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I Quaderni della Ricerca
«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà Romanae Disputationes 2014-15 a cura di Gian Paolo Terravecchia e Marco Ferrari
Didattica per l’Eccellenza
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I Quaderni della Ricerca
«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà Romanae Disputationes 2014-15 a cura di Gian Paolo Terravecchia e Marco Ferrari
Didattica per l’Eccellenza
© Loescher Editore - Torino 2015 http://www.loescher.it
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Indice Introduzione
di Gian Paolo Terravecchia, Marco Ferrari
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Saluto del ministro
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Lettera al ministro
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Parte prima. Lezioni
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Le radici antiche della libertà: in principio era… Platone?
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di Emidio Spinelli Libertà. La genesi scolastica del concetto
di Guido Alliney
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1. Aristotele
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2. Lo stoicismo
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3. Agostino
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4. La libertà moderna
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Che cosa ci insegna il determinismo moderno in tema di libertà?
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di Francesco Botturi 1. Negazione del libero arbitrio e riaffermazione della libertà
33
2. Condizioni ontologiche della libertà
35
3. Forme e funzioni della libertà
37
4. Conclusioni
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Le radici della libertà e i suoi paradossi attuali
41
di Giovanni Maddalena 1. La libertà come scelta
42
3
«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
2. La libertà come adesione
44
3. Il paradosso della nostra epoca
48
Il libero arbitrio e la responsabilità sono illusioni?
51
di Mario De Caro 1. L’illusionismo classico
51
2. Il nuovo illusionismo
53
3. Strategie anti-illusionistiche
57
Parte seconda. Conversazioni
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Le neuroscienze e la libertà. Intervista a Giacomo Rizzolatti
61
di Marco Ferrari Libertà, soggettività e neuroscienze. Intervista a Michele Di Francesco
di Marco Ferrari Parte terza. Sul concorso
81
Numeri e prospettive di una proposta per innovare la didattica della filosofia
83
di Marco Ferrari Vincitori dei concorsi 2015: elaborati scritti
89
«Sapere aude ut liber sis». Il cammino dell’uomo alla ricerca di se stesso
91
di Davide Calligola, Elena Colajanni, Silvia Lanzoni, Irene Scazzieri, Maria Vittoria Rubini
4
71
1. La conoscenza ostacola la libertà
92
2. La conoscenza favorisce la libertà
93
3. La conoscenza favorisce la libertà. Ma quale libertà?
97
4. La tensione inesauribile alla conoscenza
99
Indice
5. Conoscenza assoluta e libertà assoluta: quando l’uomo sperimenta la libertà?
100
6. Conclusione
100
Esperimenti di libertà. Idee ed esperienze a confronto
103
di Alessandra D’Antonio, Eleonora Manzoni, Giacomo Passarini, Valeria Pette, Martina Pirone, Lisa Taruffi, Guido Vignati 1. Introduzione: definizione preliminare della libertà
103
2. Tavola rotonda. La nostra esperienza della libertà: dall’esperienza alla comprensione (i nomi sono di fantasia)
104
3. I “vissuti” della libertà
108
4. Conclusione: libertà come espressione autentica dell’io nella sua originalità e unicità
110
«Ma anche così desidero e invoco ogni giorno / Di tornarmene a casa, vedere il ritorno». Saggio sulla libertà dell’uomo a partire da testi di Omero
115
di Carla Barenghi, Alessandro Foti, Filippo Landi, Maddalena Savorana 1. Introduzione: Omero, amico del sapere
115
2. Il destino di Sarpedone, figlio di Zeus
115
3. Il Fato: regolatore del destino di tutti
116
4. Che cosa c’entra con noi?
117
5. Domanda conclusiva
117
6. Il pianto di Achille e di Priamo per il destino infelice di Ettore e Patroclo
117
7. L’amarezza dell’uomo di fronte alla morte
118
8. Domanda conclusiva
119
9. Agamennone colpito da Ate
119
10. Ate: colpevole dell’ira di Agamennone
119
11. Che cosa c’entra con noi?
120
12. Domanda conclusiva
121
5
«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
13. Ettore: il dialogo con Andromaca
121
14. I motivi della scelta di Ettore
122
15. La libertà di Ettore
122
16. Che cosa c’entra con noi?
123
17. Odisseo: il dialogo con Calipso
124
18. La libertà nella fedeltà
125
19. Conclusione
125
L’esperienza della libertà. Tra limite e paradosso
127
di Emma Lavinia Bon, Leandro Francesco Lombardo, Dana Cencig, Emanuele Corredig 1. Introduzione
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2. Libertà si dice in molti modi
128
3. Limiti o libertà?
129
4. Conclusione
135
La riscoperta del determinismo
139
di Nicola Fiorentino, Giuseppe Forziati, Francesco Martielli La libertà: la sua attuazione nella duplice forma dell’intellettualismo etico e del praticismo etico
di Maria Laura Serra, Giacomo Montanari
6
145
1. L’intellettualismo etico, ovvero la libertà individuale
146
2. Il praticismo etico, ovvero la libertà collettiva
149
3. Conclusioni
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Vincitori dei concorsi 2015: elaborati multimediali e Age contra
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Autori e curatori
157
Introduzione di Gian Paolo Terravecchia, Marco Ferrari
Nella primavera del 2013 si è avviata l’organizzazione del Concorso nazionale di filosofia per studenti liceali Romanae Disputationes (rd), giunto nel presente anno scolastico alla seconda edizione. Esso cerca di promuovere in Italia l’eccellenza nello studio della filosofia a livello di scuola secondaria superiore. Le rd in questi due anni hanno offerto a migliaia di studenti del triennio superiore di tutta Italia un percorso di ricerca e di confronto, aperto a tutti gli orientamenti culturali, realizzato in collaborazione con il mondo universitario, ponendo a tema le grandi domande che la filosofia offre. Il Concorso si radica nel lavoro quotidiano di numerosi docenti di filosofia della scuola secondaria superiore che condividono la propria esperienza di insegnamento per riscoprire, in quella comunità di lavoro che è la Bottega di Filosofia di Diesse, i contenuti e i testi della filosofia al di là del già saputo e sedimentato1. Nelle rd gli studenti, raccolti in team, vengono sfidati a lavorare sui più affascinanti temi di cui si occupa la filosofia come la ragione umana, la libertà, la giustizia. Tali questioni costituiscono la trama quotidiana delle lezioni di filosofia a scuola e sono proposte nel Concorso, proprio perché possano rioccupare con maggiore centralità e ampiezza il ruolo che spetta loro nella formazione delle giovani generazioni e nella riflessione matura degli adulti. Il presente testo nasce dal Concorso 2015 sul tema “Libertà va cercando, ch’è sì cara”. L’esperienza della libertà. Il volume non vuole limitarsi a riproporre il già visto così da documentarlo, ma cerca soprattutto di offrire del materiale che consenta, a diversi livelli di approfondimento e da molteplici angolature, di rimeditare il tema della libertà.
1. Cfr. Prefazione, in M. Ferrari, G. P. Terravecchia (a cura di), Soggetto e realtà nella filosofia contemporanea. Cinque lezioni, Itaca, Castel Bolognese (ra) 2014, p. 3; cfr. http://lebotteghedellinsegnare.diesse.org/ filosofia. Le lezioni della Bottega sono pubblicate anche sul portale http://webtv.loescher.it. La Bottega di Filosofia è coordinata da Marco Ferrari e fa parte del progetto Le Botteghe dell’insegnare, a cura dell’associazione Diesse.
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
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Poiché la presente edizione ha ricevuto l’attenzione del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, senatrice Stefania Giannini, che ha inviato ai partecipanti un saluto, riportiamo qui il testo inviato dal ministero e la risposta preparata per l’occasione dal Comitato didattico delle rd. Per quanto riguarda i contenuti, il libro si compone di tre parti. La prima raccoglie gli interventi (ascoltati dai partecipanti alle rd in presa diretta) di cinque docenti universitari che affrontano il tema della libertà secondo un approccio storico che va dall’antichità (Emidio Spinelli), al medioevo (Guido Alliney), all’epoca moderna (Francesco Botturi), fino a quella contemporanea (Giovanni Maddalena e Mario De Caro). Non si tratta però di un lavoro storiografico di tipo meramente ricostruttivo: nei cinque saggi, attraverso le tesi dei classici e il dibattito filosofico ricostruito, il lettore viene guidato a riflettere “sulle cose stesse”. Nella seconda parte sono presentate due interviste, rispettivamente al neuroscienziato di fama internazionale Giacomo Rizzolatti e al filosofo della mente Michele Di Francesco. La terza parte, che raccoglie i materiali vincitori del Concorso, è introdotta da un testo di Marco Ferrari. In quest’ultimo sono forniti sinteticamente i numeri delle rd e si riflette sul portato didattico ed educativo dell’iniziativa. Ci preme osservare che andare alle tesine vincitrici, senza avere coscienza dell’intero che le ha generate, sarebbe riduttivo. Quanto alle scelte sulle modalità di pubblicazione delle tesine, è opportuno chiarire le ragioni che ci hanno guidato e che sono in sostanza le stesse che abbiamo espresso nella precedente edizione. Quello che in un autore esperto, magari affermato, è motivo di pudore, in un giovane alle prime armi è traccia di un percorso di crescita e perciò può essere a pieno titolo motivo di orgoglio e vanto. La logica di questa parte è di presentare i testi giudicati come migliori, secondo la valutazione delle giurie didattica e scientifica. Ci siamo limitati a correggere i refusi e le mancanze formali a livello tipografico, emendando in qualche raro caso il testo per riportarlo alle intenzioni espressive originarie, con l’autorizzazione di chi lo firma. Per fare ciò, per esempio, abbiamo inserito corsivi, virgolette intelligenti, un’omogenea numerazione dei paragrafi. Abbiamo inoltre sollecitato gli studenti a inserire i riferimenti bibliografici che non di rado mancavano in qualche misura nel testo consegnato al Concorso. Abbiamo però conservato tutto il resto, comprese le carenze a livello espressivo, concettuale e culturale. Gli studenti che li hanno scritti vi troveranno il loro lavoro proprio così come l’hanno presentato (e non una sua versione finta e abbellita per l’occasione). Gli insegnanti potranno constatare tra le righe il molto che è stato svolto dai colleghi e il tantissimo che si sarebbe potuto fare, traendo spunto dall’uno e dall’altro. Gli studenti delle prossime edizioni del Concorso, si faranno un’idea di quello che in pas-
Introduzione
sato è stato uno standard vincente e potranno cercare di alzare l’asticella. Ci piace pensare che, un giorno, qualcuno prenderà in mano anche questo testo delle rd e, leggendo le tesine degli studenti, sorriderà di quanto è stato scritto dai team nella seconda edizione. Ebbene, anche in questo caso, tutti gli autori, con noi, potranno essere orgogliosi di aver compiuto un passo verso quel miglioramento. In un percorso di ricerca è normale che alcune cose non riescano al meglio, soprattutto all’inizio: se si vuole imparare a camminare, non si deve temere di cadere e anzi bisogna essere orgogliosi di quanto intrapreso, pur di non restare fermi. Il lettore dovrà dunque riconoscere che, con tutti i loro limiti, le tesine che raccogliamo presentano, ciascuna, degli elementi di merito e di interesse che noi curatori siamo lieti di pubblicare, anche a motivo della capacità che hanno avuto gli studenti di entrare con tutti se stessi dentro alle questioni, mostrandone molteplici sfaccettature e, soprattutto, il riverbero sincero che la domanda sulla natura e sull’esperienza della libertà ha suscitato in loro. Desideriamo infine ringraziare alcune persone il cui contributo per la realizzazione del volume è stato prezioso: Alessandro Falconieri, che ha svolto un primo lavoro di editing; Gabriella Haeffely e Carmela Carruba Toscano per la sbobinatura e in parte la sistemazione del testo delle due interviste.
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Saluto del ministro
Purtroppo sono impossibilitata a partecipare al Vostro incontro. Vi ringrazio di cuore per il Vostro invito a intervenire su un tema a me molto caro come quello della libertà. Vi prometto che, appena mi sarà possibile, verrò a visitare il Vostro Concorso. Questi Vostri giorni di lavoro e di studio rappresentano un contributo prezioso in un tempo come il nostro, segnato da conflitti e contrapposizioni in varie parti del mondo. Il bisogno di costruirsi spazi propri che esprimono i ragazzi oggi, unito alla consapevolezza di un presente ricco di contraddizioni e opposizioni, sono i due estremi entro cui si colloca il compito che è proprio della politica e delle istituzioni pubbliche. È la sfida che sta di fronte anche alla nostra comunità nazionale, e a quella di cittadini europei: fare dei percorsi educativi un luogo di creatività e crescita intellettuale e spirituale, rendendo la scuola un luogo di educazione alla libertà. L’impegno degli educatori, dei maestri, degli insegnanti, dell’intero sistema culturale mira, in questo senso, a stimolare e favorire la nascita di idee libere e nuove da parte delle giovani generazioni. È necessario pensare alla scuola come luogo di educazione alla libertà, ma questo non può avvenire al di fuori di uno spazio europeo. I programmi messi in campo dalle istituzioni europee in questi anni per favorire la mobilità degli studenti di ordine e grado rappresentano un importante strumento con cui allargare lo spazio di libertà del nostro sistema educativo, trasformando lo studio e l’apprendimento in una sorta di “palestra esperienziale” dove lo spazio di riferimento si allarghi includendo lingue, culture, tradizioni e sensibilità diverse. Tutto questo, a mio parere, rappresenta ben più di un’opportunità preziosa per l’Unione: quella delle politiche comunitarie per l’educazione e per l’educazione alla libertà è la sola strada per costruire una solida cittadinanza europea, vero nodo della storia del nostro continente e della sua integrazione. All’interno dei confini dell’Unione le diversità, come sapete, sono molte e spesso connotate dalla profondità storica di un passato che proprio per la
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
sua lontananza continua a far sentire tutto il suo peso. Occorre quindi pensare a un’educazione europea alla libertà che guardi a tutto questo come una grande ricchezza, senza cercare facili accomodamenti o superficiali appelli a ciò che unisce. La coscienza delle divisioni profonde che hanno fatto la storia d’Europa è la base essenziale con cui cogliere la ricchezza preziosa del cammino compiuto dal 1945 al 1989, fino ad oggi con l’allargamento verso i paesi dell’Est. Solo in questo modo potremo insegnare ai nostri figli come la nostra patria Europa sia un esperimento di pace e libertà che abbiamo la responsabilità di proiettare nel domani, con tutta la forza, spessore, luci e ombre del suo passato. Tutto questo è ancora più vero in un passaggio storico così complesso, in cui i fronti di conflitto aperti in Europa e fuori dall’Europa interrogano noi tutti. Le varie crisi del nostro tempo, dall’Ucraina al Medioriente fino alla crisi economica, presentano l’esigenza di strumenti di lettura che oggi mancano. Per capire vicende così complesse e direttamente influenti sulla nostra vita, serve fare della libertà il cuore del nostro cammino educativo. È la libertà intellettuale e culturale, infatti, ad aprire la possibilità di valutare, giudicare e pensare la realtà. La libertà deve diventare la risposta al nostro tempo, come sguardo verso il futuro. Proprio a questa libertà si è ispirato il progetto de “La Buona Scuola”, che ha coinvolto i protagonisti del mondo dell’educazione e della cultura: non una riforma per la scuola “perfetta” studiata a tavolino, non una progettazione di cicli e di programmi sganciata dalla realtà e orientata a un ideale astratto di educazione, ma una scuola “buona”, composta da persone profondamente consapevoli che educare è una sfida mai conclusa che richiede una fatica quotidiana, un’educazione per cittadini della nostra Repubblica e della nostra Europa. La libertà a cui la scuola deve guardare è quella libertà intellettuale e spirituale che spinge ad accettare la sfida di capire e di interrogarsi. È con questo auspicio che Vi auguro un buon proseguimento di lavori, con la speranza che i nostri figli non si accontentino di leggere la realtà che ci circonda con poche idee, la gran parte prive di libertà. Stefania Giannini Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
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Lettera al ministro
Grazie, signora ministro, delle parole di apprezzamento che ha avuto per la nostra iniziativa. Noi docenti del Comitato didattico vorremmo offrire con il nostro lavoro un piccolo contributo per rinnovare la scuola, proponendo le rd come buona pratica. Che cosa abbiamo sperimentato lavorando alle rd? • Che insegnare è ricercare assieme ai nostri ragazzi; che solo un docente in ricerca, un docente appassionato, può trasmettere sapere. “I ragazzi non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere” dice un famoso adagio. Nell’era digitale, sempre più, il nostro lavoro consisterà nel guidare la ricerca personale degli allievi, orientarla, spingerla più in là, trasmetterne il senso, più che nel travasare nozioni. • In secondo luogo, abbiamo sperimentato che la scuola deve uscire dall’autoreferenzialità. Il dialogo fra le molte scuole, fra stili di apprendimento e di insegnamento fra loro diversi, fra numerose e composite visioni del mondo è utile, perché migliora le nostre scuole e il nostro lavoro, perché potenzia la nostra didattica, ponendola in vero confronto con la realtà. Rende la scuola educatrice di uomini capaci di pensiero critico. A questo lavoro hanno partecipato scuole pubbliche, cioè statali e paritarie. Dal dialogo fra queste realtà non può che scaturire un vantaggio, in quanto ciascuna ha da imparare dall’altra. • In terzo luogo, abbiamo sperimentato che la competizione, la ricerca dell’eccellenza, il merito di cui tanto si parla non esclude, anzi deve includere, il sapere cooperativo. La competenza del lavorare in team, del dialogo, della condivisione del sapere, il saper razionalmente argomentare la propria posizione ed essere disponibili a mettere in discussione le proprie convinzioni, sono competenze essenziali nella scuola del futuro, nella società del futuro. • Infine, abbiamo avuto modo di scoprire ancora una volta che l’avventura del pensiero è quanto di più umano possiamo sperimentare. Che è
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
bello indagare insieme la realtà nei suoi aspetti ultimi con gli strumenti della ragione, scorgendo problemi, domande, là dove chi guarda in superficie vede, anzi meglio, crede di vedere fatti, cose ovvie. Non avendo paura dell’abisso di desiderio e di domanda radicale che il nostro io è, la filosofia fa parte di quel tipo di educazione umanistica di cui oggi c’è tanto bisogno. È un lusso forse, ma certo è un’esperienza felice di cui tutti dovrebbero godere almeno un po’ nel proprio percorso formativo, così da poterla portare con sé per sempre. Perché i benefici che la filosofia dona, come l’imparare a domandare e ad argomentare, danno spessore all’umano. Perciò, proponiamo di estendere lo studio della filosofia, almeno in qualche aspetto, a tutti gli ordini di scuola. Vorremmo concludere con le parole del premio Nobel per l’economia Edmund Phelps, che fissano alcuni dei punti che sono per noi un traguardo da raggiungere: I mercati del lavoro non hanno solo bisogno di maggiori competenze tecniche, ma richiedono sempre più soft skills come la capacità di pensare in modo fantasioso, di elaborare soluzioni creative per risolvere problemi complessi, di adattarsi a circostanze mutevoli e a vincoli nuovi. […] Un primo passo necessario è quello di reintrodurre le materie umanistiche al Liceo e nei corsi di studi universitari. Studiare letteratura, filosofia e storia sarà d’ispirazione ai giovani che aspirano a una vita ricca, una vita che permetta loro di offrire dei contributi creativi, innovativi alla società (Teaching Economic Dynamism, in Project Syndicates, 2 September 2014, trad. nostra).
Dunque, ancora grazie, ministro, del suo apprezzamento e auguri per il Suo lavoro. Roma, 12 febbraio 2014 Il Comitato didattico
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Parte prima Lezioni
Le radici antiche della libertà: in principio era… Platone? di Emidio Spinelli
Una notazione preliminare e chiara si impone: non credo si possa fornire un panorama completo delle questioni, o meglio dei problemi della libertà o delle libertà nel mondo antico nello spazio breve, brevissimo, di questo contributo1. Va perciò operata necessariamente una scelta, una selezione, anche dolorosamente drastica2. Ripetere o ripercorrere le dottrine altrui quasi come se si trattasse di una cantilena, o di una banale “filastrocca delle opinioni”, è senz’altro un esercizio di passività. Se tuttavia ripetere significa entrare nella mente di altri pensatori e cercare di rispettarne e comprenderne le argomentazioni o le linee teoriche di demarcazione, allora forse è preferibile ripetere le dottrine altrui, nel senso di riviverle e appunto riattualizzarle, perché questo è un vero, autentico, esercizio di democrazia sempre a nostra disposizione. Se poi l’intento è quello di spostare lo sguardo indietro, verso le origini della nostra riflessione filosofica, la domanda, quasi inevitabile, è: da dove cominciare? Direi di cominciare da una declinazione al plurale della libertà. In tal senso può essere utile offrire un riferimento bibliografico e appoggiarsi a un grande, a mio avviso per più aspetti stimolante, pensatore del Novecento, Hans Jonas. In una serie di lezioni che tenne nel 1966 prima e poi nel 1970, egli offrì ai suoi studenti un corso che si intitolava Problems of freedom, dedicato insomma a tanti e diversi Problemi di libertà: problemi, al plurale, di libertà, dunque, secondo una scansione diacronica in grado di abbracciare le questioni legate alla libertà da Platone fino ad Agostino3. Jonas volle così
1. 2.
3.
Sempre di grande stimolo si rivelano le pagine, datate ma di ampio respiro, di M. Pohlenz, La libertà greca, Paideia, Brescia 1963. Nel far questo mi farò guidare e aiutare da un recente saggio di Franco Trabattoni, cercando così di mettere sul tavolo spunti di riflessione che siano capaci non solo di soddisfare curiosità “archeologiche”, ma anche di stimolare riflessioni ancora attuali: cfr. F. Trabattoni, Libertà, libero arbitrio e destino in Platone, in M. De Caro, M. Mori, E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci, Roma 2014, pp. 15-38. Cfr. H. Jonas, Problemi di libertà, a cura di E. Spinelli, con la collaborazione di A. Michelis, Nino Aragno Editore, Torino 2010.
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
coprire per intero l’ambito della cosiddetta filosofia antica; ma lo fece esattamente cercando di rispettare l’ottica con cui aveva intitolato il suo corso: la libertà non è né può essere considerata monologicamente, non pone un unico problema né un problema unico o peggio univoco, ma suscita una serie di questioni, perché, quasi aristotelicamente si dice in molti modi, pollachos. Nel senso etimologico di pro-blema, insomma, essa getta qualcosa di fronte ai nostri piedi, qualcosa rispetto a cui dobbiamo, in qualche maniera, prendere posizione. E dobbiamo farlo, soprattutto, Jonas ci teneva a dirlo, con uno sguardo che è – stranamente in un “nipotino” di Heidegger4 – anche frutto di un’analisi e di una ricostruzione storiche acute e spesso originali. Alla luce di tali premesse bisogna quindi parlare di una pluralità di concetti diversi di libertà, che non necessariamente debbono essere visti come contraddittori l’uno rispetto all’altro, ma che possono tranquillamente coesistere in un panorama in cui ciascuno di essi sia capace di dare giustificazione dei propri presupposti teorici e del proprio svolgimento di pensiero. Quindi, assumo uno sguardo di apertura totale: non è vero che “voto” o “faccio il tifo” per la libertà di Platone, perché quella di Agostino mi risulta insopportabile; non è vero che “voto” per Aristotele perché non posso soffrire ad esempio il determinismo degli stoici, ma imposto il mio discorso in modo decisamente diverso. Cerco di capire, di volta in volta, quali diversi concetti – al plurale – di libertà questi autori ci hanno voluto offrire, naturalmente, sempre e comunque con acribia anche filologica, rispettandone il dettato testuale. Da dove si comincia? Potremmo trovarne tanti di punti di avvio. Potremmo partire ad esempio dai sofisti, perché i sofisti sono i primi che, per usare un’espressione che Cicerone applica a Socrate nelle Tusculanae disputationes, hanno letteralmente strappato giù – devocare, così il verbo latino –, hanno strappato dall’alto e dal cielo la filosofia e l’hanno portata sulla terra, nelle case, fra gli uomini e nel comportamento quotidiano5. Di conseguenza, si sono scontrati inevitabilmente con l’agone politico, proprio perché si sono occupati del comportamento umano in una temperie storico-culturale come l’Atene del v secolo a.C., culla di democrazia periclea; si sono dovuti occupare di libertà. Essi lo hanno fatto tanto nel senso della ἐλευθερία (eleuthería) greca, cioè di questa nozione che è essenzialmente politica, strutturalmente pub-
4. 5.
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Per una raccolta di alcune riflessioni su Heidegger formulate da personalità filosofiche del Novecento (fra cui lo stesso Jonas), cui si potrebbe estendere tale “etichetta”, cfr. G. Anders et al., Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Donzelli, Roma 1998. Per una lettura che si muove in tale direzione, cfr. ad esempio M. Buccellato, Per una interpretazione speculativa della retorica sofistica, in V. E. Alfieri, M. Untersteiner (a cura di), Studi di filosofia greca in onore di Rodolfo Mondolfo, Laterza, Bari 1950, pp. 181-214; contra: G. Semerari, Il principio del dialogo in Socrate, in “Giornale critico della Filosofia italiana”, terza serie, a. xxxii, vol. vii, 1953, pp. 452-453.
Le radici antiche della libertà: in principio era… Platone?
blica, quanto nel senso di libertà come παρρησία (parrhesía), cioè libertà intesa come franchezza di parola6. Quindi, il primo inizio potrebbe essere individuato nei sofisti7. Il problema, però, non certo di poco conto, è che dei sofisti, delle loro opere originali noi non abbiamo molto, anzi. Abbiamo conservato pochissimo, in molti casi abbiamo solamente frammenti o testimonianze indirette; in molti casi, inoltre, tali testimonianze vengono da autori che non avevano una grande opinione dei sofisti, ma sono malevole e comunque sicuramente non neutrali. Quindi: come si fa a ricostruire ciò che veramente avevano detto i sofisti? Non dobbiamo tuttavia porci la medesima domanda riguardo a Socrate? Come si fa a ricostruire, per usare il titolo di un piccolo, ma ben appropriato libro di Gabriele Giannantoni, che cosa ha veramente detto Socrate?8. Socrate quale? Il Socrate di Platone? Il Socrate di Senofonte? Il Socrate dei socratici minori? Il Socrate di Aristotele o, ancor più indietro, il personaggio comico nelle Nuvole di Aristofane? Quale Socrate?9 C’è un problema, che, per usare un’immagine efficace, è quello di un prisma, quale si rivela essere Socrate: da qualsiasi posizione lo si guardi, si frantuma immediatamente in una miriade di sguardi possibili. Per ragioni diverse, ma tutte volte alla massima e necessaria cautela ermeneutica, è preferibile lasciare fuori questi inizi: i sofisti e Socrate. Che cosa resta e da dove iniziare, allora? Inevitabilmente, direi, con Platone. Quasi a mo’ di certificazione anagrafica, la data di nascita del problema della libertà nel mondo occidentale è rinvenibile verosimilmente in un brano tratto dal mito di Er, nel decimo libro della Repubblica di Platone. Lasciando da parte i dettagli relativi al mito10, vale la pena ricordare che a Er viene concesso di avere uno sguardo privilegiato su quello che è uno dei momenti fondamentali nella psicologia e nell’ontologica platonica, il momento in cui le anime, dopo aver vissuto una vita incarnata, debbono tornare a operare e a compiere una scelta fondamentale: quella di un’altra vita, di un altro corpo in cui incarnarsi, di un altro destino da realizzare.
6.
Sempre valide, sul tema, restano le riflessioni di L. Spina, Il cittadino alla tribuna. Diritto e libertà di parola nell’Atene democratica, Liguori, Napoli 1986. 7. Per un primo orientamento sulla galassia sofistica mi limito a rinviare a tre opere introduttive, di carattere generale e fra loro diverse per impostazione: G. B. Kerferd, I sofisti, il Mulino, Bologna 1997; M. Untersteiner, I sofisti, Bruno Mondadori, Milano 2008, e M. Bonazzi, I sofisti, Carocci, Roma 2013. 8. Cfr. G. Giannantoni, Che cosa ha veramente detto Socrate, Ubaldini, Roma 1961, nonché Id., Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, Bibliopolis, Napoli 2005. 9. Per un primo, sintetico orientamento sulle intricate problematiche legate alla “questione socratica”, cfr. almeno L.-A. Dorion, Socrate, Carocci, Roma 2010. 10. Utilissime indicazioni si possono introduttivamente trarre dai seguenti lavori, tutti contenuti in Platone, La repubblica, trad. e commento a cura di M. Vegetti, vol. vii, Libro x, Bibliopolis, Napoli 2007: F. Calabi, Il mito di Er. Le fonti, pp. 277-310; F. De Luise, Il mito di Er. Significati morali, pp. 311-366; F. Franco Repellini, Il fuso e la Necessità, pp. 367-397; S. Campese, La filatrice cosmica, pp. 399-411.
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
Ecco il testo che segna in modo inequivocabile un momento di rilievo assoluto, decisivo nella vicenda psicologica descritta da Platone: Anime effimere, inizia un altro periodo di generazione mortale, foriera di morte. Non sarà un demone a scegliere voi, ma voi sceglierete il demone. Il primo indicato dalla sorte per primo scelga il tipo di vita cui sarà necessariamente vincolato. La virtù non ha padrone, e ognuno ne avrà una parte maggiore, se le tributerà onore, o minore nel caso contrario. La responsabilità è di chi sceglie: un dio non è responsabile11.
A parlare è Lachesi, nell’attimo cruciale in cui si deve stabilire (da un punto di vista alto, oserei dire, dei principi metodologici di fondo) come si compie la scelta. Lachesi si rivolge alle anime e le chiama ἐφήμεροι (ephémeroi), un aggettivo che, per chiunque fosse allora immerso nella cultura greca e per chiunque oggi sappia di greco, “profuma” di Omero e di Pindaro12. Allora: anime effimere; ma chiunque abbia anche vagamente frequentato Platone, sa che per lui l’anima è una vera realtà ontologicamente forte, affine alle idee, che deve superare la dimensione corporea e sensibile. Nonostante questo primato ontologico, Lachesi le chiama anime effimere, a significare forse che qualsiasi percorso esse scelgano sarà un percorso sottoposto al rischio di una vita vissuta giorno per giorno. Questo già dà la dimensione di una scelta etica che non è una scelta extratemporale, ma che dovrà scontrarsi con la temporalità della quotidianità. Anime effimere, dunque, per le quali inizia un altro periodo di generazione mortale: questo è quello che accade alle anime, costrette a tornare nella vita terrena. La frase più importante e che si imprime nella mente del lettore è sicuramente la seguente: «Non sarà un demone a scegliere voi, ma voi sceglierete il demone». Qui Platone capovolge esattamente quella che era la visione tradizionale della relazione e della personalità del soggetto umano. Il soggetto umano non è più etimologicamente soggetto, non sta più sotto una qualche legge divina, religiosa, mitica, ma è quel soggetto che sceglie il proprio percorso o se volete – forzando la traduzione di δαίμων (dáimon) – il proprio carattere. Il vero nocciolo dell’affermazione platonica è che sceglie non il demone, ma la singola anima. Come sceglie? Platone dice che vengono gettate delle sorti, vengono gettati dei “numeretti”, qualcuno pesca il numero 1, qualcuno il numero 4 – a caso ovviamente, nulla è predeterminato. Il primo, quello che ha avuto in sorte il numero 1, sceglierà per primo il tipo di vita. E qui viene l’apparente trattazione ossimorica di Platone, perché costui sceglie sì per primo, sceglie da solo, sce-
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11. Platone, Repubblica, 617 d-e (trad. it. in Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Rizzoli, Milano 2007). 12. Cfr. almeno Omero, Odissea, xxi, 85, e Pindaro, Pitica, 8, 95.
Le radici antiche della libertà: in principio era… Platone?
glie senza ipoteche, ma sceglie un tipo di vita a cui sarà legato ἐξ ἀνάγκης (ex anánkes), per necessità. Allora, l’inizio è assolutamente libero, mentre lo svolgimento della vita scelta è assolutamente necessitato. Non a caso, nel mito di Er, Platone parla addirittura di un inserimento delle vite scelte in quello che è il grande quadro di Ἀνάγκη con l’alpha maiuscola, cioè di una dea-necessità, che regge il cosmo tutto intero. Quindi noi abbiamo una strana, stranissima posizione: la libertà per Platone si declina innanzitutto come una scelta (noi tenderemmo a dire: soggettiva e autonoma), i cui risultati sono, però, vincolati alla necessità, sono sottoposti in senso forte alla necessità. Non so se noi saremmo disposti ad accettare rispetto alla libertà un tipo d’idea del genere; quello che dobbiamo fare, però, è superare la nostra idea di libertà, l’idea di una libertà come un potere indiscriminato che sfocia nella licenza. La libertà va piuttosto intesa, come vuole Platone, come una scelta che si regge sulla nostra volontà di imboccare questa strada, una strada che, però, ci resta poi assegnata per sempre o almeno per tutto il periodo in cui dura l’incarnazione dell’anima. Sullo sfondo e a corroborare questo quadro teorico, poi, troviamo una delle affermazioni più citate, più celebri, che fa di questo brano un locus classico della nascita del problema della libertà: «la virtù [ἀρετή (areté)] – è ἀδέσποτον (adéspoton)». Il termine ἀδέσποτον, per chiunque abbia vaga assonanza con il linguaggio politico greco, è netto e rigoroso: significa “non ha padroni”, cioè non c’è alcun tipo di despota sulla virtù. La virtù non riconosce dominatori; se ne può avere una parte maggiore se si tributa onore alla virtù, oppure minore, nel caso la si metta da parte, ma – soprattutto – «la responsabilità è di chi sceglie: un dio non è responsabile» (αἰτία ἑλομένου· θεὸς ἀναίτιος – aitía heloménou: theòs anáitios). Αἰτία: che cosa significa qui? Letteralmente αἰτία è la causa; però, nel momento in cui io sono causa a me stesso, divento anche responsabile di ciò che ho scelto di causare. Quindi, la causa della mia azione e della mia scelta e la responsabilità che ne consegue è tutta di colui che sceglie. E soprattutto, a integrazione, Platone sottolinea che θεός ἀναίτιος. La divinità viene spogliata di qualsiasi responsabilità, non si può ricorrere alla divinità. Scompare il pessimismo di una tragedia come l’Edipo re, cui Platone contrappone, come giustamente sottolinea ancora Trabattoni, una sorta di ottimismo umanistico, in virtù del quale noi scegliamo, noi ci assumiamo la responsabilità e, una volta che abbiamo scelto e ci siamo assunti la responsabilità, dobbiamo portare quest’ultima sulle nostre spalle, fino in fondo13. Non c’è possibilità di un cambiamento di rotta in corsa. Noi abbiamo un unico attimo di scelta e di libertà; in quell’attimo dobbiamo essere capaci di operare la scelta esatta, di porci dalla parte giusta.
13. Cfr. Trabattoni, Libertà, libero arbitrio e destino in Platone, cit., pp. 21-22.
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
Questo è Platone, il Platone della Repubblica, almeno. E forse non è un caso se, a mano a mano che egli si avvia verso la sua età matura, forse anche per una serie di disillusioni di carattere biografico, assume un atteggiamento rispetto alla libertà molto meno aperto, molto meno “fluido” e positivo di quello appena descritto. La libertà comincia a essere posta, anzi meglio sottoposta alla Πρόνοια (Prónoia), alla provvidenza, al controllo divino. Questo sembra essere il quadro che emerge da un passo del Timeo: perciò, secondo una tesi probabile, bisogna dire che questo mondo nacque come un essere vivente davvero dotato d’anima e intelligenza grazie alla provvidenza divina [διὰ τὴν τοῦ θεοῦ […] πρόνοιαν] 14 .
L’ipoteca della divinità, prima esplicitamente negata, diventa ora così forte da abbracciare tutto il mondo, tutto il cosmo (uomo compreso, appare dunque ragionevole inferire). In una direzione analoga si muove un passo delle Leggi15: Tutto ciò che è partecipe di anima cambia, possedendo in se stesso la causa del cambiamento, e mutandosi si muove secondo l’ordine e la legge del destino [κατὰ τὴν τῆς εἱμαρμένης τάξιν καὶ νόμον].
Comincia a emergere un termine che è fondamentale: la heimarméne è la parte che ci viene assegnata, non che noi ci scegliamo. Benché risulti almeno enunciata la possibilità di rinvenire nell’anima incarnata il movente causale dell’azione e del mutamento comportamentale, in realtà il quadro complessivo del cambiamento viene ricondotto nell’alveo di qualcosa che è da sempre e per sempre ordinato, armonioso, cosmicamente organizzato. Comincia forse qui una tensione nel platonismo, che avrà il suo culmine in Plotino, in cui avremo un’idea della libertà che è ormai totalmente svincolata da questa autonomia del soggetto, completamente collocata in una sfera che è quella dell’ideale e del divino. Sarà quello l’unico parametro della libertà16. Anzi, in Plotino troveremo esasperato, per così dire, un motivo che è
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14. Platone, Timeo, 30b-c (trad. it. in Platone, Timeo, a cura di G. Lozza, Mondadori, Milano 1994, corsivo mio). 15. Platone, Leggi, 904 c (trad. it. in Platone, Le leggi, introduzione di F. Ferrari, trad. it. di F. Ferrari e S. Poli, Rizzoli, Milano 2005, corsivo mio). 16. Elementi importanti a sostegno di questa soluzione si leggono in due scritti plotiniani: cfr. La felicità e il tempo. Plotino, Enneadi, I 4 - I 5, con testo greco, introduzione, trad. it. e commento di A. Linguiti, led, Milano 2000. Per alcuni utili spunti di riflessione, ricchi anche di profondità storica, sui margini concessi a “ciò che dipende da noi” cfr. E. Eliasson, The Notion of That Which Depends on Us in Plotinus and Its Background, Brill, Leiden-Boston 2008. Più in generale, infine, sull’intreccio antico, tardoantico e cristiano fra il peso del destino, le direttive della provvidenza e le ipoteche prede-
Le radici antiche della libertà: in principio era… Platone?
già in Platone, nel Fedone. Qui Platone ci presenta una vicenda dell’anima il cui obiettivo precipuo, il cui vero senso e anelito di libertà è quello di abbandonare il corpo, di volgere le spalle al corpo. Ciò sembra condensarsi nella famosa affermazione, secondo cui l’intera vita di un individuo è una μελέτη θανάτου (meléte thanátou), è una preparazione alla morte. Questo non nel senso che dobbiamo rinunciare alla vita o suicidarci prima possibile, ma nel senso che dobbiamo il più possibile volgere le spalle a ciò che è terreno e corporeo, per spingerci verso ciò che invece è anima e idea17. Ora questa pulsione, che non fa più del soggetto un’unità (benché problematica) di anima e corpo, ma che privilegia sempre di più l’anima, in Platone emerge in alcuni casi, ma in Plotino e nel neoplatonismo diventerà assolutamente fondamentale, fornendo combustibile e accendendo metaforicamente la miccia di riflessioni secolari all’interno della successiva tradizione del cristianesimo. Questo, però, sarebbe un altro, lungo discorso, che sposterebbe il fuoco dell’attenzione oltre l’antico, verso le complesse e articolate considerazioni elaborate rispetto al tema della libertà nel pensiero cristiano, tanto della tarda antichità, quanto medioevale18. Al di là di qualsiasi possibile fuga in avanti, comunque, resta sullo sfondo un’impressione indelebile. Sì, forse è proprio così, possiamo sciogliere il punto di domanda contenuto nel titolo di questo contributo: in principio era Platone, perché egli lascia al pensiero occidentale un’eredità di enorme portata, ponendosi dunque se non come l’inizio assoluto, quanto meno come la solida radice di ogni futura riflessione sulle difficili questioni legate al tema della libertà.
stinazionistiche cfr. A. Magris, Destino, provvidenza, predestinazione. Dal mondo antico al cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2008. 17. Cfr. Platone, Fedone, 67b-68b e 61b-e. 18. Su tali questioni mi limito ad alcuni recenti, selettivi rinvii: G. Lettieri, Le aporie della libertà cristiana dal Nuovo Testamento a Giovanni Scoto Eriugena, in De Caro, Mori, Spinelli (a cura di), Libero arbitrio, cit., pp. 133-169; P. Porro, Trasformazioni medievali della libertà/1. Alla ricerca di una definizione del libero arbitrio, in De Caro, Mori, Spinelli (a cura di), Libero arbitrio cit., pp. 171-190; Id., Trasformazioni medievali della libertà/2. Libertà e determinismo nei dibattiti scolastici, ivi, pp. 190-221; G. Alliney, La chimera e il girarrosto. Per una storia della libertà, in C. Tugnoli (a cura di), Libero arbitrio. Teorie e prassi della libertà, Liguori, Napoli 2014, pp. 185-231.
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Libertà. La genesi scolastica del concetto di Guido Alliney
Libertà è una delle parole chiave della nostra esistenza. Tutti vogliamo essere liberi perché è nostro diritto non essere vincolati da istituzioni statali repressive, da vincoli sociali opprimenti, da condizionamenti politici, da bisogni economici. La libertà sembra essere il centro della nostra vita, l’unico valore per il quale vale la pena lottare perché, parrebbe, racchiude tutti gli altri. Una libertà che, in generale, è sempre affermata in opposizione ad altro: liberi da questo vincolo, liberi da quella minaccia. Ma se cerchiamo una definizione positiva di libertà che la esprima in sé, non in contrapposizione a ciò che la può limitare, diventa necessario capirne più precisamente il senso. Questo senso non può essere relativo, come se l’assenza di condizionamenti rappresentasse uno stato perfetto dell’uomo: ciò negherebbe il carattere sociale e, perciò, costituzionalmente relazionale dell’agire umano, che non si può esprimere compiutamente nel più perfetto isolamento. È riduttivo rispondere “Io sono libero se faccio quello che voglio”, perché anche questa semplice e abusata frase rimanda a due significati diversi che corrispondono alla complessità del nostro immediato sentimento di libertà nell’agire. Noi ci cogliamo liberi quando proviamo due sensazioni di base: da un lato, quando sentiamo di agire con piacere, per una propensione intima a quell’atto; agiamo, cioè, liberamente perché facciamo qualcosa spontaneamente. La spontaneità, però, pare non bastare da sola a farci sentire pienamente liberi: per questo, è indispensabile percepire che le azioni che compiamo sono sotto il nostro controllo, tanto che possiamo compierle o meno in base alla nostra decisione. In questo caso, la nostra libertà è posta nel potere che esercitiamo sulle nostre azioni e, di conseguenza, sul mondo che ci circonda. Se ci pensiamo un momento, vediamo subito che le due accezioni non rimandano immediatamente a un contenuto definitorio unico: io posso avere il controllo delle mie azioni senza per questo agire con piacere spontaneo, ad esempio se sto eseguendo un lavoro per il quale sono pagato, ma che non mi
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
entusiasma, o se sto compiendo un’azione che ritengo giusta, ma al tempo stesso poco piacevole, come punire mio figlio per una marachella. D’altra parte, vi sono azioni spontanee e piacevoli che non sono affatto in nostro potere, e forse qui l’esempio più semplice è l’amare. Nulla gratifica tanto un essere umano quanto la spontanea affezione verso un altro essere vivente, eppure non è assolutamente in nostro potere iniziare o cessare di amare qualcuno, come ben sappiamo quando soffriamo per le pene di un amore non corrisposto. Dunque, se non ci chiediamo più da cosa siamo, o vorremmo essere, liberi, ma ci interroghiamo su cosa significhi essere liberi, la risposta richiede un’ulteriore riflessione su questo concetto per noi così articolato. Io sono uno storico della filosofia; non vorrei perciò in questa conversazione cedere alla tentazione di darvi una risposta più o meno convincente alla questione della libertà; piuttosto mi piacerebbe condurvi lungo un itinerario nel pensiero umano che ci mostri come il concetto di libertà sul quale stiamo riflettendo non sia l’unico possibile, ma abbia una sua precisa origine storica, che possiamo in linea generale collocare nell’interazione fra il pensiero greco e quello cristiano. Comprendere la genesi di un concetto è fondamentale per poterne fare un uso corretto, e questo non perché la storia ci debba vincolare a visioni del mondo già stabilite. Al contrario, è proprio la conoscenza dei processi del pensiero umano che hanno determinato l’attuale rappresentazione della realtà che ci rende capaci di riflettere consapevolmente su di essi e, nel caso, di modificarne gli esiti.
