Internos N.1_prima parte-erster Teil_April/e 2022_La Strada-Der Weg onlus

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April/e 2022 Prima parte

inter n os

Notiziario interno Interne Nachrichtensammlung

4/2017

SOMMARIO - INHALT

Presentazione Präsentation Floriana Gavazzi

Formazione e comunicazione Ausbildung und Kommunikation

Luigi Loddi

Le Professioni sociali Die Sozialberufe Paolo Lorenzi

Scuola Schule

Rodolfo

Tomasi

Salute mentale Mentale Gesundheit

Le immagini che accompagnano i testi sono opera del fotografo professionista Paolo Giannitelli, che ringraziamo per la gentile concessione.

Die Bilder, welche die Texte begleiten, sind Werke des Profifotografen Paolo Giannitelli, dem wir für seine Genehmigung danken.

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PRESENTAZIONE

THINK SOCIAL

Numero speciale di “Internos”: interamente dedicato agli interventi di alcuni componenti di “Think social”. Del gruppo fanno parte: Günther Donà, Paolo Endrizzi, Margit Fliri, Floriana Gavazzi, Luigi Loddi, Paolo Lorenzi, Rodolfo Tomasi, Liana Zancanella.

Queste pagine ospitano i primi quatto testi, altri appariranno in una seconda parte di questo numero 1 di Internos, in uscita a breve.

Come raccontato in un precedente articolo “Think social” è sorto raccogliendo un suggerimento del presidente dell’Associazione, Paolo Spolaore. Alcune persone, che operano in ambiti professionali affini a quelli in cui l’Associazione è impegnata hanno accettato di costituire un gruppo di confronto e di studio.

A loro si è proposto di:

• valorizzare il patrimonio di conoscenze ed esperienze professionali di cui sono portatori;

• indagare la realtà presente, per coglierne bisogni, tendenze, trasformazioni in atto;

• supportare l’Associazione nell’ideare e progettare i propri interventi;

• organizzare occasioni, anche pubbliche, di approfondimento e dibattito.

Il gruppo si è riunito due volte, in modalità online e ha promosso un incontro pubblico, anch’esso online, sul tema “Fragilità”.

Si è poi concordato di raccogliere in forma scritta una presentazione delle loro esperienze professionali.

Ciascuno di loro è stato intervistato, il contenuto è stato trascritto e revisionato. Si è poi provveduto alla traduzione in lingua tedesca.

I colloqui si sono articolati in tre parti:

• la propria esperienza lavorativa e l’ambito in cui si è operato;

• il filo rosso che ha orientato il percorso professionale, la visione complessiva che ha ispirato e motivato scelte e strategie;

• proposte e indicazioni per l’Associazione “La Strada-Der Weg”.

Le interviste sono state raccolte e trascritte da Fabrizio Mattevi.

Le traduzioni sono opera di Viktoria Gross e Harald Kunkel

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PRÄSENTATION

THINK SOCIAL

Sonderausgabe “Internos“ - Diese ist den Beiträgen einiger Mitglieder von “Think social” gewidmet.

Der Gruppe gehören folgende Personen an: Günther Donà, Paolo Endrizzi, Margit Fliri, Floriana Gavazzi, Luigi Loddi, Paolo Lorenzi, Rodolfo Tomasi, Liana Zancanella.

Im hier vorliegenden Magazin Internos erscheinen die ersten vier Texte. Weitere werden in einer zweiten Ausgabe von „Internos“ zu finden sein, welche in Kürze veröffentlicht wird.

Wie schon in einem früheren Artikel erwähnt, wurde “Think social” auf Anregung des Präsidenten des Vereins, Paolo Spolaore, ins Leben gerufen.

Einige Personen, die in ähnlichen Berufsfeldern tätig sind in denen sich der Verein engagiert, erklär-

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ten sich bereit, eine Diskussions- und Studiengruppe zu bilden.

Dieser Gruppe wurde folgendes vorgeschlagen:

• das beachtliche Fachwissen der Teilnehmer*innen und deren jeweilige Berufserfahrungen besser zu nutzen;

• die gegenwärtige Situation zu untersuchen, um Bedürfnisse, Trends und laufende Veränderungen zu vertiefen;

• den Verein beim Gestalten und Planen seiner Maßnahmen künftig fachlich besser zu unterstützen;

• auch durch die Einbeziehung der Öffentlichkeit Gelegenheiten und Plattformen zur Vertiefung und für Diskussionen zu organisieren.

Die Gruppe hat zweimal online zusammen diskutiert und veranstaltete - ebenfalls online - ein für alle offenes Treffen zum Thema “Fragilität”. Danach vereinbarte man, die beruflichen Erfahrungen der Teilnehmer*in-

nen vorzustellen und schriftlich zusammenzufassen.

Jede*r der Beteiligten wurde interviewt, der Inhalt der Interviews wurde niedergeschrieben, überarbeitet und ins Deutsche übersetzt.

Die Gespräche wurden in drei Teile gegliedert:

• die eigene Berufserfahrung und der Bereich, in dem man tätig war;

• der rote Faden und die allgemeine Vision, an dem sich der berufliche Werdegang orientierte und welche Entscheidungen und Strategien dabei anregten und motivierten;

• Vorschläge und Tipps für den Verein “La Strada-Der Weg”.

Fabrizio Mattevi sammelte die Interviews ein und sorgte für deren Niederschrift. Übersetzt wurde alles von Viktoria Gross und Harald Kunkel

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Formazione e Comunicazione

Sono cresciuta a Concesio, paese natale di Paolo VI alle porte di Brescia, dove sono nata. Già prima di laurearmi in filosofia a Milano, ho iniziato a insegnare nel mio liceo linguistico. Ho continuato per otto anni, in vari istituti. Dal liceo di Brescia sono passata al liceo classico dei Salesiani di Borgomanero, che mi permetteva di conciliare le ore di docenza con il dottorato di ricerca in “Storia e teoria della rappresentazione drammatica”, che avevo vinto a Milano.

Dato che per il dottorato mi occupavo di espressionismo tedesco sono andata in Germania, dove son rimasta per un anno e mezzo.

Al rientro ho superato i concorsi a cattedra per l’insegnamento di italiano e storia e di filosofia e storia. Così ho ottenuto un incarico come docente in un istituto professionale e poi al liceo.

La mia esperienza didattica è stata dunque variegata: scuola statale e scuola paritaria, licei e istituto professionale.

Durante gli studi universitari pensavo sì al mestiere di docente, ma il mio primo interesse erano gli audiovisivi educativi: in particolare mi attirava

Floriana Gavazzi

l’idea di realizzarli.

Sono cresciuta nel contesto del cattolicesimo bresciano, che allora costitutiva anche il cuore dell’editoria cattolica.

Sono stata segnata in modo speciale dall’esperienza oratoriana e salesiana. È lì che ho conosciuto gli audiovisivi: allora erano diffusi quelli prodotti dalla ElleDiCi. Li ho utilizzati già a quindici anni, quando ero catechista in parrocchia.

Sono stata animatrice e ho frequentato una miriade di corsi di formazione, tra cui uno biennale organizzato dai Salesiani a Milano.

L’epoca della mia giovinezza è stata caratterizzata anche dal grande interesse culturale per teatro e film e dall’esperienza dei cineforum. Un po’ casualmente, su suggerimento di mia mamma, partecipai a un concorso nazionale per entrare come giornalista alla Rai, superandolo. Ho deciso così di abbandonare l’insegnamento. Lo ha fatto assai a ma-

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lincuore, ma tutti mi consigliavano di non rinunciare all’opportunità di lavoro in Rai.

Mi sono trovata gettata in una nuova professione, che molti inseguono anche a costo di tanti sacrifici, mentre nel mio caso mi è capitata addosso da un giorno all’altro. Poiché conoscevo bene la lingua tedesca, sono stata inviata alla sede di Bolzano come giornalista praticante. Contavo di rimanerci poco: la mia ambizione era rientrare a Milano e proseguire la collaborazione con l’Università, all’interno del team di “Comunicazioni sociali” del professor Bettetini.

