inter n os
Notiziario interno Interne Nachrichtensammlung

SOMMARIO - INHALT
Presentazione Präsentation Günther Donà
Gli anziani
Die Senioren Paolo Endrizzi
L’educatore e le dipendenze

Dier Erzieher und die Suchtkrankheiten
Margit Fliri
Tribunale ordinario e tribunale per i minorenni Landes-und Jugendgericht
Le immagini che accompagnano i testi sono opera del fotografo professionista Paolo Giannitelli, che ringraziamo per la gentile concessione.
Die Bilder, welche die Texte begleiten, sind Werke des Profifotografen Paolo Giannitelli, dem wir für seine Genehmigung danken.
PRESENTAZIONE
THINK SOCIAL
Seconda parte del numero speciale di “Internos”, uscito nell’aprile 2022 e dedicato agli interventi dei componenti di “Think social”.
Dopo gli interventi di Floriana Gavazzi, Luigi Loddi, Paolo Lorenzi, Rodolfo Tomasi, sono qui proposti quelli di Günther Donà, Paolo Endrizzi e Margit Fliri.
Come raccontato nel fascicolo precedente, “Think social” è sorto raccogliendo un suggerimento del presidente dell’Associazione, Paolo Spolaore. Alcune persone, che operano in ambiti professionali affini a quelli in cui “La Strada-Der Weg” è impegnata, hanno accettato di costituire un gruppo di confronto e di studio.
A loro si è proposto di:
• valorizzare il patrimonio di conoscenze ed esperienze professionali di cui sono portatori;
• indagare la realtà presente, per coglierne bisogni, tendenze, trasformazioni in atto;
• supportare l’Associazione nell’ideare e progettare i propri interventi;
• organizzare occasioni, anche
pubbliche, di approfondimento e dibattito.
Il gruppo si è riunito due volte in modalità online e una in presenza, ha promosso un incontro pubblico, anch’esso online, sul tema “Fragilità”.

Si è concordato di raccogliere in forma scritta una presentazione delle rispettive esperienze professionali. Ciascuno è stato intervistato, il contenuto è stato trascritto e revisionato. Si è poi provveduto alla traduzione in lingua tedesca.
I colloqui si sono articolati in tre parti: la propria esperienza lavorativa e l’ambito in cui si è operato; il filo rosso che ha orientato il percorso professionale, la visione complessiva che ha ispirato e motivato scelte e strategie; proposte e indicazioni per l’Associazione “La Strada-Der Weg”.
Le interviste sono state raccolte e trascritte da Fabrizio Mattevi. Le traduzioni sono opera di Viktoria Gross e Harald Kunkel.
PRÄSENTATION
THINK SOCIAL


Der zweite Teil der Sonderausgabe von „Internos“, welcher im April dieses Jahres erschienen ist, wird den
konstruktiven Gesprächen der Teilnehmer von „Think social“ gewidmet. Nach den Worten von Floriana Gavazzi, Luigi Loddi, Paolo Lorenzi und Rodolfo Tomasi im ersten Teil, folgen hier nun die ebenso lesenswerten Interventionen von Günther Donà, Paolo Endrizzi und Margit Fliri.
Wie bereits in der letzten Ausgabe berichtet, geht „Think Social“ auf einen Vorschlag des Präsidenten des Vereins, Paolo Spolaore, zurück.
Einige Personen, die in ähnlichen Berufsfeldern, wie „La Strada-Der Weg“ tätg sind, haben sich bereit erklärt eine Diskussions- und Studiengruppe zu gründen.
Folgendes wurde vorgeschlagen:
• Austausch der persönlichen Berufserfahrungen und Weitergabe des im Laufe der Jahre angereicherten Wissens;
• die gegenwärtige Realität zu beobachten, um laufende Veränderungen und Bedürfnisse Bedürftiger zu erkennen;
• Unterstützung des Vereins bei der Ausarbeitung und Planung ihrer Projekte;
• eventuelle Mitgestaltung von Treffen für allgemeine umfangreiche Diskussionen und Debatten.
Die Gruppe traf sich zweimal online, einmal in Präsenz und organisierte dann schließlich eine öffentliche Onlinekonferenz zum Thema „Fragilität“.
Der Inhalt dieser bedeutenden beruflichen Lebenserfahrungen der befragten Teilnehmer wurde transkribiert, überarbeitet und anschließend alles in die deutsche Sprache übersetzt.
Die Interviews wurden in drei Teile unterteilt:

• die persönliche Berufserfahrung und das jeweilige Arbeitsumfeld;
• der rote Faden, der sich durch die berufliche Laufbahn und die allgemeine Orientierung der Lebensentscheidungen zieht;
• Vorschläge und Hinweise für den Verein „La Strada-Der Weg“.
Die Interviews wurden von Fabrizio Mattevi aufgezeichnet und transkribiert.
Übersetzt wurden die Texte von Viktoria Gross und Harald Kunkel.
Gli Anziani Günther Donà
Sono nato e cresciuto a Merano. Dopo la maturità classica ho frequentato la Facoltà di Medicina a Innsbruck, dove mi sono laureato nel 1976.
Sono rientrato a casa volentieri, anche perché ero stanco della vita studentesca e poi l’amore mi ha tenuto legato a questa terra, dato che poco dopo la laurea mi sono sposato.
Era appena stato introdotto per i medici neolaureati il tirocinio, che ho svolto prima di essere assunto all’ospedale di Bolzano, nel 1977.
All’epoca cardiologia era il settore medico più ambito ma il primario di Chirurgia 1, il professor Steger, che era anche Direttore Sanitario, mi indirizzò verso geriatria, che allora neppure sapevo che cosa fosse.

Una volta compreso di che cosa si trattasse, seguì quell’indicazione, poiché mi pareva rispondesse meglio alle mie aspettative e corrispondesse ai miei desideri.
Avevo ricevuto una proposta di lavoro per oculistica e per odontoiatria, ma quegli ambiti mi risultavano troppo settoriali, preferivo la possibilità di un approccio più olistico alla malattia e alla medicina, un’attenzione al malato più che alla malattia. Non è stata una mia scelta, ma chi
mi ha indirizzato ha probabilmente colto una mia caratteristica e una mia propensione.
Pur continuando il lavoro, mi specializzai, nel 1979, a Pavia, con un Direttore di Scuola, il prof. Pietro de Nicola, veramente straordinario. Lo considero un mio vero maestro: persona di grande cultura, amante della musica, traduttore delle poesie di R.M.Rilke, umanamente sensibile e alla mano.
Di geriatria si era iniziato a parlare da noi nei primi anni ’60, (dopo la creazione del primo reparto e la prima Scuola di Specializzazione di Geriatria a Firenze nel lontano ’47), creando un ambito specifico all’interno di medicina interna.
Però non è stata data, neppure in tempi recenti, una caratterizzazione, una definizione dettagliata di questa specializzazione, che in Austria ad esempio non esiste se non come sub-specializzazione di medicina interna. Geriatria, come pediatria,

non indicano un determinato settore di patologie ma fanno riferimento a età della vita. In Germania si stanno diffondendo rapidamente reparti di geriatria, perché hanno compreso che avere unità operative dedicate agli anziani costituisce un beneficio e un vantaggio per l’intera società, in termini economici e pure in termini sociali e umani. Nel 1988 ho ricevuto l’incarico di primario, a trentasette anni e dunque giovanissimo.
Ho avuto la fortuna di incontrare l’assessore Dr. Otto Saurer, esempio paradigmatico di umanità. Con lui mi sono trovato benissimo.
Un po’ alla volta il reparto è cresciuto, sino a coinvolgere diciotto medici e più di una quarantina di infermiere/i. In ospedale noi geriatri eravamo spesso guardati con sufficienza, perché “i vecchi, cosa vuoi…”. Una volta, un collega internista, non di Bolzano, che ora non è più tra noi, mi disse: “quel reparto dei rifiuti umani”. Rimasi scioccato di fronte a una simile definizione.
Il mio primo impegno è stato, fin da subito, di contrastare la scarsa considerazione degli anziani e degli operatori che se ne prendevano cura. Potrei dirlo con una battuta: un paziente settantenne per un medico in-
ternista ha “già” settant’anni, per il geriatra ha “solo” settant’anni.
La questione centrale è la seguente: Una persona uscita dal ciclo produttivo non merita più particolari attenzioni perché costituisce un costo e non più una risorsa?
Il tema diviene ancor più delicato, profondo e dirimente, se si prendono in considerazione persone affette da malattie incurabili come la demenza, che per molti costituiscono solo una spesa, nel più ampio senso della parola.

Rispetto alla demenza, i malati di tumore, che pure sono, spesso, incurabili, presentano una differenza: alimentano lavoro diagnostico e terapeutico, procurando di conseguenza guadagni alle aziende che producono farmaci e macchinari.
Questi temi, delicati e perturbanti, che coinvolgono il valore di ogni vita umana, dovrebbero essere affrontati pubblicamente, con un ampio coinvolgimento sociale, per dibattere le priorità su cui investire.
Indubbiamente le implicazioni economiche di queste valutazioni sono rilevanti.
La mentalità che ho incontrato nel lavoro all’inizio degli anni novanta non è molto cambiata. A tutt’oggi si guarda ancora con indifferenza a chi è marginale. Anche se, di per sé,
ciascuno di noi, appartiene, per un qualche verso, a un gruppo marginale rispetto alla società. Occorre dunque approfondire e confrontarsi con le dimensioni della fragilità e della vulnerabilità umane.

Nel mio piccolo ho sempre cercato di riconoscere i miei limiti, senza nasconderli o negarli. Allo stesso modo occorre accettare i propri collaboratori come sono, con pregi e carenze. Solo così è possibile che un pool di più di quindici medici riesca a lavorare insieme proficuamente. Forse, mi dico che avrei dovuto es-
sere più attento ed esplicito nell’esprimere apprezzamento e riconoscimento a chi operava accanto a me. Ma un tempo la mentalità era un po’ differente e accadeva, come mi raccontava un mio compagno di corso all’università, che telefonando a casa per comunicare l’esito positivo di un esame, ti sentissi rispondere “hai fatto soltanto il tuo dovere!”.
Tre sono i valori essenziali che mi hanno ispirato, quelle che chiamo le tre acca: humanitas, humilitas, humor, ossia umanità, umiltà, umorismo. Questi tratti combinati insieme aiutano a stare bene.