1. Aristotele
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Possiamo partire da un’osservazione terminologica: nell’Etica Nicomachea, un testo dedicato all’agire morale e al conseguimento delle virtù per raggiungere la felicità, Aristotele non usa mai il termine “libero”. L’autorealizzazione dell’uomo non è, per il filosofo greco, una questione di libertà. Questo atteggiamento può stupire chi, come noi, tende a vedere nella libertà il bene supremo del singolo e della comunità, ma si tratta di capirne la ragione. Per Aristotele il termine “libertà” ha un’accezione fondamentalmente politica. È libero chi è padrone di se stesso, ovvero chi non è schiavo e gode dei diritti politici della città-stato greca; è libero anche chi è dotato di mezzi economici tali da non dipendere da altri e da poter così governare la città con magnanimità. Nell’etica aristotelica la libertà si riferisce alle condizioni esteriori dell’uomo e non a quelle interiori. La libertà è il “poter agire” oggettivo del soggetto nella struttura sociale. Poiché l’Etica Nicomachea è un trattato di etica per cittadini a pieno diritto, questa forma di libertà è presupposta, e quindi non menzionata.
Libertà. La genesi scolastica del concetto
Se valutiamo la concezione aristotelica dal punto di vista dell’interiorità del soggetto possiamo fare alcune importanti osservazioni. Prima, però, ritorniamo brevemente all’espressione dalla quale siamo partiti: “Sono libero perché faccio quello che voglio”. C’è un punto che non abbiamo ancora preso in considerazione: l’impiego del verbo “volere”. È un verbo che usiamo spesso, e per questo il suo significato ci appare ovvio e scontato. In realtà non è affatto ovvio e scontato ed è importante capirne il motivo. Quando si dice “Io voglio questo (ma non quello)”, ci si riferisce alla capacità di scegliere una o l’altra di due alternative attualmente possibili. In altre parole, si suppone che ciascun uomo possieda una facoltà psichica, la volontà appunto, per mezzo della quale egli possa preferire l’una o l’altra possibilità. È la volontà, dunque, che consente di esercitare una scelta che, in determinate occasioni, può anche essere contraria al giudizio razionale su che cosa sia opportuno fare: per quanto possa sapere che studiare è giusto, e che imparare sarà importante per la mia vita futura, resta sempre la possibilità che, in un pomeriggio soleggiato di primavera, io non ne abbia voglia e perciò me ne vada a spasso. Sembra una conclusione banale, ma non è così: per Aristotele essa non sarebbe affatto scontata, ma piuttosto incomprensibile. Questo è un punto molto importante: secondo Aristotele la scelta dell’azione non dipende da una valutazione intellettuale seguita da un’adesione del desiderio. Non ci sono, per essere più chiari, due fasi, una razionale con la quale delibero ciò che è giusto fare e poi una volontaria in cui scelgo (o meno) di fare ciò che ho deliberato. La scelta è, invece, il risultato della valutazione razionale e del desiderio razionale assieme, intrecciati in un’unica attività. La scelta, dice Aristotele, «è intelletto che desidera o desiderio che ragiona»1. Per Aristotele ogni azione è in accordo con il giudizio razionale del soggetto, e il giudizio è a sua volta in sintonia con ciò che il soggetto desidera. Il mio modo di ragionare è collegato allo scopo che mi prefiggo nella vita: se suppongo che la felicità risieda nel piacere sensibile, cercherò in tutti i modi di procurarmelo, ad esempio comprando bottiglie di vino; se il mio desiderio si orienta invece verso il piacere intellettuale, allora agirò altrimenti: ad esempio, venderò le bottiglie di vino e comprerò dei libri di filosofia. Naturalmente, il desiderio a sua volta si modifica per delle valutazioni razionali, per esempio per la consapevolezza che bere vino porta a una felicità transitoria che è solo stordimento. Di conseguenza, non si può isolare l’aspetto desiderativo da quello valutativo, perché rappresentano entrambi due facce della mia decisione, e cioè dell’unità della mia persona. Da questo punto di vista la nozione di volontà intesa come facoltà psi-
1. Aristotele, Etica Nicomachea, iii, 5, 11113b 3-4, a cura di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1979, p. 160.
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
chica autonoma dalla ragione diviene del tutto inutile, perché non posso desiderare ciò che non valuto giusto. Quando questo sembra accadere, come nel nostro esempio precedente dello studente che non vuole studiare, si tratta in realtà di un’indecisione, un conflitto fra un giudizio desiderativo (“È una bella giornata e io desidero tenermi in forma; è bene fare una passeggiata”) e un altro (“Domani mi possono interrogare e io desidero essere promosso; è meglio che studi”): desidero ambedue le cose e ciascuna ha delle motivazioni razionali; decido quando una visione della situazione (desiderio + ragione) prevale sull’altra all’interno della mia psiche. Ma perché è così importante questo punto? Perché ci consente di rispondere alla domanda iniziale sul significato del termine “libertà” in Aristotele. Se l’uomo non possiede una volontà intesa come facoltà distinta dalla ragione e capace di opporsi a essa, perde significato la stessa affermazione per cui “Faccio quel che voglio”: io faccio quel che decido di fare in base al mio modo di pensare e di desiderare, e non posso oppormi a me stesso. Ecco il punto: attribuire all’uomo una volontà significa ammettere la possibilità di un dissidio interiore fra ragione e desiderio, proprio quello di cui stavamo parlando. Ma se la volontà non esiste, non vi possono essere neppure conflitti interiori, bensì solo indecisioni. Per questo, nella psicologia aristotelica la libertà è limitata alle condizioni oggettive dell’agente: non essere schiavo, non essere povero. Nella sua accezione moderna, invece, la libertà si basa sulla scissione del soggetto che, scegliendo, si può trovare nella situazione di ragionare in un modo e di desiderare in un altro. Quando nasce questa diversa concezione dell’interiorità? Si tratta di un processo lungo, che prende spunto con lo stoicismo, passa attraverso il neoplatonismo e trova pieno sviluppo in Agostino. Vediamo di seguire le principali linee di sviluppo di questo processo. La posizione di Aristotele si fonda sulla sua concezione teleologica del mondo: l’universo è un’unità organica perché si regola tramite l’autorealizzazione delle sue parti. Per intenderci: le pietre cadono verso il centro dell’universo, i cani abbaiano, gli uomini cercano la felicità. Tutte queste attività finalizzate all’espressione (non necessariamente cosciente) della propria potenzialità organizzano il cosmo in vista della sua finalità immanente, che è proprio la realizzazione organizzata di tutte le sue componenti. Il logos, la ragione che regola il cosmo, è dunque immanente al processo stesso di attualizzazione delle potenzialità delle sue parti.
2. Lo stoicismo 28
Nella filosofia successiva ad Aristotele, e in particolare nello stoicismo, il logos, la razionalità dell’universo, diviene una regola alla quale gli eventi de-
Libertà. La genesi scolastica del concetto
vono attenersi, e non più il nesso che lega gli eventi stessi. L’universo è una macchina che opera secondo una legge alla quale tutto si deve adeguare, anche l’agire umano. Questa diversa visione del mondo si manifesta come una forma di determinismo fisico: tutto ciò che avviene, avviene per una necessità cosmica; anche le azioni umane sono determinate in questo modo e non sono più sotto il controllo di chi le compie. L’uomo mantiene tuttavia una propria interiorità dove con la ragione può cogliere la necessità assoluta di tutti gli eventi, anche la necessità di quegli eventi che sono soggettivamente spiacevoli: posso, per fare un esempio banale, comprendere che l’essere licenziato è un bene oggettivo per l’attuale sistema economico che deve diventare più flessibile. La comprensione razionale, tuttavia, non implica l’adesione affettiva a ciò che accade: per restare nell’esempio, anche se comprendo la necessità del mio licenziamento non per questo ne sono contento. Si crea così una potenziale tensione all’interno del soggetto, che può cogliere la razionale necessità degli eventi, ma ciò nonostante desiderare che essi avvengano in altro modo. Compito dell’uomo è dunque armonizzare i propri desideri con l’ineluttabilità del divenire. L’esempio, famoso, di Zenone è noto a tutti: l’uomo è come un cane legato a un carro che viaggia; è quindi inevitabile che si muova con il carro: può solo scegliere se seguirlo spontaneamente o essere trascinato con violenza. Per il nostro discorso è importante questo: che, a differenza di quanto pensava Aristotele, il giudizio razionale e il desiderio possono opporsi. Si manifesta così un aspetto nuovo del soggetto: la sua capacità di adeguare il desiderio alla ragione quando essi non sono concordi. Bisogna, in altre parole, regolare i desideri sensibili, volti all’immediato piacere, tramite un’attività desiderativa connessa alla ragione: nell’esempio precedente, io devo non solo capire che il mio licenziamento è giusto, ma anche superare il desiderio naturale di poter avere una vita agiata e arrivare a desiderare, coerentemente alla ragione, la povertà che mi aspetta. Questo desiderio razionale è la prima manifestazione di una nuova facoltà psichica che affianca la ragione, quella che oggi chiamiamo usualmente “volontà”. La volontà, per dirla più chiaramente, appare nell’interiorità umana quando la ragione assoluta e la ragione del singolo non coincidono più: questa scissione fra logos cosmico e ragione individuale provoca una potenziale frattura nel soggetto che deve adeguare al dettato della ragione assoluta sia il proprio giudizio, sia soprattutto, e con maggiore difficoltà, il proprio desiderio. Ecco allora che l’unità dell’uomo aristotelico si frantuma, e la psicologia umana si complica di conseguenza, perché distingue ragione e volontà come due differenti facoltà dell’anima. Come si è visto, la volontà stoica ha però potere solo su se stessa: può volgere il desiderio a desiderare ciò che deve accadere, ma non può modificare il corso degli eventi: il saggio, se si reca allo stadio, in ogni gara deve volere «Che
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
vinca solo il vincitore», scrive emblematicamente Epitteto2. Dunque, nella volontà che nasce è presente solo il primo dei due aspetti centrali del volere, la spontaneità, e manca il secondo, ovvero il controllo sulle proprie azioni. Volere liberamente è volere spontaneamente, non poter fare una cosa o un’altra: per gli stoici, la scelta veramente libera è la capacità di volere sempre ciò che è giusto che accada. La libertà è lo stato perfetto dell’armonia fra desiderio e ragione, caratterizzato dall’assenza di dubbi e, quindi, di scelte intese come indecisioni fra alternative diverse. Siamo ancora lontani dall’accezione di volontà implicita nell’affermazione dalla quale siamo partiti per cui “Io faccio quello che voglio”.
3. Agostino Siamo lontani perché dobbiamo ancora considerare il contributo del cristianesimo, e in particolare di Agostino, alla formazione del concetto moderno di libertà. Agostino riprende la concezione della libertà come stato stabile di perfezione, ma non lo considera più, come gli stoici, un traguardo da conquistare tramite l’esercizio del controllo delle passioni. Per Agostino la libertà non è una meta da raggiungere, perché è un dono che Dio ha fatto all’uomo creandolo: Adamo è stato creato libero di poter seguire il bene e amare Dio. È importante il ribaltamento operato da Agostino: la libertà non è il punto di arrivo di un cammino di perfezionamento individuale che porta alla stabilità del comportamento virtuoso, ma è il punto di partenza dell’uomo che deve conservare questo stato di perfezione. Adamo è stato creato libero, dicevamo; il suo compito è quello di mantenersi libero conservando la propria rettitudine. Questa capacità di conservare la rettitudine è chiamata da Agostino «libero arbitrio». Il libero arbitrio non è quindi la capacità di preferire indifferentemente una cosa a un’altra, ma è invece la capacità di preferire sempre ciò che è giusto. Questo non sembra avvicinarci alla concezione della libertà come capacità di fare quello che si vuole. Dobbiamo infatti aggiungere ancora un ultimo elemento per capire il passaggio dalla libertà come perfezione spontanea alla libertà come potere sulle proprie azioni: il peccato originale. Il peccato originale consiste nel cattivo impiego del libero arbitrio: invece di usarlo per mantenersi retto e, quindi, libero, Adamo utilizza il libero arbitrio in modo improprio per ribellarsi alla volontà divina. In questo modo Adamo perde la propria libertà, che coincide con la rettitudine; poiché la libertà è un dono di Dio, Adamo non può recu30
2. Epitteto, Manuale, 48, 3, a cura di C. Cassanmagnago, Rusconi, Milano 1982, p. 551.
Libertà. La genesi scolastica del concetto
perarla con i suoi soli mezzi. Dunque egli perde la libertà di essere retto e giusto, ma gli rimane il libero arbitrio, che adesso è ridotto alla mera capacità di scegliere. La scelta senza libertà, infatti, non può più essere giusta, perché Adamo non è più libero; ora la scelta diviene la capacità di preferire una possibilità a un’altra, indipendentemente dal loro valore morale. La scelta non è più l’adesione al bene, ma diviene ciò che comunemente intendiamo oggi: il potere di determinare autonomamente le proprie azioni in base alla decisione della propria volontà. Per Agostino il peccato compiuto da Adamo coinvolge tutta l’umanità: ognuno di noi nasce colpevole come Adamo; in altre parole, lo stato di Adamo dopo la caduta è lo stato di ogni uomo. Vedete dunque che l’uomo cristiano, nell’interpretazione di Agostino, ha infine ambedue le caratteristiche dalle quali siamo partiti: agisce spontaneamente e ha pieno potere sulle proprie azioni. Qui nasce la concezione moderna di volontà che non è più solamente, come nel pensiero stoico, la facoltà di accordare ragione e desiderio, ma una facoltà autonoma che in base alla propria autodeterminazione può scegliere anche contro il giudizio della ragione. C’è di più: la volontà è tanto svincolata dalla ragione che può persino, e soprattutto, opporsi a se stessa, lacerando l’interiorità del soggetto che si trova nello stesso tempo a volere e a non volere la stessa cosa. Per essere più chiari: io posso voler compiere un’azione buona, per esempio una donazione a una onlus, e posso anche essere convinto di volerla fare in modo disinteressato, per puro amore del prossimo; ma poi mi rendo conto che apparire nell’elenco on-line dei donatori mi fa molto piacere, tanto che non avrei scelto un’organizzazione dove i sottoscrittori rimangono anonimi. Mi accorgo, cioè, che l’azione, oggettivamente meritevole, non lo è per me, o almeno non fino in fondo, perché ciò che mi guida è la vanagloria, il desiderio di apparire. Non vorrei che fosse così, ma la mia volontà non riesce a eliminare l’altra volontà, quella malvagia che mi fa agire per egoismo. Si tratta, ora, di un conflitto che non è più fra desideri razionali e desideri sensibili, ma è invece fra due volontà, e perciò tutto interno alle intenzioni intime dell’agire umano. Nelle Confessioni, Agostino riconosce la «scissione di me stesso» che, pur «contro la mia volontà», mi impedisce di agire come vorrei: «Mentre stavo deliberando ero io a volere, io a non volere, ero io e io»3. Questa sarà la concezione di volontà difesa da tanti filosofi e criticata da tanti altri: una concezione che delinea al tempo stesso l’autonomia dell’uomo e la sua incapacità di conseguire la perfezione, e che matura, come abbiamo visto, nel pensiero postaristotelico in interazione con il pensiero cristiano.
3. Agostino, Confessioni, a cura di C. Carena, in Opere di sant’Agostino, vol. i, viii, 10, 22, Città Nuova, Roma 1965, p. 243.
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4. La libertà moderna Il nostro cammino dunque si avvia alla conclusione, non senza però una precisazione che risponde alla domanda che forse qualcuno di voi si è posto. Agostino sostiene che Adamo ha perso la libertà con il peccato originale; dunque la capacità di scelta non dovrebbe caratterizzare la libertà, ma la sua mancanza. In effetti, per Agostino è così: l’uomo attuale non è libero, ma dotato solamente di un libero arbitrio privato della direzionalità verso il bene che caratterizza la libertà. Nella ricezione medievale del pensiero di Agostino e di Aristotele, però, avviene uno spostamento lessicale per cui il libero arbitrio privo di libertà dell’uomo decaduto diviene la libertà naturale di ciascun uomo. Si tratta di un processo relativamente complesso, le cui ragioni sono però semplici. In base al principio dell’unità del vero, i teologi scolastici cercano un accordo fra Aristotele e Agostino, ovvero fra filosofia e teologia. Questa operazione, piuttosto sorprendente se considerata in base alla nostra visione della storia del pensiero, viene facilitata dalle traduzioni latine dell’Etica Nicomachea che introducono il termine voluntas, avvicinando concettualmente Aristotele ad Agostino. Il passo successivo è quello di togliere la dottrina agostiniana dal contesto teologico della caduta di Adamo e della necessità della grazia salvifica per considerarne (certo indebitamente) solamente il contenuto filosofico. Così, la descrizione dell’uomo decaduto si avvicina sempre più alla descrizione dell’uomo naturale di Aristotele, e le caratteristiche deficitarie del libero arbitrio divengono infine le caratteristiche naturali dell’uomo libero. In questo modo la concezione della libertà come spontaneo controllo sui propri atti passa alla filosofia moderna per essere difesa, fra gli altri, da Cartesio. Siamo davvero arrivati alla fine di questa veloce ricostruzione della genesi del concetto moderno di libertà. Possiamo sintetizzare il nostro percorso in due brevi osservazioni: senza la mediazione agostiniana la libertà stoica non sarebbe mai diventata la libertà moderna, e senza la mediazione scolastica la libertà di Agostino non sarebbe diventata la libertà di ciascun uomo per la quale tanto comunemente si afferma: “Io faccio quello che voglio”.
Bibliografia De Caro M., Mori M., Spinelli E. (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci, Roma 2014. Tugnoli C. (a cura di), Libero arbitrio. Teorie e prassi della libertà, Liguori, Napoli 2014. 32
Che cosa ci insegna il determinismo moderno in tema di libertà? di Francesco Botturi
La libertà è un’idea tra le più difficili da trattare filosoficamente e tra le più indispensabili per dar nome all’identità umana in quanto umana. Un’idea dura a morire e difficile da far vivere. Per questo l’eccezionale epopea occidentale dell’idea della libertà, che costituisce uno dei grandi lasciti della nostra civiltà e uno dei tratti fondamentali del suo umanesimo, può aiutarci a trovare riferimenti utili per tentare di comprendere il significato della libertà.
1. Negazione del libero arbitrio e riaffermazione della libertà Fanno parte di tale epopea anche due cesure che segnano due momenti di forte discontinuità semantica: il volontarismo scolastico del xiv secolo che esalta il libero arbitrio, separato dalla tendenza della volontà al bene e il causalismo meccanicista del xvii secolo, che “inventa” il tipo moderno dell’argomento negatore del libero arbitrio e la figura riduttiva della libertà come libertà di azione. Nel caso del causalismo meccanicista di cui ci occupiamo qui, per influsso dell’incipiente pensiero scientista la causalità efficiente ottiene un assoluto primato come criterio esplicativo universale. Il libero arbitrio viene messo alla prova della catena delle cause efficienti (fisiche o/e psichiche), dando luogo a una configurazione del volere umano tale per cui la libertà d’arbitrio non può che venire negata. È evidente, infatti, che se il criterio di giustificazione dell’atto volontario è riposto in una qualche causa efficiente prevolontaria, alla volontà non può che essere negata la capacità di “libero arbitrio”, dal momento che l’essere effetto di altro è l’esatto contrario logico dell’essere capaci di iniziativa autonoma. In tal modo “agente libero” diventa un’espressione «priva di senso», un nonsense. «Penso – afferma Hobbes in proposito – che [1] nessuna cosa tragga inizio da se stessa, bensì dall’azione di qualche altro agente immediatamente fuori da sé»; che [2] «quindi, non appena un uomo abbia un appetito o una volontà verso qualcosa che prima non aveva, la causa della sua volontà non è la vo-
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lontà stessa, ma qualcos’altro che non è in suo potere»; di qui [3] la definizione hobbesiana della libertà nei termini limitativi di libertà di azione, come «l’assenza di tutti gli impedimenti all’azione che non siano contenuti nella natura e nella qualità intrinseca dell’agente»1. In altri termini, l’agire umano viene stretto nella morsa di un’alternativa letale per l’agire libero: o esso è riconducibile al criterio esplicativo di un causalismo scientifico (cioè “efficiente”), oppure bisogna ritenere che la libertà sia nient’altro che oggetto di un’affermazione irrazionale. Di libertà, perciò, si potrà legittimamente parlare solo nei limiti di una “libertà di azione”, cioè di un’iniziativa esecutiva della decisione scaturita dal processo deterministico della volontà. Tutto il tragitto prekantiano della filosofia moderna della libertà in diversi modi (Hobbes, Leibniz, Locke, Hume) è dominato dall’idea dell’alternativa tra la causazione estrinseca della volontà e l’irrazionale casualità dell’assenza di causa, che porta in gran parte a un compatibilismo di necessità della scelta e di libertà d’azione. Si può osservare di passaggio che nel pensiero contemporaneo le filosofie neoempiriste e neopositiviste, per lo più, restituiscono attualità proprio a questo schema bipartito in causalità deterministica e casualità indeterministica2. La posizione hobbesiana divenne il paradigma di quella che Kant chiamò ironicamente la «libertà del girarrosto», senza differenza di risultato se il determinismo sia di ordine meccanicistico («automaton materiale» di Hobbes) o di ordine psicologico («automaton spirituale» di Leibniz o di Hume). Il merito fondamentale della riflessione kantiana sulla libertà sta nel chiarire che, se si dà libertà, essa ha la sua condizione di possibilità a livello trascendentale. La libertà cioè funge da capacità causale di una ragione che è «pura attività spontanea», indipendente dalla sensibilità. Senza questa trascendenza interna è impossibile giungere all’idea sensata della libertà. Nella sua opera La religione entro i limiti della semplice ragione, rilevando il circolo vizioso di cui dicevo, Kant afferma: «è […] una contraddizione cercare l’origine temporale [Zeitursprung] delle azioni libere in quanto libere (come se si trattasse di effetti di carattere fisico)»; «infatti, se è libera, l’azione dell’uomo è sottratta per definizione alla concatenazione delle cause antecedenti e delle cause naturali, interne ed esterne, che influiscono su di lei»3.
1.
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2. 3.
Cfr. Th. Hobbes, Libertà e necessità, in Id., Libertà e necessità. Questioni relative a libertà, necessità, e caso, Bompiani, Milano 2000, p. 113. Cfr. M. De Caro, Il libero arbitrio. Una introduzione, Laterza, Roma-Bari 2004. I. Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, introduzione e apparati di M. Roncoroni; traduzione e note di V. Cicero, Rusconi, Milano 1996, pp. 117 e 119.
Che cosa ci insegna il determinismo moderno in tema di libertà?
Ciò significa che una teoria della causalità deterministica, come quella vigente in ambito scientifico (come quelli neuro-psico-sociologico), da una parte esclude a priori l’idea di libero arbitrio, ma, dall’altra, non può escluderla in assoluto, non avendo titolo per negare che essa sia possibile ad altro livello o in altro ordine ontologico.
2. Condizioni ontologiche della libertà Dall’aporia di razionalismo deterministico e di irrazionalismo casualistico si può uscire (come alternativa logica) solo presupponendo un principio peculiare all’origine dell’attività causativa, identificabile con una capacità di autodeterminazione volontaria da parte dello stesso agente, come in età humiana aveva già sostenuto Thomas Reid e come sostengono gli autori contemporanei della agent causation che a lui si ispirano. Tesi che oggi sembra difficile da sostenere, come risulta dall’obiezione della queerness (J. Mackie), stranezza ontologica in cui si finirebbe se si affermasse l’esistenza di un principio assoluto di autonomia entro l’universale determinatezza dell’esistente. Obiezione interessante, perché è segno di quanto sia radicato il circolo tra lettura scientifica del mondo, intelligibilità della realtà e determinismo: se l’unica forma di intelligibilità è quella permessa dalla conoscenza scientifica, allora l’unica forma di realtà ammissibile è quella deterministica, al di fuori della quale avremmo solo una “strana” idea del mondo (che assomiglia molto al non-senso hobbesiano). Ma appunto bisogna vagliare se tale circolo è legittimo o semplicemente presupposto, restando ovvio che, se vi fosse libertà, dal punto di vista “scientifico”, significherebbe appunto che nel mondo vi sarebbe qualcosa di “strano”. Perché dovrebbe essere un’obiezione che il mondo nella sua complessità contenga anche la stranezza dell’eterogeneo (diversi generi di realtà)? Il punto focale di una dottrina della libertà si concentra, allora, nella natura della volontà e nello statuto della motivazione, in quanto principio di causazione o di mozione indipendente, cioè in quanto automotivazione. Per automotivazione si intende non l’atto della volontà che prende a oggetto se stessa o una motivazione che genera se stessa, bensì l’effetto della volontà in quanto dotata di una riflessività in cui essa si esercita come autopossesso. Si tratta dunque della capacità riflessiva della tendenza (al bene) che si sottrae all’eteromotivazione e procede come automotivazione. L’automotivazione, infatti, non è dell’ordine della causa (efficiente), ma è autopossesso riflessivo del moto tendenziale (volontario) e quindi delle sue motivazioni in quanto “volute”. Questa idea sottrae la volontà a un regime di passività ricettiva di stimoli determinanti, quasi fosse un organo sensibile (idea implicita nel de-
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terminismo): la motivazione non è esecuzione di un impulso estrinseco (fisico o psichico), ma è autonoma configurazione della tendenza. Questa idea della libertà ha una premessa ontologica discriminante: la natura «intenzionale» e più precisamente «spirituale» dell’atto della volontà, intendendo per «spirituale» un modo d’essere che rende possibile la riflessività della presenza a sé, cioè una duplicazione senza estraneazione e un’identità con dualità. In sintesi si tratta di una unità di identità e distinzione; uno statuto ontologico diverso dal modo dell’essere spazio-temporale, ma indispensabile per parlare di libertà. Come documenta la fenomenologia dell’atto di intelligenza e quella dell’atto appetitivo (di amore e/o di volontà), la loro intenzionalità (ovvero il loro modo specifico di relazione) comporta, rispettivamente, la capacità di portare altro in sé restando se stessi (e quindi distinti) e quella di portarsi in altro restando presso di sé. La relazione intenzionale è manifestazione di un modo d’essere peculiare, che possiamo chiamare “spirituale”, alternativo ai caratteri dell’esteriorità “materiale”. Una realtà materiale può ripiegarsi su se stessa, ma resta duplice; oppure può fronteggiarsi, ma solo dividendosi. Solo dell’essere spirituale è pensabile il fenomeno della ri-flessione, che è anch’esso un modo di presenza a sé (saper-si in atto) senza duplicarsi e un porsi di fronte a sé senza dividersi. Come tale statuto ontologico dello “spirituale” si rapporti a quello “materiale”, deterministico è questione massimamente difficile, di cui si può dubitare che l’uomo abbia la possibilità di rispondere analiticamente, dal momento che esigerebbe l’esistenza di un tipo di sapere in grado di conoscere in modo unitario due versanti eterogenei della realtà. Certamente la risposta non può essere trovata seguendo il modello cartesiano del dualismo della res cogitans e della res extensa, perché è un modello che nega di principio un rapporto tra dimensioni coesistenti e interferenti. D’altra parte, lo spirituale non può essere neppure pensato rigorosamente come polarità del materiale, perché sarebbe un modo di considerarlo, sottilmente, come una diversa forma di materia spazio-temporale (fin qui il materiale e da qui in là lo spirituale, perché questo per definizione non è secondo il qui e il là). Il modello ilemorfico aiuta a pensare lo spirituale come qualcosa che appunto informa il materiale, dando unità, energia, orientamento ontologici, e che riceve a sua volta le condizioni del suo esercizio. Nell’uomo la cosa è rappresentabile come un logos incarnato che anima da sempre la corporeità, dalla quale riceve il condizionamento della sua crescita e dello sviluppo delle sue funzioni; così come dei suoi decadimenti. Il logos permea la corporeità e ne fa un «corpo vissuto»; innerva la sensibilità e la muove verso il pensiero, cioè verso le manifestazioni superiori del logos stesso. Per questo il logos incarnato vive anche di una vita silenziosa, cioè
Che cosa ci insegna il determinismo moderno in tema di libertà?
senza riflessività, ma non per questo senza attività ed elaborazione, come si evidenzia nei fenomeni creativi preconsci del pensiero e delle arti; sino all’emergenza di atti pienamente spirituali. Vi è dunque una soggettività più ampia della vita conscia, cosa che, dal punto di vista della libertà, significa che l’atto libero è un vertice di una consapevolezza riflessiva, che è anche connessa con stadi latenti della psiche. Che l’uomo sia costitutivamente libero non significa che ogni suo atto è secondo libertà, ma che deve scontare i condizionamenti del non-libero fisiopsichico e che deve educarsi alla libertà.
3. Forme e funzioni della libertà L’idea della libertà esige – come si diceva – che se ne riconosca il fondamento in una capacità riflessiva di auto-possesso, che alcuni grandi della storia della filosofia hanno individuato con chiarezza speculativa: Kant, ma anche Fichte e, prima del moderno, Plotino e Tommaso. La storia dell’idea ci aiuta non solo a recuperare la base antropologica delle libertà, ma anche a riguadagnare una sua idea polivalente, come di una realtà vitale complessa e plurifunzionale. Plotino riprende da Epitteto la definizione di libertà come «ciò che è a partire da/che dipende da noi», «ciò che è a partire da/dipende da sé» (to eph’ēmin, tò ep’autō)4, che, se nell’accezione originaria stanno a significare una più generica autárkeia (autosufficienza), in Plotino assumono il nuovo significato fondativo e intensivo dell’autopossesso e dell’automotivazione, esemplare nell’originaria e perfetta unità dell’Uno: «lui solo […] è veramente libero (eleútheron), perché non è asservito neppure a sé, ma è solo se stesso e davvero se stesso, mentre ogni altra cosa è a un tempo se stessa e qualcos’altro»5. Attraverso l’uso innovativo del riflessivo (autós), Plotino inaugura un nuovo significato della volontà, non più legata alla transitività di finalità etiche, ma intransitivamente dotata di autodeterminazione; espressa nel suo senso superiore di piena signoria con il termine tò autexoúsion, essendo appunto l’exousía il termine per indicare sovranità e dominio. Da questa concezione metafisica della libertà, come autopossesso indipendente e autogenerante, discende la visione della libertà antropologica, come un grado inferiore di libertà, partecipazione imperfetta della perfetta unità libera, che si dà nella forma (e nella necessità) della scelta.
4.
Cfr. Plotin, Traité de la liberté e la volonté de l’Un, Introduction, texte grec, traduction et commentaire par G. Leroux, Vrin, Paris 1990, p. 233. 5. Plotino, Enneadi, vi, 8; 21, 31-33, trad. it. di R. Radice, A. Mondadori, Milano 2002, p. 1925.
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La filosofia della libertà di Tommaso d’Aquino è a sua volta un caso interessante, perché appartiene a una tradizione che, originatasi in Agostino e perfezionata da Anselmo, è particolarmente attenta al tema del libero arbitrio. Ciò a motivo dell’interesse per la problematica teologica del rapporto tra grazia e libertà, ovvero tra libertà divina e libertà umana. Per questi autori era infatti di particolare interesse il problema di pensare come la grazia redentrice si rapporti all’uomo non come imposizione, ma come dono che chiede consenso e adesione. Secondo Tommaso la scelta è opera di ragione e di volontà: la volontà dipende in prima istanza dalla specificazione intellettuale dell’atto che le indica i possibili ragionevoli fini, senza riceverne costrizione, perché l’intelligenza offre più possibilità, che lasciano la volontà ancora indeterminata. Inoltre, per quanta giustificazione la ragione procuri, solo la volontà può motivarsi a dar principio all’atto, perché appunto la volontà significa costitutivamente capacità di muovere se stessa, di prendere iniziativa da sé: la volontà non è mai mossa da altro, ma «voluntas movetur a se ipsa», così come muove tutte le altre capacità (potentiae) umane6. Nel cuore della dottrina del libero arbitrio appare la dimensione dell’autodominio: «sola creatura rationalis habet dominium sui actus, libere se agens ad operandum: ceterae vero creaturae ad opera propria magis aguntur quam agant»; «sumus domini nostrorum actuum, secundum quod possumus hoc vel illud eligere»7. Da qui si possono trarre due considerazioni sintetiche: 1) la moderna messa al centro del libero arbitrio come il problema della libertà, tanto più ridotta a libertà d’azione, è solo un episodio nell’ampia parabola del problema della libertà nel pensiero occidentale, che presenta altre e più articolate figure. In esse la libertà di scelta è messa in rapporto con la libertà di bene o di realizzazione e con la capacità di auto-nomia, auto-possesso, auto-motivazione, quale fondamento primo dell’intero organismo della libertà; 2) ne viene l’esigenza di ampliare l’idea della libertà, in grado di contenere tutta la gamma dei suoi significati: a) la capacità di automotivazione come fondamento (libertà in) e quindi anche libertà da coazione; b) la sua articolazione ad operandum nella libertà di scelta, in cui la volontà automotivantesi si determina (libertà di);
6. 7.
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«La volontà si muove da se stessa» (De Malo, q. 6 responsio). «Solo la creatura razionale ha dominio sul suo atto, agendo liberamente al fine di operare; le altre creature invece quanto al loro operazioni sono più agite che agenti» (Summa contra Gentiles, iii, 111); «siamo signori dei nostri atti, di modo che possiamo scegliere questo o quello» (Summa theologiae, i, q. 82, a. 1 ad 3).
Che cosa ci insegna il determinismo moderno in tema di libertà?
c) la forza motrice (intrinseca) di tale determinazione, che è l’attrattiva per ciò che è perfettivo per l’agente stesso sotto il profilo ontologico e/o morale (bene); libertà per il bene come realizzazione liberante (flourishing) e “vita buona” (libertà per); d) a queste figure classiche della libertà, si può aggiungere quella che emerge nell’esperienza antropologicamente fondamentale della relazione e che si manifesta – originariamente e costantemente – nella capacità che una libertà ha di attivare l’energia di un’altra libertà (e anche di riceverne il contraccambio). Se la capacità della libertà è innata, l’esercizio della libertà, invece, è via via acquisito: solo un’altra libertà può attivare una libertà: libertà di relazione (libertà con). Fichte parla, a proposito, di un «urto» e di un «appello» che una libertà esercita nei confronti di un’altra libertà, suscitandola; Luigi Pareyson parla della libertà umana finita come di «iniziativa iniziata», sia in quanto fatta essere dalla Iniziativa divina, sia in quanto fatta esistere dall’iniziativa da parte di altra libertà finita. In tal modo la libertà appare la sostanza e l’energia della relazione intersoggettiva.
4. Conclusioni In conclusione, l’organismo della libertà è forte e delicato insieme; la sua integrità è difficile. Oggi la cultura occidentale oscilla tra determinismo e individualismo libertario (e il dibattito sulla libertà sembra confinato entro questa alternativa); mentre altrove (fondamentalismo, ieri politico-ideologico e oggi religioso) prevale una libertà di bene e di relazione senza scelta, cioè una libertà autoritaria. Due parzialità che, tragicamente si oppongono e si correlano. L’organismo della libertà appare, da questo punto di vista, malato e culturalmente a rischio di estinzione; per questo è saggio assumersi il compito di un ripensamento della sua idea.
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Le radici della libertà e i suoi paradossi attuali di Giovanni Maddalena
Questo articolo tenta di far vedere come la storia della filosofia e la teoresi lavorino insieme per leggere i problemi del nostro tempo. In questo senso, vale la pena ricordare la virtù filosofica del “coraggio” che William James riconosceva ai giovani pragmatisti italiani, protagonisti della vicenda della rivista “Il Leonardo” (1903-1907). Nello spirito delle Romanae Disputationes e dei pragmatisti italiani occorre il coraggio di usare la filosofia in modo preciso e attualmente efficace al medesimo tempo. Spero così di far capire quale sia la questione filosofica della libertà che è al centro di tanto dibattito del nostro tempo, anche se spesso tale centralità non emerge perché ci sono molte definizioni che vengono condivise surrettiziamente. L’articolo dovrebbe servire a motivare le posizioni personali che ciascuno potrà argomentare. Incomincerei da un primo rilievo esperienziale, un tratto che è comune a molta filosofia contemporanea: la libertà coincide con la vita umana. Tra i tanti, di molte correnti – soprattutto legate all’esistenzialismo – vorrei qui citare uno scrittore non filosofo che penso abbia rappresentato concretamente questa idea più di ogni altro autore del xx secolo: si tratta di Vasilij Grossman, l’autore di Vita e destino, uno dei romanzi più interessanti e sconosciuti del secolo scorso. Per Grossman come per Hannah Arendt il pensiero sulla libertà nasce dalla tragica esperienza della vita sotto un sistema totalitario ed entrambi concepiscono una forma simile di identificazione tra vita e libertà, che sono inclini a indicare come un liberalismo esistenziale. In uno dei suoi romanzi, Tutto scorre, scritto quando ormai era già un perseguitato dal regime, Grossman conclude immedesimandosi nei pensieri del suo eroe, uno scampato dal Gulag: Tutto questo capiva e sentiva – ora chiaramente, ora confusamente – Ivan Grigor’evic. Per grandiosi che siano i grattacieli e potenti i cannoni, per illimitato che sia il potere dello Stato e possenti gli imperi, tutto ciò non è che fumo e nebbia, destinato a scomparire. Rimane, si sviluppa e vive soltanto la vera forza, che consiste in una sola cosa – nella libertà. Vivere significa essere un
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
uomo libero. Non tutto ciò che è reale è razionale. Tutto ciò che è disumano è assurdo e inutile1.
Ovviamente Grossman è un romanziere e, pur descrivendo la libertà in tutte le sue forme e in tutta la sua forza, non ne compie un’analisi, che è invece compito della filosofia produrre. La vita coincide dunque con la libertà, ma che cosa intendiamo per libertà? Ora, la libertà ha infinite sfaccettature e angolazioni in ambiti diversi – politico, religioso, metafisico, epistemologico, estetico, ecc. – ed è impossibile anche pensare di elencarle tutte. Cercherò quindi solo di identificare un problema di fondo, che possa rendere conto dell’affermazione esistenziale grossmaniana, quindi del valore totalizzante dell’evocazione del termine libertà, e allo stesso tempo della vaghezza e della confusione che spesso lo circonda. Ci sono due accezioni di base che alle volte sono state definite come libertas major e minor, libertà come autonomia o eteronomia, altre volte come libertà negativa e positiva. Se uno le osserva dal punto di vista esistenziale le si potrebbe tradurre «la libertà come scelta» e «la libertà come adesione».
1. La libertà come scelta La libertà come scelta, come autonomia, è forse l’accezione prevalente nel nostro mondo attuale, di certo lo è in quello occidentale. Esistenzialmente, la libertà come scelta sottolinea il fatto che nulla, nemmeno la più grande gioia o verità può essere interessante, se non è “mia”, se non c’entro “io” in prima persona. Pertanto, prima di passare alle definizioni filosofiche, vorrei citare ancora una volta un romanziere russo, Fëdor Dostoevskij, che in un celebre brano de I fratelli Karamazov fa affermare a uno dei protagonisti che tutte le verità teologiche e religiose non sarebbero affatto interessanti, se il mio “io” non potesse partecipare di quella soluzione: Io ho creduto e voglio vedere anch’io, e, se allora fossi già morto, mi si risusciti, perché se tutto dovesse avvenire senza di me, sarebbe una cosa troppo ingiusta. Io non ho mica sofferto per concimare col mio essere, con le mie colpe e le mie sofferenze, la futura armonia in pro di qualcuno. Io voglio vedere coi miei occhi il daino ruzzare accanto al leone e l’ucciso alzarsi ad abbracciare il suo uccisore. Io voglio essere presente quando tutti apprenderanno di colpo perché tutto sia stato così. Su questo desiderio poggiano tutte le religioni della terra, e io credo 2 .
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1. 2.
V. Grossman, Tutto scorre, Adelphi, Milano 1987, p. 220. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Rizzoli, Milano 1998, pp. 326-327.
Le radici della libertà e i suoi paradossi attuali
Penso che in questa affermazione appassionata e drammatica emerga l’origine della libertà intesa come scelta, del resto ben argomentata e documentata nella storia della filosofia: l’origine si trova nel desiderio e nella consapevolezza che qualsiasi compimento deve includere attivamente il soggetto. Al proposito, vale la pena forse di ricordare l’accentuazione di questo aspetto della libertà nell’opera di Kierkegaard, segnata dal rovesciamento del monismo onnicomprensivo della posizione hegeliana: La scelta stessa è decisiva per il contenuto della personalità; con la scelta essa sprofonda nella cosa scelta; e quando non sceglie, appassisce in consunzione. […] La personalità, già prima di scegliere, è interessata alla scelta, e quando la scelta si rimanda, la personalità sceglie incoscientemente, e decidono in essa le oscure potenze 3 .
La storia non è dunque una cavalcata dello Spirito che usa e dissolve i propri eroi: il singolo è il punto cruciale della storia e non è predeterminato nella sua scelta se non quando pensa di poter non scegliere. Il non scegliere, da questo punto di vista, è l’unico modo di essere sopraffatti e determinati eteronomamente. Il medesimo pensiero veniva espresso, sul versante politico, da John Stuart Mill nel suo celebre trattato On Liberty (1848), forse la codificazione più classica e più nota della libertà negativa, e di certo in questo momento storico la più vissuta: il nostro principio esige libertà di gusti e di occupazioni; libertà di disegnare il piano della nostra vita nel modo più consono al carattere di ognuno; di agire come meglio ci aggrada, affrontando tutte le conseguenze che possono derivarne, senza essere intralciati dai nostri simili fin ché quel che facciamo non arreca loro alcun danno, e anche se dovessero pensare che il nostro comportamento è sciocco, depravato o moralmente scorretto 4 .
La successiva descrizione di Mill mette in luce quanto questa libertà possa poi essere in realtà spenta non da poteri violenti e oppressivi ma dall’omologazione. Una forma di potere che a metà dell’Ottocento Mill lamentava senza poter immaginare che cosa sarebbe accaduto con la società di massa, i mezzi di comunicazione di massa e la globalizzazione. Eppure, a conferma della profondità delle problematiche ultime della filosofia, la descrizione milliana e le questioni che essa suscita non sembrano essere datate:
3. 4.