Ma gli eventi sono andati in altro modo. Ho conosciuto mio marito, di Riva del Garda, e sono rimasta a Bolzano, dove vivo ormai da ventisei anni.

Il lavoro di giornalista radiotelevisiva non lo avevo preventivato, ma è comunque connesso ai miei studi sulla comunicazione sociale e alla mia passione per gli audiovisivi. Nello svolgere la professione ho cercato di privilegiare il filone sociale e il filone culturale. Ho sempre voluto coltivare i rapporti umani, costruire una rete di relazioni, portare nell’impegno professionale una valenza educativa e insieme comunicativa. Da quando sono caposervizio mi è più difficile proseguire questa moda-

lità, perché è cresciuto il lavoro alla scrivania.

Comunque posso dire che il mio sogno di realizzare audiovisivi educativi si è potuto in qualche modo realizzare.

Ho invece dovuto accantonare l’interesse per la scuola, l’insegnamento, la trasmissione della cultura.

Ma da un po’ di anni quella parte di me è riemersa e ha ripreso spazio. L’esperienza di mamma di Carolina mi ha portato a confrontarmi con il mondo della scuola. L’impatto non è stato positivo, o meglio se ottima è stata la scuola materna e buona la primaria, la scuola media è stata solo discreta, ma pessima la realtà delle superiori.

Il dolore, il senso di impotenza, la frustrazione che ho provato in quella situazione mi hanno spinto a cercare di fare qualche cosa. Cinque anni fa ho preso contatto con l’Intendenza scolastica italiana, che mi ha dato ascolto. Ho proposto dei corsi per docenti, in preparazione della prova scritta di italiano all’esame finale delle scuole superiori.

La mia disponibilità è stata ben accolta e così ho iniziato a tenere corsi su tematiche differenti, a incontrare e confrontarmi con i docenti.

A un certo punto ho accantonato l’argomento specifico della prova scritta, per affrontare l’ambito delle motiva-

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zioni all’insegnamento. Ho proposto “La scuola dei talenti: idee per cambiare l’educazione.”

L’anno successivo, dentro il tempo dell’epidemia, ho presentato “Empatia e intelligenza emotiva: entrare in classe dopo il Covid”.

Dopo un corso di educazione al dialogo e uno sulla creatività, quest’anno ne ho messi in cantiere due: uno sulla narratività e uno sull’animazione a scuola.

Quel che mi motiva sono l’intento e il desiderio di promuovere cambiamento sociale, nello specifico, nel mondo della scuola.

Credo che ciascuno di noi abbia un

suo “demone” interiore, un “daimon” come dice lo psicoanalista junghiano Hillman, che plasma il nostro carattere e ci orienta. Questo demone personale non va tradito, ma assecondato.

Il mio demone, che ho dovuto un po’ trascurare per la maternità e l’impegno giornalistico, mi chiama a occuparmi di educazione dei giovani e la scuola è parte di questo orizzonte.

Mi sono resa conto che nella scuola si può incidere poco, ma il mio piccolo apporto provo a darlo.

Vorrei occuparmi di formazione dei giovani anche al di fuori dell’ambito scolastico.

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Questa aspirazione mi ha spinto ad accettare la proposta di diventare socia dell’Associazione “La Strada-Der Weg”, intravvedendo un possibile spazio di azione.

Una prospettiva interessante mi pare infatti la formazione degli educatori, che in Associazione operano in numero consistente.

Tale mio orientamento profondo mi ha portato a scoprire quella che si chiama “psicospiritualità”, una corrente di ricerca svincolata dall’ambito religioso.

Già verso i trent’anni era sorto in me l’interesse per la psicologia e i percorsi terapeutici. Anche in questo campo, come a scuola e all’università, ho avuto la fortuna di incontrare una autentica maestra, una psicoterapeuta milanese.

Don Giancarlo è stato l’unico prete che ho vissuto realmente come maestro. Prima e dopo di lui non ne ho incontrati altri.

Lui coniugava una dimensione spirituale profondissima e una dimensione concreta, attiva, umana, relazionale, paterna, caratterizzata da grande delicatezza.

Se invece guardo mia figlia, mi pare che oggi per un giovane sia assai difficile incontrare sulla propria strada un maestro.

In questi due anni di pandemia ho trovato il tempo e pure la disponibi-

lità interiore per avvicinare una serie di autori che affrontano temi di psicospiritualità: Selene Calloni Williams, Igor Sibaldi, Francesca Erica Poli, Brian Weiss e Andrea Zurlini.

Pure questi itinerari di ricerca mi riportano alla mia vocazione educativa, poiché per me è importante aprire delle vie a questi ragazzi, che oggi hanno invece davanti a sé dei muri, muri che impediscono di vedere oltre e rendono il futuro un grande punto di domanda.

Per questo sono abbastanza critica verso il sociologismo, che è penetrato nell’ambito educativo e che ritrovo a volte pure nel linguaggio della rivista “Animazione sociale”.

La lettura sociologica prevale sull’apertura spirituale, mentre sono convinta che oggi è di questo che i ragazzi hanno più bisogno: respiro, prospettiva, vita, fiducia nel futuro e dunque fede, ossia affidarsi alla vita che viene.

Senza questa fede nella vita viene meno l’energia per affrontare la quotidianità e trasformarla.

La ricerca di senso è favorita da una dimensione partecipativa, dal dialogo e dal confronto, anche generazionale.

Ho grande nostalgia delle esperienze comunitarie vissute in gioventù. Alcune proposte o alcuni desiderata rispetto all’Associazione.

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Ho già avuto un incontro con gli educatori scolastici che operano a “La Strada-Der Weg” e mi pare sia stato ben accolto. Spero sia possibile un secondo incontro verso la fine dell’anno scolastico, ma ho constatato che l’Associazione ha tempi organizzativi e decisionali non sempre rapidi. Sono convinta del valore della formazione e della riflessione attorno a quel che si fa. Ritengo che l’Associazione dovrebbe aprirsi a una rete più grande, proprio per quanto riguarda la propria forma-

zione e la capacità di cogliere input e stimoli fecondi. Mi viene da fare due nomi: “AssociAnimAzione” e APEI (Associazione Pedagogisti Educatori Italiani).

Non possiamo pensare di essere autonomi, di fare, pensare, produrre da soli.

Inoltre un mestiere così logorante come quello dell’operatore sociale richiede di avere a disposizione spazi di confronto, revisione, rimotivazione.

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Ausbildung und Kommunikation Floriana Gavazzi

Ich bin in Concesio (Brescia), dem Geburtsort von Papst Paul VI, geboren und aufgewachsen. Noch vor dem Abschluss meines Philosophiestudiums in Mailand begann ich an einem Gymnasium zu unterrichten, in den folgenden acht Jahren unterrichtete ich an verschiedenen weiteren Instituten.

Da ich meine Lehrtätigkeit mit dem Doktorat in “Geschichte und Theorie der dramatischen Darstellung” verbinden konnte, wechselte ich vom Gymnasium in Brescia an das klassische Gymnasium der Salesianer in Borgomanero.

Während dem Doktorat setzte ich mich hauptsächlich mit dem deutschen Expressionismus auseinander. Aus diesem Grund beschloss ich nach Deutschland zu gehen und dort für eineinhalb Jahre zu bleiben. Nach meiner Rückkehr nach Italien absolvierte ich die Abschlussprüfungen der Fächer Italienisch, Geschichte, Philosophie und Geschichte und durfte danach zusätzlich an einer Berufsschule und an einem Gymnasium unterrichteten.

Meine Unterrichtserfahrung ist daher sehr vielfältig, da ich an staatlichen und privaten Schulen, Gymnasien und Berufsschulen gelehrt habe.

Während meines Studiums dachte ich zwar an eine Zukunft als Dozentin, aber ich merkte, dass sich mein Interesse mehr und mehr den audiovisuellen Bildungsmedien galt. Am meisten faszinierte mich dabei die Idee, diese neuen Medien selbst zu entwickeln.

