Ri-toccare la realtà

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Lorenzo Abate RI-TOCCARE LA REALTÀ

ARQUITECTURA Y CINEMA ETSAB 2016/2017


foto copertina fonte World Press Foto 2016,

photographer Matic Zorman




CURSO DE ARQUITECTURA Y CINE “Ciutats en pel-licules i documentals fins al 1945” “El espacio urbano en el cine es, por definición, espacio construido: ya sea como escenario, fondo de referencia o “actor protagonista”. La ciudad filmada no deja nunca de mostrarse, bien en sus facetas reales o como reconstrucción arbitraria e interpretada de las coordenadas físicas. Por otra parte, el cine como técnica de representación tiende a un análisis específico de la temporalización del espacio, intrínseco al propio concepto de “ciudad”. El curso propone las diversas formalizaciones de este peculiar cruce espacio-temporal, no sólo a través de las diversas lecturas internacionales en las que se manifiesta esta particular superposición de lenguajes, sino también con una atención hacia la realidad urbana y arquitectónica de Barcelona vista a través de algunas interpretaciones cinematográficas destacadas.” prof. Antonio Pizza prof. Celia Marín



Ri-toccare la realtĂ : una nuova epifania Percorso tra antecedenti, spazi, tempi del Neorealismo italiano


Introduzione


“Il prepotente desiderio del cinema di vedere, di analizzare, la sua fame di realtà rappresentano l’omaggio concreto verso gli altri, verso tutto ciò che esiste” CESARE ZAVATTINI Dall’avvento della stampa ai giorni nostri la rappresentazione del fatto-evento si è sempre fatta più nitida sfiorando la realtà attraverso il virtuale. In questi ultimi venti anni gli eventi storici più drammatici e sensazionali del mondo sono passati davanti ai nostri occhi prima attraverso l’informazione tele-visiva e digitale, poi attraverso quella cartacea provocando reazioni inconfrontabili a prima. La generazione d’oggi cresciuta con l’avvento di importanti strutture virtuali come playstation, internet, computer portatili, smart-phone e social network, ha assistito ai cambiamenti del mondo reale attraverso queste piattaforme. È vero, la maniera di vedere e sentire il mondo è diversa da prima, ma resta una visione comunque velata, dove per quanto leggero e sottile possa essere il telo non sarà mai del tutto trasparente. Se è vero che l’immagine molte volte amplifica l’effetto di una notizia, non è detto che la reazione a questa sia adeguatamente contraccambiata. Tutto sommato se da una parte veniamo bombardati di immagini che ci rendono molte volte quasi immuni alla realtà delle nostre azioni, rendendo i nostri occhi intorpiditi alla lucida realtà, dall’altra siamo diventati sempre più ipocritamente sensibili al mondo reale, oggi ormai tutto trasfuso nel mondo della virtualità. Oggi più che mai viviamo in un mondo dove la cosiddetta “immagine” muove e definisce inconsapevolmente le nostre azioni e di conseguenza la nostra vita. In termini cinematografici si potrebbe dire che facciamo parte del cast di un film, ma che risultiamo essere troppo spesso soltanto delle comparse, o al massimo co-protagonisti. Dal mio punto di vista tutto parte dal fatto che cerchiamo di sopravvivere inconsciamente a fenomeni che abbiamo creato noi e che ora non siamo più in grado di controllare. Altresì globalizzazione e cambiamento climatico sono solo alcune delle influenze maggiori che non ci permettono



di mirare con lucidità la realtà dei luoghi attorno a noi. Non potendo controllare determinati fenomeni globali, a volte finiamo per isolarci dal mondo reale mascherandolo come qualcosa di esterno a noi stessi, "sputandolo senza nemmeno averlo assaggiato". Questo ad esempio è quello che però accade con il semplice gesto della foto scattata con lo “smart”-phone: risultato una sequenza di immagini, di momenti dove la realtà dei fatti avrebbe dovuto far scaturire una reazione appropriata, ma che in realtà ha prodotto soltanto un gesto apatico e quindi atipico del “touch” senza una piena coscienza del fatto. Le violenze, le emozioni, i ritratti di persone, lo stupore per i monumenti e per la bellezza delle città passano nella maggior parte dei casi solo come il gesto insignificante del toccare uno schermo, riproducendo il nulla o forse una leggera, ipocrita reazione nelle menti delle persone molte volte attrici assenti della profondità del momento.


Neorealismo


Non è sempre stato cosi. C’è stato un periodo storico in Italia, che va dagli anni dopo Seconda guerra mondiale fino gli anni ’60, dove la voglia di rinascita e di ricostruzione si è unita alla memoria e al racconto di ciò che era accaduto in quegli anni terribili. Una delle "arti-tecnica" adottate per descrivere quello specifico momento fu proprio il cinema, un’arte cosi importante che già negli anni precedenti con film come Metropolis (1927) aveva saputo leggere i cambiamenti in corso ed anticipare forse alcuni eventi storici di là da venire. Il ruolo che il cinema ricopre in quegli anni è fondamentale sia per quanto riguarda un suo sviluppo sia per quanto riguarda una sua identità nazionale. È di quegli stessi anni la nascita del cinema Neorealista, dove il fine del artista-regista non era quello di portare l’uomo a indignarsi ed a commuoversi per i vari accadimenti storici, bensì quello di portarlo a riflettere in profondità sulle cose realmente accadute o che stavano accadendo. Neorealismo, per Cesare Zavattini, teorico del movimento e sceneggiatore dei film di Vittorio De Sica (grande attore e regista dello stesso movimento cinematografico), significava cogliere il punto critico di una situazione per poi sviscerarlo, andarci dentro, farne motivo di conoscenza.