S. Kierkegaard, Aut-Aut, Mondadori, Milano 1956, pp. 39-40. J. S. Mill, Sulla libertà, Bompiani, Milano 2000, p. 61.
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
Ai nostri giorni, dalla classe sociale più alta giù giù fino alla più infima, vivono tutti come sotto lo sguardo di una censura ostile e temuta. Non solo nelle cose che riguardano gli altri, ma anche in ciò che riguarda solo se stessi, gli individui o le famiglie non si domandano mai: cos’è che preferisco? oppure cos’è che sarebbe in sintonia col mio carattere e con la mia indole? oppure ancora, cos’è che darebbe libero gioco a quel che di meglio e di più elevato c’è in me, permettendogli di crescere e di fiorire? La gente si chiede: cos’è che si addice alla mia posizione? Cosa fanno di solito le persone della mia stessa posizione e della mia condizione economica? oppure (peggio ancora), cosa fanno di solito le persone di posizione e condizioni superiori alla mia? Non sto dicendo che la gente sceglie seguendo di preferenza le usanze piuttosto che le proprie inclinazioni; dico che non le viene neanche in mente di poter avere una qualche inclinazione che sia diversa da quel che si usa fare. È quindi la sua stessa mente a essersi piegata sotto il giogo: anche in ciò che la gente fa per suo piacere, la prima cosa a cui pensa è di uniformarsi agli altri; le piace quel che piace alla massa; le sue scelte le fa solo fra le cose che fanno tutti; un gusto personale, una condotta eccentrica, sono schivati quasi fossero dei crimini a furia di non seguire la propria natura, gli esseri umani finiscono per non avere più una natura da seguire; le loro facoltà umane appassiscono e avvizziscono; non riescono più ad avere un desiderio vivo o un piacere autentico, e in genere non hanno più un’opinione o un sentimento che siano nati dentro di loro o che gli appartengano davvero. E sarebbe questa, o forse no, la più auspicabile condizione della natura umana?5
Purtroppo, molti di questi fenomeni accadono in tutte le società e in tutte le epoche. Curiosamente, la società e i mezzi di comunicazione di massa ne hanno creato solo una versione più sottile: ciascuno pensa di essere davvero libero dalle usanze mentre segue la moda e il costume dettato dalla mentalità dominante, anche quando le si oppone. Conformarsi alla maggioranza come impedimento di una scelta autentica e di un pensiero spontaneo è un elemento di ogni società organizzata, piccola o grande che sia; a ciò Mill oppone la rivalutazione della scelta e della spontaneità dell’inclinazione: poter scegliere vuol dire poter essere presenti in prima persona con la propria inclinazione, il proprio gusto, dentro la realtà, dentro la società, dentro le vicende della propria vita.
2. La libertà come adesione Nell’esperienza personale così come nella storia della filosofia si trova anche l’altra accezione del termine “libertà”: secondo quest’ultima la libertà è sempre un legame, in particolare con ciò che è vero, buono e giusto. La sottolineatura 44
5. Mill, Sulla libertà, cit., pp. 197-199; traduzione rivista.
Le radici della libertà e i suoi paradossi attuali
di questo secondo atteggiamento pone di per sé una critica al primo. Infatti, l’argomento di chi mette in evidenza l’inautenticità della libertà come scelta è innanzi tutto quello di far emergere come la scelta non sia mai indifferenziata e, dunque, c’è un legame fra la libertà e qualcosa che la rende effettiva, che la mette in atto. È quanto mette in evidenza Schelling, uno dei pensatori più interessanti per i numerosi approfondimenti del termine “libertà” realizzati nelle varie fasi del suo pensiero. In particolare, c’è un punto di svolta che porterà il pensatore tedesco dalla filosofia dell’identità alla filosofia positiva. Tale punto di svolta si può icasticamente rappresentare attraverso lo scritto del 1809 Ricerche sulla libertà: Infatti il comune concetto di libertà, secondo cui essa è posta in una facoltà pienamente indeterminata di volere, fra due opposti contraddittori senza determinati motivi, l’uno o l’altro, semplicemente perché ha voluto, ha certamente a suo favore l’originaria indifferenza dell’essere umano secondo l’idea, ma, riferita alla singola azione, conduce alle più grandi assurdità. Potersi decidere per A o per non A senza alcun motivo che determini sarebbe soltanto il privilegio di agire completamente privi di ragione, e certo l’uomo non si distinguerebbe dal noto asino di Buridano che tra due mucchi di fieno uguali per distanza, grandezza e qualità, dovrebbe morir di fame 6 .
Gli studi sulla libertà saranno decisivi per il successivo sviluppo schellinghiano perché mettono in luce proprio l’abisso della libertà, nel suo fondamento misterioso e nella sua misteriosa caduta; un percorso che porterà al riconoscimento di una filosofia positiva dove la libertà (divina) è l’origine dell’esistenza storica che la filosofia razionalista non potrà mai riuscire a cogliere. In effetti, la libertà fa emergere qui il suo duplice volto di forza che lega a una ragione, e dunque a qualcosa di altro da sé, e di estrema debolezza, che permette l’errore e il male. Nella spiegazione schellinghiana si ha così una ripresa, in termini romantici, dell’antica dottrina agostiniana e scolastica della libertas maior e della libertas minor, laddove la seconda si capisce solo alla luce della prima e nell’articolazione del rapporto con essa. La critica alla libertà negativa, della pura autonomia, consiste in fondo nel dire che la libertà non è mai autonoma e che, qualunque siano le sue ragioni, la volontà di scelta ha strutturalmente delle ragioni per preferire o per volere e, non appena si ammetta questa alterità, si accetta che vi sia un bene, una verità, una giu-
6.
F. Schelling, Ricerche sulla libertà, in Id., Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Mursia, Milano 1990, p. 112.
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stizia, un destino, una tradizione con la minuscola o con la maiuscola. C’è, infatti, qualcosa che è altro da sé che è determinante per sé. L’articolazione di questa appartenenza può variare molto di autore in autore, ma lo schema di alterità fondamentale si ripete. In tale modello l’alterità diventa ciò a cui si appartiene o per cui si vive, come ben illustra la posizione di Emerson, uno dei padri della filosofia “classica” americana. Tutta la potenza è di un solo tipo: una compartecipazione della natura del mondo. La mente, parallela alle leggi della natura, si addentra nella piena degli eventi, forte della loro forza. Un uomo è fatto della stessa sostanza di cui sono costituiti gli eventi; è in un rapporto simpatetico con il corso delle cose e può predirle 7.
È nella compartecipazione alla Natura che si capisce che cosa sia la libertà: Pur dovendo accettare il Fato, siamo non meno obbligati ad affermare la libertà, l’importanza dell’individuo, la grandezza del dovere, la potenza del carattere: sono vere entrambe le cose. […] Sebbene non sappiamo come, siamo certi che la necessità si accorda con la libertà, l’individuo con il mondo, la mia polarità con lo spirito dei tempi. [...] Sembra una contraddizione, ma la libertà è necessaria. Se volete mettervi dalla parte del Fato e dire che il Fato è tutto, noi allora diremo: una parte del Fato è la libertà dell’uomo 8 .
Così si compie un’immagine complessiva dell’ontologia e della responsabilità umana: E così io penso che l’ultima lezione della vita, il canto corale che si leva da tutti gli elementi e da tutti gli angeli è un’obbedienza volontaria, una libertà necessitata. L’uomo è fatto degli stessi atomi di cui è fatto il mondo, egli condivide le stesse impressioni, predisposizioni e destino. Quando la sua mente è illuminata, quando il suo cuore è gentile, egli si lancia pieno di gioia nell’ordine sublime e compie con cognizione quel che le pietre fanno per struttura 9.
La conclusione emersoniana è che la mia libertà si realizza come adesione a un ordine che è altro dal soggetto ed è più inclusivo di esso. La libertà come scelta si spiega e diventa efficace solo in quanto il mio “io”, il soggetto, fa parte di un tutto dal quale riceve energia e forza, e all’interno del quale, solo, esso può trovare spiegazione razionale.
46
7. 8. 9.
R. W. Emerson, Condurre la vita, Nino Aragno Editore, Torino 2008, p. 35. Ivi, pp. 4 e 15. Ivi, p. 142.
Le radici della libertà e i suoi paradossi attuali
Dal punto di vista etico, il legame tra la libertà individuale e l’ordine a cui essa appartiene si esprime come “fedeltà”, ben argomentata, ancora una volta negli Stati Uniti, dalla posizione di Josiah Royce, filosofo idealista e pragmatista che meriterebbe di essere studiato più di quanto non lo sia stato finora. La filosofia della “fedeltà” royceana considera la libertà di scelta in quanto tale scelta può essere costante e concernente una causa maggiore di sé: Voi esigete la vostra liberazione. Reclamate il vostro diritto di primogenitura rispetto all’ordine sociale, che pure ha dato i natali alla vostra individualità. Voi cercate di emanciparvi da questa intollerabile servitù. Orbene, vi ho già suggerito di cercare questa libertà nella forma della fedeltà, ovvero nella forma di una devozione volontaria e totale verso una causa sociale che risulti attraente10.
Com’era per Schelling, è la ragionevolezza della scelta che conduce alla costanza della fedeltà: Mi sono rivolto a ogni individualista etico affermando: soltanto nella fedeltà i fini ragionevoli del vostro individualismo trovano il proprio compimento. Se volete la vera libertà, cercatela nella fedeltà. Se aspirate a esprimere voi stessi, se volete conseguire la spiritualità e l’autonomia morale, solo la fedeltà può assicurarvi questi beni11.
Rispetto a un simile ideale, il pensare la libertà come autonoma e individuale dimostra, secondo Royce, ignoranza riguardo all’appartenenza originaria del soggetto e limitazione all’interno di un orizzonte meschino: Nessuno può dire razionalmente: «La fedeltà non mi può vincolare oltre, perché, nel profondo della mia anima, sento di volere la mia libertà individuale». Ogni protesta del genere, infatti, deriva dall’ignoranza di ciò che la propria coscienza nel suo profondo realmente desidera12 .
La libertà che ciascuno vuole, infatti, è un orizzonte totalizzante che non può essere rappresentato ed espresso dai singoli, «una certa sovraumana unità di vita ideale di una comunità libera»13. Esistenzialmente questa esperienza della libertà si documenta come partecipazione a una causa comune, come ben descrive Jorge Amado nel suo Cacao, dove un giovane bracciante sfruttato a un certo punto trova felicità 10. 11. 12. 13.
J. Royce, La filosofia della fedeltà, Nino Aragno Editore, Torino 2014, p. 56. Ivi, p. 123. Ivi, p. 138. Ivi, p. 200.
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e liberazione dalle condizioni avverse in cui è costretto a vivere perché incontra un gruppetto di comunisti: la causa alla quale appartiene diventa motivo di trasformazione della sua percezione del mondo. Egli è ancora sfruttato, ma ha qualcosa per cui combattere, un ideale universale al quale legare la propria vita. Certo, gli ideali si possono facilmente trasformare in ideologie o possono nascostamente essere ideologie, ossia discorsi che impediscono un rapporto con la realtà, ma di per sé gli ideali sono il termine o l’ordine più grande di sé cui il cuore aspira. È in fondo l’esperienza dell’amore che ogni essere umano può trovare: nell’attimo dell’innamoramento o in un amore profondo e vissuto ciascuno trova energie superiori a se stesso, che compiono se stesso.
3. Il paradosso della nostra epoca Queste due concezioni della libertà, cioè la libertà come scelta e la libertà come adesione, si sono articolate in modi diversi nella storia. L’esito attuale, facilmente verificabile in ogni tipo di atteggiamento e decisione della società occidentale europea e nordamericana, è una prevalenza della prima accezione sulla seconda, che risulta invece un po’ estranea e difficile da comprendere. Che cosa ha portato a questa situazione e quali ne sono gli esiti? La libertà come adesione è scomparsa dall’orizzonte culturale occidentale, a mio avviso, per motivi legati alle vicende storiche novecentesche. Il “secolo canelupo” – come lo chiamava Mandel’stam – ha visto la tragica comparsa del totalitarismo, un autoritarismo oltre e contro natura, dove l’idea è stata piegata a ideologia e l’uomo è stato asservito e sacrificato alle affermazioni ideologiche. Il famigerato risultato si trova nello sterminio di massa operato da diversi regimi con ideologie omologhe. Dal punto di vista della libertà, ciò ha significato una soppressione della coscienza individuale o del soggetto. In questo senso, una delle espressioni più inquietanti è quella di Göring, uno dei luogotenenti di Hitler, che si vantava di dire: «La mia coscienza è Adolf Hitler»14. È una concezione da cui ora rifuggiamo, sebbene essa si nasconda sempre nelle pieghe delle nostre vite perché, come Grossman aveva giustamente compreso, l’ideologia è una tendenza perenne della mente umana, che può rivelarsi tale in ogni ambiente, gruppo, società, piccola o grande che sia. Così, per quanto riguarda questa deriva dell’accezione
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14. Cfr. T. Schieder, Hermann Rauschnings «Gespräche mit Hitler» als Geschichtsquelle, Westdeutscher, Opladen 1972, p. 19, n. 25, citato in J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987, p. 31.
Le radici della libertà e i suoi paradossi attuali
“maggiore” della libertà, essa è pubblicamente rifiutata, ma surrettiziamente esperita e vissuta in molti casi, a livello sia privato, sia pubblico. Il paradosso, tuttavia, riguarda soprattutto gli esiti dell’altra accezione di libertà. Infatti, anche la libertà di scelta, portata ai suoi estremi, rischia di creare l’effetto opposto a quello sperato o promesso. Ciò può accadere, ed è accaduto, perché la difesa assoluta dell’autonomia comporta una censura e una cesura rispetto alle influenze eteronome e, dunque, par excellence, un’autonomia rispetto alla tradizione. Tale separazione rischia così di identificare il bene surrettiziamente nella forza che produce questa difesa e questa cesura: per emanciparsi dai legami ci si lega alla forza che produce la separazione. Storicamente è quanto è avvenuto negli emblematici capovolgimenti della Rivoluzione francese. Una delle prime decisioni dell’Assemblea rivoluzionaria è la soppressione dei diritti feudali, cioè di quell’insieme di diritti che veicolavano i legami tradizionali, e la proclamazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino, cioè di un individuo astratto, separato, da quei vincoli. Come nota Enrico Berti nel suo bel libro Il bene di chi?15, tale passaggio coincide con un epocale cambiamento dell’identificazione del bene con il giusto. La legalità diventa il vero bene perché la legge è lo strumento che difende l’individuo dai legami antichi che potrebbero nuovamente minarne l’autonomia. Come si sa, l’esito finale del Terrore giacobino che idolatra la legge e la ragione astratta sembra concludere il capovolgimento dell’autonomia nel suo contrario. Certo, si potrà dire che il rovesciamento giacobino è solo un accidente, un caso irripetibile, ma molte vicende storiche paiono confermare questo paradosso: la difesa dell’autonomia porta a un totalitarismo che ideologizza i mezzi di produzione dell’autonomia invece dei contenuti ideali che si volevano realizzare. In fondo, ciò che si vede anche nella società occidentale è il progressivo abbandono di forme comunitarie di vita e di valori in favore di un’accentuazione del legalismo: dove il solipsismo o, se si preferisce, l’assolutizzazione dell’autonomia regna, la denuncia è spesso il mezzo di soluzione dei conflitti condominiali come di quelli politici e la battaglia per la libertà coincide con una battaglia per i diritti. La libertà svincola dalle idee di bene e verità, si lega alla legge. Solo che la legge è sempre espressione di volontà politiche e il totalitarismo cacciato come esito della libertà come adesione rischia di tornare come esito della libertà come scelta. Il paradosso, come aveva ben detto Hannah Arendt e spesso avevano notato i dissidenti delle aree sovietiche guardando a Occidente, è che l’uomo da solo, l’uomo autonomo è facile preda delle ideologie, qualunque nome e qualunque forma esse assumano.
15. E. Berti, Il bene di chi?, Marietti, Milano 2015.
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Pensando di essere libero di scegliere ciò che vuole autonomamente, si trova a seguire mode, gusti, desideri imposti da meccanismi sociali di cui non è affatto padrone, come Foucault ha ben messo in luce16. Rimane così il paradosso, che ha forse una soluzione più facile nell’accadimento di gesti di libertà, dai quali si possa percepire e scoprire una strada nuova per la difficile articolazione della libertà che non in una teorizzazione nuova. È una situazione paragonabile a quella, tanto drammatica, della fine dell’Impero romano quando il dilemma della libertà, non a caso, si è acceso. Come allora, dovremmo qui dire che qualunque forma assuma il futuro la soluzione verrà da gesti completi che indicheranno nuovi significati. MacIntyre diceva in After Virtue che stiamo aspettando non Godot ma un nuovo san Benedetto, certamente molto diverso dal precedente17. Che è come dire che la soluzione verrà da gesti di carattere storico e non da filosofie speculative. L’augurio è che la filosofia speculativa abbia sempre quell’apertura piena di desiderio del vero e di domanda da riconoscere l’accadere dell’alba di un nuovo inizio.
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16. Si vedano per queste osservazioni H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009; V. Havel, Il potere dei senza potere, Itaca, Castel Bolognese (ra) 2013; J. Zverina, L’esperienza della Chiesa. Scritti per una “Chiesa della compassione”, Jaca Book, Milano 1971; M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978. 17. A. MacIntyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988, p. 313.
Il libero arbitrio e la responsabilità sono illusioni? di Mario De Caro
1. L’illusionismo classico Negli ultimi anni, attorno alla nozione di responsabilità si sono sviluppate discussioni assai vivaci e interessanti1. Tra le posizioni più originali emerse figurano certamente quelle che difendono il cosiddetto “illusionismo”, in quanto pongono in questione, ritenendola illusoria, la legittimità stessa delle nostre attribuzioni di responsabilità2: e in questo senso basterà menzionare autori ben noti come Galen Strawson, Ted Honderich, Saul Smilansky e Derk Pereboom, secondo i quali nel mondo naturale non c’è spazio per qualcosa che possa corrispondere alla nostra idea di responsabilità3. Non che, naturalmente, in precedenza l’illusionismo rispetto all’idea di responsabilità fosse del tutto ignoto. Così per esempio scriveva, alcuni decenni or sono, J. Hospers: Tutte le distinzioni morali sono cancellate […]. In ultima analisi, noi siamo il tipo di persone che siamo a causa delle innumerevoli circostanze che ci hanno plasmato. [Perciò] dobbiamo tenere a mente che quando si considerano questioni di merito ultimo, “tutti gli uomini sono uguali”4 .
Il fondamento dell’illusionismo di Hospers (che potremmo chiamare “illusionismo classico”) era costituito dall’argomentazione propugnata dal co-
1. 2. 3. 4.
Cfr. J. M. Fischer (ed.), Moral Responsibility, Cornell University Press, Ithaca (ny) 1986; J. M. Fischer, M. Ravizza (eds.), Perspectives on Moral Responsibility, Cornell University Press, Ithaca (ny) 1993. Cfr. anche le parti v e vi di R. Kane (ed.), The Oxford Handbook of Free Will, Oxford University Press, Oxford 2002. La nozione di responsabilità qui in discussione è quella di responsabilità personale (che, di contro alla responsabilità causale, non riguarda eventi, ma agenti), considerata dalla prospettiva morale (e non da quella penale). Su queste definizioni, cfr. M. De Caro, Il libero arbitrio, Laterza, Roma-Bari 20145, cap. 4. P. Smilansky, Free Will and Illusion, Clarendon Press, Oxford 2000; G. Strawson, Freedom and Belief, Oxford University Press, Oxford 1986; D. Pereboom, Living Without Free Will, Cambridge University Press, Cambridge 2001; Id., Will, Agency, and Meaning in Life, Oxford University Press, Oxford 2014. J. Hospers, Human Conduct: An Introduction to the Problems of Ethics, Harcourt, Brace & World, New York 1961, p. 521, trad. mia.
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siddetto hard determinism. Nelle linee essenziali, la struttura dell’argomentazione hospersiana può essere così riassunta: 1) La responsabilità morale degli agenti richiede la loro libertà. 2) Gli esseri umani fanno integralmente parte del mondo naturale. 3) Il mondo naturale è strutturato in modo che tutti gli eventi accadono in conformità alle leggi di natura, che hanno carattere deterministico-causale. 4) Il determinismo causale rende impossibile la libertà. Conclusione: gli esseri umani non godono della responsabilità morale. Le premesse di tale argomentazione erano, in linea di massima, giustificate nel modo seguente: 1) Un agente è responsabile moralmente per le azioni nel caso in cui si diano due condizioni: a) nel compiere quelle azioni tale agente si è autodeterminato (condizione dell’autodeterminazione); b) l’agente avrebbe potuto agire diversamente da come ha di fatto agito (condizione delle possibilità alternative). Tali condizioni definiscono esattamente lo spazio della libertà5. Dunque la responsabilità morale presuppone la libertà. 2) Il fallimento del dualismo cartesiano da una parte e i successi delle scienze naturali dall’altra mostrano che gli esseri umani, con tutte le loro proprietà, fanno parte del mondo naturale. Tutto ciò che ci accade (ovvero, ogni evento che ci vede coinvolti) ricade sotto le leggi del mondo naturale. 3) La ricerca scientifica (prima la meccanica classica e poi la teoria della relatività) mostra che, almeno al livello mesoscopico e macroscopico, il mondo ha carattere approssimativamente deterministico. 4) Per definizione, il determinismo causale fa sì che la storia causale del mondo sia univocamente determinata in entrambe le direzioni temporali. Ne segue che gli agenti non dispongono affatto della “possibilità di agire altrimenti”, che abbiamo visto essere requisito fondamentale della libertà. Perciò la libertà è incompatibile con il determinismo causale. Da tali premesse segue banalmente che gli esseri umani non sono liberi. In forza della premessa 1, secondo la quale la libertà è condizione necessaria della responsabilità, si deve dunque concludere anche che essi non sono responsabili per le proprie azioni. Da ciò segue che nozioni come quelle di merito, demerito, retribuzione, ecc., per quanto possano apparire “naturali”, non sono affatto giustificate.
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5.
G. Watson, Free Action and Free Will, in “Mind”, 96, 1987, pp. 145-172, ha convincentemente argomentato che ogni teoria della libertà deve dare in qualche modo conto di entrambe queste condizioni.
Il libero arbitrio e la responsabilità sono illusioni?
2. Il nuovo illusionismo Questo, in sostanza, era, sino ad alcuni decenni or sono, il modo di ragionare di quanti difendevano l’illusionismo rispetto all’idea di responsabilità. Come abbiamo visto, il loro argomento assumeva che la responsabilità presupponga la libertà, che la struttura causale dell’ambiente in cui operano gli agenti abbia carattere deterministico e che, a causa di tale determinismo, la libertà sia una mera illusione. Negli ultimi decenni tutte queste premesse sono state contestate, con argomenti anche molto ingegnosi. Nondimeno, le risposte a questi argomenti sono state molto recise e l’illusionismo rispetto alla responsabilità ha oggi ripreso vigore, ancor più che in passato. Per comprendere analogie e differenze tra l’illusionismo classico à la Hospers e quello contemporaneo possiamo considerare sinteticamente il modo in cui vengono oggi valutate le premesse dell’illusionismo classico, considerando il trattamento che ne fanno oggi i filosofi neoillusionisti. 1) La tesi del nesso essenziale della responsabilità morale con la libertà (intesa come autodeterminazione e come possibilità di fare altrimenti) è stata contestata, in modo molto acuto, da punti di vista diversi, da Peter F. Strawson, Harry Frankfurt e Daniel Dennett. In particolare, Strawson ha sostenuto che l’eventuale scoperta della verità del determinismo sarebbe comunque irrilevante per le pratiche che fondano le nostre attribuzioni di responsabilità6; Frankfurt ha argomentato, sulla base di un brillante esperimento mentale, che la responsabilità non richiede la possibilità di fare altrimenti7; e lo stesso ha fatto Dennett utilizzando argomenti di carattere utilitaristico8. Queste proposte hanno suscitato discussioni illuminanti; nondimeno, la maggior parte dei filosofi non si è mostrata convinta da questi argomenti. L’idea che la libertà sia condizione necessaria della responsabilità continua dunque, a mio giudizio, almeno ad essere maggioritaria9. 2) Controversa è anche la tesi secondo la quale in linea di principio l’agire
6.
7. 8. 9.
P. F. Strawson, Freedom and Resentment (1962), trad. it. in M. De Caro (a cura di) La logica della libertà, Meltemi, Roma 2002, pp. 77-116. La proposta di Strawson è stata ripresa e sviluppata da R. J. Wallace, Responsibility and the Moral Sentiments, Harvard University Press, Cambridge (ma). In Freedom and Moral Sentiments: Hume’s Way of Naturalizing Responsibility, Oxford University Press, Oxford 1995, Paul Russell ha sostenuto che la concezione humeana della responsabilità ha un carattere “protostrawsoniano”. H. Frankfurt, Alternate Possibilities and Moral Responsibility, in “Journal of Philosophy”, 66, 1969, pp. 829-839. D. Dennett, The Elbow Room: The Varieties of Free Will Worth Wanting, mit Press, Cambridge (ma) 1984. In Freedom Evolves, Penguin Books, London 2003, Dennett ha collocato la sua posizione nel contesto evoluzionistico. Per una critica delle posizioni di Strawson e Frankfurt, cfr. De Caro, Il libero arbitrio, cit., cap. 5.
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umano è interamente riconducibile a leggi di carattere naturalistico. Una discussione di questa tesi implica, naturalmente, vexatae quaestiones come quella del riduzionismo, il problema mente-corpo, il dibattito su spiegazione e comprensione. Non è certo questa la sede per addentarsi in tale congerie di problemi. Basterà però una considerazione. Sebbene esistano autori rispettabili che recentemente hanno tentato di rivitalizzare il dualismo ontologico di matrice cartesiana10, questa posizione è considerata obsoleta, se non del tutto irricevibile, dalla maggior parte dei filosofi di matrice analitica. Nondimeno, numerosi (sebbene sempre minoritari) sono oggi i tentativi di mostrare che l’alternativa tra monismo ontologico fisicalistico e dualismo cartesiano non è esaustiva. L’idea è di sviluppare concezioni ontologiche pluralistiche che, pur rifiutando le tesi della riduzione e della sopravvenienza del mentale rispetto al fisico, negano la possibilità di menti disincarnate11. Qualora tali tentativi si dimostrassero fruttuosi, potrebbe esservi spazio per concepire l’agire umano come ontologicamente irriducibile alle categorie nomiche delle scienze naturali senza per questo ricadere nelle paludi metafisiche del cartesianismo. Per quanto riguarda la questione qui discussa, una concezione assume a questo proposito particolare rilievo. Da qualche anno, infatti, è tornata in qualche misura in auge la tesi dell’agent-causation, che nella prima compiuta versione risale a Thomas Reid, ma che era parsa screditata sino a tempi recenti12. Richard Taylor, Roderick Chisholm e, più recentemente, Timothy O’Connor hanno tentato di mostrare che il problema della libertà può trovare soluzione se si ammette che oltre alla causazione tra eventi ne esiste una specifica degli agenti, i quali – quando agiscono liberamente – sono in grado di originare nuove catene causali senza essere a ciò determinati causalmente13. Nondimeno, va detto che questi tentativi di salvare la libertà umana ricorrendo a categorie ontologiche specifiche per la agenthood non hanno sino a ora raccolto vasti consensi, sia perché danno l’impressione di essere meri stratagemmi ad hoc per risolvere il problema della libertà sia perché a molti paiono troppo decisamente antinaturalistici. 3) È ben noto che la maggioranza dei fisici e dei filosofi della scienza ritenga oggi che il mondo naturale abbia carattere indeterministico; nondimeno,
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10. K. R. Popper, J. Eccles, The Self and Its Brain, Springer International, Berlin 1977; J. Foster, The Immaterial Self, Routledge, London 1991. 11. Cfr., per esempio, J. Dupré, The Disorder of Things, Harvard University Press, Cambridge (ma) 1993. 12. Cfr. W. Rowe, Thomas Reid on Freedom and Morality, Cornell University Press, Ithaca (ny) 1991. 13. R. Taylor, Action and Purpose, Prentice Hall, Englewood Cliffs (nj) 1966; R. Chisholm, Human Freedom and the Self (1964), ristampa in G. Watson (ed.), Free Will, Oxford University Press, Oxford 1982, pp. 2435; T. O’Connor, Persons and Causes, Oxford University Press, Oxford 2000.
Il libero arbitrio e la responsabilità sono illusioni?
i filosofi che si occupano della questione di libertà e responsabilità si dividono rispetto alla possibilità che l’indeterminismo subatomico abbia ricadute al livello mesoscopico e macroscopico rilevanti per la questione della libertà, e dunque per quella della responsabilità14. Negli ultimi anni, anzi, molti filosofi (da Robert Nozick a Carl Ginet, da Robert Kane a Mark Balaguer15) hanno tentato di riportare in auge il libertarismo, la concezione che riconosce la libertà degli esseri umani e la fonda su una concezione indeterministica della causalità. Tuttavia, questi tentativi, ancorché ingegnosi, non sono riusciti a rispondere alla difficoltà che tradizionalmente affligge le concezioni della libertà che si incentrano sull’indeterminismo, ovvero spiegare come possano gli agenti esercitare controllo su azioni la cui matrice causale ha carattere indeterministico. In una parola, tali versioni del libertarismo non paiono in grado di dare conto di una delle due fondamentali condizioni della libertà: quella dell’autodeterminazione degli agenti16. Dunque, argomentano gli avversari del libertarismo (ivi inclusi i neoillusionisti nemici del concetto di responsabilità), qualora il mondo dell’agire umano avesse veramente carattere indeterministico parrebbe impossibile dare conto della libertà umana. 4) L’idea che il determinismo causale impedisca la libertà è forse la più controversa tra quelle assunte dall’illusionismo classico à la Hospers come sfondo della tesi illusionistica rispetto all’idea di responsabilità. Si può anzi dire che fino agli ultimi anni del Novecento la maggior parte dei filosofi di matrice analitica che si sono occupati dell’argomento ha sostenuto il compatibilismo (la concezione secondo la quale la libertà è compatibile con il determinismo causale)17, talora persino nella variante radicale, di matrice humeana, secondo la quale il determinismo causale è condizione necessaria della libertà18. In un celebre giudizio, Davidson scriveva per esempio che «Hobbes, Locke, Hume, Moore, Schlick, Ayer, Stevenson e una quantità di altri filosofi hanno fatto quanto si poteva fare, o quanto
14. Cfr. la sezione ii di Kane (ed.), The Oxford Handbook of Free Will, cit. 15. R. Nozick, Philosophical Explanations, Harvard University Press, Cambridge (ma) 1991, pp. 291-316; C. Ginet, On Action, Cambridge University Press, Cambridge 1990; R. Kane, The Significance of Free Will, Oxford University Press, Oxford 1996; M. Balaguer, Free Will as an Open Scientific Problem, mit Press, Cambridge (ma) 2010. 16. P. van Inwagen, Free Will Remains a Mystery, in “Philosophical Perspectives”, 12, 2000, pp. 1-19, pur simpatizzando con il libertarismo, riconosce che i tentativi fatti sinora per dare questa plausibilità a questa concezione sono stati sostanzialmente fallimentari. Per un’altra critica, cfr. M. De Caro, H. Putnam, Free Will and Quantum Mechanics, in corso di pubblicazione. 17. P. van Inwagen, Metaphysics, Westview Press, Boulder (co) 1993, p. 187. 18. A. Ayer, Freedom and Necessity (1954), ristampa in Watson (ed.), Free Will, cit., pp. 15-23. Per una difesa del compatibilismo non supercompatibilista, cfr. Dennett, The Elbow Room, cit.
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avrebbe potuto essere richiesto, per muovere le confusioni che possono alimentare la parvenza che il determinismo impedisca la libertà»19. Tradizionalmente contro questa concezione viene mossa l’obiezione che essa non è in grado di dare conto della possibilità di fare altrimenti (che abbiamo visto essere condizione essenziale della libertà). I compatibilisti tradizionalmente tentavano di rispondere a questa obiezione con la cosiddetta “analisi condizionale” di tale possibilità. Secondo questa analisi, il significato dell’enunciato: «L’agente A avrebbe potuto compiere l’azione x invece dell’azione y, che ha effettivamente compiuto» è reso correttamente dall’enunciato: «L’agente A avrebbe compiuto l’azione x invece dell’azione y, che ha effettivamente compiuto, qualora avesse scelto in tal senso (o se avesse così deciso o se avesse così voluto)»20. Negli ultimi anni, tuttavia, le più significative critiche contro il compatibilismo sono derivate da un argomento di tipo diverso, il cosiddetto Consequence Argument che, oltre ad attaccare l’idea che il compatibilismo possa dare conto della possibilità di fare altrimenti mette in questione l’idoneità di questa concezione anche nel dare conto dall’altra condizione fondamentale della libertà: quella dell’autodeterminazione. L’argomento è, in sostanza, piuttosto semplice e può essere riassunto nel modo illustrato di seguito21. Per poter compiere liberamente una determinata azione, un agente deve autodeterminarsi nel compierla e per fare questo deve esercitare controllo su di essa (altrimenti non ci sarebbe autodeterminazione, ma eterodeterminazione). Tuttavia, per poter esercitare un tale controllo, l’agente dovrebbe controllare almeno uno dei fattori che – se è vero il determinismo causale – necessitano quell’azione: gli eventi del passato (finanche di quello remoto) e le leggi di natura da cui quell’azione dipende. Ma questi fattori sono ovviamente al di là del controllo dell’agente perché il passato è inalterabile (niente o nessuno è in grado di controllarlo) e le leggi di natura sono ineludibili (gli esseri umani non hanno certamente la capacità di modificarle). Dunque, nessuna azione è veramente controllabile da parte degli agenti. Ne segue allora che questi non possono mai agire liberamente. Questo argomento (che nelle sue versioni formali ha dato luogo a un vasto dibattito, soprattutto riguardo a una controversa regola d’inferenza per la
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19. D. Davidson, Freedom to Act (1983), ristampa in Id., Essays on Actions and Events, Clarendon Press, Oxford 1980, pp. 63-81; trad. it. in Azioni ed eventi, il Mulino, Bologna 1992, p. 113. 20. Su questo dibattito (che ha visto coinvolti, tra gli altri, G. E. Moore, K. Lehrer, J. Austin, P. Foot, G. E. M. Anscombe, R. Chisholm), cfr. T. Kapitan, A Master Argument for Incompatibilism?, in Kane (ed.), The Oxford Handbook of Free Will, cit., pp. 127-157. 21. Per la versione di van Inwagen, cfr. il suo An Essay on Free Will, Oxford University Press, Oxford 1983, cap. 3.
Il libero arbitrio e la responsabilità sono illusioni?
quale la mancanza di controllo sulle azioni è trasmessa attraverso il tempo22) ha modificato profondamente gli schieramenti nel dibattito sul libero arbitrio. Molti autori hanno, sulla base di esso, aderito all’incompatibilismo (la tesi secondo la quale il determinismo causale non è compatibile con la libertà).
3. Strategie anti-illusionistiche Vi sono dunque fondate ragioni per dubitare che la libertà sia compatibile con il determinismo causale. D’altra parte, come abbiamo visto, vi sono buone ragioni per dubitare della compatibilità della libertà con l’indeterminismo causale. Se però entrambi questi dubbi sono fondati, la libertà sembra essere impossibile23. Ed è proprio su questa tesi che si innestano le conclusioni dei fautori del neoillusionismo: se infatti la responsabilità richiede la libertà, e la libertà è impossibile, è impossibile anche la responsabilità. Queste conclusioni neoillusionistiche non sono, alla luce del dibattito attuale, del tutto ingiustificate. Tuttavia, diverse opzioni si aprono a chi voglia intraprendere il tentativo di restituire credibilità all’idea che noi siamo responsabili per le azioni che compiamo. E un tale tentativo a mio giudizio va intrapreso, considerando quanto l’idea di responsabilità sia rilevante per giustificare le nostre pratiche e le nostre intuizioni morali. La prima possibilità è quella di mostrare (sulle orme di Strawson, Frankfurt e Dennett) che tra responsabilità e libertà (intesa come autodeterminazione e possibilità di fare altrimenti) non intercorre un nesso essenziale. In secondo luogo, si può tentare di lavorare sulle classiche concezioni della libertà (il compatibilismo e il libertarismo) che come abbiamo visto oggi sono in crisi. Gli esiti illusionistici del dibattito sul libero arbitrio e la responsabilità dipendono in buona parte dal diffuso pessimismo che circonda oggi queste concezioni, nei loro rispettivi tentativi di dare conto in modo soddisfacente dell’intuizione della libertà. Se si potesse dimostrare che tale pessimismo non è fondato, le ragioni dell’illusionismo rispetto alla libertà che ne deriva, e dunque anche di quello rispetto alla responsabilità, verrebbero a cadere. C’è infine una strategia forse più ardua che si apre a chi voglia combattere l’illusionismo rispetto a libertà e responsabilità. Si può cercare cioè di mostrare che la libertà e la responsabilità umane non vanno spiegate con le categorie della causalità naturale. È questa la strada tentata, per esempio, dai fautori dell’agent-causation. Se una tale concezione possa evitare le gore meta-
22. Cfr. L. W. Ekstrom, Free Will: A Philosophical Study, Westview Press, Boulder (co) 2000. 23. Cfr. i volumi di Smilansky, Galen Strawson e Pereboom citati supra.
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fisiche del dualismo cartesiano è cosa di cui, peraltro, molti dubitano. D’altra parte, a mio giudizio, molto spesso tali obiezioni contro l’agent-causation sono viziate da una pregiudiziale adesione a forme piuttosto estreme di naturalismo. Un naturalismo più moderato – che incorpori forme di pluralismo ontologico, oltre che epistemologico, senza essere condannato a postulare l’esistenza di menti sconnesse da una base fisica – è a mio giudizio possibile. E una concezione del genere potrebbe aprire nuovi scenari in cui inquadrare il problema della libertà e della responsabilità, «the most frustrating and unyelding of problems»24. Ma su ciò bisognerà dire altrove.
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24. Nozick, Philosophical Explanations, cit., p. 293.
Parte seconda Conversazioni
Le neuroscienze e la libertà. Intervista a Giacomo Rizzolatti di Marco Ferrari
Marco Ferrari Ci può raccontare brevemente la sua storia? Giacomo Rizzolatti Sono nato a Kiev nell’Unione Sovietica. La mia famiglia, di origini friulane, emigrò in Russia alla fine dell’Ottocento. Mio bisnonno fece fortuna, e così mio nonno e poi mio padre rimasero in Russia fino al 1937. I russi a quel tempo non sapevano lavorare il marmo e mio bisnonno, che era mosaicista e marmista, costituì un’impresa di costruzioni, fece arrivare altri italiani e divenne in breve una persona molto facoltosa. Dopo, con la rivoluzione del 1917, gran parte dei suoi beni vennero nazionalizzati ma, siccome era cittadino italiano, parte rimasero di sua proprietà. Alla fine del 1937, come ritorsione all’intervento di Mussolini in Spagna, i miei vennero espulsi. E così, per fortuna, considerato poi cosa è successo in Russia durante la guerra, ritornarono in Italia. Io incominciai i miei studi a Udine: prima le scuole medie, poi il liceo classico, che in quei tempi era una scuola eccellente, e poi l’università a Padova. Essendo entrambi i miei genitori medici, decisi di fare medicina ancora quando ero ragazzo. Al liceo mi piacque molto la filosofia e decisi di fare neurologia proprio perché mi sembrava la cosa più vicina alla filosofia. Perché non psichiatria? Perché mio papà disse: «No, psichiatria non farla, sono solo chiacchiere!». Erano gli anni Cinquanta. Adesso è molto meglio, ci sono dei farmaci efficaci, ma allora effettivamente erano quasi soltanto chiacchiere. Mi laureai in medicina a Padova dove poi mi specializzai in neurologia. Il mio professore di neurologia, Hrayr Terzian, una persona di grande cultura e intelligenza, mi disse alla fine della specializzazione: «Se vuoi essere un “vero” professore universitario, devi andare in un centro dove si fa della ricerca di base». Così andai a Pisa, all’Istituto di Fisiologia diretto dal professor Giuseppe Moruzzi, che con la Montalcini è stato il più grande scienziato biologo italiano del secolo scorso. Rimasi là tre anni. Dopo di che, ho avuto un momento di crisi: ero indeciso se fare il neurologo, o fare il fisiologo. Decisi per fisiologia. Tornai quindi dal professor Giuseppe Moruzzi che mi disse: «C’è un mio allievo che sta andando in cattedra
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a Parma, perché non vai con lui?». E io accettai. Così cominciò la mia carriera universitaria. Ferrari Come è diventato uno scienziato? Quali erano i suoi interessi? Rizzolatti Per diventare scienziati, credo, bisogna avere una scuola. Non si può essere autodidatti. Gli anni trascorsi a Pisa con il professor Moruzzi furono molto formativi. In quel tempo nell’Istituto di Fisiologia di Pisa c’era un’atmosfera particolare. Moruzzi era profondamente convinto che la scienza fosse, usando termini hegeliani, il culmine dell’attività dello spirito. Noi giovani ricercatori ci sentivamo quasi dei sacerdoti che facevano qualcosa di un’importanza unica. Inoltre, questo senso di importanza era rafforzato dal fatto che nell’Istituto arrivavano importanti premi Nobel: queste personalità venivano a vedere il tuo laboratorio e con loro avevi modo di discutere. Questo ti dava quella sicurezza che è necessaria per fare scoperte. Poi ci sono stati anni difficili, perché, arrivato a Parma, non trovai immediatamente la ricchezza del clima pisano. Il mio nuovo direttore, Arnaldo Arduini, era una persona molto generosa che mi aiutò moltissimo a creare un laboratorio mio. Anche in quegli anni c’era, pur se meno di ora, una carenza di soldi, quindi avevamo molte difficoltà. Un grande balzo avanti fu fatto quando vinsi, con un consorzio internazionale, un ricco grant. Questa vittoria ci permise sia di entrare in un gruppo di ricerca di alto livello, sia di avere a disposizione finanziamenti considerevoli. Era la fine degli anni Ottanta. Da allora la mia è stata una carriera in crescendo, in quanto avevamo più mezzi e potevamo assumere più persone. Poi c’è stata una delle poche riforme dell’Università positive: la creazione dei dottorati di ricerca. Con il professor Arduini creammo un dottorato molto selettivo: riuscimmo così a selezionare delle persone di alto valore. Alcuni sono ora scienziati famosi come Vittorio Gallese, Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Anna Berti, ecc. Insomma, creammo un gruppo molto forte che permise di creare a Parma un centro di ricerca molto importante. Adesso siamo circa quaranta persone. Ferrari Che cosa l’ha spinta a fare questo mestiere?
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Rizzolatti Io ero interessato a fare il ricercatore, perché mi interessava la medicina, ma ero attratto anche dalla filosofia. Per curiosità. Poi c’è un’altra cosa molto bella di quegli anni: la mia generazione era convinta che l’ideale fosse fare un mestiere che desse soddisfazioni a colui che lo svolgeva e al tempo stesso che fosse utile alla società. Non so quanti giovani abbiano ancora oggi quest’idea, ma allora questa visione del mondo era molto forte. Ti sentivi bravo e giusto, anche se i nostri stipendi erano miserrimi. A Pisa gua-
Le neuroscienze e la libertà. Intervista a Giacomo Rizzolatti
dagnavo metà di mia moglie che faceva l’insegnante, e gli insegnanti non hanno mai guadagnato molto. Ferrari Come ha vissuto questa alternanza di interessi tra la medicina, la neurologia e la filosofia? Rizzolatti Ai miei tempi, sia a Padova sia a Pisa, c’erano dei professori molto colti e quando studiavamo neurologia leggevamo anche testi di filosofia come ad esempio quelli di Husserl e di Merleau-Ponty. Non era tutta la filosofia a interessarci, ma quella parte che è più vicina alla neurologia, che ci dice come possiamo capire gli altri, quanto vale l’esperienza, e quanto invece vale quello che hai dentro di te, determinato geneticamente. Non eravamo certo filosofi di professione, ma alcuni spunti della filosofia erano per noi particolarmente interessanti. Ferrari Quali erano per lei i confini tra la ricerca scientifica e quella filosofica? Rizzolatti Erano ben determinati. Non mi interessavo alla filosofia analitica, né tornavo a leggere san Tommaso. Era la fenomenologia che mi interessava, perché era la più vicina alla psichiatria o alla neurologia. MerleauPonty era uno psicologo, anche se è spesso considerato un filosofo. Ferrari Un po’ ce l’ha fatto capire, ma le chiedo esplicitamente: qual è la corrente o il filosofo che sente più vicino al suo percorso di studi, di ricerca, di uomo e di scienziato? Rizzolatti I fenomenologi, come scienziato. La fenomenologia è quella scuola che mi ha più interessato. Husserl e Merleau-Ponty hanno avuto questa intuizione geniale: tu capisci gli altri perché sei simile a loro. La comprensione degli altri avviene perché ti metti nei loro panni. E poi c’è l’altro aspetto della loro ricerca: mettendo tra parentesi l’esperienza, loro si concentrano su quello che è il nucleo fondamentale della persona, sul vissuto vero. Ferrari Pensa che la neurologia abbia soppiantato o possa soppiantare la filosofia? Rizzolatti No, non lo credo. Innanzitutto, l’approccio è diverso. Noi ricercatori biologi andiamo molto più “per approssimazione”. Il filosofo ha concetti più raffinati, trova l’errore, ci dice ciò che non gli risulta convincente, fa notare quando c’è un errore logico. Lavorando con Corrado Sinigaglia mi sono reso conto proprio della differenza tra un filosofo professionista e uno che si interessa di filosofia. Per noi la filosofia è uno stimolo, però certe raffinatezze e sottigliezze sono proprie dello specialista.
