Il faggio, per me

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Il faggio, per me

Alessandro Riccioni
Di ombre, di vento, di occhi. E di parole. Illustrazioni Marina Cremonini Introduzione Roberto Piumini Il Quaderno quadrone

Alessandro Riccioni

Il faggio, per me

Di ombre, di vento, di occhi. E di parole. Illustrazioni Marina Cremonini Introduzione Roberto Piumini

Grazie Massimo, che sei nel respiro degli alberi.

Ai monti tondi. A Lule, che con me ci vive, e a Elisabetta (Betty), quando vieni su?

Salire

E gli occhi a salire come fossero tronchi diritti che puntano al cielo

E la testa si perde tra nuvole in fuga i piedi nell’umore del muschio

Le braccia a fermare l’arrivo del vento le mani farfalle impreviste.

Liberi di non crederci!

Liberi di non crederci, considerato quello di cui parla Alessandro in questo libro, ma quando giocai a «Se fossi un X, quale X saresti?» mi bastò un secondo per decidere che, se fossi stato albero, sarei stato un faggio. Tutti gli alberi mi piacciono, ma a quella decisiva domanda fu il faggio la risposta, lasciando gli altri alberi sullo sfondo, bosco fraterno ma secondario.

Riflettendoci, più che sentirmi un faggio, è un faggio che vorrei essere, e mi chiedo il perché, perché se vorrei essere un faggio, siamo nella zona del desiderio e, come dice Alessandro, il desiderio è una cosa importantissima, forse la più importante. Se il desiderio, lui dice, è un “vuoto da riempire”, voglio sapere di cosa vorrei riempirlo, desiderando essere un faggio.

Qui è molto utile quello che Alessandro dice riguardo al modo in cui il faggio abita la terra, cerca l’acqua e l’ombra, risponde al vento, si fa silenzioso, dona il suo silenzio al silenzio del bosco. E quello che dice sul colore della corteccia, delle foglie, della sua espansione nel cielo. A questo aggiungo (è un modo per dire le stesse cose) che del faggio mi piace l’austerità morbida, la potenza fatta di curve, il gioco delle radici con le pietre muschiose e, naturalmente, il suo autunno, quando le faggete sono regge, cattedrali, paradisi gialli e rossi.

A tal proposito, mio padre, maresciallo del Corpo Forestale, talvolta nominava il Fagus rubra. Ciò che oggi è ketchup, allora era la Rubra, e a me piaceva pensare che in autunno i faggi fossero immensi fiori, o leccalecca, di salsa di pomodoro. Ma torniamo al desiderio, che in noi umani non è rivolto a cose generali, a grandi insiemi, ma a oggetti discreti, unità o piccole famiglie. I faggi abbondano, nel nostro Paese: nell’Altopiano del Cansiglio (Prealpi venete), in Appennino, nel Casentino, fino a quelli maestosi del Gargano.

Ma non è di tutti questi faggi che Alessandro, come dice, non può fare a meno. Non sono tutti questi i faggi che io sarei, o che vorrei essere. Non sono tutti questi i faggi della nostra memoria e del nostro desiderio. Quali sono, insomma?

Bisogna sapere, come si diceva all’inizio delle fiabe, che Alessandro e io siamo originari della stessa Regione, della stessa Provincia, dello stesso Comune, nell’alto Appennino Bolognese.

Io sono nato altrove, perché mio padre fece il Forestale nelle Alpi: Val Trompia, Valcamonica, Val d’Intelvi, tutti posti con faggi. Ma lui e mia madre erano nati sull'Appennino, comune di Lizzano in Belvedere, e dunque anch’io sono originario di quelle montagne. Tutte le estati, fino a una certa età, passavo le vacanze dai nonni, nella fattoria di Casa Gabrielli, frazione di Vidiciatico, che è una frazione di Lizzano. I vidiciatichesi dicevano: «Vidiciatico bello, Lizzano porcello» e i lizzanesi chiamavano magalini i vidiciatichesi, parola di significato non chiaro, ma non elogiativo: come si vede anche lassù c’era il difetto di non andare d’accordo, scioccamente, coi propri vicini... Alessandro, invece, lassù è nato ed è rimasto per tutta la vita, e dice che non andrebbe mai a vivere in un altro posto. È lì, o lì vicino, che ha sempre fatto, benissimo, il bibliotecario. È lì che ha scritto le sue storie e poesie.

L’avete capito: sono i faggi di quei boschi e quelle montagne, i nostri faggi. Forse ce n’è uno in particolare di cui Alessandro non può fare a meno, e forse ce n’è uno in particolare che io vorrei essere: ma certo i nostri faggi sono lassù, all’ombra del Corno alle Scale, al suono del torrente Dardagna, che corre a gettarsi, traditore, nel modenese Panaro. La rotta aerea Milano-Bari, o Milano-Atene, passa proprio sopra quel territorio, e guardando giù io so riconoscere i boschi dei miei faggi. Alessandro no, perché non ama viaggiare in aereo.

Lui non vola, ma non ha nessuna importanza, perché è un poeta.