Occorreva, dunque, cambiare la funzione classica di cinema e riuscire a penetrare nel concreto in un cinema in presa diretta con lo sfondo la realtà politica e storica del momento. Un concetto fondamentale in questo caso è l’immediatezza che assume la funzione di sintesi in quanto sentimento del tempo in grado di raccontare lo svolgimento dell’azione, come se avvenisse in quell’ istante e venisse vissuta in presa diretta dal narratore. Egli parlava inoltre di una sorta di rapporto all’interno del cinema realista tra fruizione e creazione, una sorta di poetica dell’uomo, la tensione a rappresentare il fatto, l’ansia di farsi in qualche modo spiegazione e moralità. L’idea del cinema neorealista, come raccontava Zavattini in un’ intervista, può scaturire semplicemente da una scena di questo tipo: strada affollata, gente che va per i propri affari; due uomini camminano parlando e ridendo, uno dei due urta involontariamente un altro passante che viene dalla parte opposta. Il passante urtato brontola, l’altro gli chiede scusa ridendo; quello, urtato, dice che non è il caso di ridere e lancia un’offesa, alla quale l’offeso, fattosi serio, risponde per le rime. Si moltiplicano le offese, si arriva alle mani alzate, ai pugni, accorre gente, qualcuno cerca di separare i contendenti. Uno dei due estrae la rivoltella e spara, colpisce l’avversario che cade al suolo tra le braccia di un passante. Tutta la scena nella pellicola dura poco più di un minuto, ma l’intensità del momento reale risulta molto più forte da imprimersi efficacemente nella nostra mente. Zavattini ha sostenuto fin da subito la cosiddetta "teoria del pedinamento", quintessenza della sua concezione neorealista: la macchina da presa segue un uomo per la strada, lo accompagna nel suo vagabondare, nei suoi incontri fino a farne scoprire l’indole e quindi a crearne una storia. L’esistenza dell’individuo racchiusa nella quotidianità è motivo di grande interesse per chi la osserva da dietro una macchina da presa o da uno schermo. E’ una presa diretta a contatto con la realtà di un soggetto la cui giornata è scandita da eventi casuali e ostacoli che capitano lungo il proprio percorso. E’ lo "spirito" o il filo conduttore su cui regge la struttura portante del film “Ladri di biciclette”, con la minuziosa ricostruzione della giornata di un uomo che con il figlio vaga per le strade di Roma alla ricerca della bicicletta che gli è stata rubata.


Un evento che agli occhi di un qualsiasi osservatore può sembrare banale in quanto viene classificato solitamente come un normale fatto di cronaca, ma che, invece, è rilevante per il protagonista. Per lui, infatti, la bicicletta è il mezzo indispensabile per svolgere il lavoro di attacchino che ha ottenuto molto faticosamente, e così l'oggetto assume un significato particolare anche ai fini della storia che non avrebbe ragione d’esistere senza di esso. In quest’ ottica la città reale in parte, si sostituisce ai set cinematografici ricostruiti, poiché ciò che si ricerca è la grande casualità che gli spazi possono offrire, dove la strada non è semplicemente una strada, ma un vero e proprio spazio di vita, dove le persone si incontrano, discutono, vivono. Forse più che il momento storico si voleva mettere in mostra il mondo così com'è. Rossellini grande regista del cinema neorealista descriveva cosi questo tipo di film: “Esso non ha tesi pre-costituite perché nascono da sé. Non ama il superfluo e lo spettacolare , che anzi rifiuta; ma va al sodo. Non si ferma alla superficie, ma cerca i più sottili fili dell'anima. Rifiuta i lenocini e le formule, cerca i motivi che sono dentro ognuno di noi. Il film realistico è in breve il film che pone e si pone dei problemi: il film che vuole far ragionare.” E ancora Pierpaolo Pasolini in un’intervista affermava: “ il cinema neorealista italiano ha rappresentato il primo atto di coscienza critica dal punto di vista politico ideologico che l’Italia ha avuto di se stessa.” Spiegando poi che nella storia d’Italia non c’è mai stata una vera unità della nazione, ma invece un’ unione di piccoli popoli di piccole nazioni (tralasciando il periodo fascista), mentre soltanto con la Resistenza si è avuto un vero e proprio spirito unitario, attraverso la consapevolezza dello scoprirsi, del non vergognarsi dei propri difetti e dell’ idea comune che il futuro sarebbe stato migliore. Tutto questo lo possiamo ritrovare in una delle scene finali del celebre