Ciò è particolarmente vero in medicina, non la medicina hi-tech ma quella che, come geriatria, si confronta con l’esperienza vissuta dal paziente, con la sua dimensione esistenziale: “voglio o non voglio andare in casa di riposo”, “non mi va di pesare sui miei figli”, “ho paura di rimanere solo…”. Nell’affrontare queste situazioni occorre umanità e anche un po’ di umorismo e leggerezza, un sorriso.
Il geriatra si misura da un lato con gli aspetti prettamente medico-sanitari, allorché il paziente si presenta con una sintomatologia da analizzare, per la quale va individuata una terapia. Dall’altra vi sono malattie per le quali non è possibile giungere alla guarigione e che determinano situazioni che si cronicizzano.
In questi casi ci confrontiamo con una concezione della cura che va al di là della sola guarigione, si fa carico del paziente e della sua fragilità, lo supporta nell’affrontare sofferenze e difficoltà connesse alla sua situazione. Ciò è ben espresso dall’espressione italiana, che non ha corrispondenza nella lingua tedesca: presa in carico, la presa in carico del paziente, non della malattia. Questa impostazione però appartiene ormai soltanto raramente alla medicina attuale. Oggi ciascun operatore sanitario si assume la responsabi-
lità di svolgere, al meglio, il proprio compito e portare a termine un determinato intervento, ma in questa sequenza di azioni nessuno prende in carico il paziente, che vuol dire prenderlo a braccetto dicendo “andiamo insieme”.
Con l’Assessore Saurer era possibile condividere questa visione. Con lui ho potuto essere ascoltato, ad esempio, per i problemi che più mi stavano a cuore: l’avvio a Bolzano di un primo nucleo di medicina palliativa, la realtà dei dementi, quella dei lungodegenti che dovevano rimanere in ospedale in mancanza di una struttura dedicata e specializzata. È merito della sua lungimiranza la realizzazione del Centro lungodegenti “Firmian”.
Va poi evidenziato che l’organizzazione sociale si è modificata: oggi gli individui e i contesti parentali spesso non sono più in grado, come in passato, di prendersi cura dei propri cari, non ne hanno più il tempo o non sono più disponibili. Non riusciamo a farlo con i piccoli, tanto più non riusciamo con i vecchi. Inoltre vincoli normativi e procedure burocratiche si sono fatti più asfissianti e paralizzanti.
Va anche riconosciuto che le persone, ciascuno di noi, non si confronta

con la realtà della vecchiaia. Sappiamo che è davanti a noi, ma rinviamo la questione a domani, anziché prepararci e organizzarci per affrontarla al meglio.
Dovremmo provare a immaginare il nostro futuro esistenziale e porci il problema di come gestire il progressivo degrado delle forze, della salute, dell’autonomia. Quali soluzioni auspico, quali strumenti e strategie metto in campo per rendere possibili le mie aspettative?

Però la rimozione della vecchiaia, e

più in generale della nostra fragilità, più di tanto non funziona: lo conferma il crescente e massiccio consumo di ansiolitici e antidepressivi.
Non abbiamo il coraggio di dire “sono debole, ho bisogno”. Siamo bloccati dall’orgoglio, la supponenza ci trattiene dal riconoscere di avere dei limiti e, di conseguenza, delle necessità. Ammettere le proprie povertà renderebbe più simpatici, favorendo l’incontro e la solidarietà.
Ci imbattiamo, nuovamente, nel valo-
re dell’umiltà.
Noi, qui in Sudtirolo, facciamo un po’ fatica anche perché abbiamo una certa propensione a voler (dover) dimostrare di essere sempre migliori, più bravi, perfetti… Fatichiamo ad ammettere gli errori e allora si preferisce parlare poco, non dialogare.
Da qualche anno si inizia a prospettare vie intermedie all’alternativa rigida: rimanere a casa propria o andare in casa di riposo. Si progettano condomini in cui appartamenti privati sono integrati da spazi, servizi, assistenza comuni. Ma siamo in uno stadio ancora primordiale.
Le case di ripose possono essere un buon servizio se non si limitano alla custodia, se non sono solo un deposito; ma per essere strutture attive e propositive occorrono ingenti risorse economiche ed umane.
Le case di riposo costituiscono una risposta per persone che necessitano di molta assistenza; invece per gli anziani che richiedono un basso livello assistenziale sarebbe preferibile una sistemazione alternativa, individualizzata, meno costosa. A volte i problemi sono dovuti prevalentemente alle difficoltà economiche nel reperire e gestire un proprio alloggio. Nutro delle perplessità sul modello del Centro per anziani, in quanto è frequentato da chi è ancora attivo e
vitale. Vi è il rischio di scordare coloro che al Centro non possono recarsi. Allo stesso modo non sono favorevole al fatto che persone poco anziane assistano persone molto anziane, sarebbe preferibile che gli anziani si occupino di se stessi e siano piuttosto gli adulti, quarantenni e cinquantenni, a prestare assistenza. La mescolanza sarebbe assai più feconda.
Nel 2006 ho assunto l’incarico di Direttore sanitario dell’Azienda sanitaria di Bolzano, passando dalla parte operativa a quella organizzativa. L’anno successivo il Dr. Saurer non è stato confermato all’assessorato alla Sanità, ma spostato all’assessorato alla Scuola in lingua tedesca. Sullo sfondo vi era la discussione, all’interno del partito di maggioranza, sui costi della sanità, considerati eccessivi da talune componenti.
Di tale mutamento di rotta hanno subito le conseguenze maggiori gli ambiti più coinvolti nella cura delle persone, come psichiatria e geriatria. Nella nostra provincia vi sono all’incirca centomila persone con una delle malattie considerate croniche, come quelle dell’ambito reumatologico o il diabete, e quindi in situazioni di sofferenza e anche di deterioramento delle proprie possibilità. I tempi per ottenere una diagnosi sono lunghissimi. Chi si occupa di loro

Diventa contraddittorio sostenere che l’ospedale va riservato ai malati acuti e dall’altra avere una medicina territoriale depotenziata.
Oggi si afferma che i malati cronici non vanno ricoverati in ospedale ma curati a casa, tramite i medici di base: ma se già attualmente manca un’ottantina circa di medici di Medicina generale, mi domando come se ne esce.
Del resto l’esperienza della pandemia ha evidenziato le inadeguatezze dell’attuale medicina generale.
Parallelamente è cresciuta l’incidenza della sanità privata, che, inevitabilmente, è condizionata da criteri strettamente economici, di convenienza, costi e profitti. Abbiamo assistito e stiamo assistendo alla crisi della sanità pubblica, come è accaduto tra l’altro in Lombardia.
Il privato non è interessato alle persone, ai pazienti, è interessato alle patologie più facilmente aggredibili, a basso costo.
Accade che al privato viene trasferito ciò che è redditizio, mentre al pubblico rimane quel che è poco o per niente redditizio.
Solo che i giovani laureati propendono per gli ambiti più gratificanti dal punto di vista professionale e della carriera.
Di fatto, da noi come altrove è in atto

un trasferimento di risorse dal pubblico al privato.
Mi pare significativo che il termine “paziente” tenda sempre più a essere sostituito con “utente” e “cliente”.
In un tale processo le problematiche degli anziani sono inevitabilmente destinate a risultare perdenti.
Rilevo queste tendenze con amarezza, perché mi sembra che i frutti dell’impegno e delle energie dedicati alla professione e alla realizzazione dei miei ideali siano deludenti.
Altro fattore essenziale emerso nel corso della mia esperienza lavorativa è il seguente: Nel rapporto con il paziente occorre considerare anche la rete familiare che partecipa in modo emotivamente intenso a quanto accade al proprio parente.
Il coinvolgimento della famiglia è un principio che mi sta particolarmente a cuore ed è valido per qualsiasi situazione di fragilità: dal neonato, al tossicodipendente, al malato psichico, all’anziano.
Coinvolgimento significa farsi carico dei bisogni connessi alla loro situazione, interiore e concreta, e, al contempo, farli partecipi dell’accudimento della persona assistita.
Il coinvolgimento dei familiari è poi essenziale in geriatria e nella cura
degli anziani.
Sono esperienze che ho sperimentato e vissuto, in modo positivo, nel mio lavoro. Ad esempio nel nostro reparto fornivamo a molti assistiti un numero di cellulare, perché, senza dover ricorrere a una visita, potessero contare su un consulto telefonico. Era un modo per farli sentire un po’ meno soli.

Ovviamente si tratta di aspetti umani, relazionali, sociali che vanno al di là dell’intervento strettamente sanitario.
Pensiamo alle case di riposo: se ognuno di noi, se ogni parente si impegnasse a essere più presente e a far visita a un familiare o a un conoscente, ci sarebbe molta più vita in quelle strutture. Si tratta di guardare al familiare come
una risorsa e non come un peso.
Sono stato vicepresidente di un’associazione che si occupa di demenza e abbiamo constatato che la maggiore difficoltà dei familiari è dovuta all’impreparazione e, di conseguenza, all’inadeguatezza nei comportamenti dei familiari. Una volta istruiti e aggiornati su come comportarsi si sono mostrati assai più disponibili e coinvolgibili nell’assistenza al loro parente, riducendo il ricorso al ricovero in strutture esterne.
Il sostegno alla persona fragile passa attraverso la sua famiglia, che però, spesso, non può o non vuole intervenire.
È un ambito, molto vasto e delicato, nel quale l’Associazione “La Strada-Der Weg” potrebbe assumersi un importante ruolo da svolgere.
Die Senioren Günther
Geboren und aufgewachsen in der Stadt Meran absolvierte ich nach meiner „klassischen Matura“ das Medizinstudium in Innsbruck, welches ich dann im Jahre 1976 erfolgreich abgeschlossen habe.
Gerne kehrte ich nach meiner Promotion nach Hause zurück, da ich vom Studentenleben genug hatte; dann war es die Liebe, die mich an Bozen gebunden hat: Ich heiratete bald nach meiner Rückkehr. Nach dem neu eingeführten Praktikum für neu promovierte Ärzte nahm ich 1977 den Dienst am Krankenhaus Bozen auf.
Damals war Kardiologie das begehrteste Fachgebiet.

Der Chefarzt der Chirurgie, Prof. Steger, damals auch Sanitätsdirektor, hat mich in die mir damals noch unbekannte Geriatrie gelotst. Nachdem ich verstanden hatte, dass es sich in der Geriatrie um die medizinische Betreuung älterer Menschen handelt, beschloss ich dieser Empfehlung zu folgen, da sie mein Interesse weckte und meinen Vorstellungen zu entsprechen schien.
Stellenangebote für die Fachgebiete Augenheilkunde und Zahnmedizin waren mir zu sektoral, also zu sehr auf einen Bereich beschränkt. Ich
Donà
bevorzugte die Möglichkeit eines umfassenderen Ansatzes für Krankheit und Medizin, bei dem der Patient und nicht die Krankheit im Mittelpunkt steht.
Es war eigentlich nicht meine bewusste Wahl, und wahrscheinlich hat die Person, die mich angeleitet hat, einige meiner Eigenschaften und Vorlieben erkannt.
Neben meiner Berufstätigkeit schloss ich im Jahre 1979 in Pavia – bei einem wirklich außergewöhnlichen Professor, Prof. Pietro de Nicola - meine Fachausbildung in Gerontologie und Geriatrie ab.
Für mich war er ein wahrer Lehrmeister. Ein Mensch großer Kultur, ein begeisterter, aktiver Musikfreund, ein Übersetzer der R.M.Rilke-Gedichte, ein sehr feinfühliger und unkomplizierter Mensch.
Von Geriatrie spricht man bei uns erst seit Anfang der 1960er Jahre (nach der Gründung der ersten Abteilung und der ersten Fachschule für Geriatrie in Florenz im Jahr 1947) und hat damit einen eigenen Bereich innerhalb der Inneren Medizin geschaffen.
Eine detaillierte Charakterisierung und Definition dieses Fachgebiets, das beispielsweise in Österreich nur als Subspezialisierung der Inneren