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Ferrari Quindi, paradossalmente, potrebbe sostenere che la filosofia è meno vaga della scienza? Rizzolatti La filosofia è molto più precisa della scienza. I dati della scienza sono incontrovertibili, ma le interpretazioni che essa ne dà, almeno in biologia, sono spesso meno precise. Il filosofo è molto utile per trovare quali sono i punti deboli nella tua speculazione. I dati sono dati, però poi devi interpretarli. Cosa significano? Cosa portano di nuovo come conoscenza? E, su questo qualcosa di nuovo, il filosofo ti critica e ti mette in discussione, mette in dubbio certe cose, ed è molto utile. Ferrari Come è avvenuta la scoperta dei neuroni specchio? Rizzolatti Ci sono stati due momenti. Il primo momento è ancora legato a Pisa quando studiavo fisiologia della visione. A un certo punto ho incominciato a interessarmi del sistema motorio. Però, avendo un imprinting di fisiologo della visione, ho deciso di studiare il sistema motorio in una maniera non tradizionale: non il sistema motorio come un sistema che produce movimenti, ma come un sistema integrato alla realtà di un individuo. Per esempio, la maggior parte degli studiosi del sistema motorio diceva: «Studio la dinamica del movimento», «Studio la cinematica», «Vedo se i movimenti che faccio con il braccio destro o sinistro sono più rapidi o più lenti». Invece noi ci siamo chiesti come si comporta un animale, come si comporta l’uomo, di fronte agli oggetti. «Come faccio ad afferrare una bottiglia?». Quindi ci siamo posti in una situazione, diciamo così, etologica. Abbiamo scoperto, ad esempio, che alcuni neuroni codificano il fine di un’azione, lo scopo dell’azione e non solo il movimento. L’atto motorio è sempre un muovere per uno scopo, per afferrare, per spingere. Abbiamo visto che certi neuroni si attivavano quando era codificata l’azione. Quel neurone diceva «Afferra» e il braccio afferrava. Ferrari Come fate nell’attività di laboratorio a “leggere il neurone”?
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Rizzolatti Quello che si fa in neurofisiologia è questo: si registra l’attività di un singolo neurone, e dopo si vede quali sono le proprietà che determinano la risposta del neurone. Nel sistema visivo, ad esempio, David Hubel e Torsten Wiesel presero il premio Nobel per avere dimostrato che nella corteccia visiva i neuroni non rispondono alla luce in quanto tale, ma rispondono a delle barre circoscritte nello spazio, oppure a un bordo luce-buio. Quindi, un neurone non risponde se illumino tutto il campo visivo, ma risponde se illumino una parte di esso che è chiamato il campo recettivo del neurone studiato. Per il sistema
Le neuroscienze e la libertà. Intervista a Giacomo Rizzolatti
motorio è la stessa cosa. Eravamo davanti a una scimmia, le facevamo vedere un oggetto, dopo di che lei lo afferrava, poi vedevamo se il neurone si attivava. Ferrari Com’è possibile interpretare l’attivazione di un neurone come l’origine neurobiologica di un atto di volontà? Rizzolatti L’atto di volontà è implicito. Però se io ho in mano un semino e la scimmia lo prende, penso che lo faccia perché ha voglia di mangiare, ha l’intenzione di mangiare, è un atto di volontà. Quindi, il neurone motorio “spara” perché la scimmia vuole prendere il semino. L’atto di volontà precede il movimento. Però, io vedo la conseguenza del suo atto di volontà che è quella di afferrare. Uno potrebbe studiare l’intenzione, che è rappresentata verosimilmente in un’area della corteccia cerebrale gerarchicamente più alta come ad esempio quella del giro del cingolo. Qui entriamo però in un campo che non è il mio: non ho studiato la volontà e le sue basi neurali. Ferrari La volontà è studiabile da un punto di vista neurologico? Rizzolatti Sì, certo. Ferrari È l’eterno problema di Cartesio: l’interno e l’esterno, lo spirito e il corpo… Rizzolatti Io credo che il grande merito di Cartesio, almeno per noi fisiologi, è stato quello di scindere chiaramente il corpo e l’anima, dicendo che il corpo è studiabile come se fosse un oggetto. Adesso molti filosofi criticano Cartesio, dicendo: «Ha scisso il corpo…». Ma, negli anni in cui lo ha fatto, è stata una mossa filosofica fondamentale che con l’eliminazione dei concetti di anima vegetativa, anima sensitiva ed anima razionale ha fatto nascere la fisiologia. Nel momento in cui dici che il corpo funziona come se fosse un automa, e Cartesio diceva che gli animali non sono altro che automi, puoi studiare e applicare i metodi scientifici a qualcosa che prima era diverso dal mondo meccanico e quindi non studiabile col metodo sperimentale. L’apporto di Cartesio è stato fondamentale per la scienza. Per la filosofia ha creato un problema, perché ha lasciato aperta la questione del dualismo anima-corpo. Però la mossa di Cartesio è stata geniale. Ferrari Diceva che c’erano stati due momenti nella scoperta dei neuroni specchio… Rizzolatti È così. Il primo momento è stata la scoperta che esistono neuroni che rappresentano atti motori, cioè movimenti con uno scopo. Il secondo è stato il trovare qualche cosa di strano: è lo stesso neurone ad attivarsi quando
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la scimmia afferra un oggetto, o quando osserva un’altra persona afferrare un oggetto. Una follia. Dubbi, preoccupazioni. Sarà un artefatto? Poi abbiamo visto e rivisto questo effetto (“effetto mirror”) e fatto molti controlli. Abbiamo avuto anche fortuna; ma qui ritorno a dire: è importante per un ricercatore avere sicurezza in se stesso. Se noi avessimo detto: «Ma, chissà, forse…» sarebbe tutto finito. Questa è la lezione che ho appreso quando ero a Pisa. Un grande premio Nobel, John Eccels, un giorno mi ha detto: «Guarda, se tu hai la certezza morale che i tuoi dati siano veri, tu devi pubblicarli e sostenere la tua interpretazione. Non incominciare a scrivere “se”, “ma”, “però”, ecc. Tu devi spiegare le tue idee, poi gli altri ti criticheranno. Così la scienza va avanti». E così, dopo molte esitazioni, abbiamo pubblicato i nostri dati sui neuroni specchio. C’è stato un vasto riconoscimento della loro importanza da parte di molti scienziati (basti pensare alla mia elezione pochi anni dopo all’Accademia dei Lincei e a varie altre Accademie tra cui quella francese e la National Academy of Science) ed entusiasmo da parte della stampa popolare. Il “New York Times” ha pubblicato un lungo articolo in cui la giornalista scriveva: «Scoperti i neuroni che permettono di capire gli altri». Il che, detto così, è ovviamente un’esagerazione. Questo ha anche suscitato un po’ di ostilità tra gli psicologi, non tra i filosofi. I “continentali”, i fenomenologi ne sono stati entusiasti. Ferrari Cosa pensa circa la natura umana, l’io e quella parte dell’io che la tradizione chiama “ragione”? Rizzolatti Noi siamo degli esseri che hanno un aspetto razionale, ma hanno anche un inconscio. Nelle mie lezioni di fisiologia spiego ai miei studenti che l’uomo ha degli impulsi che sono legati alle funzioni che abbiamo in comune con gli animali: la ricerca del cibo e la curiosità (l’esplorazione dell’habitat) per la sopravvivenza e il sesso, perché la specie si propaghi. A tutto questo, però, si sovrappone il fatto che viviamo in società e, quindi abbiamo una serie di restrizioni che sono necessarie per il mantenimento della famiglia, e della società. I nostri istinti, questo inconscio biologico, vengono in qualche maniera addomesticati per convivere con gli altri esseri umani. La razionalità è qualcosa di dominante in alcuni campi, mentre in altri è molto difficile da definire. Sicuramente nel formulare un teorema matematico, la razionalità domina. Se uno deve invece fare una scelta su chi sposare, spesso dominano fattori irrazionali.
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Ferrari Che idea si è fatto delle domande e delle aspirazioni spirituali e culturali tipiche dell’esistenza umana? Dal punto di vista della neurobiologia è possibile accedere alla sorgente profonda dalla quale poeti e filosofi attingono le loro domande, le loro aspirazioni, le loro problematiche, anche metafisiche?
Le neuroscienze e la libertà. Intervista a Giacomo Rizzolatti
Rizzolatti La mia ricerca non è mai arrivata a porsi domande di questo tipo. Anche se noi ci siamo spinti molto avanti rispetto ad altri fisiologi o neuroscienziati verso ipotesi su come capiamo gli altri, però non ci siamo mai posti problemi circa il che cos’è la vita, o il perché si vive. E io, anzi, sono sempre stato molto preciso nel differenziare il lavoro scientifico in cui sei e devi essere profondamente deterministico da quelle che sono le convinzioni religiose che sono del tutto personali e possono essere di qualsiasi tipo. I due campi sono assolutamente separati. La scienza né può dimostrare l’esistenza di Dio, né può dimostrare la non esistenza di Dio. Quando facciamo gli scienziati, è chiaro che siamo deterministi. Ferrari Secondo lei, le nostre aspirazioni, le nostre problematiche umane, diciamo culturali e affettive, sono riconducibili ai processi neurobiologici o eccedono, in parte o del tutto, le nostre strutture biologiche? Rizzolatti Entrambe le cose sono vere. Il meccanismo che noi abbiamo scoperto è un meccanismo che implica che l’uomo è non solo un essere sociale ma anche che desidera, come diceva Adam Smith, il benessere degli altri, «anche se non gliene viene niente». La società, con i suoi valori culturali, influisce su queste basi biologiche. È uno dei motivi per cui in tutte le religioni, da quelle orientali a quelle occidentali, c’è l’assioma di amare il prossimo e di non fare all’altro quello che non vorresti fosse fatto a te. Non è solo un precetto divino, come può pensare un credente, ma è un precetto necessario per la sopravvivenza. Forse quello che molto spesso non capiscono gli “anticlericali a priori”, è che l’insegnamento della Chiesa può essere rifiutato come rivelazione, ma che questi valori devono essere accettati perché sono necessari per la sopravvivenza della società. Ferrari Oltre ai valori culturali e sociali, esiste una struttura dell’uomo attestabile scientificamente, prima che religiosamente o eticamente? Rizzolatti Io non vedo come si possa fare questa scissione. L’uomo nasce con certi meccanismi biologici. Uno di questi è il meccanismo empatico. Se la mamma vuole bene al suo bambino il bambino cresce felice. Ecco, io non credo che si debba separare, anzi non si può separare il campo biologico da quello culturale. I valori culturali e anche l’insegnamento religioso che affermano che ci si deve volere bene affermano qualcosa di fondamentale. Se una società non crede in questi valori, vincerà l’egoismo e la società verosimilmente non sopravviverà. Ferrari A suo giudizio, l’uomo è un essere libero? Se sì, in che senso?
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Rizzolatti Uno scienziato come affronta il problema della libertà dell’uomo? Necessariamente come non libero, perché per uno scienziato l’uomo è un essere fisico. A questo punto il problema è chiuso e noi dovremmo accettare il determinismo. Alcuni filosofi però hanno detto che la libertà, come noi tutti la sentiamo, consiste non in un concetto astratto, ma nel fare quello che viene da te e non quello che ti viene imposto da altri. Quindi, eliminiamo, mettiamo tra parentesi il problema del libero arbitrio. Noi dobbiamo studiare l’uomo come se fosse un ente fisico. Però il concetto di libero e non libero è importante perché devi comportarti nella società come se tu fossi libero. E qui la distinzione è molto chiara perché un conto è che io vada a votare perché voglio votare, un conto che io vada a votare perché sennò mi mettono in prigione. Poi ci sono tutta una serie di limitazioni neurologiche. Le limitazioni neurologiche sono fortissime: attualmente sappiamo che ci sono certe categorie di assassini che agiscono come tali per un ipo-sviluppo del lobo frontale. C’è un caso clinico molto interessante. Un signore, guidando, trova un gruppo di ciclisti che gli bloccano la strada, suona, quelli non si scostano, lui li investe e li ammazza. Viene arrestato e si difende dicendo: «Ho ragione io, loro mi hanno insultato perché non mi permettevano di passare». L’uomo, naturalmente, è stato condannato, però analizzando il suo cervello si è scoperto che aveva un mancato sviluppo di una parte del lobo frontale: il centro che frena normalmente i nostri istinti e che si sviluppa progressivamente con la crescita dell’individuo. A questo punto, la sua libertà qual era? Lui in linea di massima non era una persona cattiva, però appena c’era qualcosa che lo turbava e lo provocava, aveva reazioni violente. Sono reazioni che ciascuno di noi istintivamente avrebbe, ma che non mettiamo in pratica, perché abbiamo dei freni inibitori. Questi dati aprono un grande problema, etico e giuridico. Cosa si deve fare con persone che hanno questi deficit neurologici? Per quanto riguarda un altro tipo di assassini, i serial killers, sembra che non si rendano conto, per un iposviluppo di un’altra struttura, l’amigdala, di quello che si può o non si può fare. I bambini apprendono che cosa si può fare o che cosa non si può fare con un sistema di premi e punizioni nei primi anni di vita. Negli assassini seriali questo meccanismo funziona male. In certi casi, dunque, la libertà dell’individuo è fortemente condizionata dalla struttura celebrale. Quanto ho appena detto ha messo molto in crisi il sistema giuridico. Perché che cosa fai con uno che ha deficit neurologici e che uccide? Il concetto illuministico della riabilitazione del colpevole viene messa in crisi. 68
Ferrari Non rischieremmo così di creare una specie di sistema totalitario in cui io, avendo scoperto che tu sei malato, mi permetto di toglierti la tua responsabilità?
Le neuroscienze e la libertà. Intervista a Giacomo Rizzolatti
Rizzolatti Per questo dicevo che noi dobbiamo agire «come se» fossimo liberi. E poi, anche se ammettessimo che non siamo liberi, tuttavia, alcuni tipi di condizionamenti che vengono dalla famiglia, dalla società ci dovrebbero portare ad agire bene. Noi abbiamo dei meccanismi che ci portano ad agire bene. Se la famiglia e la società ti dicono che bisogna volere il bene degli altri e poi tu non lo fai, in fondo sei responsabile, perché i tuoi condizionamenti erano in quella direzione. Il problema delle nostre scelte è, quindi, anche educativo. Ferrari Mi permetta una provocazione su questo: non è che proprio il determinismo scientifico ha avuto delle responsabilità circa il fatto che non siamo più in grado di accettare una tradizione etica e religiosa, per il solo fatto che andrebbe oltre le leggi della scienza? Rizzolatti No, noi dobbiamo difendere la nostra società proprio per la nostra natura biologica. Non so come dire, ma biologicamente siamo fatti per vivere in pace con gli altri e avere figli. Come si fa a dire: «No questo non è un valore»? Se poi questi valori, la religione o certe filosofie lo difendono, è un bene che devi accettare. Se invece pensi che vali solo tu, non vai contro la religione, ma vai contro la biologia, perché un essere da solo non sopravvive. C’è un errore biologico. Se una persona anziana viene inserita in un contesto sociale, se ha degli interessi, non decade intellettualmente. Se invece un pensionato non fa niente e sta lì a guardare i lavori stradali, dopo un po’ di tempo decade intellettualmente e diventa anche un costo per la società. Una società deve insegnare e diffondere proprio quei valori che permettano alla società stessa di sopravvivere. La scuola è molto importante da questo punto di vista. Ferrari Consiglierebbe ai nostri giovani studenti di mettersi sulla strada della ricerca? Se sì, perché? Rizzolatti Il mestiere del ricercatore e dello scienziato è un mestiere bellissimo per i motivi che dicevo prima. Ti dà soddisfazioni, perché trovi cose nuove e inoltre io sono convinto, come quando ero ragazzo, che la scienza è molto utile all’umanità e quindi estremamente bella. Ferrari Che cos’è, per lei, la libertà? Rizzolatti È poter fare quello che pensi sia giusto fare. 69
Libertà, soggettività e neuroscienze. Intervista a Michele Di Francesco di Marco Ferrari
Marco Ferrari Ci può raccontare brevemente la sua storia? Come è diventato un filosofo, e che cosa l’ha spinta a fare questo mestiere? Michele Di Francesco L’interesse per la filosofia è nato dall’incontro con un libro in particolare: Introduzione alla filosofia matematica di Bertrand Russell; quando da liceale ho trovato questo testo in un’edicola ne ho desunto l’idea di una filosofia rigorosa, precisa e profonda, dalla quale non mi sono mai discostato. Poi un ruolo fondamentale per dar corpo alla passione giovanile sono stati gli incontri. Così mentre frequentavo l’Università Statale di Milano ho potuto studiare con Andrea Bonomi, un vero maestro in termini di rigore e serietà, ma anche ironico e privo dei vizi dei baroni italiani. Con lui mi sono avvicinato alla filosofia del linguaggio e alla filosofia analitica conteamporanea. Non c’era Internet al tempo e per studiare la filosofia di lingua inglese mi recavo durante l’estate a Oxford alla Bodleian Library e mi caricavo di fotocopie, compravo libri. Ho avuto la fortuna di vincere presto un concorso per professore nel liceo, per cui per parecchi anni sono stato in grado di mantenermi e di pagarmi l’estate a studiare in quello che per me era il paradiso del filosofo. Un altro incontro per me fondamentale si è verificato al Dipartimento di Filosofia di Ginevra, diretto da Kevin Mulligan, dove, grazie a Mulligan e al suo gruppo di giovani filosofi (non pochi italiani, oggi diremmo “cervelli in fuga”), ho approfondito la conoscenza della filosofia analitica. Nel frattempo ho continuato a lavorare su temi di filosofia del linguaggio e su Russell, ma ho anche ampliato i miei interessi; proprio a Ginevra ho cominciato a interessarmi di filosofia della mente. Insomma, ho vissuto da “precario” per parecchi anni. Allora non si parlava di cervelli in fuga, ma la vita è sempre stata dura, anche se ora è peggio per la gravità della crisi economica. Per me sono comunque stati anni molto utili, che mi hanno insegnato ad aprire la mente e a tenere duro. Rientrato in Italia sono diventato professore associato a Palermo, e in breve mi sono ri-
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trovato a Vercelli, all’Università del Piemonte Orientale, dove ho collaborato con Diego Marconi, fondatore del primo dottorato italiano in filosofia del linguaggio, che riuniva molte sedi del Nord e ha formato varie generazioni di professori di filosofia del linguaggio e della mente. In seguito ho lavorato al San Raffaele, cominciando come membro del comitato ordinatore che ha progettato la Facoltà di Filosofia voluta da don Verzè e fondata da Massimo Cacciari, insieme a Edoardo Boncinelli, Andrea Moro e Roberto Mordacci. Lì sono rimasto per molti intensi anni, finché mi sono fatto tentare dal progetto di creare un centro internazionale di filosofia e scienze della mente allo iuss di Pavia (insieme ad Andrea Moro e Stefano Cappa), dove oggi studio i rapporti tra filosofia e scienze e neuroscienze cognitive. Ferrari Come sono nate e quali prospettive hanno oggi le neuroscienze? Può darci un’idea dello stato attuale delle ricerche della filosofia della mente e degli ambiti di ricerca in essere?
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Di Francesco Le neuroscienze rappresentano una grande rivoluzione nello studio dell’essere umano. Nella seconda metà del Novecento la scienza cognitiva ha cambiato l’approccio allo studio della mente, perché ha reso possibile una metodologia che affronta tale studio a livello sia empirico sia teorico, su temi come il ragionamento, la percezione, il pensiero, la memoria. Le neuroscienze sono uno sviluppo di questa linea grazie soprattutto agli sviluppi delle neurotecnologie, dalle tecniche di neuroimmagine, all’intreccio fra neuroscienze e computer science. Oggi, per esempio, lo Human Brain Project si propone di realizzare al computer una simulazione dell’attività cerebrale; al suo interno ingegneri e neuroscienziati lavorano fianco a fianco. Sicuramente si tratta di una rivoluzione che avrà sviluppi interessanti e soprattutto imprevedibili. La filosofia della mente non è certo rimasta immune da questa rivoluzione. Oggi è molto influenzata dallo sviluppo delle neuroscienze, nel senso che esse dettano l’agenda, pongono problemi nuovi di cui la filosofia si deve far carico per interpretare le nuove scoperte, anche perché non è detto che chi fa la scoperta sia anche la persona che meglio ne interpreta filosoficamente il significato: si tratta di due professionalità differenti. Esistono delle questioni fondamentali e molto tenaci in filosofia. Nella filosofia della mente, ad esempio, un tema molto rilevante è il rapporto tra i livelli di spiegazione. Il livello di spiegazione psicologico verrà sostituito in seguito allo sviluppo delle neuroscienze, oppure un approccio psicologico alla mente resterà sempre valido? Che rapporto c’è fra il livello personale di descrizione della mente, cioè quello che noi sperimentiamo in quanto soggetti, persone inserite in un ambito di relazioni affettive, motivazionali, sociali,
Libertà, soggettività e neuroscienze. Intervista a Michele Di Francesco
e quello a cui mirano le neuroscienze? Questo è per me il tema più interessante, accanto al tema correlato dell’io, del soggetto, della decisione, della libertà. Ferrari Che cos’è l’io? Che idea si è fatto della libertà umana, cioè del luogo sorgivo delle domande e delle aspirazioni spirituali e culturali della vita dell’uomo? Tali domande e aspirazioni sono interamente riconducibili ai processi neurobiologici o eccedono le nostre strutture biologiche? Di Francesco Le scienze e neuroscienze cognitive hanno ridimensionato drasticamente il ruolo della coscienza. Sappiamo che esistono un inconscio cognitivo e un inconscio neurobiologico, di cui le neuroscienze si sono occupate descrivendo il comportamento umano come il prodotto di processi che Daniel Dennett, il filosofo, ha chiamato «subpersonali», ovvero inconsci, automatici, modulari. Tutto ciò ci allontana dalla visione tradizionale di noi stessi, poiché viene messa in discussione l’affidabilità dei resoconti in prima persona. In alcuni casi questi fenomeni vengono descritti come se l’io fosse il prodotto di meccanismi di autorappresentazione che generano l’illusione di un agente, mentre tutto il lavoro avviene a livello cerebrale. Personalmente sono propenso a ridimensionare il significato di questa tesi, che pure coglie senz’altro un aspetto della realtà: c’è un senso in cui la coscienza non è più studiata come il punto di partenza della vita mentale, in quanto essa stessa sarebbe l’effetto di qualcos’altro. Anche la psicoanalisi aveva provato a descrivere l’io come un prodotto di fenomeni inconsci, ma le neuroscienze offrono ulteriori prove empiriche a favore di una tesi che, peraltro, è sempre fallibile. Per quanto riguarda il tema della libertà, se prestiamo fede alla teoria che riduce la mente a una serie di meccanismi privi di un coordinamento di alto livello, in quanto tutto scaturisce dal basso, è difficile riconoscere uno spazio alla libertà personale. Non si tratta del tema metafisico della libertà, che è un tema più generale: il dubbio metafisico della libertà, non è un problema delle neuroscienze e della filosofia della mente: è una questione di ontologia e (per chi la pratica) teologia, per la quale personalmente non vedo soluzione. Sono invece interessato all’opportunità o meno di continuare a pensare che la nostra coscienza e la nostra autocoscienza, il nostro io, contribuiscano a produrre i nostri comportamenti e le nostre azioni. Credo, in questo quadro, che la nozione di io sia ancora utile per spiegare come noi scegliamo, sulla base di una serie di ragioni e aspettative che ci si presentano. A questo riguardo la domanda da porsi è: l’immagine scientifica del funzionamento della mente rende il soggetto una pura rappresentazione priva di potere causale, oppure
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la natura dell’io ha un ruolo nella spiegazione del comportamento? A mio parere l’io è molto più solido nella sua durata e nelle sue strutture di quanto non venga descritto da un (bravissimo) filosofo come Dennett, per il quale l’io è una specie di coalizione temporanea di stati mentali. In realtà, questa coalizione temporanea è così poco temporanea che dura per tutta la vita di una persona. La ricerca psicologica del resto mostra che i tratti caratteriali della persona fanno parte di un sistema che produce un’entità perdurante, sia pure in continua evoluzione. Ferrari Ma in questo senso i grandi concetti come verità e giustizia sono rilevabili empiricamente nella vita della mente? Di Francesco Le neuroscienze sociali possono con grande successo occuparsi del senso di giustizia o ingiustizia che i soggetti hanno e guardare addirittura a quali sono le basi cerebrali di certi sentimenti, per esempio nell’ambito della neuroeconomia e della neuroetica. Ma questi concetti vengono dall’esterno e hanno una componente sociale e normativa, che rende difficile definirli in termini biologici; essi parlano di persone e non di cervelli. Però è importante indagarne le basi biologiche, in un tentativo di avvicinamento fra scienze umane e naturali, per non dimenticarci che le persone hanno un corpo e vivono in un mondo che dobbiamo capire a prescindere dai tentativi di classificazione. In altri termini: i concetti di libertà, giustizia, ecc. sono indagabili scientificamente dalle neuroscienze, ed è bene che lo siano, ma non sono riducibili alle neuroscienze. Ferrari La scienza da un lato sembra attrarre soprattutto i giovani per le sue potenti capacità esplicative della realtà, dall’altro lato sembra portare a una riduzione dell’uomo, cioè alla sua scomposizione, alla sua riduzione a molecole e impulsi neurologici. Che cosa pensa di questa opposizione?
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Di Francesco Credo che questo ruolo di attrazione della scienza per il suo potere esplicativo della realtà sia molto positivo. La scienza è un’impresa grande e complessa, che ha una dimensione gnoseologica, una cognitiva, una sociale, una economica. è anche un grande fenomeno di libertà, perché permette di realizzare una delle grandi aspirazioni dell’essere umano, quella della conoscenza. Però sarebbe un errore pensare che esiste una conoscenza solo dentro alla scienza. Per esempio, perché negare che la letteratura sia anch’essa una finestra per comprendere l’essere umano? Da un certo punto di vista, quando leggiamo una grande opera letteraria, finiamo per conoscere la mente umana con molta profondità. Ritengo che la scienza sia, dentro una
Libertà, soggettività e neuroscienze. Intervista a Michele Di Francesco
visione pluralistica del sapere, uno dei veicoli principali di conoscenza e, in quanto tale, di libertà (la scienza insegna a mettere in discussione il dogma, a rispettare le opinioni, a chiedere prove empiriche per quanto si afferma), uno strumento straordinario di apertura al reale. Occorre soltanto comprenderne natura e limiti. Per esempio molta parte della metodologia scientifica necessariamente è di tipo meccanicistico. Andare alla ricerca dei meccanismi è senz’altro molto importante, ma a volte è difficile reperire la spiegazione meccanicistica di un fenomeno. E a questo punto occorre resistere alla tentazione di affermare che, se di un fenomeno non si trova una spiegazione meccanicistica, allora questo fenomeno è un’illusione. L’inferenza giusta è invece solo che (allo stato) esiste qualcosa a cui la spiegazione meccanicistica non arriva. La scienza attuale non è una piramide, ma una specie di mosaico, in cui ci sono dei tasselli ben noti e altre aree soltanto appena intuite. Ed è anche un’impresa plurale a livello di metodi e concetti; per esempio il vocabolario della geologia non è quello della meccanica quantistica. Esiste una pluralità di linguaggi, in quanto noi non possediamo una comprensione unitaria. Ferrari A suo giudizio l’uomo è un essere libero? Se sì, in che senso? Ritiene che le ricerche più avanzate nelle neuroscienze siano in grado di gettare luce sul tema della libertà umana? Se sì, in quale misura? Di Francesco Ne ho già un po’ parlato a proposito di io e libertà. Ora le rispondo citando lo scienziato Edoardo Boncinelli che si definisce riduzionista: l’uomo è abbastanza libero, sulla base di quello che si può sapere riflettendo sulle scienze, a prescindere dalla metafisica. L’essere umano è più libero di un animale, perché sa meglio valutare tra decisioni alternative e, se è determinato dalle sue esperienze, può esserlo da esperienze che sono avvenute anni e anni prima (non siamo macchine da stimolo-risposta). Mentre il concetto di libertà assoluta dalla serie causale degli eventi è un problema metafisico su cui si dovrebbe discutere a lungo, ma su cui sono scettico. Forse la definizione più utile di libertà è la prerogativa delle persone di distinguere tra il bene e il male e quindi di essere autori delle proprie scelte. Questa capacità c’è (o non c’è) indipendentemente dalla verità o meno del determinismo e dalla sua compatibilità con la libertà del volere. Per quanto riguarda invece l’incidenza delle neuroscienze nella comprensione del nostro mondo umano, ritengo che esse possono aiutare a capire i condizionamenti che influiscono sulla libertà di scelta, ma escludo che siano l’unico strumento. Credo che ci sia spazio per dire che le persone (e non i loro cervelli) prendono le decisioni, e normalmente noi siamo costruiti, educati, formati dalla società, dalla famiglia, dall’esperienza a saper prendere delle
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decisioni più o meno buone. A questo livello di descrizione personale (che descrive una sorta di “seconda natura”, di apertura allo “spazio delle ragioni”) penso che il concetto di libertà sia inevitabile, perché non riesco a credere che noi possiamo davvero vivere considerandoci soltanto come automi deterministici. Ferrari Le scoperte delle neuroscienze valgono anche per il mondo animale, oltre che per l’uomo? Se sì, a che livello si può tracciare una demarcazione? Di Francesco Occorre partire da una riflessione sulla storia biologica: il cervello è il prodotto di un’evoluzione biologica condivisa per milioni di anni dall’uomo con gli animali non umani. Noi d’altra parte siamo animali con caratteristiche particolari, come per esempio il linguaggio discorsivo di cui non dispongono le altre creature terrestri. Questa prerogativa non ci esime dal concedere però attenzione (alcuni dicono “diritti”) a quegli animali che sono simili a noi per il funzionamento del loro cervello. Vedere come funziona il loro cervello ci può aiutare a capire quanto hanno in comune con quegli aspetti della nostra natura che consideriamo degni di tutela e rispetto. Per esempio, se scoprissimo (come credo abbiamo già scoperto) che le scimmie antropomorfe, gli scimpanzé, gli orango, i gorilla, i bonobo sono molto simili, allora dovremmo praticare nei loro confronti un trattamento più adeguato e rispettoso. Una differenza fondamentale può essere costituita dal concetto di autocoscienza. Il concetto di coscienza è importante: per esempio, noi consideriamo il dolore un male ed è eticamente sbagliato infliggere senza ragione dolore a creature senzienti. Ma ancora di più dobbiamo considerare l’elemento di autocoscienza, di consapevolezza di se stessi. Ora, dato che sembra provato che alcuni animali abbiano delle forme di autocoscienza sia pure primitive, anche in questo caso dovremmo prendere in considerazione l’ipotesi di attribuire loro un valore morale maggiore. Ferrari Sul lato opposto: che cosa è un’intelligenza artificiale e, in particolare, esistono dei pericoli connessi alle intelligenze artificiali per quanto riguarda la salvaguardia della libertà e della dignità dell’uomo?
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Di Francesco Intanto cominciamo dall’ovvietà che l’intelligenza umana è un prodotto sia del cervello che della società, dei sistemi simbolici, del linguaggio, in quanto la nostra mente non è soltanto una entità implementata da una macchina biologica, il cervello, ma è una realtà che si crea anche attraverso complessi meccanismi sociali. A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso si è parlato a lungo di Intelligenza Artificiale “forte”, ovvero
Libertà, soggettività e neuroscienze. Intervista a Michele Di Francesco
della possibilità di creare una mente artificiale come la nostra. Una cosa del genere tuttavia ancora non si è vista, nonostante i grandi successi dell’informatica. D’altra parte, di principio, non c’è motivo di pensare che dovranno esistere soltanto intelligenze biologiche. Inoltre, la sua domanda è interessante, ma bisogna fare attenzione al significato del termine “intelligenza”. Se con intelligenza intendiamo il problem solving, la risposta è fin troppo facile. Certo che c’è un problem solving artificiale, lo vediamo tutti i giorni. Se invece intendiamo costruire delle menti artificiali la cosa è molto più complicata. Il problema non è la materia di cui siamo fatti, ma cosa siamo in grado di fare, quali sono i principi di organizzazione che producono in termini causali determinati comportamenti che noi chiamiamo cognizione, intelligenza, mente, ma anche amore, rispetto, emozione. In linea di principio, non vedo una difficoltà, però in linea di principio sono possibili tante cose che poi non si realizzano mai. Ferrari Rispetto alla specificità dell’uomo, rispetto alla possibilità di avanzamento nella costruzione di queste “intelligenze artificiali”, diciamo da film del futuro, in cui la macchina prende il dominio sulla vita umana, pensa che sia mitologia oppure… Di Francesco Di solito le profezie cupe e infarcite di immagini apocalittiche hanno molta attrattiva! Comunque io ho lavorato sul concetto di “mente estesa”, che si basa sull’idea di alcuni scienziati cognitivi secondo la quale noi essere umani siamo già dei cyborg, cioè un misto di biologia e cultura, di biologia e tecnologia. Oggi lo sviluppo degli apparati informatici modifica il nostro modo di lavorare, di organizzarci, di pensare, per cui si verifica quasi una simbiosi tra noi e l’ambiente tecnologico: forse questa forma di intelligenza artificiale, nel bene e nel male, si realizzerà. Quanto invece agli scenari apocalittici di costruzione di un’intelligenza artificiale che voglia assumere il potere, al momento la vedo improbabile, perché occorrerebbero da parte di questa intelligenza forti motivazioni, degli interessi specifici e anche delle ambizioni (cose sulla cui simulabilità elettronica nutro dubbi). Simulare un cervello umano in questi termini significa sapere come funziona, come si originano una volontà e un desiderio. Invece non possediamo una teoria della spontaneità umana, quindi non abbiamo strumenti concettuali per costruirla. Certo possiamo immaginare di costruire dei modelli che si auto-programmino. Che questo inneschi un meccanismo che realizzi l’apocalisse è un’ipotesi che non si può negare a priori, ma è anche il tipico discorso filosofico che considera la filosofia come un gioco di società più che una scienza, mentre credo che la filosofia sia qualcosa di rigoroso come la fisica. Quindi bisogna disporre di argomentazioni precise (a cominciare dalla definizione di “intelligenza”, “artificiale”, “volontà di potere”, ecc.).
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Ferrari Quali apporti le neuroscienze possono offrire all’etica, alla politica e soprattutto all’ambito educativo formativo e pedagogico? Di Francesco Da quando, venti anni fa, le neuroscienze hanno preso una direzione in ambito sociale, offrono un notevole contributo nei settori che cita; esistono poi applicazioni nell’ambito giuridico, il neuro-diritto, di cui Andrea Lavazza per esempio tratta in vari lavori. L’interesse di questi temi è testimoniato dalla recente nascita della Società italiana di neuroetica che si occupa delle implicazioni etiche delle scoperte neuroscientifiche. Ferrari Ci può fare un esempio di queste applicazioni? Di Francesco Per esempio, le neuroscienze permettono di rivedere la nozione di “capace di intendere e di volere” sulla base di risultati dello sviluppo della scienza. La cosa può essere utile in campo giuridico, perché se si scoprono dei comportamenti che possono essere messi in correlazione con delle peculiarità del funzionamento del cervello di certe persone, questa può essere una parziale scusante, un’attenuazione della capacità di intendere e di volere. Ci sono state anche delle sentenze su questi temi, ma, cambiando radicalmente di settore, anche in campo pedagogico sappiamo che la presentazione cognitiva dei problemi non è indifferente alla soluzione che viene attuata. Per esempio, se noi decidiamo che vogliamo aiutare i bambini delle scuole elementari che vanno in mensa ad alimentarsi in maniera adeguata, possiamo usare delle strategie di presentazione del cibo che favoriscano la scelta dell’insalata, piuttosto che delle patatine fritte. In ambito strettamente pedagogico molto importante è il rapporto tra le nuove tecnologie, l’istruzione e i processi cognitivi. Se vogliamo capire se sarebbe utile o meno dotare ogni studente di un tablet, occorre capire prima in quale processo educativo viene inserito l’uso del tablet e poi come funziona la mente di chi lo usa, per poter valutare se questo produce effetti benefici. Qui la parola “cognitivo” sembra ridurre tutto all’intelligenza, ma si parla anche di maturazione di tipo emotivo. Una persona non matura solo per l’intelligenza, ma anche e soprattutto perché impara ad avere un rapporto significativo con il suo prossimo.
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Ferrari Qual è la corrente filosofica o il filosofo che sente più consono e fecondo rispetto al suo percorso di studio, di uomo e di filosofo? E, connessa a questa, quali sono gli ostacoli e gli aspetti positivi che si aprono di fronte a un filosofo della mente come lei e alla cultura in generale?
Libertà, soggettività e neuroscienze. Intervista a Michele Di Francesco
Di Francesco Mi sono più o meno formato sulla filosofia analitica, che nasce dai lavori di logica e di filosofia del linguaggio e che ha le sue radici nel pensiero di Frege, Russell, Wittgenstein, del circolo di Vienna, ma che negli ultimi anni si è molto aperta all’influsso di altre tradizioni, per esempio alla fenomenologia. Quanto agli ostacoli scorgo una certa sottovalutazione dell’importanza della filosofia. La filosofia non è prima di tutto un’attività accademica. Si tratta piuttosto del modo in cui un’epoca affronta delle domande che hanno bisogno di una soluzione, per le quali non è pronta (purtroppo) una risposta scientifica, ma che devono comunque essere affrontate. Faccio un esempio: prima che ci fossero i reparti di rianimazione o di terapia intensiva il problema di definire la morte era molto più semplice: una persona era morta se il cuore aveva cessato di battere da un certo numero di minuti. Adesso che noi riusciamo a tenere in vita le persone con le macchine, il concetto del confine tra vita e morte ha dovuto essere ripensato. Dunque anche uno scienziato, quando si occupa di cosa sono vita e morte di un individuo, necessariamente si occupa di temi filosofici ed etici. Occorre dunque ricordarci che molte delle nostre decisioni hanno alle spalle scelte che sono anche filosofiche. Perciò la filosofia non va sottovalutata. Essa può dare un limitato contributo, perché oggi è la scienza che sta cambiando il mondo, ma trovare spazio per la filosofia anche in questi dibattiti è molto importante. L’ideale sarebbe che in ogni team di ricerca ci fosse non dico necessariamente un filosofo, ma almeno qualcuno che abbia solide competenze in filosofia. Ferrari La Sua esperienza personale della libertà? Di Francesco La mia personale esperienza della libertà è che costa fatica; che non è mera spontaneità; riguarda la difficoltà di fare delle scelte e la consapevolezza che, a un certo punto della vita, certe scelte debbano essere fatte. (E anche, a volte, la soddisfazione di aver fatto la cosa giusta). Essere consapevoli di questo, cercare di ascoltare se stessi anche a fronte dei propri limiti, è quello che più si avvicina, personalmente, all’esperienza della libertà. Infine, passando dalla liberta personale a quella politica, ritengo che sia importante difendere il valore della filosofia per la società, perché è garanzia di approccio critico, di democrazia, di libertà di discussione: un elemento di cui c’è un gran bisogno. Una considerazione che estendo comunque al di fuori dalla filosofia: in effetti nessuna attività umana è da considerarsi inutile quando insegna a pensare con la propria testa. 79
Parte terza Sul concorso
Numeri e prospettive di una proposta per innovare la didattica della filosofia di Marco Ferrari
La seconda edizione delle Romanae Disputationes (rd) si è confermata come una proposta innovativa per la didattica della filosofia nel panorama della scuola italiana. Essa è stata capace di coinvolgere ed entusiasmare centinaia di studenti e docenti del liceo, insieme ai professori universitari intervenuti come valutatori e relatori. L’iniziativa del 2015, come quella dell’edizione precedente, si è svolta in tre tappe successive. In primo luogo abbiamo proposto due lezioni introduttive tenute nell’aula magna del liceo classico “Sant’Orsola” di Roma da Emidio Spinelli, docente di Storia della filosofia antica presso la Sapienza, e Giovanni Maddalena, professore aggregato di Filosofia teoretica presso l’Università del Molise. L’evento è stato seguito in diretta streaming da 2200 studenti e insegnanti di 60 città italiane. I due docenti universitari hanno introdotto il tema delle rd 2015: “Libertà va cercando, ch’è s’ì cara”. L’esperienza della libertà1. Essi lo hanno calato nel panorama della storia della filosofia antica e della cultura contemporanea in generale e hanno stimolato allievi e docenti ad aprire l’orizzonte della propria riflessione al tema della libertà, facendo tesoro della tradizione filosofica da Platone fino a Hannah Arendt. La seconda tappa è consistita nel lavoro di ricerca individuale e collettivo dei team che hanno deciso di partecipare al Concorso, accompagnati dai loro docenti referenti. I 30 docenti del comitato didattico hanno proceduto poi a valutare gli elaborati scritti e multimediali secondo un sistema a blind referee. Essi cioè hanno valutato i testi senza conoscere alcuna informazione circa i loro autori. Le valutazioni dei 13 docenti universitari del comitato scientifico, sempre con un sistema a blind referee, hanno determinato la graduatoria finale, confermata dal presidente della giuria del Concorso, professor Costantino Esposito, e dal vicepresidente della stessa, professor Mario De Caro. Per quanto riguarda la categoria degli elaborati multimediali la va1.
Queste e le altre lezioni accademiche sono visibili sul sito del concorso http://romanaedisputationes.com/.
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lutazione è stata compartecipata anche da una speciale giuria tecnica, guidata da Alberto Montorfano, pittore ed esperto di arti figurative di ToKalOnDidattica per l’eccellenza, e da Glenda Galliano, cofondatrice di Polymorphi. co e Transmedia designer. La terza e ultima fase si è svolta tra il 12 e il 14 febbraio 2015 a Roma, presso la splendida aula magna della Pontificia Università Urbaniana. Per tre giorni si sono susseguite le lezioni accademiche di alto profilo di Mario De Caro, Guido Alliney, Giacomo Rizzolatti, Michele Di Francesco e Francesco Botturi; gli stimolanti laboratori di filosofia, arte, attualità e musica tenuti da Fulvia Strano, Marina Timoteo, Pietro Toffoletto e Antonio Petagine; le due coinvolgenti sessioni dei seminari di discussione e argomentazione Age contra, guidati da Adelino Cattani; le premiazioni finali dei team vincitori. I numeri confermano il notevole successo di questa seconda edizione del Concorso: 782 studenti iscritti, accompagnati da 70 docenti referenti di 65 scuole di tutta Italia, per un totale – nelle categorie Junior (iii e iv anno della secondaria superiore) e Senior (v anno) – di 108 elaborati scritti e 46 multimediali partecipanti al Concorso. Tutta questa ricchezza è fonte di grande soddisfazione per gli organizzatori, e non soltanto per l’esito conseguito dal punto di vista della partecipazione di studenti e docenti e delle molte associazioni, università e fondazioni coinvolte nel Concorso, nonché dell’attenzione riservata all’iniziativa dal miur e dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini in particolar modo. Ciò che più di tutto ci rende orgogliosi nel promuovere le rd è la constatazione della novità di metodo che esse rappresentano per il lavoro quotidiano di molti docenti e studenti e, potenzialmente, per tutta la scuola italiana. Tale novità consiste innanzitutto nell’aver scelto di sfidare allievi e docenti sui grandi temi e sulle domande fondamentali della filosofia, domande che, nella didattica ordinaria e in proposte formative apparentemente affini alle rd, rischiano di perdersi in questioni più specialistiche e di dettaglio, talvolta di corto respiro. In questo senso, proporre temi come quello della natura e delle possibilità conoscitive della ragione umana (rd 2014) e quello della natura e dell’esperienza della libertà (rd 2015) ci pare un approccio alla didattica della filosofia tanto essenziale quanto coraggioso, anche perché non prono alle mode. Affrontare l’insegnamento della filosofia a partire da queste grandi domande e sfidando gli studenti a rispondervi a partire dal paragone con la propria esperienza, permette a ciascuno di scoprirsi non solo un essere che domanda, ma anche di andare a vedere come ha domandato l’autore, il classico, e così di imparare a domandare immedesimandosi con le sue domande. Come scrive Costantino Esposito, in filosofia
Numeri e prospettive di una proposta per innovare la didattica della filosofia
la domanda non è mai il punto zero, non si comincia mai domandando; la domanda è sempre uno “zero virgola uno”, viene sempre un attimo dopo, c’è sempre bisogno che qualcosa accada perché noi possiamo chiedere “Perché?”. Un uomo sottovuoto spinto, che non avesse rapporti con la realtà, non chiederebbe il perché 2 .