Aufgewachsen bin ich in einer katholischen Umgebung, im Umfeld von Brescia, die Stadt, die damals der Mittelpunkt des katholischen Verlagswesens war.

Meine Lebenszeit bei den Oratorianern und Salesianern hat mich auf besondere Weise geprägt. Dort lernte ich als 15-jährige Katechistin die audiovisuellen Medien kennen und zu benutzen, denn die von ElleDiCi produzierten Medien waren damals schon weit verbreitet.

Eine Vielzahl von Ausbildungskursen, darunter ein zweijähriger Kurs, der von den Salesianern in Mailand organisiert wurde, brachten mich dem Thema immer näher. Dabei kam mir die Erfahrung die ich als Jugendliche bei Theater- und Film- und Filmforen angeeignet hatte zugute.

Dank eines Ratschlags meiner Mutter nahm ich in dieser Zeit an einem landesweiten Wettbewerb teil, um bei der RAI Journalistin zu werden. Den

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Wettbewerb konnte ich gewinnen und fand so eine neue Berufung. Schwersten Herzens habe ich mit dem Unterrichten aufgehört, aber die vielen Ratschläge aus meinem Umfeld, die Chance bei Rai zu arbeiten nicht entgehen zu lassen, überzeugten mich. Plötzlich wurde ich in einem neuen Berufsfeld aktiv, lebte einen Traum, den sicher viele Menschen träumen.

Da ich fließend Deutsch sprach, wurde ich gleich als Praktikantin in den Hauptsitz der RAI nach Bozen versetzt.

Meine damals aktuelle Idee, irgendwann nach Mailand zurückkehren und wieder in der Universität im Team “Soziale Kommunikation” mit Professor Bettetini, zusammenarbeiten, legte ich vorübergehend zur Seite.

Doch es kam anders wie geplant. Ich lernte meinen jetzigen Mann aus Riva del Garda kennen und blieb in Bozen, wo ich nun seit 26 Jahren lebe.

Ich hatte nie gedacht jemals als Radio- und Fernsehjournalistin zu arbeiten, doch erfreulicherweise konnte ich sogar mein Studium der sozialen Kommunikation und meine Leidenschaft für audiovisuelle Medien mit in meinen neuen Beruf einbeziehen.

In meiner Arbeit habe ich versucht, den sozialen und kulturellen Aspek-

ten Vorrang zu geben. Ich wollte schon immer menschliche Beziehungen pflegen, ein Beziehungsnetz aufbauen und meinem beruflichen Engagement einen pädagogischen und kommunikativen Wert verleihen.

Seit ich Dienststellenleiterin geworden bin, ist es für mich schwieriger geworden dieser Mentalität nachzugehen, da die Schreibtischarbeit zugenommen hat.

Jedoch kann ich sagen, dass sich mein einstiger Traum, audiovisuelle Lehrfilme zu produzieren, bis zu einem gewissen Grad erfüllt hat.

Allerdings musste ich mein Interesse an der Schule, am Unterricht und an der Weitergabe kulturellen Wissens etwas ruhen lassen.

In den letzten Jahren ist dieser ruhende Teil von mir wieder lebendig geworden.

Die schulischen Erfahrungen mit meiner Tochter Carolina haben dafür gesorgt, mich wieder mit der Schulwelt auseinandersetzen zu müssen.

Die Erlebnisse im Kindergarten meiner Tochter waren sehr gut, in der Grundschule mäßig, in der Mittelschule grenzwertig und in der Oberschule gar aussichtslos.

Das Gefühl der Ohnmacht und die Frustration, die ich empfand, haben mich dazu gebracht, etwas zu unternehmen. So setzte ich mich vor fünf Jahren mit den italienischen Schulbe-

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hörden in Verbindung, welche glücklicherweise ein offenes Ohr für mich hatten.

Ich habe den Behörden Kurse zur Vorbereitung der schriftlichen Italienischprüfung des Abiturs für Lehrer vorgeschlagen.

Da diese Bemühungen gut ankamen begann ich daraufhin Kurse zu verschiedenen Themen abzuhalten,

als Themen vorgeschlagen.

Nach einem Kurs über „dialogische Erziehung“ und einem Kurs über „Kreativität“ habe ich dieses Jahr einen Kurs über „Narrativität“ und einen Kurs über „Animation in der Schule“ vorgeschlagen.

mich mit Lehrern und Lehrerinnen zu treffen und mit ihnen über Verbesserungen zu diskutieren. Ab einem bestimmten Moment habe ich das spezifische Thema der schriftlichen Prüfung beiseitegelassen, um mich mehr mit dem Bereich der Motivation im Unterricht zu befassen. So habe ich „Schule der Talente: Ideen zur Veränderung der Bildung“ und im darauffolgenden Jahr, während der Pandemie „Empathie und emotionale Intelligenz: Rückkehr nach Covid, Eintreten in das Klassenzimmer“

Was mich bis heute motiviert, ist die Absicht und der Wunsch, den sozialen Wandel zu fördern, insbesondere den Wandel in der Welt der Schulen.

Ich glaube, dass jeder von uns einen inneren „Dämon/Geist“ in sich hat, (Dai-mon’ so nennt ihn der Jungsche Psychoanalytiker Hillman), der unseren Charakter formt und uns lenkt. Dieser persönliche Dämon darf nicht vernachlässigt, sondern er muss eher unterstützt werden.

Mein Dämon zum Beispiel, den ich wegen meiner Mutterschaft und meines journalistischen Engagements eine Zeit lang vernachlässigen musste, ruft mich dazu auf, mich mit der

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Erziehung junger Menschen zu befassen und die Schule ist Teil dieses Horizonts. Mir ist bewusst geworden, dass ich in den Schulen wenig tun kann, aber ich versuche zumindest einen kleinen Beitrag zu leisten. Ich möchte mich für die Bildung junger Menschen außerhalb der Schule engagieren.

Dieser Wunsch hat mich veranlasst,

Mitglied des Vereins “La Strada-Der Weg” zu werden, da ich dort ein mögliches Betätigungsfeld sehe.

Die für mich interessante Perspektive sehe ich in der Ausbildung von Erziehern, von denen es im Verein bereits viele gibt.

Diese tiefgreifende Orientierung führte mich zur Entdeckung der so genannten “Psychospiritualität”, einer Forschungsrichtung, die nichts mit Religion zu tun hat. Als ich in meinen Dreißigern war, hatte ich bereits ein Interesse an Psy-

chologie und therapeutischen Wegen entwickelt. Auch in diesem Bereich hatte ich, wie schon in der Schule und an der Universität, das Glück einer Lehrerin zu begegnen, einer Psychotherapeutin aus Mailand. Auch Pater Giancarlo war der einzige Priester, den ich wirklich als Lehrer erlebt habe. Vor und nach ihm habe ich keinen anderen gleichrangigen getroffen.

Er verband eine sehr tiefe, spirituelle Dimension mit einer konkreten, aktiven, menschlichen, beziehungsorientierten und väterlichen Dimension, die von großer Zartheit geprägt war. Aber wenn ich mir meine Tochter anschaue, dann scheint es mir, dass es heute für einen jungen Menschen sehr schwierig ist, einen guten Lehrer zu finden.

In diesen zwei Jahren der Pandemie habe ich die Zeit und auch die innere Bereitschaft gefunden, mich einer

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Reihe von Autoren zu nähern, die sich mit Themen der Psycho-Spiritualität beschäftigen: Selene Calloni Williams, Igor Sibaldi, Francesca Erica Poli, Brian Weiss und Andrea Zurlini. Diese Recherchereisen bringen mich auch zurück zu meiner erzieherischen Berufung, denn für mich ist es wichtig, diesen jungen Menschen Wege zu eröffnen, die heute Mauern vor sich haben, Mauern, die sie daran hindern, über den Tellerrand hinauszuschauen und die Zukunft zu einem großen Fragezeichen machen. Deshalb stehe ich dem im Bildungsbereich vorherrschenden Soziologismus, den ich manchmal auch in der Sprache der Zeitschrift “Social Animation” finde, sehr kritisch gegenüber. Die soziologische Lesart überwiegt die spirituelle Offenheit, während ich davon überzeugt bin, dass die jungen Menschen heute vor allem dies brauchen: Atem, Perspektive, Leben, Vertrauen in die Zukunft und damit Glauben, das heißt Vertrauen in das kommende Leben.