Il faggio, per me

Ci sono, nella vita, tante cose di cui non è possibile fare a meno: il sale nella minestra, il ferro nel cemento armato, l’aria che respiriamo. Per quanto mi riguarda, vi parrà strano, io non posso proprio fare a meno degli alberi! Certo, voi mi direte che nessuno può fare a meno degli alberi. Allora sarò più preciso: io non posso fare a meno dei faggi. Lo sapete cos’è un faggio, vero? Sono sicuro che lo sapete, ma io vorrei spiegarvi cos’è un faggio per me.

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All’inizio, il faggio è un cespuglio che quasi non si vede nel sottobosco. Un disegno di rametti all’apparenza fragili. Le sue radici si fanno strada in un terreno ricco, tra i più fertili che ci siano. Si nutre della terra, ne succhia l’umore, il sudore. Poi, in meno tempo di quanto ci si possa immaginare, ecco che diventa una colonna altissima del colore dell’argento. Un bel colore, no? I suoi rami ormai robusti vanno in cerca del sole, in alto. Non è il suo corpo ad avere bisogno del sole e dell’aria, è la sua testa che vuole la luce. E la sua chioma cresce, grande, di un colore verde che muta con il cambiare del vento: ora è chiaro e tenero, ora pallido e silenzioso. Silenzioso, sì, proprio così. Quando il vento sui monti si ferma, anche i faggi sembrano finalmente riposarsi e il verde diventa, all’improvviso, silenzioso. È come l’ultimo vibrare di una corda, come lo spegnersi di una musica.

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Il vento

Il faggio ama il vento. Si piega docile e si lascia modellare dalla sua forza. Di cosa sia il vento è stato detto quasi tutto: la voce più misteriosa del creato, le vocali di Dio che cadono sulla terra, il lamento delle persone scomparse, la musica degli angeli. Ma io continuo a cercare parole per dire il vento, così come continuo a cercare parole per il suo contrario: il silenzio di vento. Da bambino, me lo ricordo benissimo, mi chiedevo di continuo da dove venisse tutto quel frastuono che mi circondava dentro il bosco. Passavo ore intere a guardare in alto, verso i monti, o in basso, lungo la valle. Poi, come per caso, trovai la risposta. C’era una piccola valle, poco lontana dal paese, stretta stretta, di un verde scuro e a volte minaccioso. Era quello il punto in cui tutti i vecchi guardavano per sapere che tempo avrebbe fatto. Così, in quel giorno chiaro di ottobre, riconobbi in quella stretta V, nel cielo terso, la gola del vento.

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E in quel momento fui sicuro che il vento scendeva rotolando proprio di lassù, e che accompagnava le corse che noi bambini facevamo per arrivare al fiume, poco più sotto la stretta gola. Quando mi lanciavo con gli altri bambini giù per i campi, anche se non lo dicevo a nessuno, io lo sentivo il vento che correva con me, con noi. Ricordo che, forse per prendere coraggio, urlavamo tutti come piccoli indemoniati e io sentivo l’urlo del vento che rispondeva alle nostre voci. Quando raggiungevamo i grossi sassi che nascondevano le prime pozze d’acqua del fiume, ci accucciavamo sulla pietra levigata e, con ancora il fiato grosso, ridevamo, guardandoci in faccia per vedere chi fosse più rosso e sudato. Quando ripenso a quelle risate, e vi assicuro che ci ripenso spesso, ritorno il bambino che corre nel vento e so che il vento non è altro che il silenzio che ride.

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L’ombra

Il faggio ama l’ombra. La ama fin da quando non è che un piccolo cespuglio, mentre noi quando da bambini ci accorgiamo all’improvviso di quel corpo leggero che ci segue dovunque cerchiamo di calciarlo via ad ogni passo. All’inizio, quel compagno di strada ci sembra un intruso, una macchia. Poi, ci accorgiamo che il disagio a poco a poco scompare e ci abituiamo a convivere con l’ombra. Io ho dovuto attendere molti anni per accettare la mia. Ero un bambino un po’ lunatico e tutti mi dicevano che ero ombroso, un aggettivo di cui non capivo il significato, ma che non mi piaceva. Fu un libro, più tardi, a sconvolgere una volta per tutte la mia immatura idea di ombra. Era la storia di Peter Schlehmihl, un uomo che perdeva la sua ombra e a causa di quella perdita passava da una disgrazia all’altra. Un vero e proprio inferno! Da allora cominciai a curare la mia ombra, a nutrirla di luce, a studiarne il colore, a ritagliarvi i movimenti più strambi.

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Fu un gioco meraviglioso, quello dell'ombra, che mi spinse a fare i conti con la luce dentro e fuori le cose. Scoprii così i colori e le sfumature, cioè il velo che l’ombra stende sul mondo.

Fu il verde il primo colore che mi colpì. E fu proprio il verde che mutava sui rami dei faggi a diventare il mio colore preferito. Presi addirittura a vestirmi tutto di verdi diversi, dal berretto fino alle scarpe. Ricordo che restavo ore ad osservare il colore delle cose e assumevo un’aria così svagata che spesso chi era con me diceva che ero addormentato, o meglio, come si dice dalle mie parti “incantato”. Prima ombroso e adesso incantato, ma questa volta l’aggettivo era giusto: l’incanto cresceva in me come un secondo cuore o un terzo occhio. Crescevo proprio come un faggio, velocemente, nel gioco dei colori. Il nuovo arcobaleno che si era insediato nei miei occhi m’insegnò il valore delle sfumature e del dubbio. Al dubbio spettava il colore dell’ombra: il grigio.

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