Un primo compito delle rd è di comprendere ancora una volta che il domandare della filosofia nasce da un rapporto leale con la propria esperienza del mondo, nella quale la risposta anticipa sempre la domanda. In questo modo è possibile offrire ai nostri giovani un criterio di giudizio per valutare la verità o almeno l’attendibilità di una risposta: bisogna verificare se quella risposta non annulli aprioristicamente la domanda di partenza. Infatti, scrive ancora Esposito: «Il dato, la risposta intesa come dato – non come la rispostina al quesito o al test di un esame di filosofia – è qualcosa che già c’è [la realtà in tutte le sue dimensioni] e che eccita “eroticamente” la domanda del “perché”»3. La questione del domandare evidenzia che, insieme al dato, per domandare c’è bisogno di un io pensato fenomenologicamente come rapporto: Se non ci fosse qualcuno o qualcosa d’altro da me che mi interpella non ci sarebbe proprio l’idea di io. […] La realtà viene prima di noi. Noi siamo nati. Ben prima che essere-per-la-morte, noi “siamo-nati”. Il fatto che siamo nati vuol dire che siamo dati, cioè che c’è qualcosa che ci dà a noi stessi – chiamatelo il padre e la madre, la natura, Dio. È evidente alla ragione che c’è qualcosa da cui proveniamo. […] La domanda è dunque il segno della nostra finitezza non semplicemente in quanto incapacità o ignoranza, ma in quanto in essa si esprime ed emerge la dipendenza e la provenienza da ciò che origina il nostro essere. Nel domandare infatti emerge con evidenza che la realtà, nella sua essenza è uno spazio di incontro, sin dall’inizio 4 .
Porre domande che permettano di riscoprire l’esperienza come spazio di incontro tra la realtà e l’io è quanto di più importante si possa proporre ai giovani in un’epoca confusa e smarrita come la nostra. In secondo luogo il lavoro nei team per la produzione degli elaborati scritti e multimediali ha favorito, in molti studenti e docenti, la percezione che la scuola può essere davvero il trampolino di lancio per conseguire una conoscenza appassionata del mondo e di sé, e non soltanto un luogo chiuso in se stesso
2. 3. 4.
C. Esposito, La questione aperta del nichilismo da Nietzsche a Heidegger (e oltre), in M. Ferrari, G. P. Terravecchia (a cura di), Soggetto e realtà nella filosofia contemporanea, Itaca, Castel Bolognese (ra) 2014, pp. 12-13. Ivi, p. 14. Ivi, p. 15.
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che la società obbliga a frequentare in vista dell’università o del mondo del lavoro. Per esempio, il laboratorio di filosofia online “Casi di etica”, a cura di Antonio Petagine della Fondazione Rui, ha mostrato agli studenti quanto sia fondamentale per il quotidiano diventare consapevoli dei criteri che mettiamo in campo nel momento in cui ci troviamo di fronte a una scelta esistenzialmente importante. Un terzo aspetto caratterizzante il lavoro delle rd è la scelta di confrontarci con alcuni tra i più competenti e appassionati studiosi del mondo accademico. Questa scelta trova la sua prima ragion d’essere nella convinzione che il gusto per la ricerca può smuovere energie spesso sopite e dormienti, sia tra gli allievi sia tra i docenti. Guardare e ascoltare uomini in ricerca è un potente antidoto all’autoreferenzialità e alla rassegnazione e permette di fatto la costruzione di nuovi e aggiornati percorsi di lavoro dentro e fuori la scuola. Il fatto stesso che i nostri allievi abbiamo potuto, per tre giorni, interloquire e interrogare i professori universitari intervenuti e poi discuterne insieme ai propri docenti, ha reso visibile quella continuità tra scuola e università spesso auspicata a parole e raramente realizzata di fatto. Infine, in questa seconda edizione delle rd abbiamo voluto dare agli studenti partecipanti l’occasione di mettere alla prova anche le proprie competenze dialettiche e argomentative attraverso i seminari di discussione Age contra, grande novità di questa seconda edizione del Concorso. Gli Age contra, guidati da Adelino Cattani, docente di Teoria dell’argomentazione dell’Università di Padova, hanno visto sfidarsi, davanti a una platea curiosa e attenta di circa 700 studenti, due team Senior e due team Junior, sorteggiati tra quanti si erano dati disponibili. Sono stati individuati due topici: “Pur di garantire la sicurezza è lecito ridurre la libertà” (per i team Junior) e “La libertà di stampa è un bene che va sempre e comunque preservato” (per i team Senior). A ciascuna coppia di team, Junior e Senior, è stato assegnato per estrazione il compito di sostenere rispettivamente un team la tesi pro, l’altro quella contro il topico. L’impegno appassionato dei giovani disputanti e l’interesse suscitato negli spettatori hanno reso evidente che la capacità di esprimere con ragionevolezza e convinzione le proprie tesi è un’esigenza inaggirabile della ragione che si apre con meraviglia a comprendere il mondo e i problemi. In questo senso gli Age contra hanno soddisfatto un’esigenza spesso tralasciata nella didattica ordinaria e hanno indicato una strada percorribile per tutti coloro che vorranno inserire nell’insegnamento della filosofia moduli didattici volti allo sviluppo delle competenze argomentative e retoriche. Per tutti questi motivi le rd 2015 sono state una testimonianza ricchissima della centralità della didattica della filosofia nel quadro delle diverse discipline insegnate a scuola, anche in riferimento a quanto richiesto dalle Life skills education for children and adolescents in school (capacità decisionale, problem
Numeri e prospettive di una proposta per innovare la didattica della filosofia
solving, pensiero creativo, senso critico, comunicazione efficace, relazioni interpersonali, autocoscienza, empatia, gestione delle emozioni, gestione dello stress) proposte dall’Organizzazione mondiale della sanità (oms 1993) e dalle Indicazioni nazionali 2010 per la scuola italiana, ove si parla, per l’area logicoargomentativa, dell’importanza di saper sostenere una propria tesi e valutare criticamente le argomentazioni altrui e di acquisire l’abitudine a ragionare con rigore logico, a identificare i problemi e a individuare le possibili soluzioni. Le rd 2015 hanno dimostrato che insegnare filosofia, armonizzando le istanze del modello teoretico e di quello storico5, permette di perfezionare le capacità, già innate nell’allievo, di porre domande consapevoli e di argomentare logicamente e di introdurre i giovani all’enorme ricchezza della nostra tradizione culturale prima ancora che giungere a conclusioni almeno prima facie giuste. Le rd 2015, dunque, hanno cercato di incarnare quanto detto. La proposta formativa caratterizzante il lavoro del nostro Concorso, o meglio il lavoro di tutti i docenti che a vario titolo hanno contribuito a renderlo possibile, ha permesso di mostrare la vitalità e il fascino che la filosofia può esercitare sui giovani. Si è vista inoltre la necessità che questo insegnamento sia considerato come una base essenziale per la formazione integrale delle persone in virtù dei benefici specifici che esso offre a chi lo svolge con lealtà e passione.
5.
L. Illetterati (a cura di), Insegnare filosofia. Modelli di pensiero e pratiche didattiche, utet, Torino 2007.
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Vincitori dei concorsi 2015: elaborati scritti
Concorso Junior I premio Titolo: «Sapere aude ut liber sis». Il cammino dell’uomo alla ricerca di se stesso Team: Davide Calligola, Elena Colajanni, Silvia Lanzoni, Irene Scazzieri, Maria Vittoria Rubini Docente referente: prof.ssa Licia Morra Liceo scientifico “Augusto Righi”, Bologna II premio Titolo: Esperimenti di libertà. Idee ed esperienze a confronto Team: Alessandra D’Antonio, Eleonora Manzoni, Giacomo Passarini, Valeria Pette, Martina Pirone, Lisa Taruffi, Guido Vignati Docente referente: prof. Vinicio Giacometti Liceo classico “Luigi Galvani”, Bologna III premio Titolo: «Ma anche così desidero e invoco ogni giorno / Di tornarmene a casa, vedere il ritorno». Saggio sulla libertà a partire da testi di Omero Team: Carla Barenghi, Alessandro Foti, Filippo Landi, Maddalena Savorana Docente referente: prof. Emanuele Maffi Liceo classico “Sacro Cuore”, Milano
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Concorso Senior I premio Titolo: L’esperienza della libertà. Tra limite e paradosso Team: Emma Lavinia Bon, Dana Cencig, Emanuele Corredig, Leandro Francesco Lombardo Docente referente: prof. Gian Paolo Terravecchia Liceo scientifico Convitto Nazionale “Paolo Diacono”, Cividale del Friuli (ud) II premio Titolo: La riscoperta del determinismo Team: Nicola Fiorentino, Giuseppe Forziati, Francesco Martielli Docente referente: prof. Roberto Massari Liceo scientifico “Leonardo da Vinci”, Cassano delle Murge (ba) III premio Titolo: La libertà: la sua attuazione nella duplice forma dell’intellettualismo etico e del praticismo etico Team: Giacomo Montanari, Maria Laura Serra Docente referente: prof. Giacomo Bettini Liceo scientifico “Malpighi”, Bologna
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I PREMIO JUNIOR
«Sapere aude ut liber sis». Il cammino dell’uomo alla ricerca di se stesso di Davide Calligola, Elena Colajanni, Silvia Lanzoni, Irene Scazzieri, Maria Vittoria Rubini
Descartes compì un decisivo passo in avanti: fece dell’uomo il signore e padrone della natura. E c’è di sicuro una profonda correlazione nel fatto che sia stato proprio lui a negare categoricamente un’anima agli animali: l’uomo è padrone e signore, mentre l’animale – dice Descartes – non è che un automa, un meccanismo animato, una machina animata. Se un animale si lamenta, quello non è un lamento ma solo il cigolio di un congegno che funziona male. Se la ruota di un carro stride, non vuol dire che il carretto soffre, vuol dire che non è oliato 1.
Così scrive Kundera nel suo capolavoro del 1982 L’insostenibile leggerezza dell’essere, citando Descartes, italianizzato in Cartesio. Secondo queste poche righe, l’uomo è l’unica creatura libera esistente e la sua libertà coincide con la sua stessa essenza, ovvero la sua anima razionale. Si tratta di una visione del mondo meccanicistica da cui solo l’uomo si salva. Gli animali, infatti, non possedendo anima, sono ridotti a ingranaggi progettati solo ed esclusivamente per la sopravvivenza: nutrimento e riproduzione, e sono dunque privati non solo di qualunque libera iniziativa ma, ancor prima, di una coscienza che permetta loro di identificare la possibilità di un’ipotetica libera iniziativa. L’uomo invece possiede un quid in più, un’anima che gli permette non solo di sopravvivere, ma di vivere e dunque di dominare su tutte le altre creature. Kundera critica fortemente il pensiero di Descartes, non tanto negando l’inferiorità degli animali rispetto all’uomo, quanto contestando l’uso improprio e spregevole che l’uomo stesso fa della propria libertà. La consapevolezza dell’uomo della sua superiorità, e di conseguenza libertà, lo ha portato a compiere innumerevoli (ingiuste?) prevaricazioni verso gli altri enti con cui è costretto a condividere la Terra. Pilastro essenziale su cui poggia la filosofia è il fatto che solo l’essere umano in quanto tale possiede una razionalità che consiste nell’attività del pensare. Il pensiero è alla base del progresso e dello sviluppo della nostra civiltà. L’uomo pensa. L’uomo osserva, si stupisce
1.
M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano 1989, p. 292.
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della realtà, si interroga e di conseguenza cerca risposte alle domande che non può fare a meno di porsi. Fin dalle origini della filosofia, Parmenide si interrogava sull’essere e tutta la filosofia fino a Heidegger ruota intorno alla domanda «Perché vi è in generale l’essente e non il nulla?»2. Questo interrogativo a un primo impatto ci può apparire stupido o insensato, ma basta soffermarsi pochi secondi perché comincino a sorgere dei dubbi: perché l’essere e non il nulla? Nei secoli l’uomo ha continuato, instancabile, a cercare la risposta, a tendere alla verità. Ciò a cui il pensiero ci spinge continuamente è la conoscenza: corsa verso una meta che si allontana, la nostra ricerca continua da sempre e continuerà all’infinito, come una funzione tende al suo asintoto, avvicinandosi sempre più senza mai arrivare a toccarlo. Questo stesso progetto delle Romanae Disputationes è uno slancio per noi ragazzi a porci domande e cercare risposte, aggiungendo così un altro piccolo tassello nel puzzle infinito della conoscenza. Noi cogliamo la palla al balzo e per quest’occasione ci proponiamo proprio di cercare la relazione fra conoscenza e libertà: la conoscenza limita o agevola la libertà dell’uomo? Ne favorisce un uso giusto e corretto? La libertà dunque è legata all’istinto o alla consapevolezza?
1. La conoscenza ostacola la libertà Molte volte si è osservato che la conoscenza non facilita la libertà anzi rende più difficile vivere e che l’aumentare delle conoscenze non ha fatto altro che far crescere la condizione di schiavitù dell’uomo. Troviamo diverse correnti settecentesche che sostengono questa tesi. Il mito del buon selvaggio è una corrente di pensiero nata all’inizio del xviii secolo secondo cui l’uomo in origine era un animale buono e pacifico e solo successivamente è stato corrotto dalla società e dal progresso. Questo ideale esalta e ama incondizionatamente tutto ciò che è naturale e detesta ciò che è innaturale. L’essere umano al suo stato originale viveva in una specie di eterna età dell’oro, in armonia con una natura materna e benevola che provvedeva a tutti i suoi bisogni. Stiamo parlando di una condizione dell’umanità sgombra dalla civiltà per cui l’uomo era assolutamente libero solo in quanto privo di impedimenti; si tratta però parimenti di una condizione di totale ignoranza dell’uomo, all’oscuro di tutte le leggi che dominano la natura tanto amata, un uomo che vive seguendo più l’istinto che la ragione, similmente agli animali meccanici descritti da Descartes. Anche e soprattutto ai giorni nostri è piuttosto evidente che senza 92
2.
M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1990, p. 13.
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la civilizzazione gli uomini godrebbero di maggior libertà. Notoriamente la società impone canoni in cui gli individui vengono inevitabilmente inviluppati, estremamente difficili da evadere e che dunque limitano la libertà individuale. La manipolazione delle masse si è drammaticamente consolidata tanto che oggi si pratica abitualmente in innumerevoli campi: nell’economia, nella politica, nell’informazione, nella pubblicità. Ai cittadini vengono inculcate idee così radicate che essi finiscono per crederle proprie. Bisognerebbe però porsi un interrogativo fondamentale: un uomo che intraprende scelte sbagliate, nuocendo a se stesso, può essere sollevato da ogni responsabilità con la giustificazione di essere stato manipolato dalla società? È stato manipolato o si è lasciato manipolare? La posizione secondo cui la conoscenza limita la libertà è facilmente confutabile: indubbiamente la società tenta di irretire gli individui per i suoi scopi, ma l’unico modo per ribellarsi a ciò è proprio la conoscenza. Se l’uomo è consapevole della sua posizione e di quanto la società influisce sulla sua libertà, è certamente anche in grado di opporsi e uscire dal sistema e se questo non avviene è solo per un uso scorretto della libertà di cui l’uomo è però in possesso. Inoltre il “buon selvaggio” era indubbiamente un tipo di uomo buono e pacifico, ma buono e pacifico non vuol dire libero. Parliamo infatti di una bontà e di una concordia dettate dall’ingenuità e non dalla consapevolezza e, di conseguenza, dalla volontà. L’uomo nelle condizioni primordiali non era consapevole della possibilità di migliori condizioni di vita e dunque più che altro si adeguava passivamente e di buon grado a quelle che gli erano a portata di mano. Oggi lo stato dell’uomo è l’opposto di quello del buon selvaggio primitivo: abbiamo sempre più strumenti per giungere a essere liberi ma, a causa del cattivo uso di questi ultimi, non siamo più buoni e pacifici. Proprio questo però può essere inteso come un sintomo della libertà: l’uomo oggi conosce il bene come conosce il male, ha gli strumenti per scegliere e spesso sceglie il male ma comunque sceglie. Le scelte sbagliate sono colpe dell’uomo e non assenza di libertà.
2. La conoscenza favorisce la libertà Esiste al contrario una nutrita corrente di pensatori e filosofi secondo cui la libertà presuppone la conoscenza.
2.1. Da Buddha a Socrate a Freud Secondo la filosofia buddista, causa della sofferenza è l’ignoranza, l’ignoranza della vera natura della realtà e della mente. La conoscenza vi renderà liberi, diceva Socrate. Liberi da che cosa? Da superstizioni, illusioni, legami. Liberi
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quindi da ciò che ci rende schiavi e sofferenti. Ma quale conoscenza può sottrarci alla tirannia delle superstizioni interne ed esterne? Freud non aveva dubbi al riguardo: la conoscenza di sé. Rendere conscio l’inconscio, comprendere i nostri moventi nascosti. In caso contrario, noi non siamo padroni di noi stessi, ma sudditi di forze oscure che abitano al nostro interno e governano la nostra vita.
2.2. Platone e il cammino di liberazione attraverso la conoscenza La filosofia greca con Platone ha posto con efficacia il legame fra conoscenza e libertà attraverso il suo mito della caverna. Il prigioniero della caverna, liberato dalle catene, è l’emblema dell’uomo che intraprende il cammino della conoscenza. La strada che viene costretto a percorrere è in salita, lunga e ripida, il percorso è addirittura doloroso poiché l’improvvisa luce abbagliante del mondo reale offusca gli occhi e rende momentaneamente cieco il pellegrino che inizialmente vorrebbe tornare alla sua condizione precedente, rivolto verso il muro della caverna. Viene però trascinato fino alla fine del cammino e la vista si abitua gradualmente alla nuova realtà: riesce dapprima a distinguere le ombre delle cose reali, poi i riflessi nelle acque e infine le cose stesse. Quando finalmente riesce a distinguere tutte le cose terrene, il sole e gli astri, l’uomo giunge a contemplare la verità. A questo punto egli mai tornerebbe alla condizione di ignoranza e ingenuità della caverna. La conoscenza è dunque un lungo cammino verso l’alto che ci porta a contemplare la realtà da un punto di vista sempre più ampio e porta l’uomo a raggiungere una comprensione reale e autentica del mondo. La luce del sole cui l’uomo tende nel mito platonico, è il fine ultimo del suo cammino ovvero il raggiungimento della felicità, e quindi della libertà, posseduta in quantità sempre maggiore, quanto maggiore è la consapevolezza e la piena coscienza di tutto ciò che ci circonda. Inoltre Platone collega la felicità alla phronesis e alla sophia, che solitamente vengono tradotti come “saggezza” e “sapienza”, ma che spesso Platone ritiene sinonimi. Egli ritiene l’uomo un soggetto libero, come possiamo intendere anche dal mito di Er, che attraverso l’utilizzo della libertà può procurarsi quello che è l’obbiettivo comune a tutti gli uomini, cioè appunto la felicità. Risalta quindi una forte corrispondenza tra la sophia, che si ottiene con lo studio ed è quindi il raggiungimento di una conoscenza il più elevata possibile, e la libertà dell’uomo. 2.3. La “teoria dell’illuminazione” di sant’Agostino Analogamente sant’Agostino scrive nel De Ordine: 94
Supponiamo che un tale abbia la vista tanto limitata che in un pavimento a mosaico il suo sguardo possa percepire soltanto le dimensioni di un quadra-
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tino per volta. Egli rimprovererebbe all’artista l’imperizia nell’opera d’ordinamento e composizione nella convinzione che le diverse pietruzze sono state maldisposte. Invece è proprio lui che non può cogliere e rappresentarsi in una visione d’insieme i pezzettini armonizzati in una riproduzione d’unitaria bellezza. La medesima condizione si verifica per le persone incolte. Incapaci di comprendere e riflettere sull’universale e armonico ordinamento delle cose, se qualche aspetto, che per la loro immaginazione è grande, li urta, pensano che nell’universo esiste una grande irrazionalità 3 .
Dunque più ci innalziamo a osservare le cose dall’alto, più la nostra visione sarà precisa e si avvicinerà a quella reale. Solo a quel punto potremo dire di conoscere mentre una veduta delle cose singolarmente e non nell’insieme di cui fanno parte, è limitata e porta l’uomo a grandi abbagli e fraintendimenti. Nel decimo libro delle Confessioni, sant’Agostino intesse una lunga riflessione, apice della ricerca che ha segnato tutta la sua vita, con cui giunge a stabilire il fine ultimo del suo cercare e definisce una relazione fra l’uomo e Dio. Agostino inizialmente interroga sul suo Dio tutti gli oggetti terreni, gli astri e i pianeti ma non ottiene che una risposta: cerca altrove. Agostino guarda allora dentro di sé e scopre l’immenso mondo della memoria, nel quale c’è infinitamente di più di quanto ci sia in tutta la realtà esteriore. Per quanto sia grande lo stupore per la grandezza dell’uomo, la ricerca non si ferma qui: dove si trova dunque Dio? Non nella memoria poiché ciò significherebbe già conoscere, ma nemmeno fuori perché non si può cercare ciò che non si ha in qualche modo già conosciuto. Ciò che tutti gli uomini hanno in comune è l’esperienza della felicità. Ognuno identifica la felicità con qualcosa di diverso, ma è universale la ricerca. L’idea della felicità presente nella memoria è, per sant’Agostino, un’orma di Dio nell’uomo. Ma cos’è dunque la felicità? Agostino risponde: «La felicità della vita è il godimento della verità, cioè il godimento di te, che sei la verità, o Dio, mia luce, salvezza del mio volto, Dio mio. Questa felicità della vita vogliono tutti, questa vita che è l’unica felicità vogliono tutti, il godimento della verità vogliono tutti»4. L’equazione sostenuta da sant’Agostino è Felicità = Verità e Verità = Dio. L’uomo non è lui stesso la verità, poiché è mutevole e imperfetto, ma ne è un semplice ricercatore, anche se non giunge mai a possederla interamente. Dio illumina l’interiorità dell’uomo che può pertanto ritrovare Dio nella sua coscienza; l’uomo infatti non essendo e non possedendo per sé la verità, la riceve da Dio che come una vivida luce, gli concede il più grande dono cioè la possibilità di conoscere.
3. Agostino, De ordine, i, 2, trad. it. tratta dal sito Augustinus.it. 4. Agostino, Confessioni, x, 23, trad. it. di C. Carena tratta dal sito Augustinus.it.
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Lo scopo dell’etica è proprio la realizzazione di se stessi, ovvero il raggiungimento dell’eudaimonia cioè della felicità. Per il percorso svolto da sant’Agostino, cercare la felicità significa cercare la verità di Dio e dunque conoscere. Ma cosa ci rende liberi se non il compimento di noi stessi e il conseguimento di quella condizione di felicità e pace che permette di vivere in armonia con la propria persona e con Dio? La conoscenza dunque non solo favorisce la libertà, ma è l’unico mezzo messo a disposizione dell’uomo da Dio, per ottenerla.
2.4. Spinoza: la libertà di realizzare pienamente la propria natura attraverso il conatus Nella filosofia di Spinoza ci imbattiamo in una fortissima domanda sulla libertà, che, inizialmente, sembra venirci negata: egli infatti considera tutto ciò che accade come assolutamente necessario e fa rientrare anche l’uomo dentro a questo meccanismo, eliminando il dualismo di Cartesio. In realtà Spinoza ci dice che la nostra libertà sta proprio nell’aderire alla necessità che è espressione del divino. Egli infatti afferma: Io dico libera quella cosa che esiste e agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura; è invece coatta quella che è determinata da altro ad esistere e agire per una certa e determinata ragione. Per esempio, Dio, per quanto necessariamente, tuttavia esiste unicamente in virtù della necessità della sua natura. E così, pure, Dio intende se stesso e tutte le cose in modo assolutamente libero, perché discende unicamente dalla necessità della sua natura che egli intenda tutto. Vedi dunque che io pongo la libertà non in un libero decreto ma in una libera necessità 5 .
Spinoza non intende dunque la libertà come scelta fra diverse opzioni, ma come scelta volontaria dell’unica opzione che può portare a realizzarci, ovvero il libero assenso alla nostra necessità. La sua etica parte dal presupposto che ogni ente sia spinto da uno sforzo di autoconservazione di sé (conatus) che giunge a coincidere con un cammino ascetico di liberazione. Ad ogni step di questo cammino l’uomo raggiunge un livello di libertà e un corrispondente livello di conoscenza. La conoscenza progressiva è il mezzo a disposizione dell’uomo per arrivare alla liberazione dalle passioni che lo porta alla libertà, intesa come piena realizzazione di sé. All’ultimo livello del cammino, la conoscenza intuitiva, l’uomo arriva alla beatitudine, ovvero a osservare le cose non più dal proprio personale punto di vista ma dal punto di vista della necessità e quindi a contemplare Dio.
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5.
Lettera 58 a G.H. Schuller, in B. Spinoza, Tutte le opere, trad. it. a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2010, p. 2111.
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3. La conoscenza favorisce la libertà. Ma quale libertà? Dopo aver analizzato diversi punti di vista, giungiamo alla conclusione che è innegabile che la conoscenza sia un mezzo fondamentale a disposizione dell’uomo per raggiungere la libertà. Possiamo riconoscere questo in primo luogo a livello individuale poi a livello storico.
3.1. L’esperienza della libertà Riconduciamo tutta la questione a noi stessi come individui, nel nostro piccolo. Sapremmo definire un momento specifico della nostra vita, una particolare occasione in cui abbiamo fatto l’esperienza della libertà? Riusciamo a dare una definizione universale di questa parola? Ci rendiamo immediatamente conto che questo termine tanto utilizzato, “libertà”, quest’idea nel nome della quale, nella storia, si è combattuto e ucciso, è in realtà un concetto molto complesso e difficile da definire con precisione. Mettiamo in luce in questo paragrafo due tipologie di libertà che sicuramente la conoscenza favorisce: la cosiddetta «libertà da» (dall’inglese freedom from) e la cosiddetta «libertà di» (dall’inglese freedom to)6. Tentiamo di fare un semplice esempio concreto: supponiamo che un bambino si trovi di fronte a una serie di biglie di diversi colori e che sia del tutto libero di scegliere una o più biglie fra quelle che preferisce. Sono presenti tutti i colori tranne il rosso, che però è l’unico che il bambino davvero desiderava. Il bimbo può tranquillamente tenere per sé tutte le biglie ma non si sentirà soddisfatto della sua scelta poiché non è riuscito ad ottenere quella del colore che sognava. Se invece fosse stata disponibile una biglia di colore rosso, egli avrebbe scelto solamente quella, scartando tutte le altre, e ciò l’avrebbe reso felice. La libertà da è forse la prima determinazione a cui pensiamo quando tentiamo di dire cos’è la libertà, nonostante ne limiti notevolmente il suo ampissimo significato: la possibilità di scegliere liberamente senza impedimenti o costrizioni, solo seguendo la nostra volontà. Possibilità questa di cui il fanciullo non è stato assolutamente privato, nonostante questo non sia bastato a soddisfarlo. È evidente che la conoscenza amplia la gamma delle possibili scelte che possiamo compiere: più conosciamo, più opzioni abbiamo a disposizione. Supponiamo infatti che al bambino siano state nascoste alcune biglie. Ci rendiamo immediatamente conto che, pur a sua insaputa, la sua libertà sarebbe stata limitata. Egli sarebbe stato comunque libero di scegliere, ma solo fra le biglie che gli fossero state mostrate e non, evidentemente, fra
6. http://www.treccani.it/enciclopedia/liberta_(Enciclopedia_del_Novecento)/.
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quelle di cui non fosse stato a conoscenza. Se immaginiamo infatti il caso estremo in cui tutte le biglie tranne una venissero nascoste, il bimbo sarebbe privato del tutto della sua libertà di scelta. La libertà di, al contrario di quella descritta in precedenza, rende sicuramente pago e felice l’uomo che ne è in possesso. Si tratta infatti della possibilità di cercare e trovare, nel ventaglio delle scelte a nostra disposizione, quella che realmente desideravamo, ciò che davvero ci realizza. Possiamo intenderla come un ampliamento della libertà da ma in questo caso la conoscenza gioca un ruolo di importanza molto maggiore e addirittura fondamentale. Immaginiamo dunque che al bambino sia stata nascosta proprio la biglia rossa che desiderava; egli non è in alcun modo spogliato della sua libertà di scelta ma è stato spogliato di un diritto molto più importante per l’uomo: la possibilità di raggiungimento della felicità. L’esempio apportato è ovviamente riduttivo (di certo l’assenza di una biglia rossa non avrebbe influenza sul futuro del fanciullo) ma traslato alla vita reale degli uomini, assume proporzioni di rilevante importanza. L’unico modo per aumentare le proprie possibilità di trovare ciò che veramente ci realizza, ci porta all’eudaimonia, è proseguire nel cammino della conoscenza, senza la quale le nostre scelte possibili si riducono a pochi campioni fra i quali difficilmente troveremmo ciò che cerchiamo. Accrescendo la nostra consapevolezza, ci avviciniamo sempre più alla meta ultima di tutti gli uomini, la tanto bramata felicità.
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3.2. La conoscenza favorisce la libertà nella storia Se guardiamo non solo la vita individuale dell’uomo, ma anche la sua vita associata nella complessità dei fenomeni storici, possiamo trovare continui esempi in cui è possibile osservare l’importanza della conoscenza per giungere alla libertà e, d’altro lato, la volontà del potere di dominare favorendo l’ignoranza. Ad esempio, nel Cinquecento gli europei raggiunsero le terre del nuovo continente e incontrarono le popolazioni native. Queste, vivendo isolate dal resto del mondo, possedevano sia un tasso di conoscenze tecniche sia un livello di apertura mentale decisamente inferiori rispetto agli spagnoli e ai portoghesi. Questi ultimi non si fecero scrupoli ad approfittarsene e li ridussero in loro potere, utilizzandoli alla stregua di schiavi e bestie per i loro scopi economici, privandoli della loro libertà. Ciò dimostra come l’ignoranza sia facilmente strumentalizzabile. Come esempio di attualità può essere citato il problema della criminalità organizzata: queste associazioni mafiose, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, prosperano maggiormente nei paesi sottosviluppati: nel nostro paese, per esempio, le mafie riescono a reclutare un numero elevatissimo di ragazzini che vivono nelle periferie degradate di
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grandi città e sono spesso abbandonati a se stessi. Queste associazioni criminali sono le prime a combattere contro il diritto all’istruzione: solo qualche mese fa 43 ragazzi messicani sono stati rapiti e uccisi da bande di narcos. In Pakistan talebani armati sono recentemente entrati in una scuola provocando una terribile strage e sono fra i più agguerriti oppositori dell’istruzione femminile.
4. La tensione inesauribile alla conoscenza Abbiamo dunque colto il forte legame fra libertà e conoscenza. Come si presenta la dinamica della ragione nel suo rapporto con la realtà? Quando l’uomo si impatta con la realtà, quest’ultima lo colpisce e la ragione, chiamata in causa, reagisce ponendosi delle domande. La ragione si muove quando si trova davanti a un problema (da pro-ballo = getto davanti) cioè un nuovo pezzo di realtà ed è allora che si rivolge la prima domanda: “Perché?”. L’uomo è caratterizzato strutturalmente dal desiderio di conoscere. «Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti essi amano le sensazioni per se stesse, indipendentemente dalla loro utilità»7. La filosofia nasce proprio dalla meraviglia, dallo sgomento, dallo stupore mentre quando l’abitudine prende il sopravvento, termina lo stupore per tutto il reale e di conseguenza termina l’atto dell’uomo di interrogarsi. C’è inoltre nella ragione una spinta che la porta ad avanzare a oltranza nel suo cammino di domande e risposte, una tendenza al tutto; il suo scopo è di diventare coscienza del reale, dunque ampliarsi il più possibile per contemplare tutti i fattori. È evidente a questo punto che ogni uomo può dirsi filosofo, ognuno è dominato da una sete intrinseca di conoscenza che in alcuni momenti si fa sentire con tutta la sua potenza, in altri è sopraffatta dall’abitudine. Grazie a questa tensione oggi l’uomo è riuscito ad evolversi in tutti campi con i suoi propri mezzi. Ma, avendo appurato che il desiderio di sapere è una caratteristica imprescindibile dell’essere umano, come possiamo affermare di essere liberi senza conoscere? Come possiamo sentirci liberi se ci fingiamo sordi a una realtà che ci chiama, se rimaniamo immobili pur sapendo che c’è qualcosa poco più in là, a un passo da noi, che deve ancora essere scoperto e conosciuto? Escludendo che la natura dell’uomo lo spinga a qualcosa che va contro il suo interesse, dobbiamo necessariamente concludere che, se la meta dell’uomo è la felicità e quindi la libertà e contemporaneamente la sua stessa essenza lo incita a conoscere sempre più, la conoscenza accompagna progressivamente l’uomo alla beatitudine.
7. Aristotele, Metafisica, i, i, 980a, trad. it. a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1987, p. 71.
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5. Conoscenza assoluta e libertà assoluta: quando l’uomo sperimenta la libertà? L’impulso umano a sapere ci spinge inevitabilmente verso una meta che si allontana a ogni nostro passo avanti, la conoscenza assoluta infatti non sarà mai raggiungibile dall’uomo. A questo proposito citiamo Stephen Beckwith, responsabile del progetto della nasa Hubble: Ogni secolo che passa noi rubiamo un bel po’ di terreno all’infinito, eppure quello non scema, non si restringe. Negli ultimi quattrocento anni abbiamo spostato di molto il confine del mistero, ma se tu all’infinito sottrai qualcosa – ci insegna la matematica – non lo hai diminuito di una virgola: sempre infinito resta 8 .
Possiamo affermare certamente ciò, anche perché un ente che sappia tutto non potrebbe più dirsi un uomo, ma sarebbe una macchina: avrebbe raggiunto la fine del cammino e sarebbe dunque esaurita la sua spinta ad apprendere, poiché oltre la conoscenza raggiunta non ci sarebbe nient’altro. Dobbiamo dunque concludere che senza conoscenza assoluta, non abbiamo possibilità nemmeno di libertà assoluta? Dobbiamo considerare il fatto che il desiderio dell’uomo è di ricercare la conoscenza. Ottenerla è un risultato in più, una vittoria ulteriore. Per realizzare la sua natura, all’uomo è sufficiente una ricerca fine a se stessa, è sufficiente la possibilità di indagare, ipotizzare, tentare risposte plausibili ma non per forza universalmente vere. La libertà è dunque ricerca senza impedimenti e l’uomo può farne un’esperienza completa ogni volta che, trovandosi davanti a un nuovo problema, ha a disposizione tutti gli strumenti per affrontarlo e sceglie con la propria volontà di usarli per indagarlo, senza che vi sia alcun ostacolo esterno fra sé e la risposta. Paradossalmente, nell’istante in cui otteniamo la consapevolezza di un aspetto indagato e la ricerca si ferma, ci sentiamo meno liberi. Nel minimo arco di tempo fra il raggiungimento di una risposta e la domanda successiva, quando per un momento l’indagine si interrompe, la spinta dell’uomo si spegne. La libertà, da Platone a sant’Agostino a Spinoza, è il cammino e non la meta, parziale o totale che sia.
6. Conclusione Con questa tesina abbiamo cercato di dare una risposta al problema del rapporto fra libertà e conoscenza, giungendo a questo punto fermo nella nostra
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8.
S. Beckwith, Il finito e l’infinito nel cosmo, in G. Vittadini (a cura di), La ragione esigenza di infinito, Mondadori, Milano 2007, p. 81.
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riflessione: l’uomo si sente tanto più libero quanto più è ampia e dettagliata la sua coscienza della realtà che lo circonda. L’unico modo per progredire nell’acquisizione di questa coscienza è non smettere mai di porsi domande, non smettere mai di essere filosofi. Proprio per questo motivo, vogliamo terminare il nostro lavoro aprendo un varco a nuovi interrogativi, perché possiamo continuare la nostra ricerca anche una volta terminato questo progetto. La questione della libertà, che come abbiamo visto ha interessato l’uomo fin dai tempi più antichi, si fa sentire, più forte che mai, ai giorni nostri. I recenti fatti accaduti a Parigi all’inizio di gennaio, hanno scosso tutto il mondo, dando il via a una serie di affermazioni e opinioni contrastanti. In molte città italiane il supporto a Parigi è stato deciso e immediato: sono state organizzate manifestazioni con lo scopo di far sentire la propria indignazione e la propria vicinanza, almeno spirituale. Ciò che la gente si è riunita per gridare nelle piazze è: “Libertà!”. Ognuno di noi nel proprio piccolo si è sentito minacciato e privato di questo diritto fondamentale. Ed è forse questo il significato del movimento che ha portato moltissimi a pubblicare su Facebook l’affermazione «Je suis Charlie» (pur un po’ superficiale, poiché non considera innumerevoli altri fattori): rivendicare il diritto di ogni uomo alla libertà e, ancor prima, alla vita. Ciò che non notiamo immediatamente, poiché ci appare scontato, è proprio che la reazione istintiva dell’uomo ad avvenimenti come questo (ma anche ad avvenimenti di minor rilevanza) è quella di chiedersi: perché? E ancora di più questa è la reazione di noi ragazzi, che conserviamo ancora un po’ la capacità di lasciarci colpire da fatti che ci paiono incomprensibili: perché due uomini armati entrano un giorno qualunque nella redazione di un giornale e uccidono a sangue freddo dodici persone come loro? Più semplicemente: come può l’uomo uccidere un suo simile? Come può convivere poi con la consapevolezza di aver scelto liberamente di compiere un atto così inumano? Esistono forse condizioni in cui l’uomo perde la sua natura e non è più padrone di se stesso? Cosa ci sfugge in tutto questo? Non diamo una risposta a queste domande, ma ci proponiamo di indagarle e le lasciamo aperte a tutti coloro che non termineranno qui il loro cammino verso la libertà.
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II PREMIO JUNIOR
Esperimenti di libertà. Idee ed esperienze a confronto di Alessandra D’Antonio, Eleonora Manzoni, Giacomo Passarini, Valeria Pette, Martina Pirone, Lisa Taruffi, Guido Vignati
1. Introduzione: definizione preliminare della libertà È ambizioso cercare un’idea, nel senso platonico del termine, che comprenda tutti i significati della libertà: Tzvetan Todorov1 propone di individuare i principali e legittimi significati della libertà a partire dai loro opposti; individua quindi la libertà che si contrappone alla costrizione e alla tirannia (libertà politica), la libertà che si contrappone all’alienazione e al conformismo (libertà interiore o autenticità), la libertà che si oppone al determinismo naturale (libero arbitrio). La libertà politica non sarà oggetto della nostra ricerca, ma non perché sia secondaria o al di fuori dei nostri interessi: anche nella contemporaneità la libertà è in pericolo, minacciata sempre più di frequente, come dimostrano gli spaventosi eventi degli ultimi giorni. In tal modo emerge inoltre un’ulteriore peculiarità di questo bene: ci si accorge di avere una data libertà, solo nel momento in cui essa viene minacciata, o peggio ancora, revocata. Gli attentati terroristici, come quelli avvenuti in questi giorni a opera di gruppi terroristici islamisti, hanno la spiacevole capacità di ricordarci il grande valore delle libertà che possediamo: di stampa, di espressione e di pensiero. La libertà interiore dell’io è quella fondamentale, senza di cui le altre non esisterebbero, ma è anche la più difficile da conquistare. Infatti essere liberi dal conformismo, dalla alienazione, dai condizionamenti che provengono dall’esterno, ma anche dalla parte più oscura di noi stessi, essere liberi di esprimere se stessi autenticamente è una meta faticosa per cui ogni singolo uomo deve lottare, senza però pretendere una libertà assoluta, ma tenendo conto della società e degli altri. Infine la libertà dal determinismo (indicando con tale termine l’idea che tutto, uomo compreso, sia legato e mosso da processi ineluttabili, a cui non ci si può opporre), vale a dire il libero arbitrio, costituisce il fondamento ontolo-
1.
T. Todorov, AZ-IO, in Dizionario della libertà, Passigli, Firenze 2002, pp. 19-23.
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gico di qualsiasi libertà. Mario De Caro2 precisa il concetto di libero arbitrio individuando due sue condizioni imprescindibili: a) è il soggetto che determina e controlla la propria azione; b) il soggetto potrebbe agire diversamente da come agisce. Il concetto di determinismo, tuttavia, trova i suoi sostenitori, e gli argomenti contro il libero arbitrio sono rilevanti: non si può accettare il concetto di libertà come “controllare un’azione”, poiché in tal caso sarebbe necessario controllare anche il passato, che è inalterabile, e le leggi della natura, che sono ineludibili. Le neuroscienze giungono a ridurre le scelte umane alle reazioni biochimiche, sottostanti alla necessità delle leggi naturali. I tentativi di giustificare il libero arbitrio basandolo su teorie scientifiche indeterministiche non hanno miglior fortuna, perché allora la decisione e l’azione umana non sarebbero dipendenti dal soggetto, ma dal caso. Eppure non si può ridurre tutto il vissuto umano al caso o a un processo su cui non si ha controllo: nell’esperienza personale è evidente che, nonostante tutti i condizionamenti, ci si può sottrarre a essi usando la propria volontà e libertà. L’intuizione della libertà nell’esperienza personale è innegabile, e per questo non si può fare a meno di ammetterla (almeno implicitamente) quando si parla di responsabilità, di decisione, di morale e di diritto, di arte, di politica, di storia; tuttavia persiste la convinzione, che emerge prepotentemente nei momenti di scoramento, che il libero arbitrio non sia altro che una vana illusione. Se non una soluzione, una felice sintesi è data da Van Inwagen: «Sembra che il libero arbitrio […] sia impossibile. Ma sembra anche che il libero arbitrio esista. Pertanto sembra che esista l’impossibile». La nostra trattazione cercherà di mettere a confronto le nostre esperienze di libertà (e di mancanza di libertà) con il pensiero dei filosofi che abbiamo incontrato nel nostro percorso di studi.
2. Tavola rotonda. La nostra esperienza della libertà: dall’esperienza alla comprensione (i nomi sono di fantasia) 2.1. La difficoltà di essere liberi 2.1.1. Il conformismo Lele Viviamo in una società e in un periodo storico che non impone determinati comportamenti o scelte, ma che anzi lascia una libertà di opinione ed espressione. Eppure quotidianamente sento che non sempre posso esprimere in libertà ciò che sono. Spesso infatti la libertà mia come di tanti altri 104
2.
