

Sacrificio
Volume 4, numero 4 Autunno 2024
CONTENUTO
EDITORIALE
Lucinda M. Vardey
IL SIGNIFICATO E LA PRACTICA DEL SACRIFICIO
John Dalla Costa
AMORE EUCARISTICO: SACRIFICIO PER L’AMICIZIA
Mary Madeline Todd O.P.
L’AMORE PIÙ GRANDE:
Quattro storie di chi ha dato la vita per gli altri
LUCI NELLE TENEBRE: I DONI DI PACE DELLE DONNE IN GUERRA
Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz
SPARGERE FIORI NEL CHIOSTRO: I PICCOLI SACRIFICI DI SANTA TERESA
Lucinda M. Vardey

Durante la pianificazione dei seminari sulla teologia femminile sponsorizzati da Magdala a Roma, la storica della Chiesa Lucetta Scaraffia ha affermato che i cattolici di oggi hanno perso la comprensione e l’esperienza del sacrificio. Sembra che abbia comunicato una verità profonda. Nella mia infanzia, quando avevo mal di testa, quando non superavo un esame o il mio voto a scuola era deludente, mi veniva detto di “offrirlo.” “Offrirlo” significava condividerlo, non lasciare che il proprio dolore personale si ripiegasse su sé stesso, ma offrirlo a Dio. Questo di certo non mi faceva sentire meglio, ma, con il senno di poi, mi ha insegnato che qualunque cosa accada offre l’opportunità per una connessione in preghiera al sacrificio di Cristo.
Il sacrificio come offerta può anche includere il “dare” e il “rinunciare.” Nell’esprimere il nostro amore per Dio e per gli altri, può risultare doloroso essere sempre allegramente generosi e gentili con il nostro tempo, atteggiamento o risorse. Lo stesso vale per il “fare il miglio in più.” Possiamo solo confidare che ciò che si sviluppa lungo il cammino sarà trasformativo sia per chi dà sia per chi riceve.
A volte siamo chiamati a sacrificare il passato, sacrificare vecchie relazioni, sacrificare i nostri talenti. Una volta una suora mi ha raccontato le difficoltà di rinunciare ai suoi doni musicali per il bene della comunità. Era un’ottima cantante e, dopo anni a guidare la sua congregazione nel culto, ha ricevuto lamentele sul fatto che cantava troppo forte. Non potendo cantare in modo diverso, ha deciso di muovere solo le labbra in silenzio per non disturbare gli altri. Questi sacrifici personali quotidiani non possono essere sottovalutati, perché se sono fatti con il cuore, nella vulnerabilità, per non danneggiare gli altri, possiedono un potere che va oltre la nostra comprensione. Santa Teresa di Lisieux chiamava i suoi numerosi sacrifici nel convento “spargere fiori”, alcuni dei quali sono riportati in questo numero.
Le oblazioni non sono solo “offerte,” ma comportano anche il “fare senza,” sacrificando i propri comfort personali per essere solidali con chi è meno fortunato. Alcune donne note per aver vissuto vite oblative sono Simone Weil, la filosofa francese, che scelse di lavorare nelle fabbriche per comprendere la sofferenza degli altri. Scelse anche di non mangiare più delle razioni alimentari imposte dai nazisti alla nazione francese nei primi anni Quaranta. Dorothy Day possedeva solo lo stretto necessario, vivendo con coloro ai quali offriva riparo.
Le Missionarie della Carità di Madre Teresa rinunciano alle comodità materiali, anche nella preghiera (non ci sono tappeti o sedie e banchi nelle loro cappelle), per essere in una relazione stretta e amorevole con i senzatetto, i malati e coloro che non hanno mezzi materiali.
Per quanto grandi o piccoli siano i sacrifici, si tratta di atti eroici. Richiedono non solo
coraggio, ma anche fede, amore e fiducia nella promessa di Gesù. Possiamo riconoscere questi elementi all’opera in coloro che non solo hanno sacrificato la propria sicurezza per il Vangelo, ma, con l’intenzione di cooperare nell’opera di salvezza di Gesù, hanno portato pesanti croci per alleggerire i fardelli e i debiti degli altri. Questa forma di sacrificio viene definita “espiazione.” Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz spiega nel suo articolo che l’espiazione è una risposta specificamente femminile alla minaccia e al terrore. Un ulteriore grado di sacrificio è testimoniato nella richiesta di Edith Stein (Santa Teresa Benedetta della Croce) alla sua superiora nel convento carmelitano di Echt, in Olanda. Sotto la minaccia imminente di prigionia e morte, ottenne il permesso di offrire sé stessa “come sacrificio di propiziazione per la vera pace,” affinché il male che la circondava crollasse senza una “nuova guerra mondiale.” Citava il desiderio che, con questo voto, “fosse stabilito un nuovo ordine.” Questo tipo di sacrificio è interno, e offre la propria vita di sofferenza a Dio per espiare le ingiustizie degli altri. Suor Mary Madeline Todd ci offre un approfondimento su questo tipo di “sacrificio vivente” che trascende il proprio io per impegnarsi nella libertà umana.
“L’amore più grande” ritrae quattro eroici individui che hanno lasciato che l’amore superasse la paura e hanno dato la vita per i loro amici: Santa Gianna Molla per la sua bambina, Santa Veronica Giuliani per le anime perdute, Suor Dorothy Stang per la foresta amazzonica e San Massimiliano Kolbe per un compagno di prigionia.
Questo numero inizia con una panoramica di John Dalla Costa sul perché oggi abbiamo perso l’arte del sacrificio e sull’importanza di riscoprirla.
Lucinda M. Vardey Caporedattrice
Il significato e la pratica del sacrificio
John Dalla Costa