Medizin existiert, gibt es jedoch auch in jüngster Zeit noch nicht.
Die Geriatrie bezieht sich, wie die Pädiatrie, nicht auf ein bestimmtes Krankheitsgebiet, sondern auf einen entsprechenden Lebensabschnitt.
In Deutschland verbreiten sich derzeit die geriatrischen Abteilungen sehr rasch, weil man erkannt hat, dass es für die gesamte Gesellschaft, sowohl in wirtschaftlicher als auch in sozialer und menschlicher Hinsicht von Vorteil ist über operative Einheiten zu verfügen, die sich den älteren Menschen widmen.
Im Alter von nur 37 Jahren wurde ich 1988 zum Primar der Abteilung Geriatrie am Krankenhaus Bozen ernannt.
Ich hatte das Glück Landesrat Dr. Otto Saurer kennenzulernen. Er war ein beispielhaftes Vorbild für Menschlichkeit. Wir haben uns immer sehr gut verstanden.
Die geriatrische Abteilung wuchs und ist zunehmend auf 18 Ärzte und mehr als 40 Krankenschwestern/-pfleger angewachsen.
Zu der damaligen Zeit hat man im Krankenhaus oft etwas abschätzend auf uns Altersmediziner herabgeschaut, nach dem Motto: „Was wollt ihr denn mit den alten Leuten...“ Ein bereits verstorbener Arztkollege, der sich -nicht in Bozen- mit Innerer

Medizin befasste, sagte mir einmal: „Diese Abteilung für humanen Abfall“. Ich war schockiert über eine derartige Definition.
Von Anfang an empfand ich es als meine vordringliche Aufgabe, der geringen Wertschätzung der älteren Menschen und ihrer Betreuer gegenüber entgegen zu wirken.
Pointiert könnte man sagen, dass ein siebzigjähriger Patient für einen Internisten „schon“ 70 Jahre alt, für einen Geriater hingegen „erst“ 70 Jahre alt ist.
Nun lautet die entscheidende Frage: Verdient eine aus dem produktiven Kreislauf ausgeschiedene Person plötzlich keine besondere Aufmerksamkeit mehr, wenn sie anscheinend keinen Gewinn mehr bringt, sondern nur mehr ein finanzieller Aufwand ist?
Die Frage wird noch heikler, tiefgreifender und entscheidender, wenn wir an Menschen denken, die an unheilbaren Krankheiten wie Demenz leiden, die für viele nur Kosten im weitesten Sinne des Wortes darstellen.
Im Vergleich zu Demenzkranken haben Krebspatienten, auch wenn sie, oft, unheilbar sind, einen Unterschied: Sie sind Basis für diagnostische und therapeutische Arbeit und folglich Gewinn für die Unternehmen,
die Medikamente und Geräte herstellen.

Diese heiklen und beunruhigenden Fragen, bei denen es um den Wert eines jeden Menschenlebens geht, sollten öffentlich und unter breiter gesellschaftlicher Beteiligung erörtert werden, um die Prioritäten zu diskutieren, in die investiert werden soll.
Die wirtschaftlichen Auswirkungen dieser Bewertungen sind zweifelsohne von Bedeutung.
Die Einstellung, die ich Anfang der 1990er Jahre am Arbeitsplatz antraf hat sich nicht sonderlich verändert. Auch heute noch betrachten die Menschen diejenigen, die am Rande der Gesellschaft stehen, mit Gleichgültigkeit; auch wenn jeder von uns in gewissem Maße zu einer Randgruppe der Gesellschaft gehört.
Es ist daher notwendig, die Dimensionen der menschlichen Schwäche und Verletzlichkeit zu erforschen und sich damit auseinanderzusetzen. Auf meine Weise habe ich immer versucht, meine Grenzen zu erkennen, ohne sie verstecken oder leugnen zu wollen.
Ebenso muss man seine Mitarbeiter so akzeptieren, wie sie sind, mit ihren Stärken und Schwächen. Denn nur so ist es möglich, dass ein Ärzteverbund von mehr als 15 Ärzten erfolgreich zusammenarbeiten kann.
Manchmal denke ich, dass ich vorsichtiger und eindeutiger hätte sein sollen, wenn es darum ging, denjenigen, die mir zur Seite standen, Wertschätzung und Anerkennung auszusprechen. Aber früher war die Mentalität ein wenig anders. Ein Studienkollege erzählte mir zum Beispiel, dass er zu Hause über sein positives Prüfungsergebnis nur die Antwort bekam: „Du hast ja nur deine Pflicht erfüllt“.
Es gibt drei wesentliche Werte, die mich inspiriert haben. Ich nenne sie die drei H‘s: Humanitas, Humilitas, Humor; also Menschlichkeit, Demut, Humor. Alle diese Eigenschaften zusammen tragen zu allgemeinem Wohlbefinden bei.
Dies gilt insbesondere für die Medizin; nicht für die Hightech-Medizin, sondern für jene Medizin, die sich wie die Geriatrie mit der Lebenserfahrung des Patienten und mit seiner existenziellen Dimension befasst. Wenn es um Fragen wie „Altersheim Ja oder Nein“ oder um Themen wie „Angst vor dem Alleinsein“ und „Angst den eigenen Kindern zur Last zu fallen“ geht, braucht man einfach Menschlichkeit, Humor, Leichtigkeit und ein Lächeln.
Der Geriater hat mit rein medizinischen Aspekten zu tun, wenn der
giugno-Juni 2022
Patient Symptome zeigt, die analysiert werden müssen und für die eine Therapie gefunden werden muss. Es gibt aber auch Krankheiten, die nicht geheilt werden können und die zu chronischen Situationen führen.

In diesen Fällen sind wir mit einem Betreuungskonzept konfrontiert, das über die bloße Heilung hinausgeht. Man nimmt sich des Patienten und seiner Zerbrechlichkeit an, unterstützt ihn bei der Bewältigung von Leiden und situationsbedingten Schwierigkeiten. Der italienische Ausdruck, der im Deutschen keine Entsprechung hat, bringt dies gut zum Ausdruck: „presa in carico“, also die
Verantwortungsübernahme für den Patienten, nicht nur für die Krankheit. Dieser Ansatz gehört jedoch nur mehr selten zur heutigen Medizin. Heute übernimmt jeder Gesundheitsberuf die Verantwortung dafür, seine spezifische Aufgabe nach bestem Wissen und Gewissen zu erfüllen und eine bestimmte Intervention durchzuführen, aber in dieser Abfolge von Handlungen übernimmt niemand die Verantwortung für den Patienten, was so viel bedeutet, wie ihn am Arm zu nehmen und zu sagen: „Lass uns gemeinsam gehen“.
Mit Landesrat Dr. Saurer war es möglich, diese Vision zu teilen. Er hat mir

bei Themen, die mir sehr am Herzen lagen, stets Gehör geschenkt. Dazu gehörten zum Beispiel die Errichtung der ersten Palliativstation in Bozen, die Situation der Demenzkranken und der Langzeitpatienten, die aufgrund des Mangels einer spezialisierten Struktur im Krankenhaus bleiben mussten. Seinem Weitblick ist es zu verdanken, dass das Langzeitpflegezentrum „Firmian“ gebaut wurde. Hervorzuheben ist auch, dass sich die soziale/gesellschaftliche Organisation verändert hat: Heutzutage sind Einzelpersonen oder Verwandtschaften oft nicht mehr in der Lage, sich um ihre Angehörigen zu kümmern: Sie haben einfach nicht mehr Zeit oder keine Bereitschaft dazu.
Das gelingt uns nicht mit den Kleinsten, geschweige denn mit den Älteren.
Darüber hinaus sind die gesetzlichen Vorschriften und bürokratischen Verfahren noch schwieriger und belastender geworden.

Zudem müssen wir eingestehen, dass wir Menschen uns kaum mit der Realität des Älterwerdens konfrontieren. Wir wissen alle, dass uns das Alter früher oder später erreicht. Und dennoch verschieben wir die Auseinandersetzung damit immer auf morgen statt uns auf diesen zukünftigen Lebensabschnitt vorzubereiten um ihn dann bestmöglich bewältigen zu
können.
Wir sollten versuchen uns unsere Zukunft im Alter vorzustellen und uns fragen, wie wir mit der zunehmenden Abnahme unserer Kraft, Gesundheit und Autonomie umgehen können. Welche Lösungen erhoffe ich mir und welche Mittel und Strategien setze ich ein, um meine Erwartungen erfüllen zu können?
Die Verdrängung des auf uns zukommenden Alters und generell unserer Fragilität erweist sich als nicht so einfach:
Das zeigt auch der stetig zunehmende, enorme Konsum von Anxiolytika und Antidepressiva. Wir haben nicht den Mut zu sagen: „Ich bin schwach und ich brauche Hilfe“. Durch unseren Stolz und unsere Arroganz sind wir gehemmt unsere Grenzen und damit auch unsere Bedürfnisse anzuerkennen. Tatsächlich wäre aber das Eingeständnis der eigenen Schwächen ein Zeichen der Sensibilität und würde Raum schaffen für Begegnung und Solidarität. Hier zeigt sich wieder die Bedeutung und der Wert der Demut.
Wir hier in Südtirol tun uns etwas schwer damit, weil wir glauben, uns immer beweisen und allen zeigen zu müssen, dass wir immer die Besseren und perfekt sind. Es fällt uns schwer Fehler einzugestehen und deshalb reden wir lieber wenig und lieber
nicht über unsere Schwierigkeiten.
Seit einigen Jahren beginnt man einen möglichen Mittelweg zwischen der starren Wahl zuhause zu bleiben und der Aufnahme ins Altenheim ins Auge zu fassen: Geplant sind Kondominien in denen private Wohnungen mit Gemeinschaftsräumen, Dienstleistungen und Hilfsangeboten integriert werden. Noch befinden wir uns aber in einem Anfangsstadium. Altenheime können eine wertvolle Einrichtung sein, wenn sie nicht nur ein Ort der Aufsicht und Aufbewahrung sind; als tatsächlicher Ort für Gemeinsamkeiten, Aktivitäten und Qualität für die Menschen bedürfen sie allerdings großer ökonomischer und humaner Ressourcen.
Altersheime stellen eine Antwort für Menschen mit hohem Pflegebedarf dar, während für ältere Menschen mit geringem Pflegebedarf eine alternative, individuelle und kostengünstigere Unterbringung von Vorteil wäre. Oft sind es finanzielle Schwierigkeiten, die die Suche nach einer eigenen Wohnung und der Haushaltsführung erschweren. Kritisch bewerte ich das Modell der Seniorenzentren, da sie von noch aktiven und vitalen Menschen besucht werden; dabei besteht die Gefahr, dass diejenigen vergessen werden, die dieses Zentrum nicht besuchen können.
Gleichermaßen bin ich nicht dafür, dass ältere Menschen sich um sehr alte Menschen kümmern sollten. Ich glaube es wäre besser, wenn sich ältere Menschen nach Möglichkeit selbst versorgen könnten und wenn nötig Erwachsene in den 40ern und 50ern die Pflege übernehmen würden. So wäre die Kombination fruchtbringender.
Im Jahr 2006 übernahm ich den Auftrag als Sanitätsdirektor des Sanitätsbetriebes Bozen und wechselte so von der operativen zur organisatorischen Seite. Im darauffolgenden Jahr übernahm Dr. Otto Saurer das Assessorat für die Deutsche Schule. Innerhalb der Mehrheitspartei erfolgte eine kontroverse Diskussion zu den Kosten des Gesundheitswesens, die von einigen als zu hoch angesehen wurden.
Dieser Richtungswechsel wirkte sich am stärksten auf die Bereiche aus, die am meisten mit der ganzheitlichen Betreuung der Person zu tun haben, also Psychiatrie und Geriatrie. In unserer Provinz gibt es ca. einhunderttausend Personen mit einer der als chronisch eingestuften Krankheiten, wie jene aus dem Rheumatischen Formenkreis oder dem Diabetes, und folglich in einem Leidenszustand und einem Abbaupro-