M. De Caro, Azione, il Mulino, Bologna 2008, (cap. ii, Azione e libero arbitrio).
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è ostacolata non fisicamente o violentemente, ma con determinati atteggiamenti. Ad esempio, quasi tutti gli adolescenti di oggi vestono e si comportano nello stesso modo: perciò se non ti vesti con certe firme o non frequenti alcuni locali o feste vieni visto in modo strano, come se fossi escluso. Diventa quindi difficile esprimere chi sei davvero e spesso, per proteggersi, io penso, si preferisce uniformarsi alla massa e non far capire la propria vera personalità. Lery La paura di non essere accettati oggi, soprattutto tra gli adolescenti, è in continuo aumento. Spesso molti, pur di essere accettati, fanno cose che normalmente non farebbero e cambiano tutto il loro modo di essere per seguire determinate “mode”. Per i giovani “essere apprezzati” e “popolari” è fondamentale per “sopravvivere” e solitamente più un adolescente è esuberante e spigliato più è accettato. Tra i giovani infatti si formano dei gruppi dove c’è un leader e c’è chi viene deriso, solitamente il più timido e poco integrato. Anche io molto spesso mi sono sentita fuori luogo e perciò mi facevo trasportare dalla corrente: la mia timidezza non mi permetteva di esprimere le mie idee e ciò in cui credevo e in questo modo mi sentivo intrappolata, perché non potevo essere libera di dire ciò che volevo e credevo di non poter fare altrimenti per integrarmi. Il mio problema più grande era che mi preoccupavo sempre di quello che gli altri potessero pensare di me e non volevo essere emarginata. 2.1.2. La forza delle “passioni” Guy La libertà di un uomo per me consiste nel libero arbitrio, ma a questo punto bisogna domandarsi se a sua volta il libero arbitrio non sia condizionato da qualche fattore limitante. L’uomo chiaramente non prende decisioni solo in base alla sua ragione, ma anche in base ai propri desideri e agli impulsi, segue quindi le emozioni. Le emozioni sono normalmente considerate irrazionali, ovvero non decise dall’uomo, quasi subìte in certi casi (l’esempio per eccellenza è sicuramente l’amore, sentimento che coinvolge l’uomo e lo può trascinare anche in difficili situazioni entrando così in conflitto con la ragione). L’uomo quindi, forse già per questo primo motivo, difficilmente può essere considerato libero, poiché si trova spesso condizionato dai suoi stessi sentimenti o emozioni che, lo deviano dalle sue naturali decisioni effettuate mediante la ragione. 2.1.3. La costrizione religiosa Jack La condizione umana di fronte alla religione può essere intesa anche come una situazione negativa, secondo la quale il destino degli uomini è deciso o comunque influenzato da Dio o dagli dei. In una situazione familiare
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nella quale si verifica una diversità religiosa tra i genitori e i figli, ritengo inappropriata e profondamente ingiusta l’imposizione di una religione e della relativa pratica. 2.1.4. Il condizionamento sociale Jack L’uomo moderno è libero da un punto di vista legale poiché libero di professare la propria religione, esporre le proprie idee e poter scegliere ciò che ritiene meglio per sé. L’uomo moderno sotto molti altri punti di vista però è schiavo; anche se sostanzialmente la sua è una dolce schiavitù: la schiavitù delle comodità, dalle innovazioni e dai cambiamenti che influiscono anche sulla nostra vita quotidiana. L’uomo finisce per rimanere invischiato nella ragnatela della società, schiacciato dal consumismo, dal materialismo, dall’eccessiva libertà di informazione, tutte false necessità, ma soprattutto dai valori del denaro e della violenza. Guy In un contesto sociale inoltre la limitazione del libero arbitrio si presenta più sottile ancora, poiché anche le più normali scelte quotidiane, possono essere previste e controllate dai potentati economici, che fanno i loro interessi coinvolgendo i singoli in un subdolo gioco di condizionamenti. 2.1.5. Le circostanze ostili, la sorte avversa Angy Io, piccolo essere umano, vorrei essere libera di scegliere il mio destino, il mio futuro, ma tristemente mi rendo conto che ciò non potrà mai avvenire. Molto spesso le nostre azioni non bastano a farci arrivare al nostro obiettivo, molto spesso nulla va nel modo in cui immaginiamo che sarebbe andato. Per esempio io credo di essere libera di amare e forse posso scegliere attraverso la libertà chi amare, ma alla fine l’amore può finire anche se non dipende da una mia decisione, quindi non sono più libera; fattori esterni fanno sì che io non lo sia più.
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2.1.6. L’incalzare del tempo Issa L’oppressione è qualcosa di estremamente soggettivo. Alcuni sostengono che non si possa essere privati della propria libertà senza il proprio consenso, perché la vera libertà è quella interiore. Non mi sembra un ragionamento da disprezzare. Secondo questa ottica, solo noi stessi possiamo essere gli artefici della nostra limitazione, non gli altri. Ho riflettuto a lungo su come io “mi opprima” e sono giunta ad una conclusione. Mi sento oppressa quando guardo l’orologio, vedendo la lancetta dei secondi girare impazzita e quella dei minuti compiere dei piccoli scatti, beffarda. Ad inquietarmi di più, tuttavia, è indubbiamente quella delle ore: non si è in grado di percepire il suo movimento, ma in assoluto è quello che conta di più e, in fondo, ci condiziona
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di più. Non l’attimo fuggente, ma il tempo in sé è inafferrabile. Che sia questa la più grande limitazione dell’uomo, o la sua più grande libertà? 2.1.7. Fuga dalla libertà Lele Spesso non ci si può definire davvero liberi se evitiamo completamente di scegliere e ci uniformiamo alla massa. Questa “scelta” è semplicemente il modo più facile, apparentemente, di vivere perché evita ogni nostra responsabilità. Le conseguenze e l’idea di aver scelto la cosa sbagliata infatti possono spaventare le persone, che preferiscono non decidere per se stesse, ma farsi condurre dalla corrente, dalla massa, dalla società: di certo far scegliere qualcun altro è più facile e appare meno rischioso. Così a volte le persone scelgono di seguire incondizionatamente altri e/o gli ideali di altri, senza farsi domande sulla giustizia o sui valori che seguono e a costo di sacrificare la propria libertà. Le conseguenze, come spesso è accaduto nella storia, sono disastrose. 2.1.8. Un Io diviso Alex Nell’esperienza individuale, e dunque parziale, molteplici sono i casi in cui un freno inibitore suole imporsi tirannico privando l’essere umano dell’autonoma facoltà di scelta. Il predatore che si insinua nella sua conchiglia per carpirne l’unica perla, è tanto più subdolo quanto il rapporto con la vittima, inerme e vulnerabile, diviene intimo: fuor di metafora, se la restrizione, e quindi la defraudazione, ha un’origine interna al soggetto, non già esterna. Si è infatti più inclini a un’accettazione inerte dinanzi a eventi a noi estranei, non dipendenti dalla nostra volontà: ma quando si è amaramente consapevoli che il fattore limitante coincide con l’oggetto limitato, allora la rassegnazione si tramuta in dolore e in rancore. Non affatto sporadiche sono le occasioni in cui la libertà personale è paradossalmente ridotta dal mio stesso “io”, quasi coesistesse un alter ego che, dominatore, di invisibile consistenza, sedimenta le sue radici, soggioga e sovrasta. Una creatura cinica che impedisce, il più delle volte, di vivificare, rendendoli manifesti, i pensieri più reconditi, di districare dall’oscurità della notte opinioni personali, senza che si percepisca costantemente, come onnipresente fardello, il timore di sbagliare, ferire: presupposto ineluttabile di un sistematico conchiudersi nel muro fortificato del silenzio. Pusillanimità, viltà, potrebbe definirsi l’incapacità di rivelare le autentiche sfumature della nostra essenza. Ma si tratta propriamente di un arcano processo di auto-negazione che, comportando conseguenze non dissimili dall’ipocrisia (giacché, nolenti o volenti, si è inevitabilmente celati dietro maschere apparenti, illusorie), tuttavia, parte da presupposti radicalmente differenti: da una fragilità interiore, e non da
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tracotanza o meschinità. E gli effetti non possono che differire: ne scaturisce agonia e non vanagloria.
2.2. La libertà umana è limitata Issa Viviamo in una società del giudizio, in cui le pesanti tradizioni costringono i processi mentali a ricondursi a determinati schemi. Fatico a pensare a qualcosa che limiti e mini la libertà umana più del pregiudizio. I tempi cambiano, l’uomo pure, eppure l’nthropos, la natura umana, tende a essere un modello dedito alla conferma di sé. Per questo l’uomo non è libero: né di non essere giudicato quando infrange la tradizione, né di poter giudicare senza preconcetti. È questa la vera libertà? L’esenzione dal giudizio e dai preconcetti? Parrebbe alquanto riduttivo. Forse che la tradizione non sia tale per una valida ragione? Occorre quindi approfondire alcuni aspetti. La tradizione offre due libertà: quella di seguirla e quella di abbandonarla. Forse la libertà che offre è solo una, quella di scelta, non l’esenzione dal giudizio, in quanto indipendente da noi, privi di qualunque facoltà di modificarlo. Concludendo, l’uomo non è pienamente libero, perché fintanto che c’è un passato e ci sarà un futuro, sussistono obblighi e aspettative, eppure un margine di libertà si ha: non è il perché di quegli obblighi che possiamo gestire, ma il come. Alex Illusoria sarebbe la convinzione di chi, persuaso della “sovrana maestà” dell’essere umano, ne argomentasse la connaturata facoltà di agire autonomamente, senza alcuna ingerenza esterna. Né tanto meno ci si può stimare “artefici del proprio destino”: la disseminazione degli “aneliti” nel terreno prolifico della vita ha luogo in circostanze contingenti, casuali, non affatto determinate dalla coscienza individuale; ciascuno, d’altronde, nutre da sempre un recondito astio, un’inappagabile insoddisfazione, il cui fulcro è da ricercarsi nell’imposta costrizione a rivestire un ruolo, sociale o politico che sia, in contesti storici che potrebbero contrastare con i nostri intimi “appetiti”.
3. I “vissuti” della libertà
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3.1. Libertà è essere in armonia con la natura Issa La schiuma del mare mi accarezza i piedi con regolarità, mossa da una mano invisibile, più antica del tempo e delle regole. Mentre un gabbiano solca il cielo, turbando, o forse completando, l’armonia che regna, il sole scivola sotto la linea dell’orizzonte, creando giochi di luci emozionanti. Seguo con un movimento lento degli occhi le onde che si infrangono contro gli scogli, ingolfandosi, rombando, raggiungendo il loro momento di gloria per poi richiudersi, intimidite, accecate da tanta attenzione. È in momenti come questi che
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percepisco la grandezza e la libertà dell’essere umano. Quando è in armonia con la natura. Quando non percepisce lo scorrere del tempo, che in qualche modo è sempre opprimente. Quando non pensa al domani, ma al tempo e basta. Quando non guarda al particolare, ma all’universale.
3.2. Sentirsi liberi nell’espressione artistica Angy Io mi sento libera quando realizzo i miei sogni. Il mio desiderio fin da piccola è quello di ballare in un teatro enorme colmo di luci riflettenti, e quando è accaduto mi son sentita più libera che mai. Proprio mentre compio ogni passo di danza sono io che sono in connessione con il mio corpo e sono libera di trasmettere emozioni con fluidi e leggeri movimenti. Fin quando non danzo, non mi sento libera, le mie ali sono chiuse e non posso volare. Ora danzando sono un angelo: le mie ali sono aperte, sono pronta a spiccare il volo. L’arte per me è libertà di espressione e fa sì che la libertà non sia più solo un sentimento, ma si realizzi completamente, e fa sì che tutti possano ammirarla. 3.3. La libertà è relazione con gli altri, è aiutare gli altri Alex Supponiamo per assurdo che la stirpe umana si estinguesse e che fosse in grado di sopravvivere un solo uomo: nessuna circostanza, pur nella sua drammaticità, più propizia. Non si profilerebbe forse quella tanto vagheggiata occasione idonea all’attuazione e concretizzazione della libertas individuale? Il “fortunato” superstite si scardinerebbe indubbiamente dall’intero apparato degli impedimenta extra nos: nessuna esigenza di celarsi dietro vacue e illusorie maschere, nessun’implicita influenza in materia religiosa: soltanto l’uomo in quanto tale, la sua univoca essenza, corpo e mente intrinsecamente propri e genuini. Ma quale vantaggio si trarrebbe mai dal godere di una totalizzante, assoluta libertà, se poi si fosse confinati nelle mura di una mesta solitudine, se la stessa condizione della sua esistenza si estrinsecasse nella disumana, innaturale privazione della più peculiare caratterizzazione umana: la vita associata? Lery Mi sono sempre chiesta cosa mi rende libera e quindi felice, perché la felicità si ha con la libertà e si ha quando senti dentro di te una sconfinata leggerezza nel cuore. Questo senso di leggerezza e di pace ce l’ho quando aiuto le persone: quando faccio volontariato o semplicemente mi preoccupo per gli altri. Spesso noto che le persone sono troppo indaffarate per fermarsi un attimo a godere di quello che hanno. Hanno sempre qualcosa da fare e non si interessano a ciò che le circonda, alle persone che le circondano. Non noto mai nessun sorriso rivolto agli altri, nessun gesto di cortesia, di conforto. Le persone sottovalutano la forza di questi gesti, pensano che non siano importanti, ma non è così. Perciò per me è il sentirmi utile che mi rende felice, è il
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sapere che sto compiendo un’azione buona che sicuramente avrà effetti positivi, perché fare del bene non può fare altro che portare altro bene.
3.4. Sentirsi liberi in un nuovo inizio Alex Mi si è presentata, inopinata, una circostanza che, nella sua natura sovvertitrice, mi ha inaspettatamente consentito un “ritorno alle origini”, un distacco da una vita in procinto di infracidirsi, ristagnante nell’opprimente languore della passività: il trasferimento in un’altra città, recisione con le radici di un fosco passato, imprevisto forse disarmante per i più, ma per me saturo di una rigeneratrice linfa vitale. Riazzerare il tachimetro, disseminare i virgulti di una renovatio, mi ha profuso un innato senso di determinazione, di riacquisizione della dignità, rapportandomi al prossimo con spontanea franchezza, che mai avrei congetturato di sperimentare, quasi avessi contemplato con stupore disincantato la realtà circostante, come un infante al suo primo vagito.
4. Conclusione: libertà come espressione autentica dell’io nella sua originalità e unicità Guy Penso che l’uomo debba desiderare e lavorare per ottenere pienamente la propria libertà, perché egli stesso in questo modo contribuisce alla realizzazione della propria personalità e quindi della sua unicità, che già in sé possiede il concetto della libertà. Alex Sopravanza soltanto la “libertà laica” (laica non già perché irreligiosa o anticristiana, ma perché scevra da eventuali condizionamenti esterni cui ci conformiamo ineluttabilmente), che si compie nell’autentica esternazione del proprio “io”, nella realizzazione della dignità individuale, nel sistematico discernimento di inclinazioni conformi a un’interiorità spesso sopita, languida e avvezza a un perenne torpore, convergente essenzialmente nell’autocoscienza del singolo individuo, e rispetto alla quale non sarà mai possibile riscontrare degli speculari doppioni, frutto del globale conformismo.
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4.1. A confronto con gli antichi maestri Riguardando la descrizione delle libertà che emerge dalle nostre esperienze, abbiamo notato notevoli consonanze con le riflessioni sulla libertà dei filosofi che finora abbiamo studiato, vale a dire principalmente i filosofi dell’antichità e del medioevo; per limiti di spazio segnaliamo brevemente le idee che ci hanno colpito e che abbiamo ritrovato significative nel confronto con le nostre esperienze. La vera libertà è interiore: per Socrate questa libertà è raggiunta razional-
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mente, grazie alla dialettica, e non può esistere quindi per chi è schiavo dell’ignoranza e dei pregiudizi, e neppure per chi è asservito al piacere e al corpo. Anche se il filosofo non deve rifiutare i piaceri, non deve però esserne schiavo, ma deve essere in grado di distaccarsene e di mettere al primo posto la ragione e la ricerca. Pertanto la libertà non è corporea, esteriore, ma è libertà di spirito: si è davvero in catene solo se l’anima è succube delle passioni. Anche per Platone, nel mito della Caverna, la libertà è descritta come liberazione dalle catene e dal regno delle ombre, e quindi esige un combattimento interiore: noi dobbiamo lottare per la libertà, sarà difficile all’inizio, e, proprio come il prigioniero della caverna, avremo difficoltà davanti alla visione delle cose vere. Ci sarà difficile trovare ciò che più è vero, e inizialmente vedremo la verità nel riflesso delle cose, ma abituandoci alla luce della conoscenza riusciremo a vedere le cose in se stesse, così come sono. Il tema del combattimento interiore lo ritroviamo anche in sant’Agostino nel dissidio tra la ragione che può conoscere il bene e la volontà che può respingerlo («Ero io che volevo, io che non volevo: ero proprio io che né volevo pienamente, né rifiutavo pienamente. Perciò lottavo con me stesso e mi straziavo da me stesso») 3. L’uomo è responsabile delle proprie azioni (non siamo succubi del Fato e degli Dei): uno dei primi, e forse più emblematici contributi, proprio in virtù della sua stessa natura anticonformistica, alla speculazione filosofica sul tema della libertà si trova nella Repubblica di Platone, nel celebre “mito di Er”: «Non sarà un demone a scegliere voi, ma voi sceglierete il demone […] La responsabilità è di chi sceglie: un dio non è responsabile»4. Non più, quindi, la tradizionale convenzione di un “dio”, di un destino predeterminato, quale causa delle sorti delle umane genti, non più l’imputazione della colpa di successi e sventure a un ente gerarchicamente superiore: l’uomo assurge (anacronisticamente parlando) a faber ipsius fortunae, artefice del suo stesso destino, svincolato dagli imponderabili capricci di una divinità estranea. Pur affrontando il tema in un orizzonte più concreto e condizionato, anche Aristotele afferma la responsabilità umana: egli collega per la prima volta nella storia della filosofia il concetto di libertà a quello di volontarietà e opera una distinzione fra volontarietà ed involontarietà (in opposizione fra loro). Un’azione volontaria è compiuta da un soggetto umano il quale agisce senza costrizioni esterne e con la consapevolezza delle circostanze entro cui l’azione si svolge; ne segue che l’uomo porta sempre la responsabilità delle proprie azioni, del bene e del male compiuto e non compiuto: «Dipende da noi compiere le azioni belle e le azioni
3. Agostino, Confessioni, libro viii, cap. x, trad. it. di C. Vitali, Rizzoli, Milano 1998. 4. Platone, Repubblica, 617d-e, trad. it. di M. Vegetti, Laterza, Roma-Bari 2005.
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turpi, ed allo stesso modo anche il non compierle, e questo è ciò che avevamo detto essere ciò in cui consiste la bontà e la cattiveria»5. Anche secondo Epicuro l’uomo è solo con se stesso, è libero di indirizzare il proprio destino e non deve rendere conto della propria condizione a nessuna entità sovrastante (nega infatti il Fato e l’influenza degli Dei sulle vicende umane) o meccanismo precostituito (il clinamen, eliminando la necessità assoluta e introducendo un elemento di casualità nell’universo, e quindi anche nel moto degli atomi che costituiscono l’anima umana, è la condizione di possibilità del libero arbitrio). Pur partendo da presupposti completamente diversi da quelli materialistici epicurei, anche sant’Agostino afferma che l’uomo, agendo di sua spontanea volontà, è responsabile dei suoi atti. Per Agostino quindi la libertà è propria della volontà (si distacca così dall’intellettualismo etico della filosofia greca). La ragione indica il bene, ma la volontà può rifiutarlo o accettarlo («In ogni atto di consenso e di rifiuto ero certissimo di essere io, non un altro, a consentire o rifiutare; e qui era la causa del mio peccato, lo vedevo sempre meglio»)6. Affermando questo egli confuta il manicheismo, che negava la libertà dicendo che nell’uomo avviene una lotta tra due principi esterni all’uomo stesso, il bene e il male, e che quindi egli non è responsabile delle proprie azioni, perché la colpa ricade sul principio negativo. Si potrebbe pensare che, sostenendo la grazia, Agostino neghi il libero arbitrio, ma ciò è falso perché è possibile spiegare con argomenti razionali il bisogno di doversi affidare a Dio: «Se non c’è la grazia, Cristo come salva il mondo? Se non c’è il libero arbitrio, Cristo come giudica il mondo?»7: l’uomo possiede il libero arbitrio semplicemente perché ha sia la consapevolezza di esser lui a scegliere, sia la consapevolezza che alla fine verrà giudicato da Dio. Gli stessi comandamenti divini provano all’uomo il libero arbitrio: infatti come può Dio ordinare di osservarli e di compierli, se non esistesse il libero arbitrio?
4.2. La libertà come adesione al bene e alla verità In Socrate e in Platone la libertà interiore che l’uomo deve conquistare con il combattimento interiore coincide con il Bene e con il Vero: in Socrate ciò conduce al famoso “paradosso etico”: nessuno compie il male volontariamente, ma sceglie sempre ciò che reputa sia meglio per lui, quindi il male è in realtà la scelta di seguire un bene apparente invece del bene reale. Per questo c’è l’esigenza di stabilire dei criteri universali e validi con cui definire cosa è il
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5. Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999, 1113b8-13. 6. Agostino, Confessioni, cit., 7,3. 7. Agostino, Lettera, 214, trad. it. di L. Carozzi, Città Nuova Editrice, Roma 1969.
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bene, poiché l’uomo che conosce il bene lo attuerà sempre. C’è qui una specie di necessità (che entra in attrito con la libertà) perché la conoscenza del bene conduce ineluttabilmente alla scelta del bene. Lo stesso attrito lo avvertiamo nello stoicismo. Secondo la filosofia stoica l’universo è pervaso da un soffio caldo, lo pneuma, definito anche lògos (“ragione”) oppure prònoia (“provvidenza”). Essendo dunque la natura pervasa dalla ragione, essa agisce nel modo più razionale possibile e, conseguentemente, nel modo migliore possibile. L’idea che la natura stessa trovi e attui al suo interno la soluzione migliore per l’esistenza suscita il quesito: dove si colloca la libertà umana? In che modo l’essere umano ha libertà non tanto di pensare (tale facoltà non viene negata, perché non influisce direttamente nel corso egli eventi), ma di agire, se la natura procede secondo un progetto di cui l’uomo fa sì parte, ma come “burattino” e non come “burattinaio”, anche solo di se stesso? In un’ottica più ampia, lo stesso insegnamento morale, a prima vista, risulterebbe privo di utilità, dal momento che né con una condotta virtuosa né con una dedita al vizio l’uomo potrebbe modificare il susseguirsi dei fatti. La risposta degli stoici è che l’uomo non può modificare il corso della sua esistenza, però può rifiutarlo e resistervi, oppure può aderirvi interiormente. Si introduce, in uno dei primi casi della storia filosofica occidentale, il concetto di libertà di adesione. Sarebbe fallace sostenere, quindi, che la vera libertà consista in una totale capacità di azione (in una sorta di assenza di limiti): essa consisterebbe piuttosto in una condivisione di un piano superiore, un agire vòlto all’attuazione di un volere perfetto che comunque si realizzerà, con noi o senza di noi. Celeberrimo è l’esempio del cane trascinato dal carro: «Lo stesso vale per gli uomini: quand’anche non lo volessero seguire andrebbero comunque là dov’è il loro destino». Si ritorna forse alla sudditanza al Fato negata da Platone, Aristotele, Epicuro? Comunque l’adesione al Lògos, al Bene, o al volere di Dio (così Epitteto: «Quel che Dio vuole anch’egli vuole, e quel che Dio non vuole, neppur egli vuole. E come ottener questo? Altrimenti, forse, che osservando i disegni di Dio e il suo governo? […] E perché mi oppongo? Dico che non solo sarò sciocco ricorrendo alla violenza contro chi è più forte, ma anche, e soprattutto, ingiusto»8) costituisce un aspetto costante della riflessione sulla libertà, e influenzerà il panorama filosofico dei secoli a seguire. Infatti anche per sant’Agostino la vera libertà è adesione al Bene (cioè amore diretto verso Dio e amore verso gli uomini e le cose in funzione di Dio), ma questa adesione deve essere volontaria e personale e quindi deve ammettere (diversamente da quella degli stoici) la possibilità del rifiuto, della aversio
8. Epitetto, Diatribe, iv, 1, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1989.
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a Deo; e tale rifiuto è drammaticamente efficace, operante nella storia e sulla vita delle persone: gli uomini secondo Agostino (e secondo il cristianesimo) non «andrebbero verso il loro destino quand’anche non lo volessero seguire», ma vanno verso ciò che effettivamente vogliono e scelgono: la Città terrena o la Città divina. E la storia, anche recentissima, documenta questa terribile e misteriosa conseguenza del libero arbitrio: la possibilità reale della violenza, dell’ingiustizia e della sopraffazione.
Bibliografia aa.vv., Dizionario della libertà. Le parole della Libertà in ventisei grandi scrittori contemporanei, Passigli, Firenze, 2002. De Caro M., Azione, il Mulino, Bologna 2008. De Caro M., Mori M., Spinelli E., Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci, Roma 2014. La Vergata A., Trabattoni F., Filosofia cultura cittadinanza, vol. 1, La Nuova Italia, Milano 2011.
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III PREMIO JUNIOR
«Ma anche così desidero e invoco ogni giorno / Di tornarmene a casa, vedere il ritorno». Saggio sulla libertà dell’uomo a partire da testi di Omero di Carla Barenghi, Alessandro Foti, Filippo Landi, Maddalena Savorana
1. Introduzione: Omero, amico del sapere Per affrontare la tematica della libertà dell’uomo abbiamo scelto di basarci su alcuni testi del primo grande scrittore e pensatore nella storia dell’Occidente: Omero. Tutti i Greci conoscevano e studiavano i suoi poemi e tutta la letteratura successiva si fondò e si ispirò a lui. Eppure, non solo i letterati, ma pure e soprattutto i filosofi greci non poterono evitare di confrontarsi con Omero. La storia stessa dell’umanità ci insegna che chiunque voglia fare qualcosa di grande deve guardare a chi lo ha preceduto per imparare dal suo esempio e per provare a superarlo: basti pensare al glorioso impero romano, che, anche dopo la sua caduta, è stato visto da tutti come la maggiore potenza statale che sia mai esistita. Omero, pur non essendo un filosofo, precedette i filosofi perché si pose i loro stessi problemi. Nei suoi poemi Omero tratta della vita, della morte, dell’amore, del modo migliore di vivere, del destino dell’uomo, della sua libertà, ecc. Omero, dunque, non è precisamente un filosofo, ma è indubbiamente un amico del sapere, anzi, il primo amico del sapere, precursore di tutti quelli che sono venuti dopo di lui. Senza Omero, la riflessione filosofica greca sarebbe stata come un palazzo senza fondamenta, come un albero senza radici. Per questo, l’autore dell’Iliade e dell’Odissea può essere a buon diritto considerato il padre della sophia.
2. Il destino di Sarpedone, figlio di Zeus Nel libro xvi dell’Iliade (vv. 431-461) Omero descrive una scena indubbiamente interessante: mentre Zeus ed Era assistono alla battaglia, il primo si rende conto che il proprio figlio Sarpedone, che stava per combattere con Patroclo, era destinato a morire in quello scontro. Per questo motivo si rattrista profondamente e si chiede se davvero non può fare nulla per salvarlo. Gemette vedendoli il figlio di Crono pensiero complesso, e parlò ad Era, la sua sposa e sorella: «Ohimè che il mio Sarpedone, il più caro fra gli uomini, è fato che muoia per mano di Patroclo Meneziade.
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
E il cuore nel petto sconvolto medita due pensieri: o vivo, lontano dalla triste battaglia, lo rapisco e lo porto nel grasso paese di Licia, o subito sotto il braccio del Meneziade lo atterro». E gli rispose Era augusta grandi occhi: «Terribile Cronide, che parola hai detto. Uomo mortale, da molto tempo dovuto al destino, vorresti strappare alla morte lugubre gemito? Fa’, ma non tutti ti loderemo noi dèi. E ti dirò un’altra cosa, tu mettila nella tua mente: se alla casa vivo Sarpedone rimandi, bada che qualcun altro dei numi beati non voglia salvare il figlio dalla mischia brutale, ché molti lottano intorno alla gran rocca di Priamo figli di numi immortali, cui ispirerai sdegno tremendo. Ma se ti è caro, se il tuo cuore lo piange, lascialo dunque nella mischia violenta sotto le mani di Patroclo Meneziade perire; e appena il respiro l’abbia lasciato e la vita, manda la Morte a prenderlo e il Sonno soave, che contrada dell’ampia Licia raggiungano e là l’onoreranno i fratelli e i compagni di tomba e stele: questo è l’onore dei morti!» Disse così, fu persuaso il padre dei numi e degli uomini: e gocce sanguigne sopra la terra versò onorando il suo figlio, che Patroclo gli doveva uccidere in Troia fertile zolla, lontano dalla patria1.
3. Il Fato: regolatore del destino di tutti In questo episodio notiamo chiaramente che sia Zeus che Era discutono muovendo dal preliminare riconoscimento di una moira o di un’ate che si pongono entrambe come “parte” della vita, assegnata ab antiquo (palai, v. 441) al singolo uomo da un potere oscuro e indefinito. Questo è, dunque, il Fato, che nell’Iliade determina il corso di tutti gli eventi e non si “dimentica” di nessun uomo: la vita di ogni persona dipende dal Fato ed è influenzata da esso. Gli uomini sembrano come posti in mezzo alla corrente di un fiume, che essi non possono rallentare, accelerare, fermare o deviare in alcun modo. Quindi a ogni essere umano è stato assegnato un destino prestabilito. Per evitare incomprensioni, però, è necessario fare una precisazione. Il Fato non è concepito da Omero come una forma di Provvidenza, che ha un progetto buono
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1.
Tutte le traduzioni dell’Iliade sono tratte da: Omero, Iliade, trad.it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1974.
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per la vita di ciascuno, indica la strada giusta da seguire e fa in modo che ad ognuno accadano le cose giuste al momento giusto. Al contrario, il Fato è più simile al caso: all’uomo durante la vita, indipendentemente dalla propria volontà, accadono certi fatti in certe occasioni. L’uomo può disporre e decidere quanto vuole, ma il corso degli eventi procede per la maggior parte delle volte in modo diverso rispetto a come lui aveva previsto o sperato.
4. Che cosa c’entra con noi? Mi sono chiesto che cosa abbia spinto Omero ad avere la concezione che ci sia un Fato superiore a tutto e a tutti e mi sono risposto che sia stato proprio il fatto di rendersi conto che l’uomo non può controllare né decidere ciò che gli accade2. Anche a noi capita moltissime volte di avere certi desideri, di coltivare delle speranze o di avere dei progetti per la nostra esistenza, ma poi essi finiscono per non realizzarsi e le nostre attese vengono deluse. Forse vorremmo che tutto dipendesse da noi, ma ciò non è possibile: l’uomo non è padrone del proprio destino, ma si ritrova a vivere in esso.
5. Domanda conclusiva Dunque nel mondo omerico è presente, in maniera evidente e invadente, questa potenza superiore, che interessa tutti e ciascuno: fin dove però arriva il suo potere? La libertà dell’uomo che autonomia mantiene di fronte a essa?
6. Il pianto di Achille e di Priamo per il destino infelice di Ettore e Patroclo Nel libro xxiv dell’Iliade, l’ultimo del poema (vv. 503-526), Priamo si reca da Achille per chiedergli la restituzione del corpo di Ettore. L’eroe greco e il re troiano si ritrovano insieme a piangere, l’uno la morte dell’amico carissimo, l’altro quella del figlio.
2.
L’idea di una forza cieca che governi il mondo è la stessa espressa dalla teoria darwiniana dell’evoluzione, che considera l’individuo come il prodotto casuale di una serie di circostanze, una “selezione naturale” senza artefici e senza finalità. È quello che afferma Richard Dawkins, un biologo, il quale in numerosi libri (di grande successo) utilizza la scienza come chiave per rispondere a domande filosofiche sul senso dell’esistenza e sulla libertà dell’individuo. Per Dawkins l’uomo è totalmente schiavo dei propri geni: «per sopravvivere (per propagarsi come replicatori), hanno costruito veicoli, macchine di sopravvivenza (animali, vegetali, uomo): noi siamo macchine da sopravvivenza programmate per preservare i geni» (Il gene egoista, trad. it. di G. Corte, A. Serra, Mondadori, Milano 1995, p. 179).
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«Achille, rispetta i numi, abbi pietà di me, pensando al padre tuo: ma io son più misero, ho patito quanto nessun altro mortale, portare alla bocca la mano dell’uomo che ha ucciso i miei figli!» Disse così, e gli fece nascere brama di piangere il padre: allora gli prese la mano e scostò piano il vecchio; entrambi pensavano e uno piangeva Ettore massacratore a lungo, rannicchiandosi ai piedi d’Achille, ma Achille piangeva il padre, e ogni tanto anche Patroclo; s’alzava per la dimora quel pianto. Ma quando Achille glorioso si fu goduto i singhiozzi, passò dal cuore e dalle membra la brama, s’alzò dal seggio a un tratto e rialzò il vecchio per mano, commiserando la testa canuta, il mento canuto, e volgendosi a lui parlò parole fugaci: «Ah misero, quanti mali hai patito nel cuore! e come hai potuto alle navi dei Danai venire solo, sotto gli occhi d’un uomo che molti e gagliardi figliuoli t’ha ucciso? Tu hai cuore di ferro. Ma via, ora siedi sul seggio e i dolori lasciamoli dentro nell’animo, per quanto afflitti: nessun guadagno si trova nel gelido pianto. Gli dei filarono questo per i mortali infelici: vivere nell’amarezza: essi invece son senza pene».
7. L’amarezza dell’uomo di fronte alla morte
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Achille e Priamo piangono per la morte di due persone che amavano e con grande amarezza sentenziano che l’uomo è costretto a vivere nell’infelicità. La morte, il destino triste, la sorte difficile da accettare rendono la vita una tortura. Dicendo questo Achille esprime un concetto ancora attuale: anche al giorno d’oggi ci sono tantissime persone che si trovano in situazioni di disperazione, depressione e angoscia infinita. Come è successo per Achille e Priamo, anche oggi di fronte alla morte moltissimi uomini si sentono come annichiliti e annientati, senza sapere come reagire in modo positivo. Sembra proprio che il nostro destino sia quello di vivere in una triste amarezza in attesa della morte. Dove sta, in tutto questo, la libertà dell’uomo? Omero ci fa vedere chiaramente che Priamo e Achille, oppressi dal dolore, la negano. O, per meglio dire, essi non negano la libertà, ma la felicità. Questo ci fa comprendere meglio che cosa sia in fondo la libertà: essa non è altro che la possibilità di vivere nel modo che riteniamo migliore, per raggiungere una felicità che non sia illusione, una gioia che sia vera e reale. Eppure, Priamo e Achille negano che ci sia questa possibilità, perché stanno vivendo un momento di angoscia e di afflizione molto intense.
Saggio sulla libertà dell’uomo a partire da testi di Omero
8. Domanda conclusiva Dunque, qual è la verità? Abbiamo la libertà e la possibilità di vivere felici, oppure la morte ci toglie ogni speranza? La morte è un dato di fatto: tutti sono stati o saranno sottoposti a essa. L’uomo come può affermare la propria libertà di fronte alla morte?
9. Agamennone colpito da Ate Nel libro xix dell’Iliade (vv. 83-94) Agamennone, pentitosi della lite con Achille, occorsa nel primo libro, attribuisce le cause della sua rabbia a Zeus, al Fato e ad Ate, una sorta di divinità in grado di procurare all’uomo un accecamento che lo conduce all’errore. Io dunque al Pelide mi rivolgerò: ma voi altri comprendetemi, o Argivi, capite bene la parola ciascuno. Spesso questo discorso mi facevan gli Argivi e mi biasimavano; pure io non son colpevole ma Zeus e la Moira e l’Erinni che nella nebbia cammina; essi nell’assemblea gettarono contro di me stolto errore quel giorno che tolsi il suo dono ad Achille. Ma che potevo fare? i numi tutto compiscono. Ate è la figlia maggiore di Zeus, che tutti fa errare, funesta; essa ha piedi molli; perciò non sul suolo si muove, ma tra le teste degli uomini avanza, danneggiando gli umani: uno dopo l’altro li impania.
10. Ate: colpevole dell’ira di Agamennone Conoscendo un minimo di psicologia umana, non per degli studi, ma per esperienza personale, e riflettendo sull’episodio della lite tra Agamennone e Achille, mi sembra chiaro che il re degli Achei si sia arrabbiato con Achille, rifacendosi poi della perdita della concubina portandola via all’avversario, non tanto per un intervento divino, quanto per orgoglio e superbia; infatti, riesco anche io a immedesimarmi in lui, pur senza immaginarmi un’Ate che mi accechi o una Moira che mi induca all’ira. Quindi, qual è il motivo per cui Agamennone non si assume le proprie responsabilità e le attribuisce ad essi? Quello di Ate non è un pretesto per dichiararsi incolpevole, perché comunque vuole dare dei doni ad Achille per farsi perdonare; dal punto di vista giuridico, la sua posizione sarebbe stata colpevole in ogni caso, perché la giustizia greca primitiva non teneva conto dell’intenzione, ma soltanto dell’azione; inoltre, anche Achille vede le cose nello stesso modo: «Padre Zeus, ah, grandi errori tu ispiri agli uomini.
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Mai, se no, il figlio d’Atreo l’animo in petto così a fondo m’avrebbe sconvolto, né la fanciulla strappato, inflessibile, mio malgrado»3. Per comprendere queste considerazioni degli eroi dell’Iliade dobbiamo ricordare che essi si sentono condizionati non tanto da sentimenti introiettati nella sfera dell’io individuale (colpa, rimorso, coscienza, ecc.), quanto dai risvolti pubblici e sociali delle loro azioni, in primo luogo dal senso dell’onore e dallo scrupolo verso gli altri. Perciò essi tendono ad attribuire la responsabilità dei propri atti a un agente esterno, che può essere un dio o un demone o la Moira o Ate. Dunque nei poemi omerici si nota un’idea di libertà molto particolare: l’uomo non è mai concepito da solo, come individuo libero e indipendente, ma è sempre inserito nella società, quindi influenzato da tutti gli altri uomini, e inserito nel corso del destino, quindi influenzato dal Fato. È a causa di questa concezione che Agamennone, riflettendo sulla lite con Achille, giunge alla conclusione che il suo accecamento è stato dovuto non a una sua scelta, ma all’azione di Ate4.
11. Che cosa c’entra con noi? Noi, al giorno d’oggi, abbiamo una visione completamente diversa, infatti consideriamo le nostre scelte e le decisioni riguardanti il nostro modo d’agire come strettamente legate alla nostra libertà e al nostro io individuale. Eppure, moltissime volte facciamo qualcosa istintivamente, soprattutto quando siamo in preda a passioni forti, e poi vorremmo non averla fatta, perché ci pentiamo, rendendoci conto che sarebbe stato meglio agire in un altro modo. Abbiamo notato che già nel brano precedente emerge un’idea che c’entra direttamente con la nostra esperienza di libertà, cioè quella per cui nessun uomo è in grado di controllare completamente gli eventi che gli accadono, ma piuttosto è chiamato ad affrontarli nel momento in cui avvengono. Dunque il pensiero omerico, pur lontanissimo per certi aspetti dal nostro modo di concepire il mondo, per altri si rivela essere in realtà molto vicino a noi, perché l’uomo è lo stesso oggi e ieri, e la sua concezione di libertà, sebbene inscritta in un contesto e in una cultura del tutto diversi da quelli in cui noi siamo immersi, in fondo non ci è estranea.
3. 4.
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Iliade, xix, vv. 270 ss. Anche molte religioni considerano le azioni umane come ineluttabilmente dominate dal Dio che ci ha creati. Con l’affermazione di un dio, l’uomo asseconda quella parte della propria natura che si ribella a un universo dominato dal caso, immaginando un ordine e un fine ultimo del mondo. Ma affermare una mente suprema può comportare l’annullamento della libertà umana, assorbita interamente da un dio che ha il controllo totale sulle nostre vite. Ecco quindi la teoria della predestinazione, presente ad esempio nell’islam. Recita il Corano: «Nulla di quel che è sulla terra o nei cieli è nascosto ad Allah. È Lui che vi plasma come vuole negli uteri. Non c’è Dio all’infuori di Lui, l’Eccelso, il Saggio» (Sura ii, Al Imran, vv. 1-3-4).
Saggio sulla libertà dell’uomo a partire da testi di Omero
12. Domanda conclusiva Ora, abbiamo visto che l’uomo omerico è fortemente condizionato nel suo agire da fattori esterni, quindi ci chiediamo in che cosa consista e che valore abbia nel mondo dell’autore la libertà umana. Per farlo, analizziamo la vicenda di due dei suoi eroi principali: Ettore, figlio di Priamo e valoroso eroe di Troia, e Odisseo, che rappresentano in modo drammatico e significativo la tematica della libertà.
13. Ettore: il dialogo con Andromaca Nel libro vi dell’Iliade (vv. 399ss) Ettore, prima di andare in battaglia, si reca da sua moglie Andromaca, per salutare lei e il suo piccolo figlioletto Astianatte: Dunque [Andromaca] gli venne incontro, con lei andava l’ancella, portando in braccio il bimbo, cuore ingenuo, piccino, il figlio d’Ettore amato, simile a vaga stella. Ettore lo chiamava Scamandrio, ma gli altri Astianatte, perché Ettore salvava Ilio lui solo. Egli, guardando il bambino, sorrise in silenzio: ma Andromaca gli si fece vicino piangendo: «Misero, il tuo coraggio t’ucciderà, tu non hai compassione del figlio così piccino, di me sciagurata, che vedova presto sarò, presto t’uccideranno gli Achei, balzandoti contro tutti: oh, meglio per me scendere sotto terra, priva di te; perché nessun’altra dolcezza, se tu soccombi al destino, avrò mai, solo pene! il padre non l’ho, non ho la nobile madre. Il padre mio Achille glorioso l’ha ucciso […]. Erano sette i miei fratelli dentro il palazzo: ed essi tutti in un giorno scesero all’Ade di freccia, tutti li uccise Achille glorioso rapido piede […]. Ettore, tu sei per me padre e nobile madre e fratello, tu sei il mio sposo fiorente; ah, dunque, abbi pietà, rimani qui sulla torre, non fare orfano il figlio, vedova la sposa […]». E allora Ettore grande, elmo abbagliante, le disse: «Donna, anch’io, sì, penso a tutto questo; ma ho troppo rossore dei Teucri, delle Troiane lungo peplo, se resto come un vile lontano dalla guerra. Né lo vuole il mio cuore, perché ho appreso a esser forte sempre, a combattere in mezzo ai primi Troiani, al padre procurando grande gloria e a me stesso. Io lo so bene questo dentro l’anima e il cuore: giorno verrà che Ilio sacra perisca, e Priamo, e la gente di Priamo buona lancia […].
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Morto, però, m’imprigioni la terra su me riversata, prima ch’io le tue grida, il tuo rapimento conosca!».
14. I motivi della scelta di Ettore In questo brano Ettore è chiamato a compiere una scelta e noi possiamo vedere all’opera la sua libertà, che mostra tutta la sua vitalità ogni volta che bisogna prendere una decisione: quali sono i criteri di cui Ettore tiene conto per scegliere? Innanzitutto, però, è necessario chiarire le opzioni fra cui è chiamato a scegliere: da una parte rimanere con Astianatte e Andromaca, restando fedele all’amore, dall’altra andare in battaglia, incontro alla morte. Ettore sceglie di combattere. Questa decisione ha tre motivazioni: la prima è che si vergognerebbe di fronte ai Troiani se non andasse in battaglia, la seconda è il suo coraggio, che lo spinge a cercare grande gloria combattendo, la terza è che sa che Ilio, per volere del Fato, è destinata a perire, e Andromaca a diventare schiava degli Achei, perciò preferirebbe morire piuttosto che vedere la propria città e la propria sposa in quella condizione. Queste tre motivazioni delineano chiaramente i limiti che sono posti alla libertà di Ettore e che non possono essere tolti in alcun modo. All’eroe troiano non viene nemmeno in mente che forse si potrebbe ribellare ad essi; semplicemente prende atto delle circostanze e agisce di conseguenza. La sua libertà è dunque chiaramente condizionata da tre fattori: la società (teme di doversi vergognare di fronte ai Troiani), la morte (l’uomo è mortale, solo la gloria garantisce un ricordo eterno) e il Fato (il destino di Troia è quello di perdere la guerra).