John Dalla Costa è esperto di etica, teologo e autore di cinque libri. Per maggiori informazioni su di lui, visitate il nostro sito web.
Spesso si pensa che il dovere di lavorare imposto nella Bibbia sia dovuto alla disobbedienza peccaminosa dell’umanità nei confronti di Dio. In realtà, l’incarico di creare con diligenza, cura e fatica faceva parte della benedizione che Dio rivolse agli esseri umani subito dopo la loro creazione. Essendo “a immagine di Dio,” queste creature benedette “maschio e femmina”
avrebbero avuto capacità simili a quelle del loro Creatore per quanto riguarda l’amore, l’immaginazione e la fatica per gli altri (cfr. Genesi 1:27-28). Tutto questo impegno divenne molto più gravoso dopo la disobbedienza della prima coppia, non solo come punizione, ma soprattutto perché la loro resa alla tentazione dell’interesse personale e dell’autosufficienza aveva spezzato il legame di fiducia con Dio. Ci sono sempre delle conseguenze nel desiderare o nell’accaparrare per sé ciò che è un dono di Dio o nell’ingannare, rubare o danneggiare gli altri per il proprio vantaggio o comodità. Come la coppia nel Giardino dell’Eden ha imparato, è inutile cercare di nascondersi
dalle nostre infrazioni perché le ferite inflitte agli altri danneggiano la nostra stessa anima, in particolare nel dannoso allontanamento da Dio (vedi il numero Adamo ed Eva di Un unico accordo).
È importante non divinizzare il sacrificio, poiché nel tempo ciò ha significato giustificare la sofferenza degli altri. Tuttavia, nemmeno la dimensione sacrificale della vita deve essere sottovalutata. Il sacrificio, con la sua sofferenza, è sorprendentemente radicato nella benedizione. Gli elementi essenziali della vita umana—l’amore, la bellezza, l’appartenenza e la comunità—non possono essere realizzati, né fruttificare, senza abbracciare il sacrificio.
Gesù incarna la benedizione del sacrificio. Attraverso la sua incarnazione kenotica -la sua completa e totale offerta di sé - ha mostrato sia la natura di Dio come amore, sia il compimento della dignità umana attraverso il desiderio di ricevere e condividere quell’amore. La salvezza che Gesù ha realizzato sulla croce non ha eliminato il sacrificio. Piuttosto, ha ripristinato il suo senso originale di partecipazione con Dio nell’opera d’amore di costruire relazioni e servire la creazione. Questo è uno dei motivi per cui Gesù ha insistito sul fatto che il suo “giogo è dolce” e il suo “peso è leggero” (cfr. Matteo 11:30).

Per la sua grazia, e con la continua presenza sacramentale di Gesù, tutta questa fatica essenziale e inevitabile sarebbe ora immersa nella benedizione originale di collaborare alla costruzione del regno di Dio.
Per definizione, sacrificarsi significa diventare vulnerabili per il bene degli altri o per una causa più grande di noi. Si dà il caso che questa vulnerabilità sia il fulcro del significato e della gioia. San Francesco di Sales lo ha espresso in modo toccante, scrivendo: “Niente è così forte come la dolcezza, niente è così dolce come la vera forza. Perché ciò che Cristo ci chiede è spesso difficile, ma più si ama, più diventa facile.”1 Da qui la benedizione delle Beatitudini; da qui la benedizione dei sacrifici di sé necessari per confortare chi è nel lutto, per soddisfare le esigenze della giustizia e per spezzare la logica reciprocamente distruttiva della guerra per realizzare la vera pace.
UNA CULTURA DELLA CONVENIENZA
Diversi decenni fa, i sociologi dichiararono che “la cultura sacrificale è morta.” Non perché le persone avessero smesso di riconoscere il dolore causato dalla violenza,
dall’ineguaglianza, dalle esclusioni sociali o dal degrado ambientale. Piuttosto, come ha spiegato il sociologo polacco/britannico Zygmunt Bauman, è che “le manifestazioni di devozione verso quel ‘qualcosa (o qualcuno) diverso da sé, per quanto sincere, ardenti e intense, si fermano prima del sacrificio di sé.” 2 In effetti, un presupposto fondamentale della nostra pervasiva cultura del consumo è che ogni tipo di sacrificio possa essere evitato o facilmente risolto, promettendoci di poter avere tutto. Con la convenienza che sostituisce la coscienza, i legami nella società - e nelle sue istituzioni, inclusa la Chiesa - si sfaldano quando gli individui optano per l’illusoria autogratificazione di una “moralità indolore.” 3 Papa Francesco ha riconosciuto i pericoli di questa sistematica evasione o demonizzazione del sacrificio. Scrive che “La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite troncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba.”4
Il soffocamento è tutto intorno a noi, e spesso anche dentro di noi. Concentrati sulle carriere, sacrifichiamo il tempo per l’arte, il gioco o la famiglia. Sedotti dalla stimolazione incessante dei social media, sacrifichiamo la riflessione necessaria per comprendere gli eventi o dare un senso ai fatti. Cercando la massima comodità al prezzo più basso, guidati dall’interesse personale, ci allontaniamo da coloro che lavorano, a volte a meno del salario minimo, per raccogliere i nostri frutti o consegnare i nostri pacchi. Tutta questa fuga dal sacrificio ha paradossalmente aumentato la sofferenza, poiché le persone cedono all’esaurimento e alla solitudine, vivendo nella paura di una società impersonale e violenta.
RINNOVAMENTO E SPERANZA
Ciò che l’attuale fissazione sull’interesse personale non coglie è che gli esseri umani sono fatti per il sacrificio, non perché siamo condannati o incompleti, ma perché il cuore umano “ha fatto di me una meraviglia stupenda” (Salmo 139:14-16) per l’offerta di sé dell’amore. Il sacrificio è il dono con cui tratteniamo intenzionalmente i nostri interessi o affrontiamo qualche sofferenza per servire ciò di cui gli altri hanno bisogno. Nel suo libro Nuovi semi di contemplazione, Thomas Merton scrisse: “Il vero segreto del sacrificio non è la distruzione, ma la crescita. Non dobbiamo perderci nell’annichilimento, ma trovarci donandoci” (p. 45).
Ogni aspetto del discepolato è, di per sé, un sacrificio perché implica il rinunciare a sé stessi e lo svuotamento dell’interesse personale, in modo che “e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Galati 2:20). Questo rinnovamento del discepolato sacrificale è il cuore del Giubileo della speranza del 2025. Rifiutando le false speranze provenienti dalle ideologie della società o dal consumismo, Papa Francesco ha definito la speranza autentica come la condizione di possibilità inclusive, facilitate dai sacrifici condivisi. Egli invita tutti i cristiani a impegnarsi in azioni concrete di compassione; a lavorare per smantellare le ingiustizie sistemiche; ad accompagnare i poveri con una solidarietà diretta e a esercitare misericordia nella dura realtà dell’indifferenza odierna. Tutto ciò comporta sacrifici personali e collettivi significativi. Il sacrificio per la speranza preannuncia una doppia benedizione. Come scrisse Santa Teresa d’Avila, “L’anima che si unisce a Lui nella sofferenza scopre che le sue più grandi gioie vengono proprio da quelle sofferenze. Poiché è nel sopportarle per amore di Cristo che siamo attratti più vicini a Lui.”5
Mary Madeline Todd O.P. è una suora domenicana della Congregazione di Santa Cecilia, che da oltre trent’anni vive con gioia la vita consacrata e condivide il ministero dell’insegnamento di Cristo, servendo studenti dalla scuola elementare all’università. Dopo aver conseguito un master in teologia presso la Franciscan University di Steubenville, ha avuto la benedizione di studiare a Roma, conseguendo il dottorato in Teologia Sacra presso la Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino. La sua area di specializzazione è la teologia della donna negli scritti di San Giovanni Paolo II, un campo che l’ha aperta alla missione di aiutare le donne a scoprire e abbracciare la loro unica dignità e vocazione. Suor Mary Madeline parla e scrive di teologia spirituale e morale e attualmente insegna teologia all’Aquinas College di Nashville, dove trova gioia nell’aiutare la nuova generazione a scoprire la libertà liberatrice di chi sono in Cristo.
Amore eucaristico: Sacrificio per l’amicizia
Mary Madeline Todd, O.P.
Sappiamo intuitivamente che, se qualcuno afferma di amarci, tale affermazione include la disponibilità a sacrificarsi per il nostro bene. Se qualcuno dice: “Ti amo come un caro amico,” ma quella persona non ci dedica mai tempo, compagnia o compassione, quelle parole sembrano false.
San Giovanni Paolo II scrisse spesso della necessità di trascendere il proprio io per poter vivere pienamente la libertà umana e sperimentare la gioia liberatrice dell’amore. Questa trascendenza del sé mette in discussione il presupposto culturale dominante secondo cui siamo più liberi quando evitiamo qualsiasi forma di sacrificio. Tuttavia, se il sacrificio è, come afferma Louis Veuillot, “la grande gioia dell’amore,” allora la disponibilità a soffrire per amore non è una negazione, ma anzi uno degli impegni più sublimi della nostra libertà.
La notte prima di morire, Gesù si riunì con i suoi amici più cari per affidarsi a loro in modo misterioso ma tangibile. Pronunciò parole rese ancora più toccanti non solo dal