Ohne diesen Glauben an das Leben gibt es keine Energie, um den Alltag zu meistern und ihn zu verändern. Und die Suche nach dem Sinn wird durch eine partizipatorische Dimension, durch Dialog und Konfrontation, auch zwischen den Generationen, begünstigt.

Ich habe große Sehnsucht nach den

Gemeinschaftserfahrungen meiner Jugend.

Ich habe einige Wünsche und Vorschläge, die den Verein betreffen.

Ich hatte ein Treffen mit den Schulpädagogen, welche für “La Strada-Der Weg” arbeiten und ich denke, dass unser Gespräch gut aufgenommen wurde. Ich hoffe, dass es möglich sein wird, eine zweite Sitzung gegen Ende des Schuljahres abzuhalten, aber ich habe festgestellt, dass die Organisations- und Entscheidungsfindungszeit des Vereins nicht sehr schnell ist.

Ich bin vom Wert der Ausbildung und der Reflexion über unsere Arbeit überzeugt.

Ich bin der Meinung, dass sich der Verein für ein größeres Netzwerk öffnen sollte, gerade im Hinblick auf seine eigene Ausbildung und seine Fähigkeit, fruchtbare Anregungen und Impulse zu sammeln. Dabei fallen mir zwei Namen ein: “AssociAni-mAzione” und APEI (Associazione Pedagogisti Educatori Italiani).

Wir sollten nicht nur daran denken, autonom zu sein, allein zu handeln, zu denken und zu produzieren.

Außerdem erfordert ein Beruf, wie der des Erziehers oder Sozialarbeiters Platz und Möglichkeiten für Vergleiche, für neue Motivationen und Revisionen.

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Le professioni sociali Luigi

Ho studiato sociologia e psicologia, sono iscritto all’ordine degli psicologi e degli psicoterapeuti. Ho sempre seguito entrambe le prospettive: l’una legata al singolo individuo, l’altra al noi, alla comunità sociale.

Mi sono trovato a occuparmi di formazione, anche se non era inizialmente tra i miei intenti. Quel che mi ha attirato e motivato è stata la possibilità di dare vita a qualche cosa di nuovo, che ancora non esisteva. Ho avuto la fortuna di lavorare con l’assessore Saurer: dal 1984/85 abbiamo iniziato a organizzare i primi corsi professionali per il settore sociale. In quegli anni per definire le varie figure si utilizzavano i termini di “assistente geriatrico”, “assistente” o “educatore per persone con disabilità”.

Non c’era un edificio dedicato, utilizzavamo alcune aule del vecchio ospedale e spazi messi a disposizione da altre scuole, distribuite per la città di Bolzano.

Via via i corsi sono cresciuti di numero e si sono diversificati, specificando le varie professionalità operanti nei servizi sociali. Anche perché nel 1983 era stata approvata la legge provinciale che istituiva i servizi per le per-

sone con disabilità - dunque si trattava di ambiti di lavoro e impostazioni nuovi, che comportavano l’istituzionalizzazione e professionalizzazione degli interventi nel settore sociale.

Loddi

In una prima fase, per assistere le persone con disabilità, le assunzioni erano avvenute senza richiedere una preparazione specifica; di lì a poco si avvertì l’esigenza di offrire e attuare una formazione anche per il personale già in servizio.

I corsi erano gestiti dalla formazione professionale in lingua tedesca. Per l’iscrizione era richiesto di regola il compimento dei diciotto anni, in alcuni casi anche il diploma di scuola superiore.

La professionalizzazione del settore sociale è un evento recente, se confrontato, ad esempio, con il settore sanitario.

La formazione delle infermiere cominciò infatti a essere introdotta, in Germania e in Gran Bretagna, già sul finire dell’Ottocento. Di conseguenza anche nella mentalità diffusa, nell’opinione pubblica, è radicata la

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convinzione che quei mestieri necessitino di un’adeguata preparazione. Anche perché tutti abbiamo avuto a che fare con l’ospedale, come pazienti o come visitatori. Nel settore sociale invece non è così e si era soliti pensare che in quell’ambito fossero sufficienti buona volontà

e buon cuore. Peraltro in passato la risposta ai bisogni delle persone, come nel caso delle disabilità, era affidata interamente alle famiglie. In Sudtirolo vi era la realtà del maso con la famiglia estesa, che si faceva carico dei singoli e delle loro necessità.

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Non vi era una consapevolezza, diffusa e condivisa, delle competenze richieste alle professioni sociali. Anche oggi sono relativamente poche le persone che hanno chiaro quali siano, ad esempio, i compiti di un educatore professionale. Le professioni sanitarie e le profes-

sioni sociali sono tra loro prossime, poiché appartengono entrambe all’ambito delle professioni di cura, ma il loro riconoscimento istituzionale e culturale è assai differente.

Nel 1991 la Giunta provinciale ha istituito la Scuola per le professioni sociali in lingua tedesca, nell’edificio restaurato in via dei Cappuccini. Io, che ero stato fino ad allora responsabile della formazione professionale nel settore sociale, ne fui nominato direttore. Successivamente il nuovo istituto venne intitolato ad “Hannah Arendt”, dopo un ampio progetto di consultazione che coinvolse insegnanti e studenti.

Per me fu una chance unica, per la quale sono grato a tutti coloro che l’hanno resa possibile: l’opportunità cioè di costruire e plasmare, insieme a tanti colleghi e colleghe, qualcosa di nuovo, che prima non esisteva. Non si è trattato solo di realizzare un progetto, ma di dare forma e identità valoriale a una nuova realtà operativa.

Questo percorso professionale mi ha permesso di continuare a coniugare la mia formazione sociologica e la mia formazione psicologica.

Negli ultimi trent’anni vi è stata la ristrutturazione e ridefinizione delle varie figure professionali, che hanno assunto nuove denominazioni, nuovi profili di competenza e, dunque,

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nuovi percorsi formativi. Ad esempio abbiamo introdotto il corso triennale, post diploma, per educatore in convitto e centri giovanili. Inoltre abbiamo continuato a seguire la formazione in servizio per chi era già impiegato in servizi sociali e giovanili.

In un passaggio ulteriore la figura dell’educatore per i giovani ha lasciato il posto alla figura dell’educatore sociale, preparato ad affrontare differenti tipi di servizi e bisogni. Per ciascuna professione sociale abbiamo definito un curriculo articolato in tre ambiti di competenze professionali: comunicative, sociali e metodologiche. In tal modo la Scuola ha abbandonato l’impostazione centrata sulle materie e ha adottato una didattica per competenze, per cui i docenti procedono in modo collegiale e non individualistico. Ciò ha richiesto un’organizzazione coerente con tale specifica idea di scuola e di formazione.

Nel corso degli anni la Scuola “Hannah Arendt” è riuscita a stabilire un contatto molto stretto con i servizi socio-assistenziali e socio-pedagogici del territorio, anche solo per il fatto che con loro gestisce i tirocini degli studenti, che attualmente sono circa un migliaio all’anno, ciascuno con una durata da cinque a otto settimane e con un reale accompagnamento del singolo tirocinante.

Attenzione e cura nei confronti dei tirocinanti sono indice della cultura della qualità di una determinata istituzione, poiché segnalano come e quanto sono trattate bene le persone con cui si lavora, sono un termometro della dimensione relazionale. In tal modo abbiamo avuto una piena e reale conoscenza dei servizi, del loro funzionamento, delle loro esigenze formative. I servizi e la Scuola si rispecchiano l’una nell’altra: gli operatori testimoniano la scuola che li ha formati e i servizi riflettono e testano gli effetti della formazione fornita dalla Scuola. Oltre alle professioni socio-assistenziali vent’anni fa si è iniziato a formare anche Tagesmütter e assistenti per la prima infanzia. Anche in questo caso si trattava di profili professionali del tutto nuovi e dunque da elaborare.