zess der eigenen Möglichkeiten. Die Wartezeiten bis zur Diagnosestellung sind äußerst lang. Wer kümmert sich um sie?
Es ist widersprüchlich, wenn das Krankenhaus den Akutkranken vorbehalten werden soll, die ärztliche Betreuung auf dem Territorium aber gleichzeitig abgebaut wird. Heute fordert man chronisch Kranke nicht in das Krankenhaus einzuweisen, sondern sie zuhause, über die Hausärzte zu versorgen: Wie soll das bewerkstelligt werden, wenn bereits jetzt an die 80 Hausärzte fehlen.
Im Übrigen hat die Erfahrung während der Pandemie die Unangemessenheit der derzeitigen territoriale Versorgung geoffenbart.
Parallel dazu ist die Verfügbarkeit der Privatmedizin angewachsen, die, unvermeidbar, von streng ökonomischen Kriterien bestimmt wird, wie Wirtschaftlichkeit, Kosten und Gewinn. Wir erlebten und erleben die Krise des Öffentlichen Gesundheitswesens, wie sie u.a. in der Lombardei stattgefunden hat.

Der Private ist nicht an den Personen, den Patienten interessiert, ihn interessieren die mit geringerem Aufwand leichter angehbaren Krankheitssituationen. So wird das Einträgliche an den Privaten weitergeleitet, während das wenig oder nicht Einträgliche dem Öffentlichen bleibt.
Nur tendieren auch Jungärzte zu jenen Bereichen, welchen sich beruflich und karrieremäßig aussichtsreicher darstellen. Tatsächlich erfolgt auch bei uns ein Transfer von Ressourcen vom Öffentlichen zum Privaten.
Es erscheint mir bedeutsam, dass der Begriff „Patient“ zunehmend durch die Begriffe „Nutzer“ oder „Klient“ ersetzt wird. Unter diesen Voraussetzungen erweisen sich die Problemkreise um die Älteren unausweichlich als Verlierer.
Ich stelle diese Tendenzen mit etwas Verbitterung fest, da mir das Ergebnis des Einsatzes und der für den Beruf und die Verwirklichung meiner Vorstellungen aufgewendeten Energien enttäuschend erscheint.
Ein weiterer ausschlaggebender Aspekt, der sich im Laufe meiner beruflichen Erfahrung ergeben hat, ist folgender: Im Umgang mit dem Patienten ist auch sein familiäres Beziehungsnetz einzubeziehen, das sich häufig sehr emotional an allem was den Patienten betrifft, beteiligt. Die Einbeziehung der Familie ist ein mir besonders wichtiges Prinzip; es betrifft jegliche Situation der Fragilität (Zerbrechlichkeit): vom Neugeborenen, zum Abhängigkeitskranken, zum psychiatrischen Patienten und eben auch zum alten Menschen. Einbeziehung heißt, ihre persönli-
chen, konkreten situationsbezogenen Bedürfnisse aufzugreifen und sie gleichzeitig an der Betreuung und Begleitung der betreuten Person zu beteiligen. Die Einbeziehung der Angehörigen erweist sich als ausschlaggebend in der Geriatrie und der Betreuung der Älteren.
Es handelt sich um Erfahrungen, welche ich bei meiner Arbeit angewandt und positiv erlebt habe. Z.B. gaben wir in unserer Abteilung zahlreichen Betreuten eine Handynummer, damit sie von uns, ohne auf eine Visite warten zu müssen, einen telefonischen Rat erhalten konnten: Eine Art, ihnen das Gefühl weniger einsam zu sein zu vermitteln.
Zweifellos handelt es sich um humane, soziale und beziehungstypische Aspekte, die weit über die strikt medizinische Intervention hinausgeht. Denken wir an die Altersheime: Würde sich jeder von uns, jeglicher Angehöriger bemühen, öfter anwesend zu sein und einen Angehörigen oder einen Bekannten zu besuchen, es wäre deutlich mehr Leben in diesen Einrichtungen. Der Angehörige muss als Ressource und nicht als Belastung gesehen werden.
Vor einiger Zeit war ich stellvertretender Vorsitzender eines Vereins, der sich mit Demenz beschäftigt und wir haben festgestellt, dass die größte Schwierigkeit der Angehörigen

dem unvorbereitet Sein und folglich der Unangemessenheit im Verhalten der Angehörigen gegenüber dem Kranken geschuldet ist. Sobald diese über die korrekten Verhaltensformen informiert und darin angelernt waren, waren sie deutlich zugänglicher, und beteiligten sich aktiv bei der Betreuung ihres kranken Angehörigen, und verringerten dadurch die Wahrscheinlichkeit einer Aufnahme in eine externe Einrichtung.
Die Unterstützung eines fragilen, zerbrechlichen Menschen geht durch seine Familie, die sich allerdings oft nicht daran beteiligen kann oder will. Es handelt sich um einen, sehr ausgedehnten und empfindlichen, Bereich, in dem der Verein „La Strade – Der Weg“ eine wichtige Rolle übernehmen könnte.
L’educatore e le dipendenze Paolo Endrizzi


Conosco l’Associazione “La Strada-Der Weg” dai primordi, dato che ho partecipato alla sua fondazione nel 1978, insieme al gruppo di giovani che don Giancarlo aveva coinvolto. Con alcuni di loro ho vissuto l’esperienza del maso a Sabbiona, dove siamo andati a vivere con l’intento di avviare una comunità di recupero per tossicodipendenti. Le suore del monastero di clausura avevano messo a disposizione un edificio da ristrutturare, del terreno, gli animali della fattoria. Ci siamo rimasti per un anno, andando a formarci al Gruppo Abele di Torino e in altre realtà, come, ad esempio, il periodo trascorso in Svizzera a imparare l’arte delle icone per un possibile laboratorio artistico. Eravamo coordinati da un cappuccino, padre Peter Brugger. Il progetto non riuscì a concretizzarsi e l’Associazione decise di aderire al “Progetto uomo” di don Picchi, che portò all’apertura della Comunità terapeutica a Lagundo. Successivamente mi occupai dei ragazzi tossicodipendenti di Merano, come volontario dell’Associazione. Per tre anni li ho incontrati, cercando di offrire loro un punto di riferimento e nel limite del possibile un supporto. Nel 1979 a Merano fu istituito il Ser-
vizio per le Dipendenze (denominato prima CMAS, poi SMS, oggi SERD), che, nel 1980, mi ha assunto, proprio per la mia esperienza, la conoscenza del territorio e di quell’ambiente.
Il mio compito era fare da ponte tra il servizio e il territorio, stando sulla strada, girando notte e giorno, avvicinando e incontrando le persone.
Si trattava di una realtà, di un intervento, di un lavoro del tutto nuovi e nuovi per tutti. Ciò che risultava concretamente evidente era che la diffusione del consumo di eroina in quegli anni era molto cresciuto, determinando frequenti episodi di over-dose. Dal 1980 al 1999 sono stato inquadrato come operatore sociale.
Il SERD è cresciuto sempre più, numericamente e come competenze acquisite sul campo. Nel 1987 ci è stato affidato anche il compito di occuparci di alcolismo, determinando un incremento massiccio degli assistiti, passati dagli iniziali settanta agli attuali millequattrocento.
Ho poi frequentato un corso provinciale e conseguito il titolo di educa-
tore: così nel 2000 il SERT mi ha riconosciuto questa ulteriore qualifica. L’origine rimane però il mondo del volontariato, lo scoutismo, l’incontro con don Giancarlo. Un po’ alla volta ho imparato a operare all’interno delle istituzioni e a gestire le implicazioni politiche che

necessariamente coinvolgono l’attività di un educatore.
Ripercorrendo la mia storia e interrogandomi su quel che mi ha mosso e orientato sono arrivato a concludere che il principio guida che mi ha ispirato è l’idea del servizio all’altro. Un valore che si è incarnato nella realtà

della dipendenza perché negli anni ’80, nel periodo della mia giovinezza, costituiva un problema drammatico e molto sentito.
Il fenomeno della dipendenza si è poi allargato coinvolgendo varie tipologie di comportamento addittivo come viene denominata la ripetizione insi-
stita di una determinata azione che procura piacere o sollievo.
Nel corso del tempo la mia attenzione si è spostata dalla dipendenza, che costituisce un aspetto e un momento di un’esistenza, alla vita delle persone, persone che, per ragioni varie, in un determinato periodo, usano qualche tipo di sostanza per stare in piedi, per fare fronte ad una sofferenza. Sono e rimangono, però, persone, persone con loro desideri, bisogni, aspettative, potenzialità.
Tale concezione l’ho potuta condividere, attuare e documentare, con tutto il servizio presso cui lavoro. L’equipe del SERD di Merano è rimasta stabile nel tempo e ciò ha permesso di coltivare e consolidare rapporti professionali e personali, favorendo il confronto e la condivisione delle esperienze di lavoro, rendendo possibile una coerenza di strategia e di visione.