suo stesso essere, ma anche dall’imminenza della sua morte: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15:13). Il suo sacrificio sulla croce ha incarnato l’amore sacrificale perfetto che ogni offerta dell’Eucaristia rende presente: il dono della sua presenza costante nell’amicizia eucaristica.
La parola sacrificio deriva da due parole latine, sacer e facere, che significano letteralmente rendere santo o mettere da parte per il soprannaturale. La celebrazione dell’Eucaristia è stata chiamata, tra i tanti appellativi, il Santo Sacrificio della Messa. Il sacrificio di Cristo è ciò che ci attira nella sua santità e nella sua lode eterna al Padre.
La Quarta Preghiera Eucaristica del Messale Romano mette in evidenza l’Eucarestia come sacrificio, indicando non solo l’evento passato del perfetto sacrificio di Cristo al Padre, ma anche il continuo sacrificio d’amore con cui partecipiamo al dono di sé di Cristo. Dopo aver ricordato gli eventi del mistero pasquale, la preghiera si
rivolge al Padre: “In attesa della sua venuta nella gloria, ti offriamo il suo Corpo e il suo Sangue, sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo.” Questa bellissima preghiera collega l’effusione totale dell’amore sacrificale di Cristo sulla Croce al sacrificio attuale della Messa. Inoltre intercede affinché tutti i partecipanti alla Messa “diventino un sacrificio vivente” a lode della gloria di Dio.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, parlando dell’Eucaristia come sacrificio, include una ricca teologia dell’unità tra il sacrificio di Cristo e il nostro: “Nell’Eucaristia il sacrificio di Cristo diviene pure il sacrificio delle membra del suo corpo. La vita dei fedeli, le loro lodi, le loro sofferenze, le loro preghiere, il loro lavoro, sono uniti a quelli di Cristo e alla sua offerta totale, e in questo modo, acquistano un valore nuovo. Il sacrificio di Cristo riattualizzato sull’altare offre a tutte le generazioni di cristiani la possibilità di essere uniti alla sua offerta” (n. 1368).
L’OFFERTA DI EDITH STEIN
L’offerta di sé per diventare un sacrificio vivente di lode, radicata e sostenuta dalla grazia di Gesù, è incarnata in modo unico nella vita e nel dono di sé di Santa Edith Stein. Nata nel 1891 durante la Festa dell’Espiazione, uno dei giorni più sacri di sacrificio nel giudaismo (cfr. Levitico 16), la sua vita fu segnata dal sacrificio fin dall’inizio. Dalla morte prematura del padre al successivo allontanamento dalla madre a causa della sua conversione al cristianesimo, Edith imparò che l’amore ha un costo. Sebbene avesse percorso un lungo cammino di scoperta verso Dio e verso sé stessa in Dio, passando dal giudaismo all’ateismo fino al cattolicesimo, Edith possedeva uno spirito profondamente empatico, che la rendeva particolarmente sensibile al valore dell’amore sacrificale.
Dopo l’inizio della Prima Guerra Mondiale, quando Edith era nel pieno dei suoi anni accademici, assistette alla chiamata al sacrificio dei suoi compagni di studio per servire nell’esercito. Si sentì spinta a iscriversi come infermiera, mettendo in pausa i suoi studi per mettersi al servizio degli altri. Durante il suo lavoro di infermiera,