Abbiamo dovuto impegnarci strenuamente e per molti anni affinché queste figure ottenessero un adeguato riconoscimento nell’inquadramento e quindi anche nella retribuzione. Nel sentire comune diffuso si riteneva infatti che per questi profili professionali non fosse richiesta una particolare preparazione, se non un po’ di sensibilità. Eppure a queste persone affidiamo i nostri bambini piccoli! Questo è per me uno dei nodi cruciali, per il quale mi sono impegnato

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e che ha ispirato lo svolgimento del mio ruolo: il riconoscimento del valore e dell’importanza delle professioni sociali nella società. Gli operatori svolgono un lavoro prezioso e il riconoscimento del valore della loro opera passa anche attraverso il fattore economico e contrattuale. Un principio su cui ho insistito con i diversi assessori con cui mi sono trovato a collaborare.

La progressiva realizzazione della Scuola per le professioni sociali per me ha sempre implicato l’impegno per l’attribuzione a tali professioni di grande valore, di grande dignità, del rispetto da parte della società e delle istituzioni.

Pure la collocazione della Scuola in un bell’edificio, architettonicamente molto curato, è stato un passaggio significativo, dato che anche lo spazio contribuisce a realizzare, valorizzare, potenziare l’azione educativa. Ha significato smentire la percezione prevalente, per la quale chi opera nel sociale dovrebbe “accontentarsi”, avere poche pretese, rinunciare a ciò che non è indispensabile.

Da qui il mio sforzo ostinato per riuscire a dare valore a queste professioni e a queste persone: se lavorano e stanno bene nello svolgere il loro mestiere, ne traggono beneficio le persone assistite. Alla “Hannah Arendt” abbiamo sem-

pre avvertito la responsabilità etica nei confronti delle persone assistite dagli operatori che noi formavamo. Abbiamotenuto presente che coloro che noi preparavamo e a cui riconoscevamo un titolo professionale si sarebbero poi prese cura di persone bisognose di aiuto. Ciò presuppone una scelta valoriale di fondo: il convincimento che le persone in qualche modo fragili meritino di essere assistite e trattate bene.

Ora che sono in pensione mi è rimasto, forte e radicato, l’interesse per il mondo che mi circonda, in particolare per le dinamiche sociali e politiche, per ciò che possiamo definire “bene comune”.

In questi anni mi ha preoccupato la tendenza liberista che si è affermata in Italia e in altri paesi occidentali, per cui si è cominciato a indebolire parzialmente il welfare-state per trasferirlo in mano ai privati.

Penso poi che il mondo del sociale, di cui anche l’Associazione “La Strada-Der Weg” è parte, debba sviluppare un altro tipo di mentalità, adottare un nuovo paradigma.

Non dobbiamo pensarci come persone di buona volontà, che spendono soldi dei cittadini, per cui tendiamo talvolta addirittura a “sentirci in colpa”; dobbiamo considerarci, invece, uno dei più importanti settori economici della società: diamo infatti lavoro

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a una grande moltitudine di persone e forniamo, a tutti, servizi preziosi e irrinunciabili, garantendo il tessuto connettivo che permette alla società di continuare a esistere. Infatti è venuta meno un’idea condivisa di bene comune, a favore di interpretazioni sempre più individualistiche di quel che sarebbe l’interesse generale. A fronte di questa frammentazione valoriale, i servizi e gli operatori del sociale garantiscono una rete di sostegno a favore di tutti, una sorta di puntello a un mondo al-

trimenti divenuto assai parcellizzato e individualistico.

Un buon sistema di welfare è il fondamento della casa comune, senza il quale una società democratica difficilmente può esistere.

Per questo il mondo del sociale deve essere orgoglioso di ciò che è e fa, anziché sentirsi “in colpa” per i costi che questo comporta.

Se non siamo noi stessi a essere consapevoli del nostro valore, perché mai dovrebbe riconoscercelo l’opinione pubblica?

Die Sozialberufe Luigi Loddi

Ich habe Soziologie und Psychologie studiert und bin Mitglied in der Kammer der Psychologen und Psychotherapeuten.

Ich habe immer beide Perspektiven verfolgt: die eine bezieht sich auf das einzelne Individuum, die andere auf uns, auf die soziale Gemeinschaft. Ich fand mich im Bereich der Ausbildung wieder, auch wenn das ursprünglich nicht meine Absicht war. Was mich anzog und motivierte, war die Möglichkeit, etwas Neues zu schaffen, etwas, das es noch nicht gab.

Ich hatte das Glück, mit Landesrat Saurer zusammenzuarbeiten, und 1984/85 begannen wir, die ersten beruflichen Ausbildungen für den sozialen Bereich zu organisieren. In jenen Jahren wurden die Begriffe AltenpflegerIn, BetreuerIn oder ErzieherIn für Menschen mit Behinderungen verwendet, um die verschiedenen Berufsbilder zu definieren.

Wir hatten kein eigenes Gebäude, sondern nutzten einige Klassenzimmer des alten Krankenhauses und Räume, die von anderen Schulen zur Verfügung gestellt wurden, die über die ganze Stadt Bozen verteilt waren. Nach und nach wurde die Zahl der Ausbildungsgänge erhöht und diversifiziert, um die verschiedenen Be-

rufe im Bereich der sozialen Dienste zu spezifizieren. Auch deshalb, weil 1983 das Landesgesetz zur Einrichtung von Diensten für Menschen mit Behinderungen verabschiedet worden war - es gab also neue Arbeitsbereiche und neue Ansätze, die eine Institutionalisierung und Professionalisierung der Interventionen im sozialen Bereich mit sich brachten.

In einer ersten Phase erfolgte die Einstellung von MitarbeiterInnen für die Betreuung von Menschen mit Behinderung. Eine besondere Vorbereitung oder Einarbeitung war für die MitarbeiterInnen damals nicht erforderlich gewesen. Bald darauf wurde aber die Notwendigkeit erkannt, auch Ausbildungen für das bereits im Dienst befindliche Personal anzubieten und durchzuführen.

Die Ausbildungslehrgänge wurden von der Berufsbildung in deutscher Sprache durchgeführt. Für die Einschreibung war in der Regel ein Alter von 18 Jahren und in einigen Fällen auch ein Maturaabschluss vorausgesetzt.

Die Professionalisierung des Sozialsektors ist ein junges Ereignis, wenn man sie zum Beispiel mit dem Gesundheitssektor vergleicht.

Die Ausbildung von KrankenpflegerInnen wurde gegen Ende des 19.

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Jahrhunderts in Deutschland und Großbritannien eingeführt. Folglich ist die Überzeugung, dass diese Berufe eine angemessene Ausbildung erfordern, auch in der weit verbreiteten Mentalität und öffentlichen Meinung verankert. Auch weil wir alle schon einmal mit Krankenhäusern zu tun hatten, als Patienten oder Besucher.

Im sozialen Bereich hingegen ist dies nicht der Fall, und die Menschen dachten früher, dass guter Wille und ein gutes Herz ausreichen.

In der Vergangenheit wurde jedoch die Betreuung der Menschen, z. B. im Falle von Behinderungen, ausschließlich den Familien überlassen. In Südtirol gab es die Realität des Bauernhofs mit der Großfamilie, wo man sich um den Einzelnen und seine Bedürfnisse kümmerte.

Es gab kein allgemeines und gemeinsames Bewusstsein für die in sozialen Berufen erforderlichen beruflichen Kompetenzen. Auch heute noch gibt es relativ wenige Personen, die eine klare Vorstellung davon haben, was die Aufgaben eines/r SozialpädagogIn sind.