15. La libertà di Ettore
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Di conseguenza, potrebbe sembrare che Ettore non abbia nessuna libertà, se noi consideriamo la libertà come poter fare e scegliere quello che vogliamo senza avere nessun limite che ci sia imposto. Al giorno d’oggi molti pensano che la libertà sia questo, dunque che, se qualcuno non la possiede, ha il diritto di ribellarsi. Invece, gli eroi omerici riconoscevano che la loro libertà era condizionata e limitata, eppure non si lamentavano, anzi, affrontavano la situazione con coraggio e determinazione, ritenendosi comunque uomini liberi. Ettore raggiunge piena grandezza umana non quando diventa libero da qualsiasi vincolo, ma quando riconosce i limiti che nell’ordinamento cosmico gli sono stati tracciati ed entro essi cerca di configurare la sua esistenza in modo adeguato alla propria natura, secondo la propria positiva volontà di vita. Nel momento in cui vede dinanzi a sé la morte sicura e si accorge di essere stato ingannato e tradito da tutti gli déi, Ettore non si lascia vincere dalla paura, ma il suo unico pensiero è questo:
Saggio sulla libertà dell’uomo a partire da testi di Omero
«Ebbene, non senza lotta, non senza gloria morrò, ma avendo compiuto qualcosa di grande, che anche i futuri lo sappiano» 5 .
Il Fato può decretare il momento della morte fisica dell’uomo, ma neppure in tal caso può privarlo del diritto e delle capacità di agire come egli stesso, di sua volontà, decide. Del corso degli eventi non è dato all’uomo mutare nulla; ma nell’intimo egli rimane padrone delle sue decisioni6.
16. Che cosa c’entra con noi? Abbiamo molto da imparare dal modo di agire di Ettore: ogni volta che, in virtù del diritto alla libertà che reclamiamo, pretendiamo di avere il controllo totale su tutta la nostra vita, dobbiamo ricordarci innanzitutto che questa stessa vita non l’abbiamo creata da noi stessi – così come Ettore ricordava che la sua esistenza era influenzata dalla volontà del Fato –, che siamo uomini mortali – quindi sottoposti al vincolo della morte – e che siamo inseriti in una società. È giusto approfondire queste tre affermazioni. Riguardo alla prima, è interessante notare che la nostra vita non è frutto della nostra libertà, perché nessuno di noi ha scelto di nascere in un certo momento, in un certo luogo e da certi genitori, ma è una circostanza che ci viene data e in cui ci troviamo, indipendentemente da noi stessi. Allo stesso modo, come ci è stata data la vita ci viene data anche la morte: non sappiamo quando né dove né come moriremo e non possiamo saperlo né deciderlo prima (eccetto i casi di morte volontaria). Magari non vorremmo nemmeno morire, ma è destino che questo ci accada. Infine, non siamo da soli sulla Terra, ma ci sono tante altre persone come noi e siamo in qualche modo costretti a porci in relazione con loro: esse ci condizionano, ci cambiano, ci influenzano, suscitano in noi sentimenti, reazioni, pensieri, emozione, dolore, amore. Dunque, non siamo senza limiti, non siamo immortali, non siamo da soli, ma restiamo co-
5. 6.
Iliade, xxii, vv. 304-305. È interessante notare come sia la teoria dell’evoluzione (vista da Dawkins), sia l’Islam, pur affermando in linea teorica l’inesistenza di una libertà, in qualche maniera ammettono uno spazio di scelta per l’individuo. Afferma Dawkins ne Il gene egoista: «l’amore universale, il benessere della specie, l’altruismo sono concetti che non appartengono alla storia dell’evoluzione biologica», arrivando alla conclusione che noi uomini, «unici sul pianeta, abbiamo il potere di ribellarci ai nostri creatori, i replicatori egoisti: possiamo sviluppare l’altruismo disinteressato, qualcosa che non è in natura» (Il gene egoista, cit., p. 179). Anche il Corano parla degli uomini come di esseri dotati di libero arbitrio: «Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l’orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada. Allah è perdonatore, misericordioso» (Sura ix, At-Tawba, vv. 5-30) Che senso avrebbero infatti concetti come perdono, misericordia, pentimento, se veramente l’uomo fosse vincolato unicamente dalla volontà del suo creatore e non avesse la possibilità di ribellarsi a lui?
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munque liberi, perché essere liberi non vuol dire poter fare tutto, ma significa trovare la propria realizzazione ed essere pienamente se stessi, ma nessuno può essere se stesso se non all’interno dei limiti e delle circostanze in cui, indipendentemente da sé, si è trovato a vivere. Riguardo alla stessa dinamica, si pone anche l’altro eroe omerico, Odisseo, nell’Odissea, come si nota in particolare nell’episodio del suo dialogo con la ninfa Calipso.
17. Odisseo: il dialogo con Calipso Nel libro v dell’Odissea (vv. 201-224) la ninfa Calipso cerca di trattenere presso di sé Odisseo, di cui si era innamorata, ricordandogli che lei era molto migliore di Penelope per aspetto e grandezza, offrendogli l’immortalità e dicendogli che, se fosse rimasto presso di lei, non sarebbe andato incontro a tutte le pene e le fatiche che avrebbe invece dovuto affrontare per tornare in patria. Poi quando si furon goduti cibo e bevanda, fra loro prendeva a dire Calipso, la dea luminosa: «Laerziade divino, accorto Odisseo dunque alla casa, alla terra dei padri subito adesso andrai? Ebbene, che tu sia felice! Ma se sapessi nell’animo tuo quante pene t’è destino subire, prima di giungere in patria, qui rimanendo con me, la casa mia abiteresti e immortale saresti, benché tanto bramoso di rivedere la sposa, che sempre invochi ogni giorno. Eppure, certo, di lei mi vanto migliore quanto a corpo e figura, perché non può essere che le mortali d’aspetto e bellezza con le immortali gareggino!» E rispondendole disse l’accorto Odisseo: «O dea sovrana, non adirarti con me per questo: so anch’io, e molto bene, che a tuo confronto la saggia Penelope per aspetto e grandezza non val niente a vederla: è mortale, e tu sei immortale e non ti tocca vecchiezza. Ma anche così desidero e invoco ogni giorno Di tornarmene a casa, vedere il ritorno. Se ancora qualcuno dei numi vorrà tormentarmi sul livido mare, sopporterò, perché in petto ho un cuore avvezzo alle pene. Molto ho sofferto, ho corso molti pericoli fra l’onde e in guerra: e dopo quelli venga anche questo!»7.
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7.
Traduzione del passo da Omero, Odissea, trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989.
Saggio sulla libertà dell’uomo a partire da testi di Omero
18. La libertà nella fedeltà Dunque, Odisseo deve compiere una scelta e noi possiamo osservare come mette in gioco la sua libertà. Rimanendo con Calipso, sarebbe stato liberato da tutti i suoi limiti umani, dalla morte e dagli affanni a cui era destinato ad andare incontro, dall’amore e dagli affetti che ancora lo legano ad altri mortali. Potrebbe sembrare che Odisseo, scegliendo di restare con Calipso, sarebbe stato finalmente libero. Eppure, egli decide di rimanere fedele alla propria umanità, ai propri limiti, alle proprie pene, all’amore per Penelope; Odisseo sceglie di restare legato a quei vincoli che sembrerebbero opprimerlo e negare la sua libertà. Che cos’è, quindi, questa libertà, se non restare sempre fedeli a se stessi, ai propri limiti, ai propri legami? La fedeltà potrebbe apparire come un vincolo, una costrizione, un obbligo, ma in verità se uno non resta fedele a se stesso la sua libertà può essere illimitata, ma rimane inutile. Infatti, la libertà non è scappare lontano per non restare legati a niente, ma è trovare il modo migliore per prendere parte alla vita che ci è stata data, nelle circostanze in cui ci troviamo, con tutti i vincoli e i limiti che abbiamo, i quali non ci annullano, ma ci indicano la strada.
19. Conclusione Si nota nella riflessione di Platone riguardo alla libertà di ogni uomo una soluzione di continuità con quanto è emerso dall’analisi e dal commento dei testi di Omero che abbiamo preso in esame. Infatti, nel mito di Er, nel momento in cui le anime disincarnate si apprestano a scegliere la vita successiva, il filosofo mette in bocca a Lachesi, figlia della Necessità, queste parole: Anime effimere, inizia un altro periodo di generazione mortale, foriera di morte. Non sarà un demone [daimon] a scegliere voi, ma voi sceglierete il demone. Il primo indicato dalla sorte per primo scelga il tipo di vita cui sarà necessariamente vincolato. La virtù non ha padrone, e ognuno ne avrà una parte maggiore, se le tributerà onore, o minore nel caso contrario. La responsabilità [aitia] è di chi sceglie: un dio non è responsabile [anateion] 8 .
Nella prima frase Platone sembra escludere la libertà dalla propria concezione della natura umana, poiché Lachesi comunica alle anime un (triste) dato di fatto, al quale esse non possono sottrarsi: le anime sono condannate a vivere ancora una vita prigioniere di un corpo mortale. Ma il resto del paragrafo delinea chiaramente che per Platone l’uomo è in 8. Platone, Resp. 617d-e, trad. it. di M. Vegetti, Rizzoli, Milano 2007.
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possesso di una libertà in grado di fargli raggiungere la felicità. La frase «non sarà un daimon a scegliere voi, ma voi sceglierete il daimon» è decisiva e rivoluzionaria: significa che l’uomo ha la possibilità di arrivare alla eudaimonia, letteralmente “il buon demone”, ovvero la felicità. Vi sono uomini ai quali la sorte dà un “vantaggio”, come evidenziato dall’affermazione secondo cui «il primo indicato dalla sorte per primo scelga il tipo di vita cui sarà necessariamente vincolato», dunque Platone non nega l’idea di un destino supremo che governa il mondo, ma al contempo esso non è un ostacolo per l’uomo. Tutta la filosofia di Platone si basa sull’idea che l’uomo possa essere felice, poiché essa vuole rispondere alla domanda su come esserlo. Significativo è il fatto che la stessa agenda teorica della Repubblica (il testo da cui questo brano è tratto) si configura «come il tentativo di dimostrare che la virtù (simboleggiata sinteticamente dalla giustizia) e non il vizio (l’ingiustizia) è davvero in grado di rendere l’uomo felice; e l’esito favorevole di questa impresa teorica è icasticamente suggellato dalle due parole con cui il lungo dialogo si chiude: “saremo felici” (eu prattomen)»9. Questa felicità, che Platone ritiene possibile, è frutto di un cammino nella libertà: non ci può essere felicità senza libertà. Infatti, pensare alla possibilità di un mondo felice, di una vita felice, senza intendere che siano risultato di scelte, è una contraddizione di termini. Se anche ci fosse una verità innegabile sul mondo e sulla vita che consentisse a tutti di raggiungere piena felicità, uno non sarebbe felice se vi aderisse non di sua spontanea volontà, ma per costrizione. Il cuore dell’uomo è fatto per essere libero, però non libero da tutti i vincoli e da tutti i legami, ma libero per essere se stesso, per affermare la propria originale unicità all’interno di tutti i propri limiti e le coercizioni in cui si ritrova. Per questo, fin dall’origine della società e della cultura occidentale, con Omero, l’uomo ha riconosciuto in sé una caratteristica misteriosa, ma innegabile che indipendentemente dal destino, dalle pressioni sociali, dalla morte e dal dolore, gli permette sempre di mantenere una propria dignità: la libertà. Rinunciare ad averla vorrebbe dire rinunciare a essere uomini.
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9.
Così scrive Franco Trabattoni in Libertà, libero arbitrio e destino in Platone, in M. De Caro, M. Mori, E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci, Roma 2014, p. 17.
I PREMIO SENIOR
L’esperienza della libertà. Tra limite e paradosso 1
di Emma Lavinia Bon, Dana Cencig, Emanuele Corredig, Leandro Francesco Lombardo
1. Introduzione Nel corso della storia, il tema della libertà è stato molto spesso oggetto di accesi dibattiti, intanto perché con “libertà” si intendono cose fra loro molto diverse, poi anche perché sulla libertà gli studiosi hanno sostenuto tesi fra loro molto differenziate, se non addirittura contrapposte e incompatibili. Le seguenti pagine propongono un’analisi che si focalizza sul ruolo che la libertà riveste sul piano dell’agire dell’uomo, nella tensione di questi al raggiungimento di una condizione priva di limitazioni. L’uomo, come si cercherà di mostrare, è condizionato nel suo agire da limiti dovuti alla sua stessa natura fisica, al contesto sociale in cui vive e alle sue credenze metafisiche. Per una sua tensione intrinseca, egli si sente spinto a superare i limiti che si trova intorno: potrà prima o poi, superare tutti i condizionamenti che circoscrivono la sua libertà e influiscono sulle sue azioni? Riuscirà mai a raggiungere una dimensione in cui la sua libertà sia assoluta e illimitata? La riflessione che si articola nei seguenti paragrafi, si pone come obiettivo quello di fornire una risposta a tali quesiti, sempre molto attuali, tramite un’analisi organica della condizione umana in rapporto alla libertà d’azione. È, infatti, proprio agendo che l’essere umano fa esperienza sia della propria libertà, che dei limiti dai quali questa risulta circoscritta. Nei paragrafi 3.1-3.3, attraverso la discussione di tre situazioni paradossali, esito del tentativo dell’uomo di superare tali limitazioni, risulterà chiaro come egli si trovi impossibilitato a conseguire una libertà che possa dirsi assoluta. In fase conclusiva sosterremo che, nonostante la sua tensione al conseguimento di una libertà illimitata, l’uomo rimane irrimediabilmente legato a una dimensione di libertà vincolata, ossia l’unica che gli consenta d’essere se stesso.
1.
Vorremmo ringraziare di cuore Alan Quaino, compagno di classe di alcuni di noi e nostro amico, cui dobbiamo tantissimo per la realizzazione di questo testo.
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2. Libertà si dice in molti modi «Essere si dice in molti modi»2: con queste parole, come è noto, Aristotele si esprime circa l’essere, per operare poi una serie di distinzioni che gli consentono di superare alcune gravi aporie sviluppate dai pensatori che lo precedono. Analogamente, riguardo la libertà, ci sembra di dover affermare che: “Libertà si dice in molti modi”. La nozione di libertà ha, infatti, rivestito un ruolo di rilievo in ambiti disparati come quello storico, filosofico, politico e quello antropologico, per la molteplicità di forme e significati che ha di volta in volta ricoperto. Essa è stata oggetto di controversie durissime tra chi l’affermava e chi la negava, chi la riteneva un fondamento irrinunciabile e chi un’ipotesi superflua. Per illustrare la varietà delle posizioni in campo, possiamo qui produrre solo alcuni esempi, che ci sembrano però in grado di far percepire al lettore la disparità degli approcci e la complessità del dibattito tutt’ora in corso. In primo luogo ci pare utile citare la celebre distinzione tra “libertà di” e “libertà da”, della quale ha trattato il filosofo, politologo e teorico del liberalismo Isaiah Berlin, nel suo Due concetti di libertà3. Quest’opera distingue tra libertà negativa e positiva: la prima è quella “da qualcosa”, da qualsiasi costrizione o imposizione, quali, ad esempio, la schiavitù e i preconcetti morali. La libertà positiva è, invece, quella che interviene nella risposta alla domanda: «che cosa, o chi, è la fonte del controllo o dell’ingerenza che può indurre a fare o essere questo, invece che quello?»4; è dunque una libertà di fare o essere qualcosa. Di libertà d’azione tratta anche il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione5, ma in modo decisamente differente. Egli infatti afferma che, nel suo agire, l’uomo è inevitabilmente condizionato dalla volontà: questa è intesa come un principio indipendente superiore che, nel suo inarrestabile perpetuarsi, si afferma attraverso le azioni degli esseri umani. In questa prospettiva, gli uomini non sono che burattini inconsapevoli nelle mani della volontà e vivono solo nell’illusione di poter agire liberamente. Schopenhauer intende rivelare in tal senso tutta la drammaticità della condizione dell’uomo, nella sua impossibilità di riconoscere l’inganno tessuto dalla volontà, vero artefice delle sue azioni. Su ben altra linea si pronuncia invece Jean-Paul Sartre, filosofo, scrittore,
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2. Aristotele, Metafisica, iv, 2. 3. I. Berlin, Due concetti di libertà, trad. it. di M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 2000. 4. Ivi, p. 12. 5. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Di Sawj-Lopez, G. De Lorenzo, Laterza, Roma-Bari 2009.
L’esperienza della libertà. Tra limite e paradosso
drammaturgo e critico letterario francese, il quale riconosce nella sua opera L’essere e il nulla l’intenzionalità di ogni azione e la libertà umana come «potenza della nullificazione»6: si tratta di una libertà che si fa continuamente nell’agire degli esseri umani, il quale è sotteso a colmare il “nulla” della loro condizione di parzialità e manchevolezza. Sartre pone dunque l’uomo al centro della propria riflessione esistenzialista e lo presenta come radicalmente libero, fino al punto paradossale di essere condannato alla libertà. D’altro canto, invece, per il filosofo olandese Baruch Spinoza, l’uomo è inserito in un meccanismo deterministico per cui tutto accade poiché ab aeterno è fissato che debba accadere. Secondo la concezione spinoziana, espressa dalla celebre frase Deus sive natura (“Dio ossia la natura”)7, Dio coincide con la natura e l’essere umano, essendo parte di essa, non è libero in quanto è determinato dagli effetti delle forze e dei limiti naturali. La parte non può dominare il tutto, perciò l’uomo non può superare questa sua condizione di inferiorità. Per Spinoza, inoltre, nemmeno Dio è libero: obbedisce, infatti, alle leggi naturali che egli stesso si è dato. Inoltre, essendo egli perfetto, non può scegliere, poiché ogni sua scelta è per forza la migliore possibile ed è già stata da lui stesso precedentemente determinata. Rispetto al complesso e controverso ambito di discussione della libertà, nelle pagine seguenti cercheremo di restare fedeli all’esperienza che l’uomo fa della libertà, esercitata nel corso del proprio agire, e al continuo rapportarsi dell’uomo con i propri limiti e con i condizionamenti impostigli dalla propria fisiologia, dal mondo esterno e dalle sue credenze in campo metafisico.
3. Limiti o libertà? Nel suo agire, l’uomo si è sempre dovuto rapportare con la propria natura di essere irrimediabilmente limitato: la libertà umana stessa risulta dunque circoscritta da limitazioni come, ad esempio, quelle della sua stessa fisiologia che lo piega nel quotidiano a mille condizionamenti fino all’ineluttabilità della morte, oppure ai condizionamenti sociali che egli subisce dal contesto di relazioni interpersonali in cui è immerso e, ancora, a quelli dovuti alle credenze metafisiche riguardo al divino. Nell’uomo vi è però una propensione naturale e spontanea verso il superamento dei propri limiti: a ciò si deve il progresso continuo che, nel corso della storia, lo ha condotto a un miglioramento progressivo della propria con-
6. 7.
J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 2008. B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, trad. it. a cura di G. Gentile, G. Durante, G. Radetti, Bompiani, Milano 2013.
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dizione. Tale tensione all’illimitato viene espressa dallo Streben romantico8, ossia l’anelito all’assoluto, all’infinito, svolto con un titanismo che cerca di superare i limiti materiali e spirituali. I romantici, infatti, provano per l’infinito un vero e proprio struggimento, un’ansia che sprona e muove. Quella romantica è un’intuizione antropologica catturata in letteratura dalla figura dell’Ulisse dantesco9, protagonista del xxvi canto dell’Inferno10. Ulisse non riesce ad accontentarsi della sicura, ma monotona e limitata, realtà raccolta entro i confini della natia Itaca: egli sente il prepotente bisogno di una vita libera, vissuta viaggiando per mare, nel tentativo di conoscere ed esplorare. Come Ulisse, ogni uomo, a modo suo, ricerca una libertà sempre maggiore, o almeno così parrebbe. Ammettendo dunque che non vi sia una libertà totale, visto che la condizione umana è segnata da limitazioni, la libertà assoluta alla quale l’uomo tende sarebbe da ricercarsi nell’“illimitato”, ossia in una condizione in cui vige la completa assenza di limiti, costrizioni o condizionamenti di qualsiasi genere. Come si evince da quanto appena affermato, la tensione al superamento continuo dei limiti, verso una condizione di sempre maggior libertà, è intrinseca nell’uomo, in quanto, vivendo, egli fa esperienza della propria limitatezza, della propria inevitabile imperfezione. Se, infatti, l’uomo fosse un essere perfetto, sarebbe privo dello stimolo al miglioramento di sé, non mancando di nulla, e sarebbe in possesso di una libertà assoluta, poiché privo di limitazioni o condizionamenti al proprio agire. Si può dunque affermare che, se raggiungesse lo “stadio dell’illimitato”, al quale pure tende, l’uomo perderebbe la propria natura: non sarebbe più se stesso, ma qualcosa di profondamente diverso. Il superamento dei limiti della libertà, se fosse raggiunto, porterebbe l’uomo a essere Dio. Se dunque l’uomo si rendesse libero da tutti i limiti che condizionano il suo agire, si priverebbe della tensione al superamento che gli è intrinseca, snaturandosi. Inoltre, qualora tentasse di superarsi, andrebbe incontro a situazioni paradossali. Queste si manifestano coinvolgendo tre aspetti propri dell’essenza umana: il bisogno di superare i limiti propri della sua condizione fisiologica, il bisogno di superare i limiti connessi ai rapporti intersoggettivi e, infine, il bisogno di superare i limiti suscitati dalla metafisica per quanto riguarda l’ammissione dell’esistenza di Dio. I prossimi paragrafi sono dedicati a una discussione analitica di tali bisogni e di ciò che ne segue.
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8. J.G. Fichte, Dottrina della scienza, trad. it. di A. Tilgher, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 224. 9. D. Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, canto xxvi, La Nuova Italia, Firenze 1995. 10. Ibidem.
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3.1. Essere liberi è come volare Nella Critica della ragion pura11, Immanuel Kant, in polemica con il razionalismo, usa la felice metafora della colomba per mostrare che ciò che sembra un limite, in realtà è un’opportunità: «La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria»12. Come la colomba anela a un volo libero e privo di attriti, pur avendo però bisogno dell’aria per poter volare, così anche l’uomo che desidera che la propria libertà sia privata da limitazioni, ha in realtà la necessità di fare i conti continuamente con i limiti che gli si parano innanzi. L’essere umano risulta limitato dalla sua stessa fisiologia: differentemente dalla colomba kantiana, per esempio, non può volare. Inoltre, non può spingere il proprio fisico oltre le sue naturali possibilità. Più ampiamente, tutti gli uomini sono indistintamente costretti a cedere all’inevitabilità della morte, costrizione fisiologica irreversibile e radicale. L’uomo può dirsi tale solo mantenendo la tensione al superamento che lo caratterizza e che verrebbe meno se davvero egli potesse raggiungere una condizione priva di limiti al proprio agire: questi gli sono dunque indispensabili, così come alla colomba è indispensabile l’aria. La propensione tipicamente umana di volersi privare di qualcosa che, invece, è necessaria per poter essere fedeli alla propria natura, è paradossale: sebbene l’uomo tenti continuamente di ampliare i confini spingendo la propria libertà sempre più “in là”, risulta in definitiva impossibilitato a raggiungere una libertà illimitata. La libertà dell’uomo, per quanto riguarda la sua condizione naturale, esiste dunque solo se circoscritta da limitazioni, poiché la libertà che ne fosse totalmente priva, verso la quale egli comunque tende instancabilmente, risiede in una dimensione totalmente altra dalla sua e non gli pertiene. 3.2. L’uomo come animale sociale La libertà d’azione dell’uomo va incontro a un limite nel momento stesso in cui questi entra a far parte di un gruppo sociale, venendo per ciò stesso condizionato. Il confronto con altri esseri umani conduce l’individuo irrimediabilmente a conoscere l’opinione e le idee altrui: ciò può facilmente indurlo a modificare o addirittura ad abbandonare le proprie convinzioni, in favore di altre che ora ha appreso. Il suo agire pertanto, viene vincolato dalle credenze maturate nel rapporto con altri uomini e a motivo della complessità della realtà sociale. Infatti, anche i rapporti e i legami affettivi in cui l’essere umano è inevitabilmente immerso sono in grado di modificare sensibil11. I. Kant, Critica alla ragion pura, trad. it. di G. Gentile, G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 2000. 12. Ivi, p. 38.
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mente il suo agire: per esempio, in un rapporto di amicizia spesso si tende ad agire negli interessi dell’amico, o secondo qualche desiderio di questi, sacrificando le proprie inclinazioni e desideri. Secondo il filosofo inglese John Locke, teorico del liberalismo, gli uomini, dotati di diritti naturali quali la conservazione della vita, la libertà e la proprietà privata, si associano liberamente, stabilendo un insieme di relazioni sociali ed economiche che costituiscono la società civile. I rapporti fondano la società civile attraverso contratti volontari: il singolo, nel suo agire, si trova alla fine a essere condizionato dalla complessità dell’organizzazione sociale, che lo conduce, ad esempio, a stipulare contratti, a stabilire rapporti di lavoro o commerciali, a partecipare ad associazioni, ecc. A tal proposito, nel suo testo Le regole del metodo sociologico13, Émile Durkheim affronta il concetto di “fatto sociale” definendolo come qualsiasi modo di fare che possa esercitare sulla persona una costrizione esterna, in quanto dotato di una propria esistenza indipendente. Secondo il sociologo, i fatti sociali vanno considerati come cose e sono esterni all’individuo, esercitando su di esso un inevitabile potere coercitivo che si esprime in norme, consuetudini, idee collettive e così via. Tale potere coercitivo, imposto dal “fatto sociale”, è giustificato dall’esteriorità dal fatto stesso rispetto al singolo essere umano. Ad esempio, il sistema dei segni del quale ci si serve per esprimere il proprio pensiero, il sistema monetario che governa l’economia, le pratiche eseguite in una determinata professione, funzionano indipendentemente dall’uso che se ne fa. Appurato che la società costituisce un limite all’agire umano e che l’uomo non possa dirsi libero dai suoi condizionamenti, risulta evidente come ciò crei un grande ostacolo al raggiungimento di quella libertà assoluta cui pure l’uomo tende. Infatti, nel suo tentativo di superare il limite costituito dagli obblighi ai quali è sottoposto nella realtà sociale, l’uomo dovrebbe via via allontanarsi da essa, così come da qualsiasi rapporto con i propri simili, percorrendo la via della solitudine. Anche in questo caso verrebbe tuttavia a crearsi una situazione paradossale, poiché l’uomo è un animale sociale, e tende per sua natura a creare sempre nuovi rapporti intersoggettivi. Ciò è richiamato anche nella Politica di Aristotele14, in cui il filosofo designa l’uomo come animale sociale Φùσει πολιτικóν ζώον. Aristotele considera, infatti, la dimensione politico-sociale come pertinente per natura all’uomo. Questa tesi è dimostrata anche dagli studi della psicologa Elizabeth Spelke, che nel suo articolo
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13. É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, trad. it. di F. Airoldi Namer, Einaudi, Torino 2008. 14. Aristotele, Politica, 1.
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Core Knowledge15 spiega come il bambino nasca già equipaggiato di un nucleo di conoscenze essenziali per potersi rapportare efficacemente agli oggetti, ai numeri, allo spazio, e agli altri suoi simili. Secondo la psicologa, già attorno al primo anno di vita i bambini si dimostrano collaborativi e propensi all’aiuto in molte situazioni: non si tratta di comportamenti appresi dagli adulti, ma di qualcosa di assolutamente spontaneo. Una dimostrazione di ciò è fornita da un esperimento illustrato dallo psicologo evoluzionista americano Michael Tomasello, nella sua opera Altruisti nati16. Ad essere studiato è il comportamento di un bambino di diciotto mesi, in fase pressoché non verbale, e privo di linguaggio normativo. Inizialmente il bambino osserva passivamente l’adulto riporre un plico di riviste in un armadietto. Nella seconda fase, vedendo l’adulto in procinto di ripetere l’azione, il bambino lo aiuta aprendo le ante al posto suo. Poi, nella terza fase, il bambino anticipa tutto: apre subito l’armadietto e in alcuni casi arriva perfino a indicare all’adulto dove mettere le riviste. Il bambino è dunque naturalmente e spontaneamente spinto a collaborare e a rapportarsi con l’adulto. È proprio attraverso lo studio del comportamento del bambino, che si può dare conferma alle teorie circa le quali l’essere umano è per natura un animale sociale. Mentre l’uomo adulto è già, di fatto, inserito in un contesto sociale, e ne subisce i condizionamenti, il bambino percepisce ogni stimolo esterno come qualcosa di nuovo. Il bambino agisce, dunque, in modo privo di preconcetti, non essendo ancora influenzato dal mondo sociale. Nel suo tentativo di liberarsi dai condizionamenti che la società esercita sul proprio agire, l’essere umano incorre nuovamente in una situazione paradossale: tentando di affermarsi secondo una volontà libera dalle influenze della realtà sociale, per avvicinarsi all’illimitato, egli dovrebbe venir meno proprio alla sua intrinseca natura di Φùσει πολιτικóν ζώον. Anche in questo caso, l’uomo deve perciò rinunciare all’idea di poter conseguire una libertà assoluta ed incondizionata.
3.3. L’uomo-Dio Gli esseri umani hanno sempre percepito la necessità di rapportarsi con il divino. Una metafisica che preveda l’ammissione dell’esistenza di Dio ha implicazioni etiche e condiziona perciò l’agire dell’uomo. La relazione che intercorre tra l’umano e il divino in questa prospettiva è affrontata in modo particolarmente efficace dal punto di vista esistenziale dallo scrittore russo
15. Riportato da M. Tomasello, Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli, trad. it. di D. Restani, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 105. 16. Ibidem.
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Fëdor Dostoevskij, nella sua opera I demoni17: Kirillov, uno dei protagonisti del romanzo, ha infatti la convinzione che l’uomo agisca nell’illusione dell’esistenza di Dio e sente il dovere di dimostrare il contrario: «Chiunque voglia la libertà essenziale deve avere il coraggio d’uccidersi. […] Chi ha il coraggio d’uccidersi, quello è Dio. Ora ognuno può fare che non ci sia più Dio e che non ci sia più nulla. Ma nessuno l’ha ancora mai fatto». Kirillov ritiene di essere il primo uomo ad aver riconosciuto l’inesistenza di Dio, e crede dunque di poter agire in modo privo da qualsiasi condizionamento; egli vede, però, il suo suicidio come una necessità, atta a rendere anche gli altri uomini svincolati da qualsiasi credenza religiosa, e dunque più liberi. Le sue parole sono eloquenti: Capire che non c’è Dio e non capire nello stesso momento che sei diventato tu stesso un dio, è un’assurdità tale che dovresti ucciderti immediatamente. Se invece lo capisci, sei zar e non ti ucciderai, ma vivrai nella gloria più eccelsa. Ma uno, quello che lo scopre per primo, deve uccidersi assolutamente, sennò chi, dunque comincerà e dimostrerà? Io mi ucciderò per cominciare e per dimostrare. Io non sono ancora che un dio per forza e sono infelice, poiché son costretto a proclamar il mio libero arbitrio. Tutti sono infelici, perché tutti hanno paura di proclamar il loro libero arbitrio. Per questo appunto l’uomo è stato finora così infelice e povero, perché temeva di proclamare il libero arbitrio nel suo più alto significato e si contentava di commettere arbitri di straforo; come uno scolaro18 .
Negare Dio come fondamento della libertà è il proposito di Kirillov, ove ateismo e suicidio si legano strettamente all’idea che l’esistenza di Dio e la libertà illimitata dell’uomo si escludono, cosicché o esiste Dio e allora l’uomo non è libero, o l’uomo è effettivamente libero, e allora Dio non esiste, e l’uomo stesso è Dio. In questo personaggio, l’affermazione della libertà assoluta dell’uomo, la negazione dell’esistenza di Dio e la divinizzazione dell’uomo, culminano tutte nel suicidio, cioè nell’atto gratuito e assolutamente arbitrario con cui il protagonista afferma la propria libertà illimitata e intende verificare col sacrificio della propria esistenza l’inesistenza di Dio. Il “demone” Kirillov, uccidendosi, vince Dio e il Cristo, Dio-uomo, per lui semplici fantasmi creati dalla paura e dall’ignavia, e scegliendo liberamente il suicidio rende finalmente illimitato il libero arbitrio e diviene il primo “UomoDio”. Dalle pagine de I demoni emerge l’idea dell’uomo che è prima di tutto esperienza di libertà: questa libertà non si muove però in un vuoto assoluto, ma percepisce un’originaria attrazione, un primitivo orientamento suscitati da Dio. La libertà in ogni modo rimane libera e anche di fronte a Dio può sce-
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17. F. Dostoevskij, I demoni, trad. it. di A. R. Küfferle, Mondadori, Milano 1987, p. 116. 18. Ivi, p. 634.
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gliere: amarlo o odiarlo, riconoscerlo o rinnegarlo, servirlo adorandolo o sostituirlo uccidendolo, come del resto suggeriva Nietzsche col suo Zarathustra19. Come lo schiavo che nel mito della caverna, presente nel libro settimo de La Repubblica platonica20, ritorna dai suoi simili incatenati per illustrare loro le proprie scoperte, e provare se vi sia un’altra realtà al di fuori della caverna stessa, Kirillov percepisce la necessità di dimostrare agli altri uomini la nonesistenza di Dio e dunque l’illimitatezza della libertà umana, cercando di realizzare in se stesso la figura della guida, del primo uomo a esser giunto alla verità. Kirillov commette, però, alcuni errori nella sua valutazione della libertà: non tiene conto degli altri limiti che la restringono e arriva ad agire in modo paradossale. Egli infatti, scegliendo di uccidersi, non elimina affatto il limite della morte, la quale rimane comunque una necessità biologica: sia che si scelga liberamente di privarsi della propria vita, che di lasciarsi morire aderendo alla contingenza dell’esistenza, la morte rimane l’inevitabile orizzonte al quale ogni essere tende drammaticamente. Proprio nel suo proposito di dimostrare come l’uomo sia in possesso di una libertà assoluta, Kirillov rende invece evidente la limitatezza stessa dell’uomo: questo rende il suo suicidio un atto paradossale e ultimamente patetico, perché frutto di un tragico autoinganno. Inoltre, nel tentativo di affermare e dimostrare la propria libertà come illimitata, egli decide di morire privandosi della libertà stessa, che non può sussistere nella morte. La sua azione, sottesa al raggiungimento della libertà assoluta, sfociando in tali paradossalità è destinata al fallimento: risulta infatti evidente come l’uomo, anche nel preteso riconoscimento dell’inesistenza di Dio, non possa comunque eliminare i limiti che circoscrivono la sua libertà e condizionano il suo agire.
4. Conclusione La libertà, come si è visto nel secondo paragrafo, ha un volto multiforme e può essere letta in diversi modi, in base al significato e all’accezione che le si attribuisce. Nella presente ricerca abbiamo discusso della libertà restando legati a una prospettiva esistenziale. Da questo punto di vista, si è cercato di far emergere come l’uomo, nel suo agire, si è sempre dovuto rapportare con la propria natura di essere irrimediabilmente limitato e la stessa libertà umana risulta ulteriormente circoscritta da limitazioni. Nell’uomo vi è tut-
19. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1968. 20. Platone, La Repubblica, trad. it. di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 2007.
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tavia una propensione naturale e spontanea verso il superamento dei propri limiti: a ciò si deve il progresso continuo che, nel corso della storia, ha condotto l’uomo a un miglioramento progressivo della propria condizione. Possiamo dunque affermare che, per sua natura, l’uomo cerca di superare i limiti che circoscrivono la sua libertà: sono questi i condizionamenti imposti dalla sua stessa natura, dalla società che lo circonda e da una metafisica che prevede l’ammissione dell’esistenza di Dio. Sebbene l’individuo tenda inevitabilmente a raggiungere una libertà assoluta, egli risulta però impossibilitato a farlo. Infatti, nel suo tentativo, incorre inevitabilmente nelle tre situazioni paradossali che abbiamo illustrato (paragrafi 3.1-3.3). L’analisi sistematica proposta per ognuna di esse ha fornito lo stesso esito: l’impossibilità dell’uomo di ottenere la libertà assoluta. La libertà dell’uomo, per quanto riguarda la sua condizione naturale, esiste solo se circoscritta da limitazioni, poiché la libertà che ne fosse del tutto priva, verso la quale egli stesso comunque tende instancabilmente, risiede in una dimensione totalmente altra dalla sua che non gli pertiene. Inoltre, nel suo tentativo di liberarsi dai condizionamenti che la società esercita sul suo agire, l’essere umano incorre nuovamente in una situazione paradossale: tentando di affermarsi secondo una volontà libera dalle influenze sociali, e per avvicinarsi all’illimitato, egli dovrebbe venir meno alla propria natura di animale sociale. In conclusione, l’uomo deve rinunciare all’idea di poter conseguire una libertà assoluta e incondizionata e non può comunque eliminare i limiti che circoscrivono la sua libertà e condizionano il suo agire. Nella Fisica21, Aristotele afferma che, in virtù della “causa formale”, ogni ente, per dirsi tale, debba assumere una forma particolare. Sulla base della riflessione qui elaborata circa l’esperienza della libertà, si può allora concludere che la forma esclusiva assunta dagli esseri umani è plasmata dai loro limiti e imperfezioni: sono proprio queste le componenti della causa formale dell’uomo, senza le quali egli non potrebbe definirsi tale. Invece di disprezzare la propria natura di essere imperfetto, e tentare disperatamente e invano di superare i propri limiti, l’uomo dovrebbe considerare questi quali una ricchezza per la sua condizione esistenziale. L’essere umano può vincere sulla sua natura segnata da limitazioni solo accettandola. Non deve dunque agire tentando di superarla, divenendo altro da sé, bensì realizzando quanto più pienamente il proprio essere, e affermando se stesso nel modo più completo e radicale, tramite l’accettazione della sua natura.
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21. Aristotele, Fisica, trad. it. a cura di R. Radice, Bompiani, Milano 2011.
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Bibliografia Alighieri D., La Divina Commedia. Inferno, La Nuova Italia, Firenze 1995. Aristotele, Fisica, trad. it. a cura di R. Radice, Bompiani, Milano 2011. Aristotele, Metafisica, trad. it. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. Aristotele, Politica, trad. it. a cura di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1993. Berlin I., Due concetti di libertà, trad. it. a cura di M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 2000. Dostoeveskij F., I demoni, trad. it. di A. R. Küfferle, Mondadori, Milano 1987. Durkheim É., Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, trad. it. di F. Airoldi Namer, Einaudi, Torino 2008. Fichte J. G., Dottrina della scienza, trad. it. di A. Tilgher, Laterza, Roma-Bari 1993. Honneth A., Lotta per il riconoscimento, trad. it. di C. Sandeni, il Saggiatore, Milano 2002. Kant I., Critica alla ragion pura, trad. it. di G. Gentile, G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 2000. Moeller C., Saggezza greca e paradosso cristiano, trad. it. a cura di N. Berther, Morcelliana, Brescia 2003. Nietzsche F., Così parlò Zarathustra, trad. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1968. Platone, La Repubblica, trad. it. di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 2007. Sartre J.-P., L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 2008. Schopenhauer A., Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj-Lopez, G. De Lorenzo, Laterza, Roma-Bari 2009. Spinoza B., Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, trad. it. a cura di G. Gentile, G. Durante, G. Radetti, Bompiani, Milano 2013. Tomasello M., Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli, trad. it. di D. Restani, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
Sitografia http://tokalonformazione.it/lezione-introduttiva-romanae-disputationes/
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II PREMIO SENIOR
La riscoperta del determinismo di Nicola Fiorentino, Giuseppe Forziati, Francesco Martielli Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. (Dante, Purgatorio, i, 70-72)
Simili versi mettono in luce il grande rilievo e l’incommensurabile importanza che l’animo umano attribuisce al concetto di libertà. Le parole pronunciate da Virgilio presentano a Dante, divino poeta, Catone Uticense, custode del Purgatorio. La presenza di tale personaggio all’interno della seconda cantica è da considerarsi del tutto eccezionale. La biografia del magistrato romano è difatti segnata da un’azione deplorevole quale il suicidio, apertamente condannato dal pensiero cristiano. In tal caso, tuttavia, la sua figura non viene collocata negli Inferi assieme ai colpevoli del medesimo atto. Cagione di una simile scelta è da ricercarsi nel fine di un siffatto gesto. Il rifiuto della dittatura e la difesa della libertà politica hanno condotto Catone a rinunciare alla propria vita. I principi cristiani vengono, dunque, taciuti in virtù di un valore sacro e inoppugnabile. Innumerevoli eventi cardine della storia umana si sono verificati in nome di una qualche forma di libertà, sia essa sociale, politica, religiosa o morale. Smisurato è lo spargimento di sangue che ha accompagnato rivoluzioni volte alla sua conquista. Nonostante l’apparente evidenza di tale riflessione, non sempre appare chiaro e semplice da stabilire cosa la libertà sia, quali i suoi limiti e la possibilità di un suo effettivo raggiungimento. Le molteplici soluzioni (talvolta in contrasto fra loro) proposte nei secoli da pensatori, politici e uomini comuni hanno raggiunto consensi può o meno ampi, ma in alcun modo il dibattito è da considerarsi chiuso o non più attuale. Nella seguente trattazione cercheremo di analizzare il concetto di libertà nei suoi aspetti fondamentali. Data la complessità dell’operazione tenteremo di affrontare l’argomento in forma dialogica, traendo ispirazione dai sommi componimenti platonici, consapevoli che ogni tentativo d’emulazione di un simile maestro non sia esente dal rischio di incorrere in un pretenzioso esperimento. I protagonisti del dibattito saranno due personaggi fittizi, Enas e Katohos, le cui dottrine si accosteranno a correnti di pensiero divergenti, pur sottraendosi all’adesione incondizionata al pensiero altrui e preservando indole e inclinazione personali. In una temperata notte primaverile, immersi nello sconfinato firmamento stellato…
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Katohos Quale grandezza possiede l’universo. Una macchina di smisurata complessità; un agglomerato di materia, energia e spirito. Ogni singola struttura, ogni minuscolo organismo non si presenta che come un piccolo elemento di un ben più vasto sistema. Ma il tutto appare profondamente interconnesso. La splendida facoltà razionale di cui disponiamo ci permette di guardare con grande chiarezza a ogni singolo apparato di questo straordinario organismo. Tutto ora ha senso. Ogni movimento, ogni trasformazione, che sia attinente a uomo, animale o elemento, genera un preciso effetto. E tale effetto si imposta come l’esordio di ulteriori grandiosi fenomeni. L’intero creato è governato da un principio di validità assoluta e inoppugnabile. Ex nihilo nihil fit, nulla viene dal nulla. La molteplicità degli eventi si sussegue in un processo di causa-effetto, in virtù del quale i singoli fatti dell’esperienza acquistano una propria necessità. Tutto è al di sotto di un simile precetto. Tutto, ad eccezione del mio spirito, evidentemente. Un tale privilegio non è in alcun modo casuale. Esso è il sacro dono concesso all’essere razionale. La coscienza, caratteristica peculiare degli uomini, è in grado di svincolarsi dalla legge naturale. Come potrei considerare le mie azioni necessarie se non cadendo nell’assurdità e privandomi della libertà che mi spetta in quanto uomo? Il mio animo è libero di scegliere fra le possibili alternative che mi vengono presentate senza essere necessitato né all’una né all’altra. Esso è libero, poiché non costretto da alcuna forza o entità esterna al mio essere. L’uomo è responsabile e artefice della propria esistenza; egli è degno di scegliere questa o quella opportunità secondo ciò che gli appare maggiormente utile. Non credi che la complessità dell’universo appaia estremamente lineare dinanzi alla grandezza del nostro spirito, Enas?