compì atti concreti di amore sacrificale. Nonostante le razioni di guerra rendesse difficile trovare prelibatezze, diede a un soldato morente, affetto da pleurite e incapace di digerire la maggior parte dei cibi, i cioccolatini Lindt che aveva ricevuto come dono personale. Nella sua autobiografia rifletté che lui “accettò questi quando glieli offrii e li apprezzò... Probabilmente questo gli diede fiducia in me,”1 dimostrando così che il sacrificio può portare il seme della comunione interpersonale.
Edith visse con naturale bontà la saggezza che avrebbe poi compreso in una luce cristologica attraverso lo studio degli scritti di Santa Teresa d’Avila, che parlava del valore anche dei sacrifici più umili. Santa Teresa, la cui autobiografia sarebbe stata determinante per l’abbraccio di Edith della fede cattolica, comprese che i semplici atti d’amore acquisiscono valore infinito quando uniti all’offerta di sé fatta da Cristo. Esortava le sue consorelle nel chiostro: “...durante questo breve periodo che dura la vita... offriamo al Signore, interiormente ed esteriormente, il sacrificio che possiamo. Sua Maestà lo unirà a quello che Egli ha offerto al Padre per noi sulla croce. Così, anche se le nostre opere sono piccole, avranno il valore che il nostro amore per Lui avrebbe meritato se fossero state grandi.”2

Se Edith era naturalmente consapevole della necessità del sacrificio per vivere con amore, lo divenne ancora di più quando fu battezzata e poi seguì la chiamata di Dio al chiostro carmelitano. Il nome religioso che ricevette, Teresia Benedetta della Croce, evidenziava l’amore sacrificale e il culto eucaristico. Dalla croce di Cristo sgorga ogni benedizione, soprattutto quella di Cristo stesso che sostiene la nostra capacità di donare in virtù della sua grazia dentro di noi.

Edith non solo scrisse sulla scienza della croce, ma visse anche questa teologia dell’amore sacrificale. Quando la sua sicurezza e la sua incolumità furono minacciate dalla permanenza in un convento tedesco, si trasferì in un convento carmelitano in Olanda. Nel periodo che precedeva la Seconda Guerra Mondiale, in una lettera scritta la Domenica di Passione del 26 marzo 1939, chiese alla sua Superiora di permetterle di offrire sé stessa in quello stesso giorno “al cuore di Gesù come sacrificio di propiziazione per la vera pace, affinché il dominio dell’Anticristo possa crollare, se possibile, senza una nuova guerra mondiale, e affinché venga stabilito un nuovo ordine.”3 La sua richiesta fu accolta. Quando divenne evidente che anche i convertiti ebrei erano a rischio, lei e sua sorella Rosa, che fungeva da portinaia del convento, chiesero il permesso di trasferirsi in Svizzera. Furono accettate
da due conventi carmelitani, ma la Gestapo arrivò mentre aspettavano i visti. I vicini che si recavano al convento riferirono che le ultime parole che sentirono pronunciare da Edith prima che la Gestapo portasse lei e Rosa nei campi furono: “Vieni Rosa. Andiamo per il nostro popolo.”4 Nella sua ultima lettera alla superiora, scritta dalla caserma di Westerbork, Edith chiedeva beni di prima necessità come calze di lana e coperte per sé e per Rosa. Richiese il volume successivo del suo breviario, aggiungendo una nota che recitava: “finora sono stata in grado di pregare gloriosamente.”5
La vita sacrificale di Edith non era fine a sé stessa, ma piuttosto un mezzo per entrare in comunione con Colui che aveva dato tutto per noi. Come scrisse in La scienza della croce, “Così l’unione nuziale dell’anima con Dio è l’obiettivo per cui è stata creata, acquistata attraverso la croce, consumata sulla croce e sigillata per l’eternità con la croce.”6 In verità, Edith Stein, conformata a Cristo crocifisso, visse una vita di amore sacrificale. Ricevendo il Signore dell’Eucaristia e seguendo il cammino che le era stato dato, ha abbracciato la santità. Come santa, intercede per noi affinché diventiamo, attraverso Cristo, con Lui e in Lui, un sacrificio vivente a lode della gloria di Dio.
Per tutta la sua vita, Edith Stein fece tesoro dell’amicizia, come testimoniano le sue opere e le sue lettere. Credeva che l’amore sacrificale di Cristo non fosse solo un’offerta di lode al Padre, ma anche un dono di amicizia per coloro che ricevono e adorano il Signore Eucaristico. In una lettera a un’amica, Edith affermò che, dopo essere stata all’Esposizione Eucaristica, voleva portare “i saluti del nostro Salvatore Eucaristico.” Poi aggiunse: “Non è presente per il suo bene, ma per il nostro... abbiamo bisogno della sua vicinanza personale.”7 Questa vicinanza personale del nostro Salvatore Eucaristico è il dono dell’amicizia divina che sostiene ognuno di noi mentre percorriamo il cammino dell’amore sacrificale.
L’amore più grande: Quattro storie di chi ha dato la
PER SUA FIGLIA
vita per gli altri
Santa Gianna Beretta Molla (1922-1962)

Nata a Magenta, Gianna Beretta ha esemplificato una vita di preghiera e di servizio fin da giovane. Membro dell’Azione Cattolica e della Società San Vincenzo de’ Paoli, studiò medicina all’Università di Milano specializzandosi in pediatria. Nel tempo libero le piaceva sciare e fare escursioni ed era un’amante delle arti, in particolare dell’opera e del teatro.
Sposò Pietro Molla nel 1955 e le lettere che li legano mostrano un profondo amore per Dio e per l’altro. Nei primi quattro anni di matrimonio ebbero tre figli, un maschio e due femmine. Gianna
continuò a lavorare come medico e la loro vita era gioiosa e felice. Soffrendo dolori intensi al secondo mese di gravidanza del suo quarto figlio, le fu diagnosticato un fibroma all’utero che rappresentava un rischio per lei e per il bambino non ancora nato. Durante l’intervento chirurgico, implorò il chirurgo di salvare il bambino, consapevole che portare avanti la gravidanza avrebbe potuto mettere in pericolo anche la sua stessa vita.
Gianna portò a termine la gravidanza della figlia. Pochi giorni prima della nascita della bambina, insistette sul fatto che se fosse stato necessario prendere una decisione tra la sua vita e quella della bambina, sarebbe stato meglio salvare quella di sua figlia piuttosto che la sua. Gianna Emanuela nacque il 21 aprile e, nonostante i tentativi di salvarla, sua madre morì sette giorni dopo. Le sue ultime parole furono “Gesù, ti amo.”
Gianna Beretta Molla fu canonizzata nel 2004 da Papa San Giovanni Paolo II. Alla cerimonia erano presenti suo marito e sua figlia. Oggi anche Gianna Emanuela, diventata medico, viaggia spesso parlando della santità di sua madre e ha aperto centri di assistenza sanitaria per le donne con il suo patrocinio negli Stati Uniti.
PER LE ANIME PERDUTE
Santa Veronica Giuliani (1660-1727)