Gesundheitsberufe und soziale Berufe stehen sich nahe, da sie beide zu den Pflegeberufen gehören, aber ihre institutionelle und kulturelle Anerkennung ist sehr unterschiedlich. Im Jahr 1991 richtete die Landes-

verwaltung in dem restaurierten Gebäude in der Kapuzinergasse die Landesfachschule für Sozialberufe in deutscher Sprache ein. Ich, der bis dahin für die Berufsbildung im so-zialen Bereich zuständig war, wurde zum Direktor ernannt. Später wurde die neue Schule nach einem umfangreichen Projekt, an dem Lehrende und Studierende beteiligt waren, nach “Hannah Arendt” benannt. Für mich war es eine einmalige Chance, für die ich all jenen dankbar bin, die sie ermöglicht haben: die Möglichkeit, gemeinsam mit vielen Kolleginnen und Kollegen etwas Neues aufzubauen und zu gestalten, welches es vorher nicht gab. Es ging nicht nur um die Umsetzung eines Projekts, sondern darum, einer neuen fachlichen Realität Gestalt und Wertidentität zu verleihen. Dieser berufliche Weg hat es mir ermöglicht, meine soziologische und psychologische Ausbildung weiter zu kombinieren.

In den letzten dreißig Jahren kam es zu einer Umstrukturierung und Neudefinition der verschiedenen Berufsbilder, die neue Namen, neue Kompetenzprofile und damit auch neue Ausbildungswege erhalten haben. So haben wir beispielsweise eine dreijährige Ausbildung nach der Matura für ErzieherInnen im Heim und Jugendarbeit eingeführt. Darüber hin-

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aus haben wir die berufsbegleitenden Ausbildungslehrgänge für die bereits im Sozialbereich und der Jugendarbeit tätigen Personen fortgesetzt. In einem weiteren Schritt wich die Figur des/r ErzieherIn für die Jugendarbeit der Figur des/r SozialpädagogIn, der/die darauf vorbereitet ist, mit verschiedenen Arten von Dienstleistungen und Bedürfnissen umzugehen.

Für jeden sozialen Beruf haben wir einen Lehrplan definiert, der auf drei Bereichen der beruflichen Kompetenz basiert: kommunikative, soziale und methodische Kompetenz.

Auf diese Weise hat die Schule den Ansatz nach Fächern aufgegeben und ist zu einem kompetenzorientierten Unterricht übergegangen, bei dem die LehrerInnen kollegial und nicht individualistisch vorgehen. Dies erforderte eine Organisation, die einer so spezifischen Vorstellung von Schule und Ausbildung entspricht.

Im Laufe der Jahre ist es der Hannah-Arendt-Schule gelungen, einen sehr

engen Kontakt zu den im Lande tätigen sozialpflegerischen und sozialpädagogischen Diensten aufzubauen, schon allein deshalb, weil sie die Praktika der SchülerInnen bei diesen

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Diensten - derzeit etwa tausend pro Jahr, die jeweils fünf bis acht Wochen dauern - und die tatsächliche Begleitung der einzelnen PraktikantInnen verwaltet.

Die Aufmerksamkeit und Begleitung der Auszubildenden sind ein Indikator für die Qualitätskultur einer bestimmten Einrichtung, da sie zeigen, wie gut die Menschen, mit denen man arbeitet, behandelt werden; sie sind ein Indikator für die Beziehungsdimension. Wir hatten also eine umfassende und echte Kenntnis der Dienste, ihrer Arbeitsweise und ihres Ausbildungsbedarfs. Die Institutionen und die Schule spiegeln sich gegenseitig wider: Die AbsolventInnen geben Zeugnis über die Schule, die sie ausgebildet hat, und die Dienste spiegeln und testen die Auswirkungen der von der Schule vermittelten Ausbildung.

Neben den sozialpflegerischen Berufen wurden vor zwanzig Jahren auch Tagesmütter und KleinkinderbetreuerInnen ausgebildet. Auch hier handelte es sich um völlig neue Berufsprofile, die erst entwickelt werden mussten.

Wir mussten viele Jahre lang hart arbeiten, um sicherzustellen, dass diese Fachleute in Bezug auf die Einstufung und damit auch die Vergütung angemessen anerkannt werden. Da man allgemein der Meinung

war, dass für diese Tätigkeiten keine besondere Ausbildung erforderlich sei, außer ein wenig Feingefühl. Und doch vertrauen wir diesen Menschen unsere kleinen Kinder an!

Für mich ist dies eines der zentralen Themen, für die ich mich eingesetzt habe und die mich bei der Ausübung meiner Arbeit inspiriert haben: die Anerkennung des Wertes und der Bedeutung der sozialen Berufe in der Gesellschaft. Fachkräfte leisten wertvolle Arbeit, und die Anerkennung des Wertes ihrer Arbeit beinhaltet auch den wirtschaftlichen und vertraglichen Faktor. Auf diesem Grundsatz habe ich bei den verschiedenen LandesrätInnen, mit denen ich zusammengearbeitet habe, bestanden.

Für mich war die schrittweise Gründung der Landesfachschule für Sozialberufe immer mit der Verpflichtung verbunden, diesen Berufen einen großen Wert, eine große Würde und den Respekt der Gesellschaft und der Institutionen zu verleihen.

Die Unterbringung der Schule in einem schönen, architektonisch sehr gepflegten Gebäude war ebenfalls ein wichtiger Schritt, da auch der Raum als dritter Erziehungsfaktor dazu beiträgt, pädagogische Maßnahmen zu verwirklichen, zu verbessern und zu stärken. Es bedeutete, die weit verbreitete Auffassung zu widerlegen, dass diejenigen, die im sozialen Be-

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reich arbeiten, “genügsam” sein sollten, wenig Ansprüche haben und auf das verzichten sollten, was nicht unverzichtbar ist.

Daher mein beharrliches Bemühen, diesen Berufen und Menschen einen Wert zu geben: Wenn sie arbeiten und sich in ihrem Beruf wohl fühlen, profitieren die Menschen, die sie pflegen, betreuen und begleiten.

Bei der „Hannah Arendt“ haben wir immer eine ethische Verantwortung gegenüber den Menschen empfunden, die von den von uns ausgebildeten AbsolventInnen betreut werden. Wir haben immer daran gedacht, dass diejenigen, die wir ausgebildet haben und denen wir eine Berufs-bezeichnung verliehen haben, dann Menschen betreuen und begleiten, die Hilfe brauchen. Dies setzt eine grundlegende Werteentscheidung voraus: die Überzeugung, dass Menschen, die in irgendeiner Weise Hilfe benötigen, es verdienen, gepflegt und gut behandelt zu werden.

Auch jetzt im Ruhestand habe ich ein starkes Interesse an der Welt um mich herum, insbesondere an der sozialen und politischen Dynamik, an dem, was wir das “Gemeinwohl” nennen können.

In den letzten Jahren war ich besorgt über die neoliberale Tendenz, die sich in Italien und anderen westlichen Ländern verbreitet hat und die dazu

geführt hat, dass der Sozialstaat teilweise geschwächt und in private Hände überführt wurde.

Ich denke auch, dass die soziale Welt, zu der auch der Verein “La Strada-Der Weg” gehört, eine andere Mentalität entwickeln muss, ein neues Paradigma annehmen muss.

Wir sollten uns nicht nur als Menschen guten Willens betrachten, die das Geld der BürgerInnen ausgeben - wofür wir manchmal sogar zu “Schuldgefühlen“ neigen - sondern uns als einen der wichtigsten Wirtschaftssektoren unserer Gesellschaft sehen, da wir viele Personen beschäftigen und somit wertvolle und unverzichtbare Dienstleistungen für alle erbringen.

Wir gewährleisten unseren Anteil an der Zusammenarbeit der verschiedenen Dienste, sodass der Fortbestand unserer Gesellschaft ermöglicht wird.