Operiamo a partire dalla consapevolezza, immediata ed evidente, che ciascuna persona ha una storia. Una delle leve dell’azione educativa è proprio riprendere quella storia, ri-pensarla, ri-spiegarla, ri-collocarla: l’esperienza nasce realmente solo se gli eventi vengono riflessi; senza riflessione non si ha esperienza.
La maturazione di ognuno è un processo, segnato da fatti, incontri e vicende particolari. Se quei passaggi

sono riflessi, allora divengono esperienza e possono aiutare a crescere, ovvero a rendere noto ciò che è sconosciuto.
Perciò la narrazione e l’espressione sono strumenti preziosi, che io educatore utilizzo all’interno della relazione con l’altro. Ogni colloquio è prezioso dato che attiva, comunque, qualcosa nei due interlocutori.
In ogni contatto e incontro è importante prestare attenzione e saper cogliere i segni, anche minimi, che “dicono” qualche cosa della e alla persona che ho di fronte e di come si pone nella relazione con me.
Una tale capacità di decifrazione è preziosa quando visito gli appartamenti che ospitano i nostri assistiti e provo a ‘leggere’ la loro realtà quotidiana e la loro situazione personale. In quel momento, infatti “mi aprono la porta” e “mi fanno entrare”.
Una modalità che ho imparato è il senso estetico della relazione, l’attenzione e la cura del dettaglio all’interno della relazione: significativo può essere un gesto, un modo di vestire, una parola… Questa impostazione è diventata parte di me, quella versione di “me” che si crea in ogni particolare incontro tra il mio io e un tu. Per questo potrei dire che non “faccio” ma “sono” educatore.
Del resto sono profondamente convinto che, come osserva la Salvini
Palazzoli, non vado avanti con il paziente più di quanto non sono andato avanti io con me stesso. Posso comprendere la sofferenza, la gioia, la tristezza, le emozioni e i sentimenti a partire dalla mia esperienza: se non ho mai percepito e riflettuto quei sentimenti o emozioni non posso ri-conoscerli nell’altro.
La relazione è il fattore centrale dell’intervento educativo e nella relazione si è sempre coinvolti anche personalmente. Perciò è fondamentale il supporto della supervisione, in equipe ma anche individuale. Siamo specchi flessibili e veniamo toccati dal riflesso dell’altro: tale riflesso va colto, analizzato, interpretato.
Non dobbiamo avere paura di confrontarci con quanto l’altro suscita in noi, soprattutto se si tratta di reazioni di fastidio e rifiuto. Dobbiamo essere consapevoli che questo lavoro può portare con sé anche sofferenze interiori e l’equipe è la dimensione fondamentale entro cui ricondurre e valutare il proprio vissuto emotivo. Non dobbiamo scordare che è soltanto un caso che io mi trovi da questo lato della relazione e non dall’altro. Quando da pazienti, da ammalati ci rivolgiamo al medico, ci attendiamo attenzione, ascolto, comprensione, partecipazione emotiva.

Nei quarant’anni della mia esperienza lavorativa molti aspetti della realtà sono cambiati, eppure lo stigma che accompagna tossicodipendenza e alcoldipendenza sono rimasti. Quando una persona viene “marchiata” con una di queste etichette, non se la toglie più.
Le varie forme di dipendenza (e perché no anche di disagio mentale) so no anche un tentativo di risposta a una profonda sofferenza interiore ed esistenziale. A mio avviso, l’origine della sofferenza è spesso riconducibile in primo luogo a una mancanza di appartenenza affettiva.
L’appartenenza può essere alimentata e interiorizzata a partire da una molteplicità di esperienze: la famiglia, la propria terra, l’ambiente parentale, una persona e una relazione significativa, il gruppo, una comunità… L’assenza di appartenenza produce un senso di vuoto e il lavoro educativo consiste nel tentativo, difficile e incerto, di creare un contesto che attenui o risolva quell’assenza.
Da questa riflessione discende anche una possibile indicazione operativa per l’Associazione “La Strada-Der Weg”: per contrastare e allentare la sofferenza sociale occorre generare esperienze di appartenenza, di inclusione, di comunità. Ci tengo a nominare anche il rapporto dell’educatore con l’istituzione: di-

rettori, funzionari, uffici, apparati. Ho appreso che in fondo è un rapporto decisamente legato alla gestione politica del ruolo e della professione. Se non ne fossi stato consapevole molti progetti che ho avviato non avrebbero avuto seguito. È necessario, direi fondamentale, che l’educatore acquisisca questa capacità sostanziale, dato che permette la concretizzazione di progetti, azioni, interventi avvallati e finanziati dalle istituzioni, tramutandoli di fatto in scelte di politiche. Inoltre vi è l’aspetto culturale: educare implica anche il sapere e il conoscere. Il processo educativo varia a seconda del contesto culturale, storico, territoriale e di provenienza (come accade nel fenomeno dell’immigrazione). Occorre dunque impegnarsi e dotarsi di strumenti per comprendere i cambiamenti e le trasformazioni nel tempo dei processi educativi collettivi.
Richiamo, in proposito, recenti vicende di cronaca. Hanno suscitato molta apprensione i comportamenti aggressivi di un gruppo di minori a Lagundo, nei pressi di un centro commerciale. È ormai evidente che quei luoghi sono diventati spazi di ritrovo e aggregazione, una “piazza” in cui ci si incontra, giovani e meno giovani. Allora varrebbe la pena progettare forme di presenza e intervento dentro i centri commerciali per cercare di
intercettare e avvicinare i ragazzi. Si potrebbe considerare l’opportunità di aprire lì dei centri giovani accoglienti, creativi, intergenerazionali, coinvolgendo e valorizzando la varietà dei frequentatori.
Credo che gli educatori dei centri giovanili dovrebbero diventare più flessibili e intraprendenti, uscendo dagli spazi dedicati e convenzionali.

Immagino l’educatore come un rider, che gira, riconoscibile, con biciletta e cellulare per essere contattato al momento: guarda, osserva, si ferma,
parla, incontra…; un servizio dinamico, che viene verso di te, risponde alle tue chiamate, intercetta le tue richieste; una presenza educativa costante sul, nel e con il territorio. L’agio si crea non solo accogliendo, ma offrendo occasioni di incontro flessibili, creative e decisamente fruibili.

Der Erzieher und die Suchtkrankheiten Paolo Endrizzi
Ich kenne den Verein „La Strada-Der Weg“ seit seiner Gründung im Jahre 1978. Schon damals durfte ich gemeinsam mit Pater Giancarlo und einigen von seinen freiwillig mithelfenden Jugendlichen an der Gründung teilhaben und mitwirken.
Gemeinsam mit einigen dieser Jugendlichen lebte ich einige Zeit auf einem Bauernhof in Säben, wo wir eine Wohngemeinschaft für Drogenabhängige gründen wollten.
Die Nonnen des Klosters Säben haben uns ein zu renovierendes Gebäude, etwas Land und einige Tiere zur Verfügung gestellt.
Wir blieben in Säben ein Jahr und bildeten uns in dieser Zeit bei „Gruppo Abele“ in Turin und an anderen Orten weiter. In der Schweiz lernten wir zum Beispiel die Ikonenkunst kennen, um zu Hause einen möglichen Kunstworkshop zu organisieren. Koordiniert wurde dies alles mit dem Kapuzinerpater Peter Brugger.
Das Wohngemeinschaftsprojekt konnte letztendlich nicht verwirklicht werden, worauf der Verein beschloss, sich dem „Projekt Mensch“ von Don Mario Picchi anzuschließen. Daraus entstand in der Folge die therapeutische Gemeinschaft in Algund.
Zu einem späteren Zeitpunkt kümmerte ich mich als Freiwilliger Helfer dieses Vereins auch um junge Drogenabhängige in Meran. Drei Jahre lang habe ich mich regelmäßig mit ihnen getroffen und versucht, ihnen Anhaltspunkte für ihr Leben zu geben und sie so weit wie möglich zu unterstützen.

1979 wurde in Meran die Suchtberatungsstelle (zuerst CMAS, dann SMS, heute SERD) gegründet. Im Jahr darauf wurde ich dann aufgrund meiner Erfahrung und meiner Ortskenntnisse dort für den Bereich Betreuung von Drogenabhängigen angestellt. Meine Aufgabe bestand darin, als Bindeglied zwischen dem Dienst und der Region zu fungieren. Ich war Tag und Nacht auf den Straßen unterwegs und ging auf die abhängigen Menschen zu. Es war insgesamt für uns alle eine völlig neue Erfahrung, ein neuer Schritt, eine neue Herausforderung. Es zeigte sich deutlich, dass der Heroinkonsum in jenen Jahren stark zugenommen hatte und es kam häufig zu Überdosierungen.
Von 1980 bis 1999 war ich als Sozialarbeiter tätig.
Das SERD wurde immer größer, sowohl zahlenmäßig als auch in Bezug auf die in der Praxis erworbenen Fachkenntnisse. Im Jahr 1987 wurde uns daraufhin auch die Behandlung von Menschen mit Alkoholproblemen anvertraut, was zu einem massiven Anstieg der Patientenzahl führte. Anfänglich waren es 70 zu betreuende Personen, bis heute ist die Zahl auf 1400 Patienten gestiegen.
Etwas später besuchte ich einen regionalen Weiterbildungskurs und erhielt den Titel als Erzieher. Im Jahr 2000 wurde dann diese Zusatzqualifikation vom SERT anerkannt. Die Basis meiner Arbeit führt jedoch stets auf die Welt der Freiwilligenarbeit, der Pfadfinder und der Begegnung mit Pater Giancarlo zurück.
Nach und nach lernte ich, wie man innerhalb von Institutionen agiert und wie man mit den politischen Vorgaben als Erzieher umgeht. Im Rückblick auf meine bisherige Berufslaufbahn und auf die mir dabei selbst gestellte Frage was mich für dieses Berufsfeld bewegt hat, wurde für mich schnell klar, dass es der Dienst am Nächsten war, der mich stets begeistert und inspiriert hat. Eine Erkenntnis, die sich in der Realität der Sucht in den 1980er Jahren - als ich noch jung war - widerspiegelte, denn
damals war dies ein dramatisches und sehr reales Problem.
Das Phänomen der Sucht hat sich inzwischen auf verschiedene Arten von Suchtverhalten ausgeweitet, so wie eine bestimmte Handlung, die Genuss oder Entspannung bringt, beharrlich wiederholt wird.
Im Laufe der Zeit hat sich meine Aufmerksamkeit von dem Thema Sucht, welches eigentlich nur eine bestimmte Phase einer Person darstellt, mehr auf das gesamte Leben dieser Menschen verlagert. Denn diese Menschen nehmen aus verschiedenen Gründen zu einem bestimmten Zeitpunkt irgendeine Art von Suchtmittel, um sich auf den Beinen zu halten und mit ihrem Leid fertig zu werden. Sie sind und bleiben jedoch Menschen. Menschen mit Fähigkeiten, Vorstellungen, eigenen Wünschen und Bedürfnissen.
Ich konnte diese Einsicht mit der gesamten Dienststelle, für die ich heute noch arbeite, teilen, umsetzen und dokumentieren. Das Team des SERD Meran ist im Laufe der Jahre stabil geblieben, was uns ermöglicht hat, berufliche und persönliche Beziehungen zu pflegen und die Gruppe so zu festigen. Dies ermöglichte auch den Vergleich und den Austausch von Arbeitserfahrungen, wodurch eine kohärente Strategie und Vision er-

reicht wurde.
Wir gehen von dem klaren und unmittelbaren Gedanken aus, dass jeder Mensch eine Geschichte hat. Einer der Schlüssel zum pädagogischen Handeln ist es, genau diese Geschichte aufzugreifen, sie zu über-
denken, neu zu erklären, neu zu ordnen. Die wirkliche Erfahrung entsteht erst dann, wenn Ereignisse reflektiert und verarbeitet werden.