Veronica Giuliani è spesso chiamata “una vera figlia di Santa Chiara” poiché fu una clarissa cappuccina e divenne badessa del suo monastero d’adozione nella città umbra di Città di Castello. La sua vocazione era particolarmente unica in quanto vissuta interiormente, il che la portò
a sopportare incessanti dolori e sofferenze e ad amare da quel livello molto profondo. Dopo 20 anni di vita religiosa, Veronica Giuliani scelse di farsi “vittima per i peccatori,” offrendo la sua mediazione con Dio per le anime che stavano per perdersi per sempre nell’abisso dell’Inferno. La sua opera di salvezza, pregando per coloro che avevano bisogno di un’espiazione mediatrice, le permise di assumere le loro sofferenze, così da alleviarle e riportarle a Dio. Diceva: “Mio Signore, mi offro per stare qui come una porta, affinché nessuno possa entrare laggiù e perderti.”
All’età di 37 anni, mentre pregava davanti al crocifisso nel chiostro, Veronica Giuliani ricevette le stimmate. Raccontava di aver visto “cinque raggi splendenti” che si trasformarono in piccole fiamme contenenti chiodi, i quali le trafissero le mani e i piedi, mentre uno di essi, “una lancia, dorata e tutta infuocata,” le trafisse il cuore. Nella sua vita più avanzata, Veronica Giuliani attraversò quattro fasi di penitenza, che lei definì il “purgatorio d’amore.” In uno dei suoi numerosi diari disegnò un’immagine del suo cuore, che riportava i contorni degli strumenti della Passione di Cristo, insieme alle sette spade di Maria. Dopo la sua morte, un esame del suo cuore rivelò misteriose incisioni che corrispondevano al disegno che aveva fatto. Le sue ultime parole furono: “L’Amore si è lasciato trovare.”
PER LA FORESTA AMAZZONICA
Suor Dorothy Stang, SND (1931-2005)
Dorothy Stang nacque a Dayton, Ohio, negli Stati Uniti, e trascorse gran parte della sua vita religiosa lavorando per le popolazioni indigene nella foresta pluviale amazzonica, nello Stato

del Pará, in Brasile. Aiutò ad avviare piccole imprese per i poveri e contribuì a educare le comunità locali sulla coltivazione di raccolti nutrizionali adatti alla foresta.
Il suo impegno nell’agricoltura sostenibile, nell’aiutare le famiglie e nel creare comunità, l’ha portata ad aprire scuole nella foresta pluviale. La visione della sua vocazione prevedeva di parlare a nome degli abitanti contro le minacce agli agricoltori locali da parte di taglialegna e dei latifondisti. Lo slogan della sua maglietta recitava “La morte della foresta è la fine delle nostre vite.”
Mentre era in visita negli Stati Uniti, fu avvertita del crescente pericolo di vita che avrebbe corso se fosse tornata in Brasile. Ma la foresta la chiamava, diceva. Fece una campagna a favore dell’ambiente e delle persone che vi abitavano, presentando istanze agli ufficiali per i diritti umani del paese. Mentre si dirigeva da sola a un altro incontro lungo un sentiero di campagna, fu colpita più volte da due uomini e morì citando le Beatitudini..
Nominata “Donna dell’Anno” dallo Stato del Pará per il suo lavoro nella regione amazzonica, Dorothy Stang ricevette anche il premio dei “Diritti umani” dall’Ordine degli Avvocati del Brasile. Le Nazioni Unite la onorarono dopo la sua morte con il premio 2008 nel campo dei diritti umani. La sua eredità continua a vivere e crescere all’interno del ministero delle Suore di Notre Dame e dei loro collaboratori nella regione.
PER UN COMPAGNO DI PRIGIONIA
San Massimiliano Kolbe OFM Conv. (1894-1941)

Massimiliano Kolbe era un sacerdote francescano polacco. Studente di talento, eccelleva a scuola ed era interessato a intraprendere la carriera militare per difendere la sua Polonia, ma divenne invece un religioso.
La sua vita religiosa non era convenzionale per i suoi tempi. I suoi metodi di evangelizzazione includevano l’uso di moderne tecnologie di stampa per distribuire i suoi scritti e i suoi materiali. Fondò anche una stazione radio. Appassionato della cultura giapponese, avviò una comunità a Nagasaki e credeva che il futuro della predicazione dovesse coinvolgere il viaggio aereo.
Dopo l’invasione nazista della Polonia, padre Kolbe, che denunciò pubblicamente le politiche di Hitler affermando che Dio è “il padrone e il sovrano di tutti i popoli, tutte le razze e le nazioni,” fu arrestato e imprigionato nel campo di concentramento di Auschwitz.
La regola del campo era che se un prigioniero scappava, 10 detenuti venivano scelti a caso per morire. Uno di questi uomini era un padre che, nel tentativo di essere salvato, gridò di avere moglie e figli. Padre Kolbe si fece avanti e si offrì di prendere il suo posto. Condannati a morire di fame, si dice che i prigionieri, chiusi in una cella in compagnia del sacerdote, abbiano cantato inni e pregato fino alla fine. Dopo due settimane le guardie aprirono la stanza e trovarono solo Kolbe vivo. Misero fine alla sua vita con un’iniezione. Fu canonizzato da Papa San Giovanni Paolo II nel 1982. L’uomo a cui salvò la vita era presente alla sua canonizzazione e visse fino all’età di 93 anni.
Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz è una filosofa e teologa che ha pubblicato nei campi dell’antropologia culturale, del femminismo e del genere, della filosofia della religione (nonché della filosofia del XIX e XX secolo) e in un ramo della filosofia noto come fenomenologia. I suoi studi includono un’attenzione particolare al teologo Romano Guardini e a Edith Stein (Santa Teresa Benedetta della Croce). Negli ultimi 12 anni ha diretto l’Istituto per la Filosofia Europea e la Religione presso la Hochschule Benedikt XVI a Heiligenkreuz, Vienna, Austria. Di recente, le è stato conferito il Premio Ratzinger per la Teologia 2021, consegnatole da Papa Francesco a Roma.
Luci nelle tenebre:

I doni di pace delle donne in guerra
Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz
Durante la Seconda Guerra Mondiale sono state molte le donne che hanno portato pesanti croci per espiare i vizi e i crimini del terrore nazista. La più nota tra le donne tedesche è senza dubbio Edith Stein, Santa Teresia Benedetta della Croce, che entrò nel Carmelo nel 1933 per realizzare, a modo suo, il pensiero paolino secondo cui esiste la vocazione a soffrire con Cristo e a cooperare con lui nella sua opera di salvezza. Aveva scritto: “Ogni sofferenza che sopportiamo in unione con il Signore è la sua sofferenza, feconda di salvezza” (Lettera 26.12.1932). Due donne laiche cattoliche sopravvissute alla guerra fecero altrettanto: l’assistente sociale Marianne Hapig (1894-1973) e la scrittrice Nanda Herbermann (1903-1979).

Durante gli ultimi anni della guerra, mentre la città di Berlino subiva grandi devastazioni, Marianne Hapig organizzava segretamente vari modi per assistere i prigionieri della Gestapo e le famiglie dei cospiratori che avevano progettato di uccidere Hitler (e che furono successivamente giustiziati). Offrendo la sua vita a Dio come espiazione per i “terribili crimini” commessi dagli esseri umani contro altri esseri umani, e per i giovani uomini che non avevano pietà o compassione, agiva come intermediaria, trasportando notizie, cibo, carta e ostie ai sacerdoti incarcerati. Cuciva anche piccoli sacchetti in cui l’Eucaristia poteva essere portata sul petto mentre questi soffrivano o venivano processati. Uno di questi sacerdoti era il gesuita Alfred Delp, membro della resistenza cattolica al nazismo, che fu continuamente torturato. Marianne si occupava di lavare i suoi abiti intrisi di sangue e contrabbandava fuori le sue riflessioni spirituali, che ora sono pubblicate in tutto il mondo. Alfred Delp fu giustiziato il 2 febbraio 1945 all’età di 38 anni.
Riguardo all’espiazione, Marianne Hapig notò che era una croce pesante da portare, “Ma io volevo così...”. Dopo la fine della guerra, scrisse nel suo diario che “Spesso avevamo la sensazione che non saremmo mai stati felici e liberi, che non ci saremmo mai ripresi da
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tutto ciò che avevamo alle spalle.” Tuttavia, la riflessione di Alfred Delp sulla Pentecoste la consolò: “Nessuno attraversa il fuoco senza essere cambiato.” Scrisse: “Quando cento porte si chiudono dietro di noi, possiamo avere un’idea dell’immenso regno a cui apparteniamo, pronunciando il nome di Dio sulle nostre labbra. Lo Spirito che dà vita ci aiuterà a risalire dalle rovine, non distrutti, ma con una nuova visione e un rinnovato coraggio.”
Nanda Herbermann lavorava come segretaria per il famoso gesuita padre Friedrich Muckermann, che tra il 1926 e il 1931 curava la rivista letteraria cattolica

Der Gral (Il Graal) e si opponeva al movimento antireligioso del nazionalsocialismo sin dai suoi primi giorni. Considerato una minaccia per il nazismo, fu costretto a trasferirsi in Olanda, dove fondò un’altra rivista anti-nazista, mentre Nanda rimase in Germania per continuare la pubblicazione di Der Gral. Sospettata di passare messaggi tra padre Muckermann e il vescovo von Galen (successivamente beatificato da Papa Giovanni Paolo II), Nanda fu incarcerata in isolamento e sottoposta a intense interrogazioni dal febbraio all’agosto del 1941. “Le settimane dopo Pasqua,” scrisse, “divennero una vera passione per me, sopportando lunghi e tortuosi interrogatori dalla Gestapo... Spesso mi alzavo per pregare, sdraiata a lungo sul pavimento. L’idea di espiazione mi riempiva completamente” (Ms 12).
Non riuscendo a farla parlare, Nanda fu inviata a Ravensbrück, un campo di concentramento nel nord della Germania, dove le fu assegnato il compito di sorvegliare una baracca di 400 prostitute. Visse nel
campo per un anno e mezzo e, grazie all’intervento della sua famiglia, fu rilasciata nel marzo del 1943. Nel suo struggente memoir pubblicato dopo la guerra (ora disponibile in inglese con il titolo L’abisso benedetto), racconta quegli orribili tempi, descrivendo la vita dei prigionieri come “questa vita d’inferno” e le sofferenze che ciascuno dovette sopportare sotto il Terzo Reich. Scrisse anche che, come donna tedesca, era ingiusto essere considerata “responsabile delle terribili atrocità nei campi di concentramento.” Nanda difende i sopravvissuti della guerra, esortando a rimediare a ciò che i tedeschi avevano fatto ad altri tedeschi e a centinaia di migliaia di innocenti stranieri, in crimini e ingiustizie “che gridano al cielo.” Sostiene che sia necessario assumere “questo sacro dovere, il dovere dell’espiazione, agli occhi di Dio e del mondo.” Afferma che il mondo capirà, “dopo il nostro tempo di espiazione,” che non si può identificare l’intera razza tedesca come criminali nazisti” (Ms 74f).
Nanda Herbermann disse che non riusciva più a piangere né a versare lacrime, che non aveva più la forza per farlo. Ma teneva dentro di sé una piccola fiamma, dove portava tutto il dolore e la sofferenza indicibili ai piedi di Gesù, lasciandoli lì, affinché Lui li usasse e li portasse dove necessario.
Negli ultimi decenni si è sviluppato un ampio dibattito teologico sull’“espiazione.” È davvero opportuno caricarsi dei debiti altrui nel tentativo di alleviare la loro tribolazione? Espiazione significa specificamente offrire una penitenza sostitutiva. Secondo San Paolo, questo è il motivo centrale dell’incarnazione di Cristo. È un pensiero insondabile e noi partecipiamo al suo mistero. Non solo siamo espiati come peccatori, ma possiamo anche offrire l’espiazione per unirci più profondamente a Cristo.
Spargere fiori nel chiostro: I piccoli sacrifici di Santa Teresa
Lucinda M. Vardey