In der Tat ist die gemeinsame Idee des Gemeinwohls zugunsten einer zunehmend individualistischen Interpretation des allgemeinen Interesses verschwunden. Angesichts dieser Zersplitterung der Werte garantie-ren die Sozialdienste und die Akteure ein Unterstützungsnetz für alle, eine Art Stütze für eine Welt, die ansonsten sehr zersplittert und indivi-dualistisch geworden ist.

Ohne ein gutes Sozialsystem kann eine demokratische Gesellschaft nur

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schwer existieren.

Deshalb muss die soziale Welt stolz auf das sein, was sie ist und was sie tut, und darf sich nicht wegen der damit verbundenen Kosten “schul-

dig” fühlen.

Wenn wir selbst uns unseres Wertes nicht bewusst sind, warum sollte die Öffentlichkeit ihn erkennen?

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Scuola

Fin dalle scuole elementari credo di essere stato affascinato dagli insegnanti, prima dalla maestra di prima e seconda, poi dal maestro dei tre anni successivi.

Già da bambino sognavo di diventare maestro, era quel che desideravo fare da grande.

Quando ho intrapreso il percorso per diventare maestro ero dunque motivato e davo risposta a una mia aspirazione.

All’Istituto magistrale ho scoperto la mia predisposizione per la matematica, perché in quelle classi numerose (eravamo addirittura trentaquattro) i compagni mi dicevano che ero bravissimo e sapevo risolvere i problemi velocemente. Mi sono appassionato a questa materia, perché mi dava realmente soddisfazione venire a capo dei vari quesiti e dei compiti assegnati.

Da allora mi ha sempre affascinato partire da un insieme di ipotesi e riuscire con un’argomentazione rigorosa a dimostrare una tesi, numerica, geometrica, logica, valorizzando anche fantasia, creatività, intuizione. È il piacere intellettuale della risoluzione di un problema matematico. Già allora ho sperimentato che avere soddisfazione nel fare le cose è

un’ottima motivazione a impegnarsi. Dopo il diploma magistrale ho frequentato il quinto anno, che era serale e al contempo svolgevo delle supplenze come maestro di italiano nelle scuole elementari in lingua tedesca. Per lo più ho fatto il jolly per le scuole della val Sarentino. Superato il quinto anno ho potuto iscrivermi all’università, alla facoltà di matematica di Trento. Lì sono stato ospitato dell’Istituto salesiano in cambio di alcune ore come assistente dei ragazzi. Quell’esperienza di studente e di educatore è stata molto bella. Nel 1980 mi sono laureato. Nel frattempo avevo superato un concorso per l’insegnamento nelle scuole elementari e avevo ottenuto un incarico di ruolo, poco prima della tesi. Ho iniziato a Bronzolo, per poi chiedere il trasferimento a Merano, dove ero andato ad abitare con mia moglie, dopo il nostro matrimonio nel 1981. L’insegnamento ai bambini, come maestro unico, era bellissimo, mi è piaciuto proprio tanto. Inevitabil-

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Paolo Lorenzi

mente davo ampio spazio alla matematica, suscitando qualche preoccupazione tra le mamme.

Di lì a qualche anno ho superato i concorsi per l’abilitazione all’insegnamento nelle scuole superiori di primo e di secondo grado. Nel 1984 ho optato per l’insegnamento alle superiori, per mettere a frutto la mia preparazione disciplinare e anche per confrontarmi con ragazzi più grandi. Ho insegnato agli istituti professionali di Merano e Bolzano. Nel 1994 mi hanno proposto un “comando” presso l’Intendenza scolastica italiana, per occuparmi dell’aggiornamento dei docenti dell’area matematico-scientifica.

Ho accettato e sono rimasto in Intendenza fino al 2013. Dopo aver superato il concorso per dirigenti e nel 1999 sono stato nominato ispettore per il settore matematico-scientifico-tecnologico.

Anche questa esperienza professionale è stata molto positiva e coinvolgente. Non tanto per gli aspetti sanzionatori che competono al ruolo di ispettore, quanto per la possibilità di promuovere la dimensione progettuale, elaborando e proponendo iniziative, interventi, attività innovative all’interno delle scuole.

Ho potuto misurarmi con la progettazione ad ampio raggio, non solo a livello locale, ma nel confronto con

colleghi di altre provincie e regioni e pure a livello nazionale attraverso la costante collaborazione con funzionari ed esperti del ministero. Ho avuto modo di prendere parte al processo che ha portato alla stesura delle indicazioni nazionali per le scuole superiori e ho coordinato la stesura di quelle provinciali. Sono stato fortunato, poiché ho incontrato molte persone competenti e collaborative, dalle quali ho imparato veramente tanto.

Ho sempre avuto il pallino dell’aggiornamento e della formazione, ossia la convinzione che questi siano strumenti indispensabili a docenti e dirigenti per riflettere collettivamente

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sulle pratiche quotidiane e introdurre nuove prassi, nuovi stili, nuovi modelli e pure nuovi schemi normativi. L’intento che mi ha guidato è rivedere l’insegnamento della matematica e delle scienze, affiancando l’impostazione prevalentemente teorica con un apprendimento laboratoriale, per rendere comprensibile, “visibile”, il perché di formalismi e teoremi. Si tratta non solo di utilizzare il cosiddetto “problem solving”, ossia procedere misurandosi con problemi reali e la loro risoluzione, ma anche di introdurre in questi ambiti la dimensione esperienziale: attività concrete, manipolazione, costruzione, movimento fisico per costruire le proprie mappe

concettuali astratte. Sono convinto che questo orientamento sia stato rafforzato dalla mia esperienza di insegnamento con i bambini. Mi sono messo alla prova in tutti e tre gli ordini di scuola e ho portato con me quel bagaglio, che, tra il resto, mi ha permesso di dialogare, in modo credibile, con docenti e dirigenti.

Mi sono appoggiato e ho avviato collaborazioni con diversi istituti universitari, tra cui in particolare quello di Milano e di Trento, e i musei della scienza di Napoli e Milano, oltre al nostro di Bolzano. Anche perché matematica e scienze erano e sono, ancor oggi, avvolte da un alone di diffidenza, se non di superficiale rifiuto. In realtà tutti dovrebbero essere messi in condizione di utilizzare questi linguaggi e questi strumenti per cimentarsi con la realtà e meglio conoscerla.

Mi sono trovato a vivere una stagione caratterizzata da spinte e tentativi, assai faticosi, per riformare la scuola italiana, che, con tutte le conflittualità del caso, hanno comunque generato mutamenti e innovazioni.

Sono stato fortunato perché ho operato all’interno delle istituzioni scolastiche in un periodo in cui era possibile incidere sulla realtà, fornire un orientamento e un profilo al sistema dell’istruzione.

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Per me è stata un’esperienza estremamente positiva. Ho avuto modo di seguire, diffondere, attuare i miei convincimenti teorici, ovviamente condividendoli e verificandoli con esperti accademici e ministeriali. Tali contatti, con figure di grande esperienza e solida preparazione, sono stati una formazione continua, una vera esperienza di vita. In quella fase qui in Alto Adige eravamo più attenti a realtà ed esperienze extra provinciali.

La visione così maturata ha ispirato anche i miei interventi come ispettore per affrontare situazioni e casi problematici all’interno degli istituti scolastici, nel diretto confronto con dirigenti e docenti.

Ma la stagione delle riforme non ha prodotto gli esiti sperati e la scuola di oggi appare ancora piuttosto vecchia, i cambiamenti sono spesso solo terminologici e riguardano aspetti circoscritti, come ad esempio le modalità di svolgimento degli esami.

Nello stesso tempo il mondo dell’istruzione è subissato di mille richieste e sollecitazioni, ma è privo di una visione d’insieme coerente, sulla cui base compiere delle scelte e definire criteri di orientamento. E così si inseguono le emergenze, si tappano i buchi, si accumulano sempre ulteriori interventi, si introducono nuove materie.

Si perpetua il dibattito tra chi richiama la scuola al dovere di fornire un’istruzione adeguata e chi prospetta un modello di scuola inclusiva. Inevitabilmente occorre continuamente perseguire entrambe queste finalità, cercando ogni volta l’equilibrio e la sintesi.