film di Rossellini, “Roma città aperta”, dove il fischio dei ragazzi rivolto al parroco durante la sua fucilazione (gesto che in altre scene del film ricorre come monito dell’arrivo dei soldati filonazisti), sembra dare conforto al parroco stesso conscio che la lotta partigiana sarebbe continuata anche dopo e che poteva infine riposare in pace serenamente, sicuro che in un futuro quanto mai prossimo le cose sarebbero potute cambiare. Nell’ Italia appena uscita dalla guerra e dalla dittatura, da più parti si sentiva il bisogno di una rinascita politica e sociale: cineasti e registi vollero anche loro farsi artefici di questo rinnovamento. Proposero così un cinema che scavasse nella realtà del presente e del più recente passato, portando alla luce storie, temi e personaggi di quel mondo su cui bisognava agire, mostrandosi fin da subito per il suo forte impegno sociale. Un passo importante per capire perché la città, ed in particolare Roma, potesse essere lo sfondo perfetto (la scenografia) alla sceneggiatura di questi film, sta nel fatto che l’industria cinematografica italiana era stata messa in ginocchio dalla guerra: i famosi “Studios di Cinecittà” erano andati distrutti ed i registi neorealisti scelsero di riportare la cinepresa fuori dagli studi, di tornare a girare per strada, nelle campagne e anche tra le macerie con attrezzature leggere ed economiche. Le stesse immagini che venivano riprodotte nelle pellicole rappresentavano inoltre dei veri e preziosi documenti storici di un’Italia devastata dai bombardamenti e dalle sofferenze. Il termine “neorealismo”, che già veniva usato per la letteratura, viene utilizzato pubblicamente per la prima volta nel mondo cinematografico dal regista Luchino Visconti nel 1942 con la proiezione del film “Ossessione”. Difatti tale espressione fu usata per la prima volta nel 1931 per il romanzo di Moravia “Gli indifferenti”, anche se già alcune altre opere di quegli stessi anni mostravano la tendenza a una riscoperta della realtà quotidiana ed a uno stile che la ritraesse nel modo più credibile. Rispetto alla letteratura però il movimento artistico ebbe sicuramente maggior successo attraverso il cinema che riusciva a rendere con maggiore efficacia i racconti e le trame, come nel caso della pellicola appena citata, “Ossessione”, dove la fatalità dell'incontro tra il vagabondo Gino e la locandiera Giovanna e la loro storia d’amore torbida, sensuale ed esasperata non è altro che una descrizione della vita di persone comuni in situazioni di vita quotidiana in un paesetto qualunque della campagna vicino Ferrara.


Radici


Ma in realtà il neorealismo, come genere cinematografico, ha dei precursori e degli antecedenti per quanto riguarda tecniche e modo d’espressione. Uno dei primi episodi che fanno riferimento al neorealismo, e che abbiamo visto durante il corso, è un film documentario del 1908 di Ricardo de Baños, “Barcelona en tramvia”. L’importanza di questo film sta nel fatto che la cinepresa viene montata in testa al tram che passa per Barcellona e che attraversa zone come Passeig de Gracia, carrer Salmerón, Plaza Lesseps creando azioni spontanee e divertenti : pedoni distratti e impegnati nel loro camminare o nelle loro chiacchiere con altre persone si accorgono del tram che sta arrivando, si girano improvvisamente evitando così il tram ; oppure alcuni bambini imprudenti attraversano la strada di corsa, o ancora in un’altra scena persone su biciclette da corsa che giocano zigzagando pericolosamente sulle rotaie. Ma nonostante questa grande agitazione e questa successione di eventi, il tram sembra impassibile nel suo transito. È un movimento continuo e costante quello raccontato nel film: il tram e quindi la cinepresa sembrano prendersi il tempo necessario alla scoperta della città e delle sue bellezze del modernismo catalano. Rappresentare la vita quotidiana, documentare ed esprimere ciò che davvero è la realtà di quel momento, sembra essere il fine di quest’opera, un racconto delle diverse maniera di vivere la città, senz'altro diversa da oggi: senza macchine e con una maggiore dimensione umana. Tutto questo mette in evidenza un antecedente del modo di girare i film tipico del cinema neorealista: girare in esterni con attori non professionisti e inquadrature grezze, o meglio improvvisate. Poi in realtà i film con queste caratteristiche sono ben pochi poiché come racconta Zavattini in una video intervista: “la maggior parte delle scene in interni era girata in set ricostruiti in studio e illuminati con cura, e il dialogo era quasi sempre doppiato. Anche per quanto riguarda gli attori erano presenti alcuni attori non professionisti ed