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Enas O Katohos, le tue affermazioni paiono così affascinanti. È innegabile la seduzione che simili pensieri esercitano sul mio spirito. ελευθερία, la grandezza del suo potere è davvero notevole. Credi realmente che determinare lo scorrere degli eventi secondo il mio libero desiderio non mi renderebbe entusiasta? Se lo pensi erri, caro amico. Purtroppo, però, l’attrazione per la verità che grava sul mio animo mi impedisce di accogliere la tua bellissima illusione. Ciò che tu sostieni è interamente fondato su di una seducente assurdità. La fiducia che riponi nel tuo essere ti abbaglia a tal punto da renderti cieco. Come puoi pensare che l’uomo possa sottrarsi alla natura? Un tale concetto appare tanto bizzarro quanto sciocco. Un frutto è parte integrante dell’intero arbusto. Ritieni davvero che esso abbia il diritto e ancor più il potere di staccarsi dal fusto, ribellandosi alla propria natura e decidendo arbitrariamente di essere differente, sebbene ogni circostanza testimoni il contrario? E nell’ipotesi in cui esso giunga a crederlo
La riscoperta del determinismo
possibile, non è forse vero che tale frutto sia ad ogni modo destinato a divenire un albero e svolgere le azioni che sono proprie del suo essere? Sarebbe esclusiva prerogativa di un Dio onnipotente il non essere partecipe della realtà, rendendosi estraneo alle leggi che tu stesso osi citare. Il tuo errore, amico mio, risiede nella mancata consapevolezza delle circostanze che ti conducono a scegliere questo o quello. Katohos Il tuo cinismo mi sconcerta, fratello. Se realmente sostieni che nel mondo non ci sia spazio per il libero arbitrio, che fine farebbe la dignità umana? La stessa dignità che ha condotto l’uomo a compiere imprese straordinarie, a controllare i propri istinti e studiare le cause ultime dei fenomeni naturali. Tutto perderebbe di significato. Quale senso avrebbe la vita se considerata il mero ingranaggio di un disegno prestabilito? Enas Sbagli ancora Katohos. L’umanità preserva la propria dignità e non vi è ragione per cui debba cessare di farlo. Non vedo perché quello stesso frutto, che inevitabilmente si accinge a divenire un maestoso e possente melo, debba privarsi del proprio orgoglio. Sappiamo perfettamente, in virtù del principio di causalità, posto a fondamento della scienza della natura, che all’indomani il sole sorgerà e non potrebbe essere altrimenti. Ma ciò non sottrae nobiltà all’astro solare, la cui lucentezza sarà indispensabile a scaldare le nostre dimore. Il principio che tanto ardentemente difendi è una finzione della libertà, una fantasticheria che si è disposti ad accettare pur di sottrarsi ad una realtà apparentemente sgradevole. «L’illusione strutturale che guida il pensiero in questa fuga oltre i propri limiti è così forte che non cessa neppure quando ci si rende conto di tale illusorietà»1. Comprendo, dunque, la difficoltà che riscontri nello scacciare la chimera della libertà. Katohos La temerarietà di ciò che affermi è sconcertante. Una tesi così audace richiede indubbiamente una giustificazione inamovibile. Enas Senz’altro. Tenterò di illustrarti l’evidenza alla base delle mie convinzioni. Io sostengo, a buon diritto, la validità universale del principio di causalità, che tu limiti all’esclusiva esperienza fenomenica. L’autonomia del potere di scelta che tanto elogi, non appare, ai miei occhi, che un miraggio. Immagina per un momento una pietra che, messa in movimento da una forza esterna, continui necessariamente a muoversi. Supponi, ora, che essa
1.
N.Abbagnano, G. Fornero, La ricerca del pensiero, vol. 2B. Dall’Illuminismo a Hegel, Paravia,Torino 2012, p. 195.
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pensi di sforzarsi di persistere nel movimento. Davvero questa pietra, unicamente consapevole del suo sforzo, crederà di persistere nel moto per nessun altro motivo all’infuori della propria volontà. Tutto ciò che puoi cogliere intorno a te, Katohos, opera in virtù di una determinata ragione. Ciò che si è detto intorno al sasso concerne qualunque cosa, per quanto complessa possa apparire. Ti sarà più semplice, a questo punto, comprendere cosa la libertà, che ti vanti di possedere, realmente sia. La tua consapevolezza, amico mio, riguarda l’istinto ma non le cause che lo determinano. Pertanto, sarai indotto a credere che un bambino possa desiderare liberamente il latte, un fanciullo rissoso la vendetta, un timido la fuga. Ciascuno persuaso della convinzione di agire secondo la propria iniziativa, ma ignaro di essere trasportato da un impulso2. Katohos La sicurezza con cui difendi il tuo pensiero è sorprendente. Ma ancor più singolare è l’atteggiamento ottimistico che tu ne ricavi. E questo sfugge alla mia comprensione. Mi inviti a ritenere che ogni azione, ogni singolo desiderio, dal più infimo sino al più nobile, sia determinato dall’impulso di una forza esterna. Cosa sarò, a tuo avviso, se non una misera marionetta nelle mani di una entità tiranna e crudele? Quale senso avrebbe la mia esistenza, se nulla siamo all’infuori di pedine guidate da un essere a noi sconosciuto? Mi domando, ancora, quali siano le ragioni per cui egli abbia una natura a tal punto dispotica e malvagia. Enas Ancora non comprendi. L’assenza di un personalissimo potere decisionale, che sia in grado di donarci la libertà, non può essere in alcun modo attribuita alla perfidia di una divinità che tutto può. Io credo, piuttosto, che le azioni particolari siano determinate da una condizione preesistente. Operari sequitur esse, ciascuno agisce in conformità alla propria natura. E artefici di tale natura saranno psiche, caratteri genetici, ambiente sociale ed esperienze individuali. Simili criteri saranno il fondamento dell’atteggiamento istintuale che tu chiami impropriamente libertà. Agirai secondo i tratti che contraddistinguono il tuo essere e avrai un’ovvia predilezione per ciò che appare, ai tuoi occhi, maggiormente utile o conforme alla tua personale accezione del bene. Ora, è evidente che la condotta umana non possa essere determinata dal volere di un’entità metafisica esterna, ma si tratti, piuttosto, della necessaria conseguenza di una condizione antecedente. Non posso, dunque, che associare il concetto di libertà, che tu propugni, alla totale indifferenza nei confronti delle inclinazioni che agiscono sul tuo
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2.
Abbiamo qui esposto la tesi illustrata da Spinoza nella Lettera lviii a Giovanni Ermanno Schuller: B. Spinoza, Epistolario, a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1974, pp. 247-251.
La riscoperta del determinismo
essere. Una siffatta imperturbabilità non è che un’illusione. Ti concedo, pertanto, di definirti libero. Eppure non potrai che ridurre la tua libertà a una semplice inconsapevolezza delle cause che agiscono sulle tue scelte. Katohos O Enas, la tua visione è tanto convincente quanto fallace se davvero ritieni che ogni momento sia l’inesorabile conseguenza dell’istante che lo precede. Ammetto, in via ipotetica, la validità della tua teoria. Per cogliere la cagione dei singoli eventi contingenti, dovrò percorrere il tempo a ritroso. E per darne una legittima dimostrazione mi inoltrerò nel profondo, sino agli albori della civiltà umana. E non potrò che avanzare oltre, sino all’origine del mondo. Intuirai che l’esito della mia ricerca sarà destinato a risolversi in un misero abbaglio. Mi sarà impossibile, difatti, individuare, al di fuori di un’entità metafisica, una causa ultima, un principio in grado di avvalorare con liceità e autorevolezza la realtà. Come potresti dissolvere un simile dilemma? Enas Nuovamente ritengo che la tua incapacità di individuare una causa antecedente l’origine dell’universo risieda in un’insufficiente grado di conoscenza. Sarai consapevole che l’essere umano sia il risultato di un lungo processo evolutivo. Una simile consapevolezza non necessita dell’intervento di un entità creatrice, sebbene, in tempo anteriore, un’intromissione divina appariva inesorabile. Seguendo lo stesso sviluppo, sarai disposto ad ammettere un’intrusione celestiale che spieghi l’origine del cosmo, ma tale atteggiamento sarà dettato dall’ignoranza della verità. Ti invito, pertanto, a non assumere una posizione incauta che il tempo invaliderà con l’ausilio del progresso scientifico. Che valore possiede l’appello ad un forza trascendente al cospetto di una dimostrazione sperimentale? O Katohos, comprendi bene che l’esistenza di un Dio dalle facoltà illimitate non sia privilegio del nostro mondo. Tuttavia, amico mio, ritengo che proprio nello studio scientifico dell’universo e delle sue leggi e nella lineare complessità del reale sia possibile individuare un “ordine” straordinario. L’intera natura mi appare una meraviglia. E, nonostante tutto abbia una spiegazione, l’armonia che se ne ricava è un qualcosa di indefinibile. Benché sia certo che il cosmo regga su di un principio scientifico, è proprio in questa perfetta simmetria, in questo coerente equilibrio, in questa sacra disposizione, che distinguo qualcosa di divino. Katohos Sgomento, Enas. Ecco cosa provo nell’udire le tue parole. Enas Non temere, amico mio. Occorre adattarsi lentamente all’immenso bagliore della verità per coglierne la reale e definitiva bellezza.
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Bibliografia Abbagnano N., Fornero G., La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia, vol. 2B. Dall’Illuminismo a Hegel, Paravia, Torino 2012. Einstein A., Lettera a Maurice Solovine (30.03.’52), in Id., Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988, pp. 740-741 (testo consultato su Web: http://www.disf.org/einstein-lettera-solovine, il 29 marzo 2015). Franceschini E., Hawking: “Non fu Dio a creare l’universo”, in “Repubblica”, 3 settembre 2010. Palchetti F., Parigi S., Dentro la filosofia. Nodi, percorsi, profili, vol. 2. La filosofia moderna, Zanichelli, Bologna 1997. Palchetti F., Messeri M., Dentro la filosofia. Nodi, percorsi, profili, vol. 3. La filosofia contemporanea, Zanichelli, Bologna 1999. Zingarelli N., Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Zanichelli, Bologna 2015.
Sitografia http://dizionari.corriere.it. http://www.treccani.it/vocabolario. http://it.wikipedia.org/wiki/Libertà_va_cercando,_ch’è_sì_cara.
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III PREMIO SENIOR
La libertà: la sua attuazione nella duplice forma dell’intellettualismo etico e del praticismo etico di Giacomo Montanari, Maria Laura Serra
La libertà è, di per sé, un concetto astratto con conseguenze concrete nella vita di tutti. È, però, un concetto assiomatico. Tutti noi crediamo di sapere perfettamente cosa sia ma, posti di fronte alla domanda di definirne precisamente i contorni, ci troviamo in grave difficoltà, così come avveniva per sant’Agostino che, meditando sul concetto di tempo, diceva «io so che cosa è il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo»1. Il tema che ci è stato assegnato parte dalla citazione del celebre passo del Purgatorio dantesco (i, 73-76), che vede di fronte tre personaggi paradigmatici, tre monumenti nella storia della cultura occidentale: Virgilio, Dante e Catone, cui fa da sfondo Seneca, che celebra appunto in Catone l’ideale compiuto del saggio stoico alla ricerca di una autarkeia che parte dall’interiorità del singolo individuo per allargare il suo raggio di analisi e di azione alla comunità e allo stato in cui esso si colloca. Nelle parole di Virgilio infatti, che potremmo definire un narratore omodiegetico (seguendo la terminologia delle moderne discipline narratologiche), si fonde qui interamente il pensiero del narratore autodiegetico (Dante stesso), che ben conosceva Seneca “morale” e la sua “lezione”. Non mi pare da escludere anzi che Dante, presentandosi per bocca di Virgilio, anche lui poeta e, almeno nella proiezione che ne diede il Medioevo, poeta quasi divino ore praeditus, tenda a sovrapporre interamente, se pur a livello ideale, la propria figura a quello di vecchio saggio: a lui l’accomunerebbe il tema del «viaggio» alla ricerca della sua interiorità (si veda la metafora dei tre regni) e del continuo superamento del limite umano (intellettualismo etico) e l’anelito vivo anche nella prassi, verso la conquista della libertà situata in un ordine politico e sociale congruente alle leggi del logos (praticismo etico). L’orgoglioso antropocentrismo dello stoico era anche quello del civis Dante: alla scelta della morte in Utica per l’affermazione estrema della libertà (Cato
1. Agostino, Confessioni, 14, 17, trad. it. a cura di A. Marzullo, Zanichelli, Bologna 1968.
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habet qua exeat)2 corrispondeva quella dantesca dell’esilio e il vanto dell’«essersi fatto parte per se stesso»3, che riprende in tutto l’ideale stoico dell’autarkeia.
1. L’intellettualismo etico, ovvero la libertà individuale 1.1 Prima che con la società, l’uomo, pur essendo per definizione aristotelica «animale sociale», deve fare i conti con se stesso: la libertà individuale, infatti, è il presupposto per instaurare un rapporto autentico, quindi libero da ogni costrizione o pregiudizio, con gli altri. Si tratta di un percorso interiore lungo e difficile, anzi, spesso, a parer nostro, mai compiuto, perché l’esperienza quotidiana degli uomini e delle cose, connessa all’atto stesso del vivere, pone delle problematiche tanto più complesse quanto più il soggetto «agente» è ricettivo per cultura e/o per sensibilità innata. Per partire ancora dai classici, secondo l’indicazione del nostro tema, se Cicerone definisce la libertas come potestas vivendi ut velis4, includendo necessariamente nella sua affermazione, almeno a livello teorico, la salvaguardia della libertà altrui, Seneca, che tutto interiorizza, mette a fuoco il vero concetto di libertà, avvicinandolo per antitesi al suo antonimo, la schiavitù, nell’ambito di una struttura climatica scandita dall’anafora dell’aggettivo nullus, martellato in modo perentorio dal poliptoto: quae sit libertas quaeris? Nulli rei servire, nulli necessitati, nullis casibus5 («tu mi chiedi cosa sia la libertà? Non essere schiavi di nessuna cosa, di nessuna necessità, di nessun evento»). Dunque, innanzitutto, per essere liberi bisogna praticare l’autarkeia, come fece Catone, cioè essere autosufficienti, non al servizio del corpo6, né troppo attaccati alle cose e al denaro, denaro che non è però di per se stesso un male, anzi, se ben utilizzato, può diventare addirittura un bene per il singolo e per la comunità di cui egli fa parte. Esso cioè deve valere da mezzo e non certo da fine. Se ne deduce che la vera libertà dell’individuo sta esclusivamente nella libertà di giudizio che ne determina le scelte e le indirizza al vero utile. Ma come determinare il “vero utile”? Si tratta di una libertà che si raggiunge con fatica, attraverso un’introspezione che costituisce di per sé la vera cultura, nel senso etimologico del termine che attiene all’area semantica del colere, cioè del “coltivare” se stessi. E in questa prospettiva non è forse fuor di luogo
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2. Seneca, De Providentia, 2, 10, trad. it. a cura di A. Traina, Rizzoli, Milano 1997. 3. D. Alighieri, Paradiso, xvii, 68-9. 4. Cicerone, Paradoxa ad M. Brutum, 34. 5. Seneca, Epistulae Morales ad Lucilium, 51, 9. 6. Ivi, 92, 33.
La libertà: la sua attuazione nella duplice forma dell’intellettualismo etico e del praticismo etico
affermare anche, con Victor Hugo7, che la libertà comincia dall’ironia, cioè dal sapere guardare se stessi e gli altri con acribia di giudizio, pronti a riportarsi nei giusti binari («chi prende le distanze da ciò che ha detto se ne libera, taglia i ponti con una realtà che è riconosciuta come priva di valore»: così Kierkegaard8). Questo atteggiamento evita la sopraffazione, l’essere homo homini lupus, non solo con l’azione ma anche con le parole.
1.2 La libertà poi, a parer nostro, è anche affrancamento dalla paura. Parlare di libertà dalla paura sembra (e forse è) quasi ricorrere a una formula che sfiora l’adynaton. La vita stessa, nel momento del suo generarsi, si organizza per la propria distruzione e morte. E, per tornare agli antichi pensatori, chi non ricorda il tetrafarmaco epicureo, con cui si proponevano riflessioni su come liberarsi innanzitutto dalla paura della morte e della superstizione che incombe come un mostro sul capo degli uomini? La ricerca della libertà dalla paura, a ben vedere, attraversa tutto il pensiero occidentale e, nel mondo moderno, si estrinseca in modo drammatico soprattutto nella cosiddetta Teodicea leibniziana (per Teodicea si deve intendere la «giustificazione di Dio» dall’accusa di aver creato il male e, con esso, la morte). Per Leibnitz il nostro mondo è un insieme di «possibili» a cui nulla si può sottrarre né aggiungere. Siccome il mondo scelto da Dio è il migliore possibile e non può essere diverso, per l’uomo esiste solo la contingenza, non la libertà. L’etica eroica e intellettualistica degli Stoici, da cui siamo partiti per affermare il principio della libertà, arrivava alla soluzione estrema del suicidio, l’unico dono che la Provvidenza può fare all’uomo: «Ante omnia cavi ne quis vos teneret invitos: patet exitus»9, soluzione che non poteva piacere a sant’Agostino che, a questo proposito, parla di una virtù tanto più orgogliosa quanto più menzognera10. Di fatto, fra Catone e sant’Agostino, si interpone la grande rivoluzione etico-religiosa del Cristianesimo, che avrebbe introdotto in modo radicale il tema del libero arbitrio in rapporto alla considerazione di un Dio visto, nella tradizione giudaico-cristiana, come onnisciente e onnipotente. Questa interpretazione della divinità che da sempre predetermina ciò che accadrà e nella
7. 8.
V. Hugo, I miserabili, trad. it. di R. Colantuoni, Garzanti, Milano 1981, p. 89. S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate, trad. it. di D. Borso, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 102. 9. Seneca, De Providentia, 6, 7, trad. it. di A. Traina, Rizzoli, Milano 1997. 10. Agostino, De Civitate Dei, 19, 4, 105.
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
cui mente il futuro è, in realtà, già scritto, dava un forte scossone all’idea della libertà individuale, tanto che Martin Lutero scriverà un testo famoso intitolato De servo arbitrio. Non ci soffermeremo su altri filosofi importanti, come Locke, Voltaire e Hume che, in modo diverso, hanno tentato di dimostrare come, al di là delle apparenze, libertà e determinismo siano compatibili, definendo il concetto di libertà come “possibilità di agire senza impedimenti o costrizioni”. Secondo questa prospettiva, in realtà capziosa ed eccessivamente intellettualistica, libero è colui che non è impedito nell’agire, perché non gli si vieta di fare ciò che vuole, né costretto, perché non lo si obbliga a compiere ciò che non vorrebbe.
1.3 Continuando a seguire il filone dell’indagine filosofica, non si può chiudere il nostro rapido percorso senza rilevare come il tema della libertà dell’individuo, ricorrente del resto in tutta la letteratura, sia anche quello centrale della corrente dell’esistenzialismo che molto deve al succitato Kierkegaard e che annovera nomi come Jaspers, Heidegger e Sartre. L’esistenzialismo è per definizione la filosofia della libertà («tutto dipende dalla scelta del singolo»). Questa libertà totalizzante («la vertigine della libertà») si fa però problema, in quanto genera l’angoscia connessa al rischio della scelta (ricordiamo, a monte e benché in altro ambito, il celeberrimo dilemma amletico dell’«essere o non essere»). Essa può arrivare al nichilismo quando rivela anche il nostro «poter non essere». La considerazione della propria finitezza può portare a un’accettazione, da un lato rassegnata, ma dall’altro anche attiva, di «quello che si è», e quindi a una scelta liberamente responsabile (così Sartre in L’essere ed il nulla11). Pertanto l’uomo ha la «grazia», ma anche la «dis-grazia» del Dasein, dell’esserci, in quanto, pur essendo libero, non è libero di esserlo o di cessare di esserlo, perché la nostra libertà non è mai tale da poter risalire all’origine e inizia comunque con un atto non voluto e arbitrario, quello della vita che ci è stata imposta. Dalla constatazione di queste insanabili frammentazioni deriva la scissione dell’«io». Rispetto quindi al nostro punto di partenza (la libertà del sapiens stoico è totale perché si riscatta con il suicidio), quello di arrivo, rappresentato dall’esistenzialismo e dalle moderne neuroscienze (l’uomo non ha la libertà di non essere libero), segna un punto negativo sul piano dell’interiorità dell’individuo (intellettualismo etico), segnalandone la lacerazione, l’angoscia e la finitezza legata al suo esistere, nel senso dell’ex-sistere, cioè del «porsi fuori dall’essere»: libertà vs. non-libertà. 148
11. J.P. Sartre, L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 2008.
La libertà: la sua attuazione nella duplice forma dell’intellettualismo etico e del praticismo etico
2. Il praticismo etico, ovvero la libertà collettiva 2.1 Già gli antichi si sono pronunciati in modo molto preciso sul problema della libertà dell’individuo nell’ambito di uno stato e su quello della costituzione politica dei singoli stati. Ci sia permessa, tra le tante, una citazione celeberrima e paradigmatica che ci viene da uno dei più grandi storici della grecità classica, Tucidide. Tucidide, nel secondo libro de La guerra del Peloponneso e, in particolare nel celebre Epitafio di Pericle, definisce il vero manifesto della libertà nella Grecia classica. Egli afferma che l’essenza del sistema politico degli Ateniesi non risiede nel conflitto e nella violenza, ma nella duplice libertà del cittadino, libertà positiva di partecipare alla vita politica, e libertà negativa dall’interferenza del potere statale: I diritti civili spettano non a poche persone, ma alla maggioranza, quindi abbiamo una democrazia. Di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, tutti sono su un piano di parità. Ognuno ha la libertà di emergere, anche se di nascita oscura. I rapporti privati e pubblici non si esplicano con danni reciproci. Si obbedisce a chi sta al comando e soprattutto alle istituzioni poste a tutela di chi subisce ingiustizia: il cittadino ha la duplice libertà, quella positiva di partecipare alla vita politica e la libertà negativa dall’interferenza del potere statale12 .
Come spartiacque tra il mondo classico e quello moderno (si celebra quest’anno l’ottocentesimo anniversario della sua promulgazione), si pone la Magna Charta Libertatum, il documento suggellato il 15 giugno 1215 da re Giovanni Senza Terra, che è un testo basilare per la politica e il diritto, che pose il re, cioè l’autorità, al di sotto della legge e mise fine a soprusi, punizioni arbitrarie e abusi. Il testo è stato salutato appunto come il “fondamento della libertà”.
2.2 Nei tempi moderni e soprattutto dopo le esperienze traumatiche del nazismo e del totalitarismo sovietico, molti filosofi e studiosi della prassi politica, hanno dedicato opere fondamentali all’analisi dei regimi assoluti. Fra questi studiosi emerge in particolare Hannah Arendt che, pur non essendo super partes, data la sua origine ebraica, scrive un’opera fondamentale come Le origini del totalitarismo (1951), in cui parte da questa importante affermazione:
12. Tucidide, La guerra del Peloponneso, ii, 37, trad. it. di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 1985.
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«La differenza fondamentale tra le forme totalitarie e quelle tiranniche tradizionali è che il terrore non viene usato principalmente come un mezzo per intimidire gli avversari, ma come uno strumento permanente con cui governare masse assolutamente obbedienti e prive di libertà»13. Ritorna dunque, anche se in ambito diverso, il tema, cui già abbiamo accennato, della necessità inalienabile per l’uomo della libertà dalla paura. Secondo questa studiosa, nel totalitarismo, emerge in modo drammatico il paradosso dell’uso della libertà, perché nei regimi totalitari sia la libertà positiva (libertà per fare qualcosa), sia quella negativa (libertà da qualcosa), rischiano di avere lo stesso esito. L’uomo solo, libero da legami, non è in grado di resistere al potere, ma, d’altro canto, l’uomo immerso nella sua società è altrettanto facilmente preda del potere. Secondo la Arendt l’individuo isolato cerca nel potere totalitario e nel capo la propria soddisfazione affettiva, mentre quello pieno di legami si fa plasmare dal conformismo richiesto dai legami stessi: pertanto nessuno dei due appare veramente libero. Alla luce di questi presupposti, la Arendt stessa conia la definizione «banalità del male», individuandola nella capacità degli uomini di compiere ogni scelleratezza, anche le più disumane (si pensi a quali ferocie si compiono durante i conflitti) con questa giustificazione: «eseguivo gli ordini dei miei capi»14. Per quello che riguarda invece il conformismo di massa, sempre questa aberrazione può spiegare l’insorgere di mostruosità come l’antisemitismo o, in generale, ogni tipo di razzismo, legato ai movimenti nazionalisti, come furono il pangermanesimo e il panslavismo. Regimi totalitari sono dunque, sia il nazismo sia lo stalinismo che si sono retti sul binomio ideologia-terrore, attuato attraverso l’opera spietata della polizia segreta.
2.3 Uno dei più importanti filosofi moderni, Karl Popper (1902-1994), dà una chiara definizione di quello che egli intende per società aperta: La società aperta è aperta a più valori, a più visioni del mondo filosofiche ed a più fedi religiose, ad una molteplicità di proposte per la soluzione di problemi concreti e alla maggiore quantità di critica. La società aperta è aperta al maggior numero possibile di idee ed ideali differenti, e magari contrastanti. Ma, pena la sua autodistruzione, non di tutti: la società aperta è chiusa solo agli intolleranti15 .
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13. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1967. 14. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 2003, p. 168. 15. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, trad. it. di R. Pavetto, Armando, Roma 1994.
La libertà: la sua attuazione nella duplice forma dell’intellettualismo etico e del praticismo etico
In questa prospettiva la verità è, per definizione, autoritaria. Questa domina in ogni tipo di regime totalitario, e può essere quella della razza, quella del destino storico del proletariato, quella della rivelazione religiosa. In tali regimi, l’individuo è sacrificabile in nome della cosiddetta purezza della verità. Come si intuisce dal titolo di una sezione dell’opera16, per Popper il primo modello di tale visione aberrante sta nella città perfetta di Platone. Infatti, se si ritiene che esista un senso o una direzione oggettiva della storia, gli «interpreti ufficiali di essa», i «portavoce del suo destino» si sentiranno autorizzati a liquidare chiunque si opponga al loro pensiero. Per Popper invece la libertà presuppone l’esercizio critico e continuo della ragione, nell’ambito di un sistema che non solo tollera, ma stimola al suo interno le diversità, attraverso istituzioni democratiche, attraverso gruppi che attivano la discussione in vista della soluzione dei problemi sociali, attraverso l’attuazione di continue riforme. Pertanto, non bisogna chiedersi chi deve comandare, ma come è possibile controllare chi comanda, per sostituire eventualmente i governanti incapaci senza spargimento di sangue. Il liberismo (anche se il filosofo partiva da posizioni marxiane) prevede sì la fede nella ragione, ma anche in quella degli altri, e implica l’idea di imparzialità, di tolleranza, di rifiuto di ogni pretesa autoritaria. Bisogna tuttavia aggiungere qualche precisazione. Il liberale ama la tolleranza come espressione di libertà e il suo amore per la tolleranza è la necessaria conseguenza della convinzione di essere uomini fallibili. Una mente illuminata, però, è tollerante con i tolleranti, ma intollerante con gli intolleranti, perché la tolleranza, al pari della libertà, non può essere illimitata: pena la sua autodistruzione. Queste idee, più volte espresse da Popper, sono ulteriormente ribadite da Todorov17. Vorremmo concludere l’excursus nella filosofia contemporanea citando il filosofo Bertrand Russell che ha scritto un’opera significativa intitolata appunto La ricerca della felicità18, una felicità cui l’uomo deve tendere in ogni campo, difendendo strenuamente gli ideali etico-politici contro ogni forma di sopruso. Perseguendo pertanto il massimo rigore intellettuale Russell si schierò contro ogni estremismo, sia contro le ingiustizie del capitalismo, che contro l’oppressione del bolscevismo, sia contro l’antisemitismo che contro i crimini nazisti. Da pacifista convinto, poi, a partire dal primo conflitto mondiale fino alla guerra del Vietnam, si batté insieme a un altro spirito illumi-
16. Popper, La società aperta e i suoi nemici, cit. 17. In Atti di Amnesty International su L’intolleranza: uguali e diversi nella storia, a cura di P. C. Bori, il Mulino, Bologna 1986. 18. B. Russell, La conquista della felicità, trad. it. di G. Pozzo Galeazzi, Longanesi, Milano 1947.
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
nato come Einstein contro l’uso della bomba atomica. In lui dunque vediamo uno strenuo difensore della propria libertà individuale (intellettualismo etico) e un accanito paladino della giustizia sociale, tanto da essere fondatore del cosiddetto “Tribunale Russell”, istituito per denunciare ogni tipo di persecuzione ideologica (praticismo etico). Appare attuata, così, nella prassi di tutta la sua vita, quella tensione interiore indirizzata al raggiungimento di un obiettivo sempre migliore e orientata verso una meta il più possibile vicina all’Ideale profondo che lo aveva ispirato.
3. Conclusioni
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Alla fine del nostro percorso, nel quale abbiamo cercato di mettere in luce le idee di alcuni uomini che si sono distinti nella storia dell’umanità per la loro libertà di giudizio o, almeno, per la volontà di praticarla, possiamo affermare che noi siamo non tanto affannati a cercare di essere liberi, ma piuttosto a discutere di libertà e di libero arbitrio. Dagli antichi ai moderni, dai moderni agli antichi, in un percorso ciclico che non si esaurisce in se stesso, ma che è destinato a riproporsi finché esiste l’uomo. E con l’uomo, il pensiero, che gli permette di non giacere in una vuota acquiescenza, ma di tendere al miglioramento di se stesso e degli altri, fuori da un rigido schematismo storicistico, ma consapevole del proprio valore e della necessità vitale di non tradire la possibilità di autodeterminarsi. Ci sia consentito, fra le tante autorevoli opinioni citate, esprimere anche il nostro modesto punto di vista. Riteniamo di identificare, anche se, certamente, non in modo esaustivo, l’idea di libertà con quella basilare di coesistenza e quella più alta di convivenza. La convivenza in ogni comunità di persone, sia essa piccola come la famiglia, o allargata come associazioni e financo città e stati, è la forma moderna di libertà. Presuppone un’accettazione di se stessi e degli altri, l’accettazione della diversità di pensiero, usi, costumi, razza e religioni, ora più che mai fonte di attrito nelle società multietniche e nel mondo globalizzato dalla standardizzazione industriale e dalle comunicazioni e connessioni 24 ore al giorno. Presuppone altresì un impegno alla formazione delle regole oggettive di convivenza attraverso la partecipazione politica e associazionistica, in modo che le regole non siano arbitrarie e destinate, come sempre, a dare ragione al più forte o al più violento. Volendo rendere ancora più astratto ed estremizzato il concetto, poiché la convivenza presuppone amore per se stessi e per il prossimo, azzardiamo l’identificazione fra i concetti di libertà e amore. Comunque, entrambi i concetti di amore e libertà sono congetture che, pur non concernendo il mondo fenomenico, sono essenziali per definire la
La libertà: la sua attuazione nella duplice forma dell’intellettualismo etico e del praticismo etico
nostra verità ultima. In effetti, non è forse vero che tutto ciò che ci sta veramente a cuore nella nostra esistenza sono proprio le congetture, questi errori originari, queste insopprimibili supposizioni che ci sono necessarie per sopravvivere? Ci preme, infatti, più di tutto l’indimostrabile, l’inattingibile, l’incatturabile che sentiamo, in ultima analisi, essere il nostro impulso primigenio e portante. La libertà appartiene a questo nostro fondamento assolutamente infondato (perché indimostrabile), a questa nostra dimensione originaria che non potremo mai né provare né analizzare come facciamo, invece, con i fenomeni. Questa nostra realtà, comunque, non sarà mai revocabile fintanto che pensiamo, perché proprio il pensare ci spinge verso il mondo noumenico, a ciò che è soltanto idea.
Bibliografia Agostino, Confessioni, trad. it. di A. Marzullo, Zanichelli, Bologna 1968. Agostino, La città di Dio, trad. it. di D. Gentili, Città Nuova, Roma 2000. Antiseri D., Su Popper, in “Il Corriere della Sera”, 7 settembre 2014. Arendt H., Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano, 1967. Ead., La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 2003. Bobbio N., Il futuro della democrazia. Uguaglianza e libertà, Einaudi, Torino 1995. Kierkegaard S., Sull concetto d’ironia in riferimento costante a Socrate, trad. it. di D. Borso, Guerini e Associati, Milano 1991. Mathieu V., Storia della filosofia, La Scuola, Brescia 1967. Popper K., La società aperta e i suoi nemici, trad. it. di R. Pavetto, Armando, Roma 1994. Russell B., La conquista della felicità, trad. it. di G. Pozzo Galeazzi, Longanesi, Milano 1947. Sartre J.P., L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 2008. Seneca, De Providentia, trad. it. di A. Traina, Rizzoli, Milano 1997. Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 2007. Todorov T., L’intolleranza: uguali e diversi nella storia, a cura di P. C. Bori, il Mulino, Bologna 1986. Tucidide, La guerra del Peloponneso, trad. it. di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 1985.
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Vincitori dei concorsi 2015: elaborati multimediali e Age contra
Concorso Junior
I premio Titolo video: O.Y.E. Team: Andrea Borsani, Francesco Citarelli, Andrea Dalpiaz, Luca Gaverini, Anna Menegolo, Francesca Suozzo, Valentina Tettamanti, Docente referente: prof.ssa Laura Menegola Liceo classico e scientifico “Enrico Fermi”, Cantù (co) II premio Titolo video: Liberi da se stessi Team: Gabriele Ciulli, Pietro Leoni Docente referente: prof.ssa Stefania Scardicchio Liceo classico “Sant’Orsola”, Roma III premio Titolo video: Eleutheria Team: Edoardo Baccarini, Martina Benincasa, Laura Bertarini, Francesca Borsari, Ilaria Caggia, Alice Cirelli, Veronica Di Mattia, Greta Fiorini, Bianca Frasoldati, Martina Gabelli, Paolo Alberto Gasparini, Giacomo Martinelli Docente referente: prof.ssa Alessandra Gibertoni Liceo classico “San Carlo”, Modena
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
Concorso Senior I premio Titolo video: Carpe Diem Team: Francesco Benfenati, Chiara D’Antonio, Chiara La Manna, Chiara Lambertini, Filippo Piovani, Francesca Pometti, Rebecca Roncarati Docente referente: prof. Vinicio Giacometti Liceo classico “Luigi Galvani”, Bologna II premio Titolo video: A un passo dalla libertà Team: Alessia Brugnara, Sara Froner, Sara Monico Docente referente: prof.ssa Isabella Bolner Liceo delle scienze umane, Istituto “Sacro Cuore”, Trento Age contra Junior Topico: Pur di garantire la sicurezza è lecito ridurre la libertà Team: Simone Cazzaniga Shawn, Lorenzo Costa, Ludovica De Paolis, Luca Ferrario, Giuditta Illini Docente referente: prof.ssa Alessia Quadrio Liceo classico statale “Bartolomeo Zucchi”, Monza (mb) Age contra Senior Topico: La libertà di stampa è un bene che va sempre e comunque preservato Team: Valeria Fibioli, Greta Frigerio, Gabriele Gabrielli, Cecilia Grassi, Andrea Tamburo, Riccardo Villa Docente referente: prof. Albano Buzzoni Liceo classico e scientifico “Enrico Fermi” di Cantù (co)
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Autori e curatori
Gli autori Guido Alliney insegna Storia della filosofia medievale all’Università di Macerata, dove è direttore del Dottorato in Filosofia, Storia della Filosofia e Scienze Umane. I suoi interessi principali vertono sul pensiero scolastico del xiii e xiv secolo, in particolare su Enrico di Gand e Giovanni Duns Scoto. Sull’argomento ha pubblicato numerosi articoli e volumi, anche con edizioni critiche di testi inediti del primo scotismo. Francesco Botturi è ordinario di Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano. Si è occupato di antropologia, filosofia della storia e di etica (ambito a cui è dedicato il suo volume La generazione del bene, 2009) Ha diretto la sezione di Antropologia dell’Enciclopedia filosofica (Bompiani). È direttore della collana “Filosofia morale” e condirettore dell’Annuario di etica (Vita&Pensiero). È membro del Comitato scientifico delle riviste: “Rivista di Filosofia neoscolastica”, “Ragion pratica”, “Archivio di Filosofia”, “Teologia”, “Studia Patavina”, “Studium”. Mario De Caro insegna all’Università Roma Tre e, dal 2000, anche anche alla Tufts University (Redfort, ma). È stato Fulbright fellow alla Harvard University e presidente della Società italiana di filosofia analitica. Attualmente è vicepresidente della Consulta nazionale di filosofia e associate editor del “Journal of the American Philosophical Association”. Ha curato venti volumi ed è autore di tre monografie e di circa cento articoli scientifici in cinque lingue. Michele Di Francesco è professore ordinario e rettore dell’Istituto universitario di Studi Superiori iuss di Pavia. Si occupa di Filosofia della mente e, in particolare, dei rapporti tra neuroscienze cognitive e teorie della soggettività. È autore e curatore di una ventina di volumi e di un centinaio di articoli scientifici, pubblicati in sedi nazionali e internazionali.
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«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà
Giovanni Maddalena è professore associato di Storia della filosofia presso l’Università del Molise. Esperto di pragmatismo americano e, in particolare, di C.S. Peirce del quale ha curato e tradotto gli Scritti scelti per utet. Tra gli scritti si ricorda la monografia su Peirce, Metafisica per assurdo (Catanzaro 2009) l’originale interpretazione del pragmatismo in Philosophy of gesture (Montreal 2015). È stato fulbright scholar (2009-10) e visiting professor presso l’École Normale Supérieure (2015). Fondatore dell’Associazione Pragma e del Grossman Study Center, dirige la rivista “European Journal of Pragmatism and American Philosophy” e la collana “Filosofia anglo-americana” per Nino Aragno. Giacomo Rizzolatti è membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, dell’American Academy of Arts and Sciences e dell’Académie des sciences dell’Institut de France. È membro onorario della Società italiana di neuroscienze. Ha coordinato il gruppo che nel 1992 ha scoperto i neuroni specchio. Ha ricevuto molti premi e riconoscimenti a livello nazionale e internazionale, tra questi la laurea honoris causa dall’Università Claude Bernard di Lione e dall’Università di San Pietroburgo. Con Corrado Sinigaglia ha pubblicato So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio (Milano 2006). Emidio Spinelli insegna Storia della filosofia antica alla Sapienza, Università di Roma, e collabora con l’iliesi cnr-Roma. Numerosi sono i suoi contributi su importanti autori e ambiti del pensiero antico (in particolare sulla tradizione epicurea e scettica), oltre a diverse pubblicazioni relative a scritti (editi e inediti) di Hans Jonas.
I curatori Gian Paolo Terravecchia è PhD in Filosofia presso l’Internationale Akademie für Philosophie e dottore di ricerca in filosofia teoretica e pratica presso l’Università di Padova. Si occupa di filosofia sociale (Il legame sociale. Una teoria realista, Napoli 2012) ed è cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova. Con Luciano Floridi ha curato Le parole della filosofia contemporanea (Roma 2009). È coautore di manuali di filosofia e docente della secondaria superiore.
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Marco Ferrari insegna filosofia e storia nei licei. È coordinatore della Bottega di filosofia, vicepresidente di ToKalOn-Didattica per l’eccellenza e direttore del Concorso nazionale di filosofia Romanae Disputationes. Collabora con la rivista “Libertà di educazione”. È membro del Consiglio nazionale di Diesse (Didattica e innovazione scolastica) ed esperto presso il Comitato etico della Federazione medico sportiva italiana. Ha curato con Gian Paolo Terravecchia il volume Soggetto e realtà nella filosofia contemporanea. Cinque lezioni (Castel Bolognese [ra] 2014).
ROMANAE DISPUTATIONES 2016 Unicuique suum. Radici, condizioni ed espressioni della giustizia Il Concorso RD intende risvegliare l’interesse alla filosofia e sviluppare le capacità critiche e dialettiche degli studenti della scuola secondaria superiore attraverso un percorso di studio e di confronto, aperto a tutti gli orientamenti culturali, da realizzare in collaborazione con il mondo universitario, ponendo a tema le grandi domande che la filosofia offre all’uomo contemporaneo. Attraverso le RD si intende offrire un’occasione per innovare il modo tradizionale di studiare filosofia, proponendo un approccio tematico e non soltanto storico; si vuole poi favorire nei partecipanti lo sviluppo della capacità di sintesi e dell’esercizio della scrittura, delle competenze argomentative e della creatività nella comunicazione filosofica e promuovere una conoscenza profonda e appassionata dei problemi filosofici. Date importanti • ottobre 2015: Evento di apertura del Concorso • 18-19 marzo 2016: Convention a Roma Per informazioni vai su http://romanaedisputationes.com/
«Libertà va cercando, ch’è sì cara». L’esperienza della libertà Romanae Disputationes 2014-15
Il tema del Concorso Nazionale di filosofia “Romanae Disputationes”, per l’edizione 2014-15, è stato: “«Libertà va cercando, ché sì cara». L’esperienza della libertà”. Il Concorso per testi e multimediali ha coinvolto 782 studenti iscritti, accompagnati a Roma da 70 docenti referenti di 65 scuole di tutta Italia, per un totale – nelle categorie Junior (iii e iv anno della secondaria superiore) e Senior (v anno) – di 108 elaborati scritti e 46 multimediali presentati. Il libro si compone di tre parti. La prima raccoglie gli interventi di cinque docenti universitari che affrontano il tema della libertà secondo un approccio storico che va dall’antichità (Emidio Spinelli), al Medioevo (Guido Alliney), all’epoca moderna (Francesco Botturi), fino a quella contemporanea (Giovanni Maddalena e Mario De Caro). Nella seconda parte sono presentate due interviste, rispettivamente al neuroscienziato di fama internazionale Giacomo Rizzolatti e al filosofo della mente Michele Di Francesco. La terza parte, infine, raccoglie i materiali vincitori del Concorso. Anche questa seconda edizione del Concorso ha dimostrato che l’interesse per la filosofia dei giovani può essere risvegliato nella misura in cui torniamo a confrontarci con le grandi domande che la filosofia ha posto e pone ancora all’uomo contemporaneo. Gian Paolo Terravecchia, PhD in Filosofia presso l’Internationale Akademie für Philosophie (1998). Dottore di ricerca in Filosofia teoretica e pratica presso l’Università di Padova (2011), si occupa di Filosofia sociale (Il legame sociale. Una teoria realista, Ortothes, Napoli 2012) ed è cultore della materia in Filosofia morale all’Università di Padova. È coautore di manuali di filosofia, editi da Loescher, e docente della secondaria superiore. Marco Ferrari è coordinatore della Bottega di Filosofia (2012), vicepresidente di “ToKalOn-Didattica per l’eccellenza” e direttore del Concorso nazionale di filosofia Romanae Disputationes. È membro del Consiglio nazionale di Diesse (Didattica e innovazione scolastica) ed esperto presso il Comitato etico della FMSI (Federazione Medico Sportiva Italiana). Ha curato il volume Soggetto e realtà nella filosofia contemporanea. Cinque lezioni (Itaca, Castel Bolognese [RA] 2014). È docente della secondaria superiore.
OMAGGIO
ISBN 978-88-201-3741-0
3741 TERRAVECCHIA Libertà va cercando, ch’è sì cara. L’esperienza della libertà
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