Lucinda M. Vardey è la caporedattrice di “Un unico accordo.” Per maggiori informazioni su di lei, si rimanda la sito web.
I fiori per Santa Teresa di Lisieux erano metafore utili per ottenere intuizioni spirituali. Chiamava la sua anima “un piccolo fiore bianco.” Nella sua autobiografia Storia di un’anima — composta da 3 manoscritti redatti alla fine della sua vita in risposta alla richiesta di sua sorella, Paolina (Madre Agnese di Gesù) — i fiori non solo rappresentavano la piccolezza, ma anche gli atti oblativi di carità. In una poesia da lei scritta, intitolata Spargere fiori , menzionava che i suoi “piccoli sacrifici” includevano le sue più grandi sofferenze, i suoi dolori e le sue gioie, che erano i fiori che avrebbe sparso per dimostrare il suo amore a Dio. Lo spargere fiori era la sua gioia “in questa valle di lacrime.” Desiderava soffrire “per amore e per amore anche gioire, così spargerò fiori.”
Teresa racconta come riuscì a superare la tentazione di giudicare gli altri, sia quando provava antipatia per la personalità di un’altra sorella, sia quando voleva allontanarsi dalla compagnia di una sorella irritante. Si chiede come Gesù amasse i suoi discepoli: “Puoi essere ben sicura che le loro qualità naturali non lo attraevano affatto... erano poveri peccatori, così ignoranti, i loro pensieri così terreni; eppure Gesù li chiama suoi amici.” Meditando su Giovanni 15:13 (“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”), Teresa riconosce quanto imperfetto sia il suo amore, rendendosi
conto che non amava le sue consorelle nel convento come Dio le ama. “Mi rendo conto ora,” scrisse, “che l’amore perfetto significa sopportare i difetti degli altri, non sorprendersi delle loro debolezze, trovare incoraggiamento anche nella minima traccia di qualità positive in loro.” Arriva alla conclusione che la carità non può essere “rinchiusa nelle profondità del cuore.”

LA LAMPADA E IL CANDELABRO
“Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosto una città che sta sopra un monte, ne si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa” ( Matteo 5, 14-16).
Teresa interpreta la lampada come la carità, che non è destinata solo alle persone a cui è affezionata, ma “a tutti nella casa, senza eccezione.” Non si tratta solo di amare il prossimo come sé stessi, conclude, ma di amarli come Gesù li ama. In una preghiera, condivide l’intuizione che, se deve amare le sue consorelle nel convento come Gesù le ama, “allora significa che sei tu stesso a continuare ad amarle in me e attraverso di me.” Vede questa ispirazione come un mezzo di grazia; solo la grazia, infatti, le permette di osservare il comandamento di Gesù e “di accoglierlo... come prova che la tua volontà è di amare, in e attraverso di me, tutte le persone che mi dici di amare!” Quando
agisce per “obbedire alla carità,” sente che è Gesù a operare in lei, e facendo così si unisce strettamente a lui, un’unione che cresce nella misura in cui dona amore a tutte le sorelle “senza distinzione.”
“DIPENDE DALL’INTENZIONE”
La strada è certamente accidentata per Teresa, poiché ammette che il diavolo la spinge a concentrarsi continuamente sui difetti di una sorella. Ma per rimediare a questo, si ricorda rapidamente di tutte le qualità e le intenzioni positive di quella sorella. Afferma che ciò che considera un difetto dell’altra potrebbe benissimo essere un “atto degno di lode.” Tuttavia, c’è una sorella nella comunità che la porta a una continua “lotta interiore.” Il suo comportamento e modo di parlare sembrano a Teresa del tutto ingiustificabili. Così decide di cambiare atteggiamento nei confronti di questa suora, accettando che, essendo una religiosa santa, Dio deve amarla molto. “La carità non è una questione di sentimenti raffinati,” spiega Teresa, “significa agire. Così ho deciso di trattare questa sorella come se fosse la persona che amo di più al mondo.” Teresa si impegna non solo nella preghiera, ma cerca anche di fare “un buon gesto” nei confronti di questa sorella ogni volta che ne ha l’opportunità. “Quando mi sentivo tentata di rispondere in modo scortese, mettevo invece il mio miglior sorriso e cercavo di cambiare argomento…” Questa particolare suora, informa Teresa, è del tutto ignara dei suoi veri sentimenti nei suoi confronti e del perché Teresa si comporti con tanta gentilezza verso di lei. Una volta, le chiese cosa fosse che la faceva sempre sorridere quando la vedeva, e la santa rispose che era la vista di lei a farla sorridere con piacere. Per non dire una bugia, Teresa menziona che non spiegò “che il piacere era interamente spirituale.” Fa riferimento a Matteo 5:46, dove Gesù dice “Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?” e afferma che amare una sorella che preferiresti evitare non è sufficiente: “devi dimostrarlo.”
“PER RALLEGRARE IL CUORE DI NOSTRO SIGNORE”
I sacrifici non riguardano solo il fatto che Teresa compia atti d’amore che non desider fare per qualcuno che non le piace o che la irrita; rifiuta anche di difendersi se viene fraintesa o se viene rivolta verso di lei una parola dura. Quando si prende cura di una suora anziana e malata, che si lamenta del modo in cui Teresa fa la maggior parte delle cose per lei, definendola “troppo giovane,” ammette di provare una grande felicità spirituale. Mentre lava la biancheria, un’altra sorella le schizza in faccia acqua sporca ogni volta che solleva i fazzoletti da un ripiano. Invece di allontanarsi e asciugarsi la faccia (portando quindi attenzione sulle azioni della sorella), Teresa coltiva “un gusto per l’acqua sporca,” che si riferisce umoristicamente