alcune comparse che in realtà venivano mescolati insieme ad alcuni divi del cinema o comunque di attori già conosciuti.” Ma quello del regista spagnolo è solo uno dei tanti tentativi di documentare la realtà attraverso la cinepresa. Per quanto riguarda la vera origine del termine neorealismo si fa infatti riferimento ad una tendenza artistica nata negli anni ’20 in Germania chiamata “Neue Sachlichkeit”, “Nuova oggettività”. In generale fu una reazione al movimento espressionista, dove alcuni artisti cercavano la rappresentazione della realtà senza trucco. Questi, disillusi e pieni di cinismo e di rassegnazione nel tragico dopoguerra tedesco, volevano osservare le cose concrete con amara acutezza e con una lucidità descrittiva quasi glaciale, usando l'arte come un'arma: un freddo specchio della società malata e corrotta di quegli anni. La “Nuova oggettività” si distingue tuttavia dal realismo come corrente artistico-letteraria -cinematografica, in quanto conserva una certa componente emotiva, tipica della tradizione culturale tedesca dove alcuni particolari venivano accentuati all'estremo tentando di intensificarne l’espressione. Nel cinema tedesco invece fu una delle tre correnti principali degli anni Venti, assieme al già citato “Espressionismo” e al “Kammerspiel”. Le pellicole appartenenti a questa corrente si contrapponevano ai film espressionisti in quanto composti da inquadrature fisse, con un montaggio molto ridotto e con l'assenza di movimenti di camera, cosi da far risultare un senso opprimente e chiuso nell'inquadratura. Al contrario invece nel “Kammerspiel” le scene si differenziavano per la cinepresa straordinariamente mobile, che arrivava fino a pedinare i personaggi, come se li perseguitasse, per mostrarli sempre da vicino. Lo stesso Zavattini parlava di "poetica del pedinamento", sognando che la vita si affacciasse direttamente sullo schermo, grazie alla scelta di storie “vere”, interpretate dai loro stessi protagonisti, magari filmate nel loro svolgersi: "il tempo è maturo per buttare via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa". Ma se tutto questo potrebbe far pensare ad una somiglianza diretta con


il cinema Neorealista ci si sbaglia. Il modo di osservazione del cinema Kammerspiel non è mai emotivo, anzi è come distaccato. In questo senso il Kammerspiel fu il primo modo di fare cinema tutto impostato sul rapporto fra attore e cinepresa. Detta anche “nuovo realismo”, la “nuova oggettività” fu la corrente che più si focalizzò sulla descrizione e la documentazione di quel difficile periodo della storia tedesca, narrando le storie disperate degli individui. La mescolanza di scene prese dal vero e scene di finzione serviva a qualificare la storia come racconto reale, anticipando di quasi venti anni gli esordi del cinema neorealista italiano. Il regista tedesco Piel Jutzi ad esempio mescolò scene vere di documentario con scene di finzione in “Il viaggio di mamma Krausens verso la felicità” del 1929, o “Nostro pane quotidiano”, dello stesso anno dove comparse non professioniste assieme ad attori, luoghi originali e scene di vera vita quotidiana si confondevano tra loro. Oppure come nel film di Walther Ruttman, “Berlino, sinfonia di una grande città” del 1927, film documentario che descrive una giornata nella grande città di Berlino che proprio in quegli anni stava vivendo un rinnovato boom industriale. Questo film ci consegna inoltre uno sguardo delle diverse abitudini e azioni di vita di quei tempi: dal semplice passeggiare delle persone tra le vie della città, all’apertura delle serrande dei negozi. L'idea di Ruttmann era quella di rappresentare la metropoli come un organismo vivente, infatti in diverse scene viene messa in mostra l’animazione della gente in una giornata quotidiana. Un grande tema che ricorre molto sia nel movimento della Nuova oggettività che in seguito nel Neorealismo è quello della strada, intesa come “luogo di perdizione e divoratrice di vite umane”, così come ci appare nel lungometraggio muto “La strada” di Karl Grune nel 1923, e che trova riscontro in molte scene del film “Ladri di biciclette” di Rossellini. In particolare nelle scene finali quando Antonio e Bruno, padre e figlio, stravolti dalla stanchezza ed esasperati dall’impossibilità di ritrovare la bicicletta attendono sul ciglio di un marciapiede il tram per tornare a casa. Quando ad un tratto Antonio nota una bicicletta incustodita e, preso dalla disperazione, tenta maldestramente di rubarla, ma viene subito fermato e aggredito dai passanti. Alla fine solo il pianto disperato del figlio, che smuove l’animo dei presenti e suscita in loro un sentimento di pietà, gli eviterà il carcere.







Realismo poetico francese


Se proviamo a pensare ad una delle correnti del cinema del passato che maggiormente ha influenzato i registi neorealisti questa è sicuramente il realismo poetico francese. Tendenza nata agli inizi degli anni ’30 quando l’industria cinematografica francese, come tutte le attività industriali, veniva influenzata dalla crisi economica mondiale. Erano infatti anni di grande riduzione della produzione meccanica e tessile, dei fallimenti delle banche e di un vero e proprio blocco della produzione agricola. Le maggiori conseguenze le subirono le condizioni degli operai che cercarono attraverso lotte tenaci e ripetuti scioperi di ottenere la salvaguardia della loro posizione economico-sociale. I film più vicini a questa condizione raccontavano infatti di personaggi semplici, spesso ai margini della società, operai, piccoli borghesi, disoccupati ma anche criminali. Le occasioni di riscatto proposte nella sceneggiatura si concludevano quasi sempre in una definitiva sconfitta avvolta da un clima di amarezza e malinconia. Inoltre molte volte le vicende gravitavano attorno a figure quali malviventi o disertori, evocando l'idea di un "eroe tragico" destinato a essere sconfitto dal fato prima ancora che da una società ingiusta. I film appartenenti al genere “realismo poetico” intendono offrire quindi un ritratto giusto e onesto dei modi di vita di una certa parte della popolazione. Il tema della fatalità è ricorrente in questi film: la fatalità del destino umano, inesorabile pessimismo sociale. Uno degli esponenti più importanti di questo cinema è stato certamente Jean Renoir che con il film “le chienne” ha segnato una vera e propria svolta nel mondo del cinema, ma anche nella sua personale produzione. Prima di tutto perché il film si colloca tra il dramma e la commedia attraverso una trama di morte e d’ironia nella quale si rifiuta la divisione tradizionale tra buoni e cattivi: la macchina da presa osserva senza partecipazione, in campo figure contraddittorie, vittime e carnefici insieme. Inoltre Renoir con la macchina da presa sceglie a volte punti di vista anomali, come ad esempio nella prima sequenza dove la tavolata dei colleghi del cassiere Maurice Lengrad, viene inquadrata dall'interno di un montacarichi porta cibo. Nel libro “Jean Renoir-l’inquietudine del reale”, Daniele Dottorini descri-