Die Entwicklung eines jeden Menschen ist ein Prozess, welcher von bestimmten Begegnungen und Ereignissen geprägt wird. Werden diese
giugno-Juni 2022

Lebensabschnitte aufgegriffen, werden sie zur Erfahrung und können dem Menschen helfen zu wachsen. Aus diesem Grund sind Erzählung und Ausdruck wertvolle Mittel, welche ich als Erzieher in der Beziehung mit dem Anderen gerne anwende. Jedes Gespräch ist wertvoll, weil es etwas bei den Gesprächspartnern auslöst.
Bei jedem Kontakt und jeder Begegnung ist es wichtig, aufmerksam zu sein um auch die kleinsten Zeichen zu erkennen, die etwas über meine Gegenüber „sagen“ und wie sie in der Beziehung zu mir stehen. Diese Fähigkeit zur Interpretation ist von unschätzbarem Wert, wenn ich die Wohnungen unserer Klienten besuche und dort versuche, ihre tägliche Realität und persönliche Situation zu „lesen“. In dem Moment, in dem sie erkennen, dass ich sie verstehe „öffnen sie die Tür“ und „lassen mich herein“.
Einen anderen Weg den ich gelernt habe, ist der ästhetische Sinn der Beziehung, also die Aufmerksamkeit und Sorgfalt für das Detail innerhalb der Begegnung. Bedeutsam kann eine Geste sein, die Kleidung, ein Wort. Diese Herangehensweise ist ein Teil von mir geworden, diese Version von „mir“, die in jeder besonderen Begegnung zwischen meinem
Ich und einem Du entsteht. Deshalb könnte ich von mir behaupten, dass ich nicht nur den Erzieher darstelle und nach außen so tue, sondern dass ich im Inneren wirklich ein Erzieher bin.
Außerdem bin ich zutiefst davon überzeugt, dass eine Beziehung mit dem Patienten nur dann gut funktionieren kann, wenn ich mich auch selbst gut verstehe, so wie es auch Salvini Palazzoli feststellt und ausgedrückt hat.
Leiden, Freude, Traurigkeit, Emotionen und Gefühle kann ich nur aus meiner eigenen Erfahrung heraus verstehen, denn, wenn ich Gefühle oder Emotionen nie empfunden und erlebt habe, kann ich sie auch nicht in einer anderen Person wiedererkennen.
Die Beziehung ist der zentrale Faktor der pädagogischen Intervention und man ist immer persönlich an der Beziehung beteiligt.
Deshalb ist eine Supervision - im Team, aber auch individuell - sehr wichtig.

Wir Menschen sind wie robuste, veränderbare Spiegel, die von der Reflektion des anderen berührt werden. Diese Reflexion muss gelesen, analysiert und interpretiert werden.
Wir dürfen keine Angst davor haben
uns mit dem, was der andere in uns auslöst, auseinanderzusetzen, vor allem wenn es um Ärger und Ablehnung geht. Und wir müssen uns darüber im Klaren sein, dass diese Arbeit auch inneres Leid mit sich bringen kann. Wir dürfen nicht vergessen, dass es vielleicht nur ein Zufall ist, dass ich mich auf dieser Seite der Beziehung befinde und nicht auf der anderen.
Das Team ist daher die grundlegende Dimension, in der man seine eigenen emotionalen Erfahrungen erst aufgreifen und dann verarbeiten kann.
Wenn wir uns als Patienten, als kranke Menschen an einen Arzt wenden, erwarten wir Aufmerksamkeit, Gehör, Verständnis, emotionale Beteiligung.
In den vierzig Jahren meiner Berufserfahrung haben sich viele Aspekte der Realität verändert, jedoch das Stigma, das mit der Drogen- und Alkoholabhängigkeit einhergeht, ist geblieben.
Ist eine Person erst einmal mit einem dieser Etiketten „gebrandmarkt“, nimmt sie es nie wieder ab.

Die verschiedenen Formen von Süchten (auch psychischen Störungen) sind ein Versuch, auf tiefes inneres und seelisches Leid zu reagieren. Meiner Meinung nach lässt sich der Ursprung des Leidens oft in erster Li-
nie auf einen Mangel an emotionaler Zugehörigkeit zurückführen.
Das Gefühl der Zugehörigkeit kann von vielen verschiedenen Erfahrungen genährt und geprägt werden, zum Beispiel von der eigenen Familie, dem elterlichen Umfeld, dem Heimatland, einer Beziehung, einer Gruppe oder einer Gemeinschaft.
Das Fehlen von Zugehörigkeit erzeugt ein Gefühl der Leere.
Die Aufgabe der pädagogischen Erzieherarbeit besteht nun darin, dieses Gefühl der Leere zu mildern oder, falls möglich, gar aufzulösen. Auch wenn es manchmal schwierig und zweifelhaft ist.
Diese Gedanken könnten ein neuer Anhaltspunkt oder Ansporn für den Verein „La Strada-Der Weg“ sein. Besondere Erfahrungen von Zugehörigkeit und Gemeinschaft haben die Möglichkeit, soziales Leid zu lindern und zu bekämpfen.
Ich möchte hier die Zusammenarbeit zwischen Erzieher, Direktor, Mitarbeiter und Einrichtung hervorheben.
Ich habe festgestellt, dass es sich im Grunde um eine Wechselbeziehung zwischen den jeweiligen Personen handelt, die eng mit dem politischen Management der Rolle und des Berufs verbunden ist. Wenn ich dies nicht gewusst hätte, wären viele Pro-
jekte, die ich begonnen hatte, nicht weiterverfolgt worden. Es ist von grundlegender Bedeutung, dass der Erzieher diese wichtige Möglichkeit erkennt und anwenden kann. Somit können Projekte, Aktionen und Interventionen, finanziell unterstützt und

zu guter Letzt verwirklicht werden, um sich so de facto zu politischen Entscheidungen zu entwickeln.
Hinzu kommt der kulturelle Aspekt. Bildung bedeutet auch, zu wissen und zu kennen. Der pädagogische

Prozess variiert somit nach kulturellem, historischem, territorialem und herkunftsbedingtem Umfeld, wie es z.B. bei der Immigration der Fall ist. Es ist daher notwendig, sich zu engagieren und sich mit den nötigen Mitteln auszustatten, um die Veränderungen und Transformationen kollektiver Bildungsprozesse im Laufe der Zeit zu verstehen.
In diesem Zusammenhang erinnere ich mich an die letzten Nachrichten. Eine Gruppe von Minderjährigen hat mit aggressivem Verhalten große Besorgnis in Algund, in der Nähe eines Einkaufzentrums, ausgelöst.
Solche Orte sind zu Begegnungs- und Sammelplätzen für Menschen aller Altersgruppen geworden. Vielleicht wäre es sinnvoll, Präsenz in den Einkaufszentren zu zeigen, um die Jugendlichen dort anzusprechen und aufzufangen. Man könnte darüber nachdenken, an solchen öffentlichen Plätzen einladende, kreative und generationenübergreifende Jugendzen-
tren einzurichten, um die Vielfalt der Besucher abzuholen und so in die örtliche Gemeinschaft einzubinden.
Ich denke, dass die Erzieherinnen und Erzieher in den Jugendzentren flexibler und unternehmungslustiger werden sollten, indem sie sich von den üblichen Räumlichkeiten entfernen, mehr hinaus gehen.

Ich stelle mir den Erzieher auf einem Fahrrad vor, mit seinem Handy in der Tasche, um jederzeit erreichbar oder vor Ort sein zu können. Unterwegs auf seiner Tour hält er an, begegnet Menschen, beobachtet und erzählt.
Er ist ein dynamischer Helfer, der auf einen zukommt, auf Telefonate antwortet. Er ist eine ständige pädagogische Präsenz, in und mit dem Gebiet.
Wohlbefinden entsteht nicht nur durch Anerkennung, sondern auch durch das Angebot verschiedener flexibler, kreativer Möglichkeiten der Begegnung.
Tribunale ordinario e tribunale per i minorenni

Ho lavorato come magistrato negli uffici giudiziari della provincia di Bolzano per oltre quarant’anni, in ambito civile e soprattutto penale, prevalentemente come giudice e alla fine della carriera anche come procuratore della Repubblica. Sono altoatesina, nata in Austria, a Salisburgo, poiché i miei genitori, nel 1939, avevano optato, come tanti altri sudtirolesi, per il trasferimento in area germanica. Alla nascita sono dunque stata iscritta tra i cittadini del III Reich, ma quando i russi entrarono a Vienna, mia madre riportò noi figli a Tubre, nella casa dei nonni paterni, mentre il papà era al fronte. Solo nel 1949 ho ottenuto la cittadinanza italiana. L’anno prima era morto mio padre, per una leucemia fulminante. La mamma si è trovata vedova, a trentatré anni, con quattro figli piccoli: la più piccola aveva tre anni, io, la penultima, cinque. Ci siamo trasferiti a Merano, città natale di mia madre, dove poteva contare sull’aiuto dei parenti. Mi considero meranese, perché lì sono cresciuta, ho frequentato le scuole, ho praticato sport, nuoto e atletica leggera. Gli insegnanti della scuola media
Margit Fliri

hanno insistito con la mamma affinché mi iscrivesse al liceo classico e così ho frequentato il liceo in lingua tedesca a Merano. A scuola ero una brava alunna e mi piaceva studiare. Anche in quel caso i docenti mi incoraggiarono a iscrivermi all’università. Il mondo della giustizia, le figure di avvocato e di giudice mi hanno sempre affascinata, peraltro la Giustizia è raffigurata nello stemma di famiglia. Mi orientai quindi verso la facoltà di giurisprudenza.
Grazie alla mia professoressa di scienze trovai un posto come insegnante di tedesco in una scuola interpreti ad Ancona, in modo da potermi mantenere da sola. Non volevo infatti pesare sulla mia famiglia, in cui i fratelli già lavoravano. Mi iscrissi all’Università di Macerata.
Per me, di madrelingua tedesca, che avevo frequentato le scuole in quella lingua, l’impatto con il nuovo mondo fu difficile. Di fatto l’italiano lo ho appreso per bene negli anni universitari.
Avevo tanta nostalgia e mi mancava
la possibilità di comunicare nella mia lingua.
Ad Ancona ho lavorato per tre anni, insegnando tedesco e vivendo presso una famiglia, dove venivo sempre chiamata solo “signorina” e non con il mio nome. Ho potuto frequentare poco le lezioni a Macerata, dove andavo sostanzialmente per sostenere per gli esami.
Appena compiuti i diciott’anni ho voluto conseguire la patente. La mamma, che non aveva la patente, ha acquistato un’automobile e me l’ha prestata per gli spostamenti all’università.
All’università ho conosciuto anche il mio futuro marito, marchigiano. Sono riuscita a sostenere da sola le spese, contando anche sull’esenzione dalle tasse universitarie, buoni libro, borse di studio provinciali. Anzi sono riuscita a mettere da parte dei risparmi, che, al quarto anno mi hanno permesso di non lavorare e dedicarmi alla tesi.
Nell’ultimo anno ho pure preso parte, a Napoli, ai Campionati nazionali universitari, a cui partecipò, tra gli altri, Livio Berruti, allora universitario, medaglia d’oro olimpica sui duecento metri, a Roma nel 1960. Già prima della laurea, nell’autunno del 1965, mi hanno proposto di insegnare cultura generale nelle scuole meranesi in lingua tedesca. Hanno
atteso che mi laureassi in ottobre e poi mi hanno assegnato l’incarico. Contemporaneamente mi sono iscritta presso uno studio di avvocato per svolgere la pratica forense e poi affrontare l’esame di abilitazione professionale; mi sono iscritta pure al concorso per diventare magistrato. Ero disposta a seguire mio marito nelle Marche se avessi trovato un lavoro in quella regione; è stato, invece, mio marito a ottenere un incarico di insegnamento nelle nostre scuole in lingua tedesca ed è stato lui a trasferirsi.
Abbiamo conseguito entrambi l’abilitazione all’insegnamento di materie giuridiche e abbiamo lavorato nelle scuole per alcuni anni. Ci siamo sposati e siamo andati ad abitare a Bolzano.
Insieme abbiamo affrontato e superato l’esame per l’iscrizione all’albo degli avvocati: lui ha intrapreso quella carriera, mentre io mi sono dedicata a quella di magistrato.
I tempi del concorso per la magistratura sono stati molto lunghi: la domanda nel 1967, gli scritti a Roma nel ’68, gli orali nel ’69, infine la nomina arrivata nel gennaio del 1970, mentre ero incinta della mia prima figlia.
Dal 1971 sono stata pretore penale a Merano, dove ho conosciuto l’Associazione “La Strada-Der Weg” e in

