita per dignità e senso di giustizia. Ecco chi sei. Ed io? Un piccione viaggiatore che attraversa le strade della memoria per toccare un foglio bianco e disegnare le parole. Sussurri, frammenti di una storia nella Storia. Fino all’unica Liberazione, che non hai mai festeggiato.
Riprendo il mio cammino mentre le parole lasciano il posto ai paesaggi che incontro. E il mio sguardo si perde. Lo scricciolo segna il canto dell’inverno. Annuncia la neve. Quasi come per magia la notte si è tinta di bianco e al mattino ripercorro di nuovo il sentiero. È intimo il silenzio della neve. La luce cambia. Camminando anche il tempo diventa irreale. Così il pensiero scorre alle memorie ascoltate. S’infila come un maglione caldo. Sembra di sentire la tua voce. “Io sono un Ribelle della montagna”.
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Sussurri, frammenti di una storia nella Storia.
“Io sono un Ribelle della montagna”.