ve così questa particolare scelta di ripresa: «Le inquadrature seguenti fisse passano dal corridoio al montacarichi, per poi muoversi in una serie di brevi panoramiche orizzontali e circolari ed inquadrare i commensali uno ad uno; ogni movimento di macchina è alternato da un'inquadratura fissa di raccordo che mostra una porzione della tavolata; ogni inquadratura fissa o di movimento è presa da un punto diverso della sala. Lo spazio è così letteralmente “avvolto” dallo sguardo ovunque della macchina da presa che, così facendo, mostra, insieme all'interno della stanza, anche un “fuori”, la città di notte le cui luci – le pale illuminate del Moulin Rouge – che si vedono dalle finestre della sala, alludono ad un ulteriore movimento che si svolge all'esterno». Se nei film neorealisti le scene in presa esterna prevalgono sulle scene girate in ambienti interni in questa pellicola troviamo un’anticipazione di un tipo di inquadratura che sembra inglobare nel fotogramma anche tutto quello che accade fuori di essa, rendendolo visibile: si tratta ad esempio della sequenza che mostra Lengrad che dipinge nel suo salotto e dalla finestra si può osservare il cortile interno e anche dalla finestra della casa di fronte una ragazzina che fa esercizi al pianoforte. Inoltre un'altra ambientazione ricorrente è la strada: in essa viene girato l’incontro tra Lengrand e Lulu in piena notte; dalla stessa emerge l'ex marito ricattatore; mentre avviene l'omicidio la strada diventa il fondo perfetto della scena. La strada è allo stesso tempo uno sfondo quasi indifferente al dramma della passione al contempo una descrizione della situazione compromessa di Legrand, che in essa rivede una sorta di ultimo rifugio della sua posizione ormai fuori dal contesto sociale borghese. “La Chienne” è ambientata a Montmartre, nel quartiere degli artisti e dei pittori, dove il regista era nato il 15 settembre 1894, ed in questo film come in alcuni successivi quali “Toni” e “Boudu sauvé des la eaux”, Renoir comincia a tracciare il ritratto della "sua" Francia, quella da lui conosciuta ed amata. L'atmosfera molte volte è quella bohèmienne e popolare: Maurice incontra Lulu in place Emile Goudeau e la uccide in rue Ravignan mentre i quadri sono esposti nelle gallerie de la rue Matignon. Nel libro “Jean Renoir: la sagesse du plaisir” Daniel Serceau scrive:



«Le scene di strada, l'onnipresenza di Montmartre, delle sue scalinate e dei suoi lampioni a gas, conferiscono a quest'opera, che dà così spesso l'impressione di essere stata girata in esterni, una patina d'epoca e ne fa quasi un documento etnografico. [...] Oltre l'apparenza di un documento sociologico (il popolo parigino, la piccola borghesia e i mercanti d'arte) Renoir filma l'"invisibile": quello che avviene dietro le fronti, dentro le teste». Come già accennato un altro film molto importante per l’influenza nel cinema neorealista è stato “Toni” del 1935 sempre diretto da Jean Renoir, nel quale un giovane Luchino Visconti impegnato come aiuto regista imparerà e “ruberà” molto. Nella pellicola non ci sono ricostruzioni fatte in studio, ma i paesaggi, le case sono quelle trovate dalla troupe di Renoir durante le riprese a Martigues e a Châteauneuf-les-Martigues. Sicuramente uno dei principali intenti in questo film come afferma in un intervista il regista francese era: «…dare l'impressione che avessi una macchina da presa e un microfono nascosto nelle tasche e che registrassi tutto quello che mi capitava a tiro, in spregio ad ogni gerarchia». Per capire quindi il motivo dell’influenza del realismo poetico verso il neorealismo è utile ricordare uno degli elementi caratterizzanti questa corrente artistica ovvero la manipolazione soggettiva delle inquadrature. Questo è riscontrabile proprio in molte scene del film “Toni” quali ad esempio quella dell’avvicinamento alla porta di casa da parte di Toni e Gabi prima dell’ assassinio di Albert ad opera di Josepha:questa tecnica di ripresa cinematografica consente allo spettatore di calarsi nei panni di un personaggio, permettendogli di vedere le cose con gli stessi occhi, appunto in soggettività. Si tenta quindi di mostrare con la “soggettiva” non solo quello che il personaggio in quel momento vede, ma soprattutto il sentimento e lo stato d'animo che prova. In questo modo lo spettatore ha una visione maggiormente aderente alla realtà, cioè viene messo nella condizione di percepire tutto quello che sente, prova e vede in quel preciso istante il personaggio sullo schermo. Così nel ’35 nacque una visione più psicologica e sentimentale, da coin-


volgere ancora di piĂš lo spettatore: ad esempio la ripresa di un ubriaco in alcune scene diventava quasi traballante e sfuocata, mentre quella di chi correva in automobile diveniva veloce e sfuggente e infine quella di un personaggio triste poteva diventare una visione delle cose amate lontane e irraggiungibili.