particolare la Comunità terapeutica di Josefsberg; quindi pretore penale e civile a Caldaro, per poi approdare al Tribunale penale di Bolzano, nel 1978, dove sono rimasta fino al 1996. Ho preso parte, come giudice a latere, a numerosi processi in corte d’assise, come quello a carico di Marco Bergamo, nel quale fui io a scrivere la sentenza. Quando passo per piazza Marcella Casagrande, la sua prima vittima, ripenso a quel drammatico processo. Ritengo di essere stata un giudice scrupoloso, attento al rispetto delle procedure, accurato nell’esame degli atti e delle prove.
Il primo aprile 1996 ho assunto l’incarico di presidente del Tribunale per i minorenni di Bolzano, dove sono rimasta in servizio fino al 2008. Gli ultimi due anni ho invece rivestito l’incarico di procuratore presso il Tribunale per i minorenni, un tribunale autonomo rispetto agli altri organi giudiziari.
Ho scelto di operare presso il Tribunale per i minorenni, appena istituito in provincia di Bolzano, perché mi offriva l’opportunità di una progressione di carriera, ma poi mi ci sono trovata bene e mi sono coinvolta nella nuova esperienza.

Mi sono preparata, con impegno, perché il diritto minorile costituisce un settore specifico, con una normativa particolare e con prassi consolidate, diverse da quelle degli altri rami del diritto.
Tornando indietro, confermerei le mie scelte professionali. Ho svolto il lavoro di magistrato volentieri e con passione. Indubbiamente è una occupazione impegnativa, che richiede flessibilità negli orari, dedizione, equilibrio, indipendenza di giudizio, e, anche, naturalmente, notevole re-

sistenza fisica e psichica (si pensi ad esempio ai tempi lunghi delle udienze penali, alla complessità della motivazione di molte sentenze).
Ma l’impegno e l’onere sono dati anche dalla natura stessa dell’attività giudiziaria, che in ambito civile tocca e incide su vicende personali, come divorzi e controversie patrimoniali, mentre in ambito penale investe la libertà individuale.
I magistrati hanno a che fare con la vita delle persone e le loro decisioni possono comportare conseguenze gravi sulle storie dei singoli e delle rispettive famiglie.
Certamente non è una professione adatta a individui incerti e tentennanti: il giudice deve avere il coraggio di prendere una decisione e il coraggio di assumersene la responsabilità.
Il peso delle decisioni lo ho avvertito maggiormente come giudice minorile.
Come giudice penale si valutano azioni commesse da soggetti adulti, pienamente consapevoli, mentre nel diritto minorile, in particolare nell’ambito penale, occorre fare il possibile affinché l’imputato si ravveda e rientri sulla “retta via”, ossia è fondamentale perseguire l’intento rieducativo e il ravvedimento del minore. Nell’ambito civile si è invece chiamati a valutare e adottare il provvedimento che meglio tutela l’interesse del minore. Ci si tro-
va dinnanzi al dilemma: facciamo più male a questo bambino togliendolo dalla famiglia, in cui non riceve adeguata assistenza materiale e morale, o lasciandolo nell’ambito parentale cui spesso questi minori sono molto legati?
Proprio per la delicatezza e rilevanza delle decisioni il collegio giudicante del tribunale è composto da quattro membri: il presidente, un giudice a latere togato e due giudici onorari, nominati dal Consiglio Superiore della Magistratura, su proposta del presidente del tribunale; si tratta di professionisti con un’esperienza e una specifica preparazione in campi attinenti alla cura dei minori (psichiatria, psicologia, pedagogia, sociologia, ecc.).
Ho imparato tanto da queste persone, molto competenti, con cui ho collaborato.
Sono stata contenta di essere entrata al tribunale per i minorenni portando con me la lunga esperienza presso il tribunale ordinario, poiché l’esercizio della giustizia minorile richiede equilibrio, esperienza di vita, sensibilità, proprio per la valenza educativa che è sottesa al suo operato.
Ci si trova infatti a confrontarsi con molteplici e complesse situazioni di “pregiudizio” ai danni di un minore, ossia di situazioni insomma che ne pregiudicano lo sviluppo psicofisico.

Le problematiche da affrontare non sono sempre le stesse, ma si evolvono e mutano nel tempo. Nel corso degli anni, ad esempio, abbiamo visto crescere casi che coinvolgono minori stranieri e figli di genitori di origine straniera.
L’attività di giudice minorile mi ha portato pensare che se da giovane madre avessi avuto quella esperienza, avrei potuto evitare alcuni errori commessi con le mie figlie e in alcune occasioni mi sarei comportata in modo differente.
Come giudice minorile, in ambito civile ho cercato di rispettare sempre la dignità dei genitori a cui veniva limitata o tolta la responsabilità genitoriale, facendo il possibile affinché da parte di adulti e minori vi fosse l’accettazione dei provvedimenti assunti; in ambito penale ho perseguito la via della riabilitazione e risocializzazione del minore.
In molti casi è importante offrire un supporto al genitore stesso, individuando e predisponendo interventi psicologici o sociali.
Occorre lasciare spazio a una sensibilità educativa, direi quasi materna e non è un caso che nella giustizia minorile vi sia una maggiore presenza di magistrati donne. Ho tanto curato la collaborazione con i servizi sociali, anche al di là dei compiti istituzionali, e con le scuole,
fornendo informazioni e consulenze. Ho cercato di creare una rete di collaborazione e sostegno reciproci tra enti e servizi per meglio tutelare i minori e attuare interventi tempestivi, adeguati, efficaci. Per questo sono favorevole a tutte le iniziative, tra cui quelle promosse dall’Associazione “La Strada-Der Weg”, per diffondere informazioni, fare in modo che arrivino al maggior numero possibile di persone, affinché sappiano come comportarsi o a chi rivolgersi per un consiglio e un supporto: che cosa fare se si viene a conoscenza di una situazione di pregiudizio ai danni di un minore. Nei confronti di questo tipo di problemi e di vicende si nutrono, sempre, molti dubbi e comprensibilmente, considerata la delicatezza delle implicazioni. Da qui l’importanza di sapere chi e come interpellare, avendo garanzia di competenza e affidabilità.
Alla realizzazione di queste finalità ho dedicato anche molto del mio tempo libero, e per questo mio impegno ho ottenuto, nel 2018, l’onorificenza che ogni anno viene assegnata dal Land austriaco del Tirolo a personalità, del Tirolo e dell’Alto Adige, che si sono distinte per i loro meriti.

Landes- und Jugendgericht Margit Fliri

Über vierzig Jahre lang habe ich in der Provinz Bozen als Magistratin und Richterin im Zivilrecht, aber vor allem im Strafrecht gearbeitet. Am Ende meiner Karriere war ich Staatsanwältin der Republik.

Ich bin Südtirolerin, obwohl ich in Österreich, in Salzburg, geboren wurde. Meine Eltern hatten sich 1939, wie viele andere Südtiroler, für die Übersiedlung in den deutschsprachigen Raum entschieden. Durch meine Geburt in Österreich, wurde ich als Bürgerin des damaligen Dritten Reiches registriert.
Beim Einmarsch der Russischen Armee in Wien brachte meine Mutter, während mein Vater an der Front war, uns Kinder zurück nach Taufers im Münstertal, in das Haus meiner Großeltern väterlicherseits.
Erst im Jahr 1949 erhielt ich die italienische Staatsbürgerschaft. Im Jahr zuvor war mein Vater an fulminanter Leukämie gestorben. So wurde meine Mutter im Alter von nur 33 Jahren zur Witwe und musste ihre vier Kinder alleine erziehen. Das Jüngste von uns Kindern war zu dem Zeitpunkt drei Jahre alt und ich als
vorletztes Kind meiner Eltern gerade fünf Jahre alt.
Wir zogen nach dem Tod meines Vaters nach Meran, der Heimatstadt meiner Mutter, wo sie auf die Hilfe von ihren Verwandten zählen konnte. Daher betrachte ich mich heute noch als Meranerin, weil ich dort aufgewachsen und zur Schule gegangen bin und dort auch Sport wie Schwimmen und Leichtathletik ausgeübt habe.
Meine Lehrer der Mittelschule und meine Mutter bestanden darauf, dass ich das klassische Gymnasium besuche und so ging ich auf das deutschsprachige Gymnasium in Meran. Ich war ich eine gute Schülerin und hatte Spaß am Lernen. Schon damals ermutigten mich die Lehrer mich an der Universität einzuschreiben.
Die Welt der Gerechtigkeit und der Beruf des Anwalts und des Richters haben mich schon immer fasziniert. So habe ich mich langsam auf ein zukünftiges Jurastudium ausgerichtet. Übrigens ist auch auf unserem Familienwappen ein Symbol der Gerechtigkeit abgebildet.
Dank meiner Professorin für Naturwissenschaften habe ich an einer Dolmetscherschule in Ancona eine Stelle als Deutschlehrerin gefunden, sodass ich in der Lage war meinen ei-
genen Lebensunterhalt zu verdienen. Meine Brüder arbeiteten bereits und ich wollte meine Familie nicht zusätzlich finanziell belasten. Dann habe ich mich an der Universität von Macerata eingeschrieben.
Als deutsche Muttersprachlerin war es für mich schwierig mit der neuen Lebensumgebung zurechtzukommen. Während meiner Studienzeit habe ich dann die italienische Sprache lernen dürfen. Oft hatte ich sehr viel Heimweh und vermisste es in meiner Muttersprache zu kommunizieren.

