Polipo ANNO VI - Numero 3

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4 // Dicembre 2012 • Anno VI

POLIPO tentacoli di giudizio

POLIPO tentacoli di giudizio

studenti, non lo avrei sicuramente accettato. Cioè io sono convinto che alla fine il bilancio sarà un bilancio positivo, pur con tutte le difficoltà del caso, altrimenti non l’avrei accettato, perché non ho ambizioni particolari e devo fare il triplo del lavoro che faccio normalmente. Lei traduce tutte le lezioni che tiene in aula? Per la precisione io do agli studenti, alla fine di ogni lezione, tutto il materiale in inglese e in italiano (anche perché molti studenti sono prevalentemente italiani) però il patto è che quando entriamo in aula parliamo in inglese, sia per fare le esercitazioni sia per fare le lezioni e le revisioni, quindi diciamo che c’è un sforzo reciproco. Questo credo che sia un momento importante perché gli studenti vengano incontro alla difficoltà: non tutti parlano correttamente l’inglese e quindi c’è una specie di reciproca solidarietà. Secondo me è un aspetto positivo perché avvicina molto di più studenti e professori. La cosa che ho sperimentato sin dalla prima volta è stata quella di invitare

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tutti alla cattedra e di chiedere di fare loro una presentazione rispetto alle loro aspettative sul corso, ma anche sulle loro esperienze in inglese. Sin dal primo momento s’è trovato questo modo che consente più o meno bene di poter misurarci, dissacrando la questione della lingua ed esorcizzandola sin dall’inizio per non trascinarsi dietro questo come un problema da risolvere. Però ci sono delle difficoltà: intanto trovo che dovrebbe essere affrontata un’altra questione che riguarda l’insieme degli investimenti che il Politecnico dovrebbe fare, oltre a istruire diversi docenti sulla lingua, che è quella di dare alle diverse scuole la possibilità di misure specifiche sulle esigenze di ogni scuola. Faccio un esempio: lavorare ad architettura civile sulla “composizione”, tanto per dirne una, significa adottare un glossario che non è analogo a quello di architettura e società per la stessa materia. È diverso perché parliamo di cose un po’ diverse. Per tradurre questa specificità dentro la lingua inglese occorrerebbe tentare di costruire un glossario che sia adatto a poter autenticamente trasferire alcune questioni che

«Lavorare ad architettura civile sulla “composizione”, tanto per dirne una, significa adottare un glossario che non è analogo a quello di architettura e società per la stessa materia. Per tradurre questa specificità dentro la lingua inglese occorrerebbe tentare di costruire un glossario [...] »

Con questo numero di Polipo abbiamo deciso di portare avanti un lavoro critico e di riflessione sulla scelta di internazionalizzazione del Politecnico che, a partire dall’anno accademico 2014/2015, porterà ad avere i corsi di Laurea Magistrale interamente in lingua inglese. Data la portata del cambiamento, a cui in parte stiamo assistendo ora, ci sembrava importante non tralasciare questo tema, spinti dall’interesse di rimanere vivi in università. Nell’ultimo Polipo avevamo intervistato il nostro rettore Prof. Giovanni Azzone, coinvolto in un sondaggio oltre 8.000 studenti del Politecnico e, infine, fatto una raccolta di testimonianze di professori e studenti riguardo l’esperienza di insegnare e apprendere in inglese. Quello che vi proponiamo in questo numero sono le prime impressioni circa il cambiamento in atto. Di seguito riportiamo l’intervista al Prof. Domenico Chizzoniti, docente del corso di Progettazione di Architectural Sciences, dove la laurea triennale apertasi quest’anno prevede l’erogazione dei laboratori in inglese. Nelle pagine successive trovano spazio le prime sensazioni di due studenti di Ingegneria Civile in merito al corso di Strutture in inglese; per concludere abbiamo deciso di raccontarvi l’esperienza di una studentessa di Design a proposito dei corsi di lingua offerti dal Politecnico in preparazione per la specialistica.