Avanguardia russa


Probabilmente il neorealismo italiano venne anche influenzato, se pur a distanza di molti anni, da quello che stava accadendo nel mondo della cinematografia in Russia. È tra il 1918 e la fine degli anni ’20 che si distingue un periodo molto importante per la storia del cinema russo: l’avanguardia che ebbe al suo interno alcuni dei grandi maestri indiscussi dell’arte cinematografica quali Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e Dziga Vertov. Nei film di questi autori in generale si tentava di incarnare i nuovi ideali rivoluzionari di libertà, modernità e rinnovamento che proprio in quegli anni si stavano manifestando in Russia come in altri paesi europei (in Italia attraverso il movimento futurista). I grandi cineasti russi di questa intensa e nuova stagione artistica partivano tutti da un rifiuto verso lo spettacolo tradizionale, dove lo spettatore era soggetto passivo e inerte, per inseguire un cinema-festa, dove lo spettatore doveva sentirsi continuamente stimolato dai cambiamenti e dalle nuove invenzioni. Dziga Vertov ne è stato un autentico esponente, spesso divertendosi a sperimentare le nuove possibilità della tecnica. Nel 1924 girò uno dei più sensazionali film lanciando una vera e propria teoria: Kino-Glaz o cineocchio. Qualsiasi cosa osservata con gli occhi del quotidiano è banale e scontata, se guardata invece con l'occhio del cinema e del montaggio diventa qualcosa di nuovo, straniero, che genera sorpresa e meraviglia. Il regista russo attraverso la sua opera ci vuole convincere che la macchina da presa non è solo capace di catturare la realtà, ma bensì di andare oltre nel profondo delle cose grazie all’utilizzo delle tecniche cinematografiche come il fermo immagine, il campo -controcampo o la riproduzione accelerata o rallentata. Inoltre questo tipo di sperimentazione attuata da Vertov veniva utilizzata dallo stesso regime sovietico a scopi di propaganda, riproducendo la verità e la gloria della rivoluzione russa. Situazione molto simile a ciò che accadde negli stessi anni e in quelli successivi in Italia con l’uso dei cinegiornali per la propaganda fascista. Il film è una storia di immagini e di volti, fotogrammi sulla filiera di produzione e distribuzione dei beni alimentari, con particolare attenzione all’attività dei cosidetti “Giovani Pionieri”, associazioni di bambini





e ragazzi comunisti, personaggi attivi e quasi protagonisti del film che trovano analogo riscontro nei “Balilla” italiani durante il Fascismo. Compito della ripresa è quello, secondo Vertov, di cogliere la vita all’improvviso, l’elemento artistico non doveva risiedere nella messa in scena, ma interamente nel montaggio, nelle scelte ritmiche, nella giustapposizione delle inquadrature. Ejzenstejn invece a questa maniera di ripresa rispondeva criticamente , secondo lui il cinema non doveva essere tanto un’arte bensì, ma qualcosa di pura meccanica, un montaggio di attrazioni volte a colpire emotivamente lo spettatore. “Il cine-occhio non è solo il simbolo di un modo di vedere, ma anche di un modo di contemplare. Ma noi non dobbiamo contemplare, dobbiamo fare. Non abbiamo bisogno di un cine-occhio, ma di un cine pugno. Così come noi la concepiamo, l’opera d’arte è innanzi tutto un trattore, che ara a fondo la psiche dello spettatore, in una data direzione classista. ” Il sogno di un obbiettivo che potesse sostituire l’occhio umano, riuscendo a cogliere la vita all’improvviso, si scontrò certamente con le limitazioni tecniche delle macchine da presa degli anni Venti, che permettevano di girare sinfonie urbane come “L’uomo con la macchina da presa”, ma che sicuramente non riuscivano a studiare i sentimenti, i momenti privati o di commozione dei vari personaggi per la mancanza di apparecchiature più piccole e maneggevoli. Quest’ultime invece furono utilizzate ripetutamente nelle varie riprese degli anni ’40-’50 in Italia da registi quali Antonioni, De sica e Visconti soprattutto per quanto riguarda le riprese esterne. Un altro grande film di Vertov appena citato è stato proprio “Chelovek s kino- apparatam”, ovvero “l’uomo e la camera da presa” del 1929. Come era successo per Kino-glaz, anche qui le didascalie all’inizio ci informano che questo “diario di un cine-operatore” non ha sceneggiatura né scenografie: non è altro che una dichiarazione, per chiarire fin da subito quali sono i principi guida della opera, fondata su materiali presi esclusivamente dalla realtà quotidiana. La sua teoria del “cine-occhio” ci guida a scoprire la normale vita di una metropoli lungo un intera giornata