Drei Jahre lang habe ich als Deutschlehrerin in Ancona gearbeitet, wo ich bei einer Familie leben durfte, die mich immer ‚signorina‘ nannte, anstatt mich bei meinem eigenen Namen anzusprechen.
In Macerata nahm ich nur sehr wenig an den Vorlesungen teil, in erster Linie bin ich fast nur zu den Prüfungen an der Uni gewesen.
Als ich 18 Jahre alt wurde, wollte ich meinen Führerschein machen. Meine Mutter, die selbst keinen Führerschein besaß, kaufte ein Auto und lieh es mir für Fahrten zur Universität.
An der Universität lernte ich meinen zukünftigen Ehemann kennen, der aus der Region Marken stammte. Da ich von den Studiengebühren be-
freit war und über ein Stipendium der Provinz Bozen verfügte, war ich in dieser Zeit in der Lage meinen Lebensunterhalt selbst zu finanzieren.
Es gelang mir sogar einige Ersparnisse beiseite zu legen, die es mir im vierten Jahr meines Studiums ermöglichten, nicht arbeiten zu müssen und mich ganz meiner Doktorarbeit zu widmen.
In meinem letzten Jahr an der Uni nahm ich an nationalen Universitätswettbewerben in Neapel teil, an denen auch Livio Berruti, damals Student und Olympiasieger über zweihundert Meter in Rom 1960, teilnahm.
Noch vor Abschluss des Studiums, im Herbst 1965, hat man mir vorgeschlagen, an den deutschsprachigen Schulen in Meran allgemeine Kultur zu unterrichten.
Man hat auf meinen Universitätsabschluss im Oktober gewartet und mir dann den Job zugeteilt. Gleichzeitig schrieb ich mich für ein Rechtsanwalts Studium ein, um Jura zu studieren um anschließend die Anwaltsprüfung abzulegen. Nebenbei habe ich mich in einem Aufnahmeverfahren als Richterin beworben. Privat gab es zunächst die Option zu meinem Mann in die Marken zu ziehen, falls ich dort eine Arbeitsstelle finden würde. Jedoch kam es ganz anders, denn mein Mann bekam
eine Arbeitsstelle an den örtlichen, deutschsprachigen Schulen in Meran und so ist er nach Südtirol umgezogen.

Wir erhielten beide eine Lehrbefähigung für das Fach Rechtskunde und unterrichteten mehrere Jahre an verschiedenen Schulen.
Schließlich haben wir haben geheiratet und sind nach Bozen gezogen.
Der Prüfung für die Zulassung als Rechtsanwälte haben wir uns beide gestellt und sie beide bestanden. Mein Mann verfolgte danach die Laufbahn als Rechtsanwalt, während ich mich lieber einer Karriere in der Justiz widmete.
Die anschließende Ausbildung für das Richteramt hat lange gedauert. 1967 habe ich mich beworben, 1968 die schriftlichen Arbeiten in Rom geschrieben, 1969 die mündliche Prüfung abgelegt und im Januar 1970 dann schließlich den Titel erhalten, während ich mit meiner ersten Tochter schwanger war.
Ab 1971 war ich Strafrichterin in Meran, wo ich den Verein „La Strada-Der Weg“ und insbesondere die damalige therapeutische Gemeinschaft auf dem Vigiljoch kennen lernen durfte. Später war ich Straf- und Zivilrichterin in Kaltern. Im Jahr 1978 kam ich dann an das Strafgericht Bozen, wo
ich bis 1996 tätig war. Als beisitzende Richterin habe ich an vielen Prozessen teilgenommen, zum Beispiel auch bei dem Prozess gegen M. Bergamo, einem Serienmörder aus Bozen, bei dem ich das Urteil verfasst habe. Die 15-jährige Studen-
tin Marcella Casagrande war sein erstes Opfer und nach ihr wurde nach Ihrem Tod ein öffentlicher Platz in Bozen benannt. Jedes Mal wenn ich an diesem Marcella-Casagrande-Platz vorbeigehe, denke ich an diesen dramatischen Prozess zurück.


Ich denke, ich war eine gewissenhafte und strenge Richterin, welche die Verfahren sorgfältig beachtete und alle Unterlagen und Beweise gründlich geprüft hat.

Am 1. April 1996 wurde ich Vorsitzen-
de des Jugendgerichts Bozen wo ich schließlich bis zum Jahr 2008 geblieben bin.
Die letzten zwei Jahre dieser Zeit durfte ich dann als Staatsanwältin am Jugendgericht tätig sein. Das Jugendgericht ist vollkommen unabhängig von den anderen Justizbehörden.
Ich habe mich für die Arbeit am gerade neu eingerichteten Jugendgericht Bozen entschieden, da ich dort die Möglichkeit hatte, beruflich aufzusteigen. Dort habe ich mich sehr wohl gefühlt und mich auf die neue Erfahrung gerne eingelassen.
Ich habe mich engagiert vorbereitet, denn das Jugendrecht ist ein spezifisches Gebiet mit einer besonderen Gesetzgebung und gängigen Praktiken, die sich von denen anderer Rechtsgebiete unterscheiden. Wenn ich zurückblicke, würde ich alle meine beruflichen Entscheidungen erneut treffen. Ich habe das Amt des Richters gerne und mit

Leidenschaft ausgeübt. Es handelt sich zweifellos um einen anspruchsvollen Beruf, der zeitliche Flexibilität, Engagement, Ausgewogenheit, Unabhängigkeit im Urteil und natürlich auch eine beträchtliche körperliche und geistige Ausdauer erfordert (man denke nur an die langen Verhandlungszeiten in Strafverfahren und die Komplexität der Begründung vieler Urteile).

Die Verpflichtung und die Belastung ergeben sich aber auch aus dem Wesen der richterlichen Tätigkeit. Im zivilrechtlichen Bereich berühren einem viele persönliche Angelegenheiten wie Scheidungen und Vermögensstreitigkeiten, oder Dinge im strafrechtlichen Bereich, welche die Freiheit des Einzelnen beeinträchtigen.
Richter und Staatsanwälte haben mit dem Leben von Menschen zu tun und ihre Entscheidungen können schwerwiegende Folgen für den Lebenslauf des Einzelnen und seiner Familie haben.
Es ist sicherlich kein Beruf für unsichere und wankelmütige Menschen, denn der Richter muss den Mut haben eine Entscheidung zu treffen und die Verantwortung dafür zu übernehmen.
Als Jugendrichterin habe ich die Last der Entscheidungen am meisten zu spüren bekommen.
Als Strafrichter beurteilt man nur Handlungen von Erwachsenen, welche mit vollem Bewusstsein begangen wurden. Im Jugendgericht, insbesondere im Strafrecht, wird immer versucht, den minderjährigen Angeklagten durch Wiedergutmachung und Gespräche zur Vernunft und ihn so wieder auf den „rechten Weg“ zu bringen. Mit anderen Worten, es wird versucht die Einsicht, Neuformung und die Reue des Kindes zu verfolgen.
Im zivilrechtlichen Bereich hingegen ist es die Aufgabe, jene Maßnahme zu treffen und zu ergreifen, die das Wohlergehen des Kindes am besten schützt. Man steht oft vor dem Dilemma, ob man einem Kind mehr Schaden zufügt, wenn man es aus der eigenen Familie herausnimmt, weil es vielleicht dort nicht richtig behandelt wird, oder ob man es in der elterlichen Umgebung belässt, da Minderjährigen trotz der Widrigkeiten doch sehr an ihre Familie gebunden sind.
Gerade wegen der Sensibilität und Relevanz der im Jugendgericht zu fällenden Entscheidungen setzt sich das Kollegium des Gerichts aus vier Mitgliedern zusammen: dem Präsidenten, einem Richter und zwei ehrenamtlichen Richtern, die vom Obersten Rat der Magistratur auf Vorschlag des Gerichtspräsidenten
ernannt werden. Es handelt sich um Fachleute mit Erfahrung und spezifischer Ausbildung in Bereichen, die mit der Betreuung von Minderjährigen zusammenhängen (Psychiatrie, Psychologie, Pädagogik, Soziologie usw.).
Ich habe von diesen sehr kompetenten Leuten, mit denen ich zusammenarbeiten durfte, sehr viel gelernt. Meine langjährige Erfahrung in der ordentlichen Gerichtsbarkeit hat mir bei der Arbeit am Jugendgerichtshof geholfen. Die Justizarbeit im Jugendbereich erfordert Ausgewogenheit, Lebenserfahrung und Fingerspitzengefühl, gerade auch wegen des erzieherischen Wertes, der dieser Arbeit zugrunde liegt.
In der Tat ist man mit zahlreichen
und komplexen Situationen und mit „Vorurteilen“ gegenüber Minderjährigen konfrontiert, also mit Situationen, die ihre psychophysische Entwicklung beeinträchtigen und negativ beeinflussen können.
Auch die auftretenden Probleme und Schwierigkeiten entwickeln und verändern sich im Laufe der Zeit. So haben sich bis heute die Fälle gehäuft, in denen ausländische Minderjährige oder Kinder von Eltern ausländischer Herkunft betroffen waren. Wenn ich das Wissen das ich als Jugendrichterin erlangt habe, als junge Mutter gehabt hätte, hätte ich einige der Fehler die ich bei meinen Töchtern gemacht habe vermeiden können. Eventuell hätte ich mich dann auch in einigen Fällen anders verhalten.

AlS Jugendrichterin habe ich im zivilrechtlichen Bereich immer versucht, die Eltern deren Verantwortung eingeschränkt oder entzogen wurde, nicht zu demütigen. Eher habe ich alles dafür getan, dass die

Erwachsenen und Minderjährige die ergriffenen Maßnahmen akzeptieren können. Im strafrechtlichen Bereich habe ich den Weg der Rehabilitierung und Wiedereingliederung der Minderjährigen verfolgt.
In vielen Fällen ist es wichtig die Eltern selbst mit psychologischen oder sozialen Interventionen zu unterstützen. Es ist von großer Wichtigkeit, Raum für ein erzieherisches, ich würde fast sagen mütterliches Handeln zu schaffen. Es ist kein Zufall, dass es in der Jugendgerichtsbarkeit mehr Richterinnen als Richter gibt. Ich habe mich sehr um die Zusammenarbeit mit den Sozialdiensten und den Schulen bemüht um Informationen und Ratschläge zu geben, auch über die institutionellen Aufgaben hinaus. Ich habe versucht, ein Netz der gegenseitigen Zusammenarbeit und Unterstützung zwischen Behörden und Diensten zu schaffen, um Minderjährige besser zu schützen und rechtzeitige, angemessene, wirksame Maßnahmen zu ergreifen.
Deshalb unterstütze ich alle Initiativen, auch die des Vereins „La Strada-Der Weg“, die darauf abzielen, Informationen zu verbreiten und möglichst viele Menschen zu erreichen. Viele wissen nicht, wie sie sich bei Schwierigkeiten verhalten sollen oder an wen sie sich wenden können, um Rat und Unterstützung zu erhalten. Was ist zu tun, wenn man von einem Vorurteil gegenüber einem Minderjährigen erfährt? Wenn man mit dieser Art von Problemen und Ereignissen konfrontiert wird, gibt es immer viele Zweifel um diese sensiblen Themen. Daher ist es wichtig zu wissen, an welche vertrauenswürdigen Personen man sich wenden kann.
Der Verwirklichung dieser Ziele habe ich auch einen großen Teil meiner Freizeit gewidmet, sodass mir 2018 sogar eine Auszeichnung, welche das Land Tirol jährlich an Persönlichkeiten aus Tirol und Südtirol für ihr Engagement vergibt, für meinen langjährigen Einsatz verliehen wurde.

INTERNOS
Edizione/Ausgabe: Nr. 02/2022 Giugno/juni 2022 Pubblicazione registrata presso il tribunale di Bolzano il 06.08.2018 R.G. n. 3009/2018 Ermächtigung Landesgericht Bozen 06.08.2018 Nr. 3009/2018
Associazione – Verein “La Strada-Der Weg ONLUS”
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giugno-Juni 2022