intervista a cura di Giovanni Paterlini e Irene Carvelli

Visto il peso che sta acquistando la questione dell’inglese e il suo impegno in merito alla sua promozione: come mai aveva scelto di insegnare in lingua inglese? Secondo me è un’opportunità. Non è una questione di secondo ordine rispetto alle prospettive future dell’u-

niversità: sicuramente presenta tutta una serie di difficoltà, ma penso che se il Politecnico dovesse aprirsi fuori dai confini dell’utenza lombarda o italiana dovrebbe tentare di sperimentare l’insegnamento in lingua inglese per poter drenare degli studenti anche da diversi paesi europei e da frontiere un po’ più lontane che riguardano l’Asia e l’Africa. Ci sono state molte critiche rispetto alla qualità: molti dicono che questo passaggio all’inglese avverrà a suo discapito perché sostengono che gli insegnanti fanno fatica a comunicare, perchè i concetti espressi in italiano, risultano diversi se espressi in inglese. Lei in questi mesi di esperienza ha visto problematiche in

merito e alcuni spunti interessanti? Quali prospettive vede? Prima di tutto sulle prospettive: io le vedo molto positive riguardo ai paesi del Mediterraneo. Il Politecnico dovrebbe aprirsi molto di più riguardo a questa utenza. Per esempio, oltre ai tradizionali riferimenti che il Politecnico ha e su cui investe come la Cina o i paesi di area anglosassone per catturare studenti in lingua inglese, una prospettiva molto importante secondo me è l’area sahariana e sub sahariana. Potrebbero diventare una risorsa futura importante. Sulle difficoltà riesco a fare un bilancio oggettivo alla fine dell’anno. Intanto per la particolarità della disciplina è difficile generalizzare, la prospettiva

che io ho è quella di un progetto di architettura dove il lavoro riguarda il disegno e l’elaborazione tridimensionale dello spazio architettonico. Ovviamente c’è un processo di trasmissione delle informazioni, della conoscenza, che avviene attraverso un altro canale che non è un canale tradizionale. Questo implica delle difficoltà oggettive, sia nei ricettori, cioè negli studenti, sia in chi li trasmette. Io non avrei accettato l’incarico se avessi avuto qualche dubbio riguardo al bilancio generale, ai vantaggi e agli svantaggi dell’erogazione in lingua inglese del mio corso e riguardo ai benefici che gli studenti potrebbero avere. Qualora questo bilancio all’inizio, quando ho accettato, avesse instillato in me dei dubbi circa il fatto che fosse sfavorevole rispetto agli

sono fondanti sia per architettura e società sia per architettura civile. A lei è mai capitato di tradurre concetti o parole come tipologia o modello insediativo, parole che portano con sé un retroterra culturale? Mi sono imbattuto proprio in queste parole e typology è l’ultimo dei problemi. Tradurre comportamenti d’uso dello spazio architettonico, che è un argomento centrale nel mio laboratorio, non è semplice in inglese e quindi occorrerebbe trovare perlomeno dei modi che possano consentire di trasferire la nozione di comportamento d’uso dello spazio anche in inglese o a dei referenti inglesi che capiscono che la progettazione non riguarda solo gli spazi, ma riguarda come tu entri dentro gli spazi e l’uso che ne fai e l’interazione che hai.

lativamente importanti, molte buone traduzioni si trovano! Una cosa che ho scoperto è leggere, per esempio, “Form and design” di L. Kahn direttamente in inglese. Volevo aggiungere una riflessione: la cosa strana è che l’unica difficoltà che trovo è quella di avere una classe di 50 studenti di cui 40 sono italiani che all’inizio preferirebbero tranquillamente la lezione in italiano, perché sarebbe più naturale per loro, nonostante abbiano accettato o scelto di fare il corso in inglese. Ma se c’è una piena collaborazione, un bel clima, c’è anche una maggiore disponibilità da parte dello studente e del docente di venirsi incontro e se questo si instaura subito, aiuta a superare tantissime difficoltà. L’altra cosa che ho fatto è il confronto rispetto alla scaletta dello scorso anno. Poiché non ho spostato né i temi né gli obiettivi, sto controllando se si riesce a tenere il passo. Viste anche le discipline di cui tratto, però, resta il fatto che dobbiamo prevalentemente disegnare e progettare, cioè usare molto la testa, la mano e la matita e quindi ridurre all’essenziale la comunicazione. Un aspetto della lingua inglese è quello di essere sempre estremamente sintetica e precisa e puntare sempre al concetto centrale, il che è molto positivo.

«Un aspetto della lingua inglese è quello di essere sempre estremamente sintetica e precisa e puntare sempre al concetto centrale, il che è molto positivo.»