e i suoi protagonisti, ovvero le persone comuni che la abitano, i mezzi di trasporto che usano, le architetture presenti. Vertov qui mette in mostra un vero e proprio giocare con le immagini esibendo ancora una volta sovraimpressioni, split-screen, deformazioni, fermi immagine, sequenze accelerate e rallentate. Uno degli elementi chiave per capire l’evoluzione del linguaggio cinematografico nel periodo delle avanguardie è sicuramente il ruolo di mediazione svolto dalla “forma” architettonica e urbanistica della città che trasforma semplici film-documentari in vere e proprie “sinfonie urbane” . “L’uomo con la macchina da presa” ne fa parte producendo film in cui le forme astratte dell’architettura, le dinamiche della vita moderna, le geometrie delle macchine sostituiscono la narrazione, unendo il realismo sincero del film-documentario ad una ricerca artistica d’avanguardia. Quando si parla di questa tipologia filmica non si può non ricordare l’opera del regista tedesco Walter Ruttmann,“Berlino: sinfonia di una grande città”. Come suggerisce il titolo stesso, il regista vedeva un'analogia tra la vita della città, dal lento risveglio alla frenesia del giorno fino al progressivo spegnimento serale, e l'andamento di una sinfonia, mettendola in evidenza ancor di più in fase di montaggio del film: un andamento lento all’inizio e alla fine del film contrapposto ad uno sempre più accelerato nella parte centrale a seguire l’andamento della vita quotidiana delle persone.


influenza del cinema americano e sintesi


In realtà sebbene quello del regista tedesco sia un film da molti riconosciuto per lo sviluppo e l’influenza negli anni del periodo dell’avanguardie europee ed in generale in quelle successive, il primo film documentario che potrebbe essere catalogato come “sinfonia urbana” o come film della città, viene realizzato negli Stati Uniti a firma del pittore Charles Sheeler e del fotografo Paul Strand nel 1921 con il nome di “Manhatta”. Il film inizia con l'alba ripresa dal quartiere di Brooklyn e in sequenza, dopo aver attraversato il fiume mostra con il traghetto le migliaia di persone che vengono nell’isola a lavorare. “Manhatta” documenta il classico profilo della Manhattan del ventesimo secolo: la città come soggetto, il giorno come durata del film che termina con una vista al tramonto da un grattacielo. L'obiettivo primario della pellicola è quello di esplorare il rapporto tra fotografia e film: il movimento della telecamera viene infatti mantenuto al minimo. Ogni immagine vuole semplicemente offrire una visione della città e della sua giornata tipo. Il film del 1928 “The crowd”, la folla di King Vidor appartiene al periodo avanguardista americano, conseguente al periodo dell’interpretazione del mito americano e di una nuova civilizzazione. Se in “Manhatta” il soggetto è la città come visione, qui il soggetto sono le persone, la folla appunto al di là dei vari personaggi nei primi fotogrammi viene mostrata la Manhattan di quegli anni: la grande attività e la frenesia di persone qualunque che camminano ininterrottamente. Nelle scene seguenti viene presentata la visione panoramica della città con il mare che circonda il paesaggio, una vista dall’alto che ne ritrae la dimensione fuori scala rispetto alle persone attraverso i grattacieli. Successivamente con l’utilizzo di un grande zoom della camera che sale verso la parete di un grattacielo, la sequenza continua entrando nell’ edificio da una finestra e fissando in primo piano una delle infinite scrivanie presenti nella sala viene presentato il personaggio principale di John Sims. Vuole essere infatti la storia di un individuo qualunque che tenta di emergere dalla massa e che pensa di essere un predestinato. Ma in realtà non si accorge che tutte le sue esperienze, sia quelle positive che negative, non fanno altro che trascorrere come fatti inosservati, perché la folla attorno è disinteressata a tutto ciò che gli succede. C’è solo interesse al quotidiano






gesto o all’ evento momentaneo che spezzi la loro abitudine: l’ incidente alla figlia, la corsa del camion dei pompieri. Sino alla fine nel film ricorre il tema della folla. L’ultima scena rappresenta un lieto fine, forse un po’ amaro. Vengono infatti rappresentati John e sua moglie mentre sorridono tra di loro, mentre guardano un film comico in una sala gremita di persone. Mentre all’inizio della scena viene usato uno zoom solo su di loro che sorridono e scherzano rilassati, nella parte seguente viene fatto uno zoom out sulla intera sala facendo perdere le tracce dei due che alla fine si confondono tra la platea. Nel finale il regista tenta di esprimere la consapevolezza che il potere di regalare desideri o sogni appartiene solo alla cinepresa o allo schermo del cinema, poiché la realtà della città, in particolare di New York e delle persone che la vivono è altra cosa come paradossalmente il film ha mostrato. In questa pellicola King Vidor mostra sicuramente in parte la vicinanza al movimento realistico europeo che ha accompagnato gli ultimi anni del cinema muto: dalla Neue Sachlichkeit tedesca ad alcuni film dell’avanguardia . Da questo film in poi troveremo gli esordi del cinema neorealista italiano, tutto pervaso dal racconto delle condizioni e delle relazioni sociali di vita nella città moderna. È risaputo che il cinema appartenga al mondo delle arti e come tale risponda ad una forma estetica di comprensione dell’attività umana, ma con la prerogativa di trasmettere emozioni o messaggi. Se nei film neorealisti il fine risiede nel rappresentare una visione della realtà comunicata attraverso solo gli eventi della storia, analogamente in architettura avviene lo stesso: dare forma ad uno spazio intriso di creatività e di straordinaria passione. Cinema e architettura non hanno solo in comune l’idea di dare forma ad uno spazio o di riempire di segni un ambiente, siano essi suscettibili, di straordinaria passione o di creatività. Nel cinema ad esempio attraverso ogni inquadratura viene a crearsi un vero e proprio spazio da abitare, dove è difficile stabilire se esso sia un’ opera dell’occhio, della mente o di entrambi. Nella sua seconda fase il cinema neorealista, liberato dal ricordo del re-