a una nuova forma di “Aspersione” (il rito di spruzzare acqua santa all’inizio di ogni Messa).
Uno dei sacrifici più difficili per Teresa è il rumore che una suora fa sfregando un dito contro i denti durante la preghiera della sera. E’ un “curioso rumore,” scrive Teresa, “piuttosto simile a quello che si farebbe strofinando due conchiglie insieme.” Teresa desidera voltarsi e lanciare a questa suora uno sguardo irritato, ma invece, dopo aver cercato con tutte le sue forze, tanto da sudare, di non far sì che il rumore interrompa la sua preghiera di quiete, decide di “sopportarlo per amore di Dio e risparmiare alla sorella qualsiasi imbarazzo.” Le viene l’idea di far sembrare quel rumore esasperante “una musica deliziosa” alla quale avrebbe ascoltato con intensità, per poi offrire questa musica al nostro Signore.
Teresa afferma che tutte le prove, questi “sacrifici insignificanti… sono come una medicina amara che mescola il suo sapore con tutta la mia felicità.” Spargendo questi fiori e offrendoli con amore, trova pace nella sua anima e conclude che Dio “dà sempre esattamente ciò che voglio; o meglio, fa sempre in modo che desideri esattamente ciò che lui sta per darmi.” Raggiungendo questo livello di innocenza acquisita attraverso la saggezza, Santa Teresa mostra che il cammino per essere la luce dell’amore non consiste solo nell’accettare le circostanze difficili così come sono, ma nello scegliere di rispondere ad esse come Gesù ha prescritto. In questo modo, sperimenta le vette della gioia e del piacere spirituali, mentre la sua anima diffonde la sua luce intorno al convento di Lisieux e, dopo la sua morte, nel mondo intero.
“Mi sono avvicinata così tanto all’Amore
Che ho cominciato a capire
Quanto grande sia il guadagno per coloro Che si donano completamente all’Amore: E quando ho visto questo per me stessa, Ciò che mi mancava mi ha dato dolore.”
(Hadewijch de Brabante).

Un Unico Accordo
O Dio, nostro Creatore, Tu, che ci hai fatto a Tua immagine, donaci la grazia di essere accolti nel cuore della Tua Chiesa.
R: In un unico accordo, preghiamo.
Gesù, nostro Salvatore, Tu, che hai ricevuto l’amore delle donne e degli uomini, cura ciò che ci divide, e benedici ciò che ci unisce.
R: In un unico accordo, preghiamo.
Spirito Santo, nostro Consolatore, Tu, che guidi il nostro lavoro, provvedi per noi, come noi ti chiediamo di provvedere per il bene di tutti.
R: In un unico accordo, preghiamo.
Maria, madre di Dio, prega per noi. San Giuseppe, resta accanto a noi. Divina Sapienza, illuminaci.
R: In un unico accordo, preghiamo. Amen.
BIBLIOGRAFIA
John Dalla Costa—Il significato e la pratica del sacrificio
1 San Francesco di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota, Parte 3, Capitolo 23.
2 Zygmunt Bauman, L’arte della vita, p. 41-42.
3 Ibid
4 Evangelii Gaudium n. 56
5 Santa Teresa d’Avila, Il castello interiore, 6.9.3
Mary Madeline Todd, O.P.—Amore eucaristico: Sacrificio per l’amicizia
1 Edith Stein, Life in a Jewish Family (Dalla vita di una famiglia ebrea), Washington DC, ICS Publications, 1986, p. 344.
2 Teresa d’Avila, Interior Castle (Il castello interiore), Washington DC, ICS Publications, 1980, p. 450.
3 Edith Stein, “Lettera a madre Ottilia Thannisch, OCD, Echt, 26 marzo 1939” in Edith Stein: Self-Portrait in Letters (Edith Stein: Autoritratto in lettere), Washington DC, ICS Publications, 1993, p. 305.
4 Citato in Waltraud Herbstrith, Edith Stein: A Biography (Edith Stein: Una biografia), San Francisco, Ignatius Press, 1992, p. 180.
5 Edith Stein, “Lettera a Madre Ambrosia Antonia Engelmann, OCD, Echt, 6 agosto 1942” in Edith Stein: SelfPortrait in Letters (Edith Stein: Autoritratto in lettere), Washington DC, ICS Publications, 1993, p. 353.
6 Edith Stein, The Science of the Cross (La scienza della croce), Washington DC, ICS Publications, 2002, p. 273.
7 Edith Stein, “Lettera a Elly Dursy, Auderath, 7 maggio 1933” in Edith Stein: Self-Portrait in Letters (Edith Stein: Autoritratto in lettere), Washington, DC: ICS Publications, 1993, p. 140-141.
Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz—Luci nelle tenebre: I doni di pace delle donne in guerra Marianne Hapig, Tagebuch und Erinnerung. Edition Mooshausen, hg.v. Elisabeth Prégardier, Annweiler 2007, Plöger Medien, 140 S., 26 foto, ISBN 978-3-89857-225-5.
Nanda Herbermann, Der gesegnete Abgrund: Schutzhäftling Nr. 6582 im Frauenkonzentrationslager Ravensbrück, Glock & Lutz, Nürnberg/Bamberg/Passau 1946, 42002; The Blessed Abyss (L’abisso benedetto), 2000.
Lucinda M. Vardey—Spargere fiori nel chiostro: I piccoli sacrifici di Santa Teresa Citazioni tratte da “Teresa di Lisieux: Autobiografia di una santa” tradotto da Ronald Knox, Londra, Fount Books, 1977, pp. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 217, 218, 233, 236, 237.
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Immagini presenti in questo numero: Copertina: “La Maddalena con la fiamma fumante” di Georges de La Tour (1640 circa).
Page 2 Particolare del dipinto sopra citato.
Page 4 Il mosaico “L’albero della vita” della Basilica di San Clemente, Roma. Page 7 Dettaglio dell’“Ultima Cena” di Juan de Juanes (XVI secolo).
In questo numero
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