Che cosa dice rispetto alla bibliografia? Ecco, sulla bibliografia, prima di accettare il corso, ho verificato i testi che prevalentemente usavo. Intanto i miei, ma poi anche quelli di riferimento hanno tutti una traduzione in lingua inglese: ho verificato caso per caso. Ci sono dei buchi ma questi buchi li cerchiamo di compensare. Lavorando anche al primo anno con autori re-

Le prime impressioni degli studenti Corso di Strutture in Ingegneria Civile erogato in lingua inglese di Maria Chiara Padovani

I

n previsione del progetto di internazionalizzazione del Politecnico, è stata presa la decisione da parte del dipartimento di Strutture di rifarsi alla disposizione dei corsi in inglese già da settembre di quest’anno. Di conseguenza una delle specialistiche con più iscritti e forse meno studenti stranieri è attualmente tenuta in inglese ad eccezione di un paio di corsi. Solo per quest’anno, inoltre, sono state fatte alcune eccezioni a tutela degli studenti quali la possibilità di scegliere se sostenere l’esame in inglese o in italiano e la disposizione del materiale didattico in entrambe le lingue. Insomma, gli studenti di strutture sono stati investiti

dell’onorevole compito di cavie per questo esperimento di internazionalizzazione di tutto l’ateneo, una sorta di palestra per docenti non usi a trasmettere la loro conoscenza e la loro esperienza in una lingua non propria. Sono una studentessa del secondo anno della specialistica che si è laureata alla triennale al Politecnico di Milano a marzo del suo quarto anno e nello stesso mese si è iscritta alla specialistica di strutture, lasciando indietro un paio di esami del primo semestre della specialistica. Uno di questi lo avevo già seguito in italiano un anno fa e ora, non avendolo sostenuto lo sto riseguendo in inglese. Registro in questa sede le principali difficoltà che sto affrontando come studente. É più complesso intendere quanto si sente, per lacune linguistiche sia da parte degli studenti che da parte di chi siede dietro alla cattedra. Le domande poste dagli studenti richiedono il più delle volte solo di ripetere più che di approfondire e in talune circostanze il professore si ripete senza che nessuno glielo do-

mandi: le tempistiche in questo modo sono rallentate e questo, ahimè, va spesso a discapito delle esercitazioni. Durante le lezioni si perdono la maggior parte dei commenti magari non strettamente necessari ai fini dell’esame, ma che rendono più ricca e più interessante la lezione dando utili spunti per la comprensione. Percepire il filo conduttore della spiegazione è comunque possibile grazie al fatto che i docenti si servano di strumenti di scrittura come lavagna o slide. In tutto questo lo studente rimane per forza di cose lasciato un po’ a sé con tutto il materiale fornito (in lingua inglese e italiana) e si deve “smazzare” da solo il grosso del lavoro. Libri di testo e dispense non sono più un supporto agli appunti presi in classe bensì lo strumento principale di lavoro senza il quale ci si ritrova spaesati; se gli appunti sono diventati solo un indice per capire quali argomenti del libro saltare e quali no, cosa ci vado a fare a lezione? Il rischio che intravedo è che in sede d’esame le alternative siano due: o che l’ alunno si trovi meno preparato o che il docente, consape-

vole delle difficoltà nelle quali i suoi studenti si trovano immersi, abbassi il livello di preparazione necessaria; in entrambi i casi la didattica perde di qualità, a meno di un impegno notevolmente maggiore da parte dello studente. Ora, non è l’impegno che mi spaventa tuttavia sono convinta che esistano dei tempi nei quali è possibile prendere provvedimenti per limitare i danni. Ad esempio un anno di lavoro in cui sia studenti che docenti possano prepararsi seguendo dei corsi di inglese o ristrutturando il corso per via di standard di apprendimento necessariamente differenti. In tal modo si darebbe l’opportunità agli studenti di valutare il trasferimento ad un altro ateneo, possibilità che non è stata concessa a chi si è iscritto quest’anno o a chi, come me, si trova a dover seguire solo un semestre e ormai non può più scegliere! Posto che la possibilità in gioco sia quella di un guadagno sia per l’ateneo sia per gli studenti, la decisione di anticipare da noi le disposizioni non solo rende più complessa la vita a studenti e docenti, ma oltretutto


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