gime, prende per la strada i protagonisti delle proprie opere alternandoli alla scelta di divi proposti in chiave inedita raccontando, senza più infingimenti e mediazioni , semplicemente storie di operai, di disoccupati, di pensionati, di contadini, di vinti, di umiliati e offesi. Contro ed in reazione ad ogni suggestione eroica, in neorealismo racconta il faticoso mestiere di vivere, trovando proprio in esso la spinta propulsiva verso la rinascita e la ricomposizione di una solidarietà nazionale dopo le crudeli divisioni della guerra civile, rivolgendo la stessa tensione etica verso altre forme di espressione artistica. Vi è forse in questo caso un‘ affinità tra il cinema di Roberto Rossellini e l’architettura di Mario Ridolfi. In Rossellini scorgiamo la dignità, la capacità di coinvolgimento emotivo della vita quotidiana, il modo particolare di mostrare le persone più umili, fino a quel momento non rappresentate. Il neorealismo di Ridolfi al contempo si esprime da un’idea del vissuto in cui la soluzione dei problemi pratici, insieme alla salvaguardia della individualità, sono in grado di garantire una esistenza concreta e positiva. Le sue architetture rigenerano le condizioni, l'ambiente, lo spazio, il modo di abitare di un tempo passato, quello dell'equilibrio della vita di un piccolo borgo che la guerra aveva in parte cancellato. Ridolfi cerca di costruire non solo spazi che guardano al passato ponendosi in contrasto formale con il Movimento Moderno italiano, ma cerca di abbandonare le forme del Neoclassicismo o del Monumentalismo fascista evitando riferimenti all’antica Roma o a vari classicismi. L’architetto tedesco Mies Van Der Rohe in una conferenza disse: “L’architettura è la volontà dell’epoca tradotta nello spazio”. Sono convinto che in questa frase possiamo trovare ben espresso il significato dell’arte: interpretare il tempo presente cercando di tradurlo in spazi costruiti per quanto riguarda l’architettura e per il cinema in sequenze di immagini. Ma come abbiamo visto spesso la storia dell’arte e quella della “folla” è mossa da principi generali analoghi, il più evidente quello fisico-chimico di “azione e reazione”. Questo però non pare in contraddizione con l’aforisma dell’architetto tedesco, infatti non è altro che uno zoom-out sulla “volontà dell’epoca” cioè quella di cambiare ripetutamente a seconda dei


bisogni, eventi ed esigenze delle persone. Ma se è vero che l’opera di ogni artista non è altro che la traduzione dell'interpretazione della realtà, il cinema essendo costituito da immagini, nel prossimo futuro sarà l’arte prediletta che sicuramente sarà in grado di interpretare al meglio le vicende del presente, riproducendo fotogrammi di una realtà non virtuale e sequenze temporali dei diversi modi di vedere il mondo. E questo, ne sono certo, avverrà anche per l'architettura.



FILMOGRAFIA Ricardo de Baños ,“Barcelona en tranvia”, 1908 Walther Ruttman, “Berlin, Die Simphonie der Grosstadt”, 1927 Dziga Vertov, “El hombre de la camara”, 1929 Dziga Vertov, “Cineocchio”, 1924 Phil Jutzi, “El viaje de la madre Krause a la felicidad”, 1929 Alexander Dovzenko, “La tierra”, 1930 King Vidor, “la follia”, 1928 BIBLIOGRAFIA AA.VV., La città che sale. Cinema, avanguardie, immaginario urbano, Edizioni Manfrini, Trento 1990. Trione V., Effetto città. Arte / Cinema / Modernità, Bompiani, Milano 2014 Sandro Bernardi, L'avventura del cinematografo, Marsilio Editori, Venezia 2007 Schwartz V.R., Spectacular Realities. Early Mass Culture in Fin-de-Siècle Paris, University of California Press, 1998 Gubern R., Historia del Cine, Anagrama, Barcelona 1969, 2014 La Nuova Oggettività tedesca, Abscondita, Milano, 2002 Sandro Bernardi, L'avventura del cinematografo, Marsilio Editori, Venezia 2007 Antonio Costa, Saper vedere il cinema,Bompiani, Milano 2011





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