Anche nell’esperienza di dirigente mi sono imbattuto in docenti e genitori che invocavano severità, fermezza, selezione come strumenti risolutivi. Per me non è così.

Sono convinto che in primo luogo sia necessario dare senso a quel si fa, alle procedure che si adottano, evitando la ripetizione meccanica di ritualità scolastiche, svuotate di significato e di valenza educativa.

Sto pensando al momento saliente della valutazione, che dovrebbe ritrovare ampiezza di prospettiva e sottrarsi all’eccessiva burocratizzazione, alla rincorsa di un’impossibile oggettività, all’invadenza di concezioni eccessivamente prestazionali. L’integrazione di tutti gli alunni è utile, è necessaria, nonostante problemi e difficoltà che comporta. È vero, la scuola ancora non riesce come dovrebbe a incidere sulle disuguaglianze per attenuarle, eppure in molti casi ho visto come la scuola sia riuscita a incidere sulla vita delle persone, offrendo loro nuove reali opportunità e prospettive.

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Certo, tali risultati sono resi possibili da insegnanti straordinari, appassionati e competenti. Ne ho conosciuti molti, da ispettore prima e da dirigente poi: capacissimi e al contempo molto semplici e disponibili. Nel corso degli anni è diminuita la fiducia delle famiglie nei confronti della scuola, per un verso in nome di un’auspicabile maggiore interazione e collaborazione, dall’altra per un calo di interesse. Parallelamente le richieste presentate al sistema scolastico sono cresciute, invocando di volta in volta nuovi interventi e ulteriori responsabilità. Si diffonde il fenomeno delle baby gang: introduciamo un ulteriore insegnamento specifico! Si tratta di un meccanismo perverso, a cui sono contrario.

La scuola non è l’unica agenzia educativa e ormai non è neppure prioritaria nella quotidianità di ragazze e ragazzi, che viene trascorsa in famiglia, sulle strade, nei centri commerciali.

La scuola non può avere la responsabilità di estirpare queste condotte. Suo compito principale è invece intercettare i ragazzi e interessarli, affinché riconoscano all’esperienza scolastica una significatività all’interno delle loro vite. Solo così è possibile svolgere anche la funzione irrinunciabile di educare e istruire ciascun ragazzo, non solo custodirlo e fargli

occupare il tempo. Altrimenti si è esposti al rischio di creare, di fatto, istituti di serie A e istituti di serie B, gli uni tacitamente selettivi ed esclusivi a discapito degli altri.

Mi pare di cogliere, negli ultimi anni, un calo di tensione nella dimensione della progettualità, sostituita dalla rincorsa alle emergenze, da rimedi e interventi tampone. Mi pare siano carenti le indicazioni di indirizzo, la cornice generale, ossia un’idea di scuola: quale scuola vogliamo per la nostra provincia? Con quali tratti essenziali intendiamo caratterizzarla e dunque orientarla? Chiediamo agli insegnanti, ogni anno, una lunga sequenza di documenti programmatori, spesso inutili, ma siamo privi di una reale prospettiva complessiva, non generica ma sufficientemente articolata e strutturata. Peraltro la realtà locale è numericamente assai ridotta e parrebbe più facile elaborare un programma coerente.

Ho conosciuto l’Associazione “La Strada-Der Weg”, quando ero dirigente. Ho lavorato fianco a fianco con alcuni suoi operatori e sono rimasto colpito dalla loro professionalità e capacità di mediazione. Insieme avevamo dato vita al progetto denominato “Scuola di Tobia”, un’esperienza a mio avviso innovativa e positiva.

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Nel mio istituto avevamo provato a creare spazi di apprendimento specifici per alunni con i quali i metodi didattici tradizionali non funzionavano. Eravamo partiti dal riconoscimento esplicito delle differenze, contrastando il pregiudizio dell’inclusione a ogni costo, dentro però un contesto piatto e uniforme, che di fatto è adatto ad alcuni ma non ad altri. Il realismo mi aveva portato a concludere che piuttosto che perderli, era preferibile individuare per alcuni ragazzi dei percorsi ad hoc: non un atto di separazione, ma la costruzione di un processo di integrazione specifico e mirato. L’obiettivo non era toglierli dalle classi, far fare loro di meno, ma offrire esperienze di apprendimento, di tipo laboratoriale, alla loro portata e realmente coinvolgenti. Voleva dire individualizzare gli interventi, farsi carico delle loro storie particolari e tentare di aprire un varco nella corazza che si erano costruiti, spesso a scopo difensivo.

Si è trattato di un progetto sperimentale ampio, organico, creativo, un tentativo di intraprendere vie nuove, anche concettualmente motivate. Certo, iniziative di questo tipo richiedono risorse, finanziarie e, soprattutto, professionali.

Anche alla luce di questi trascorsi penso che l’Associazione potrebbe investire sulla formazione e specializ-

zazione degli educatori, offrendo dei corsi post laurea. Mi riferisco, in particolare, a educatori che operano con e all’interno delle scuole.

Si tratterebbe di metterli meglio in condizione di rapportarsi con l’istituzione scolastica e al contempo, attraverso di loro, introdurre nelle scuole fattori e moltiplicatori di innovazione, di punti di vista originali e creativi.

Sono profondamente convinto che la presenza strutturata e stabile di educatori nella scuola, a fianco degli insegnanti, sarebbe auspicabile, molto feconda e generativa.

Il sistema dell’istruzione permane in una condizione di ristagno per l’incapacità di avviare riforme istituzionali e pare che tutto rimanga fermo e si ripeta; in realtà la scuola muta e opera all’interno di un mondo che inevitabilmente si trasforma e prosegue, anche se in forme poco evidenti, la sua funzione di promotrice e anticipatrice di innovazione. È dunque fondamentale e vitale promuovere nuove esperienze di adattamento al presente e anche di anticipazione del futuro, perché la scuola dovrebbe saper vedere prima, “pre-vedere” bisogni ed esigenze.

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Schule

Paolo Lorenzi

Der Lehrerberuf faszinierte mich seit dem Anfang meiner Schulzeit. In der ersten und zweiten Klasse der Grundschule hatte ich eine Lehrerin die mich sehr begeisterte. In den darauffolgenden drei Jahren war es eine andere Lehrperson, die mich faszinierte.

Als Kind träumte ich schon davon, später Lehrer zu werden. Das war es, was ich machen wollte wenn ich einmal groß bin!

Als ich mich dann später tatsächlich für den Lehrerberuf entschieden habe, war ich sehr motiviert und erfüllte mir quasi einen Herzenswunsch.

Bereits an der pädagogischen Hochschule entdeckte ich meine Begabung für die Mathematik. In den großen Klassen (wir waren bis zu vierunddreißig Schüler) sagten mir meine Klassenkameraden immer wieder, dass ich sehr gut in Mathematik bin und Probleme schnell lösen könne. Ich begeisterte mich eben für dieses Fach, denn es bereitete mir große Freude die verschiedensten Aufgaben zu lösen . Seither hat es mich fasziniert, von einer Reihe von Hypothesen ausgehend, eine numerische, geometrische oder logische These mit Hilfe einer präzisen Argumentation zu be-

weisen und dabei gleichzeitig meine Phantasie, Kreativität und Intuition zu nutzen.

Ein mathematisches Problem zu lösen ist für mich ein intellektuelles Vergnügen.

Schon damals habe ich die Erfahrung gemacht, dass Genugtuung und Freude am Tun ausgezeichnete Motivatoren sind um gute Arbeit zu leisten.

Nach meinem Abschluss des Lehramtsstudiums übernahm ich Supplenzstunden und unterrichtete Italienisch an deutschsprachigen Grundschulen. Nebenbei absolvierte ich gleichzeitig das fünfte Studienjahr im Abendstudium. Ich unterrichtete vorwiegend als „Joker“ oder Aushilfe in den Schulen im Sarntal.

Als ich mein fünftes Studienjahr beendet hatte, schrieb ich mich an der Fakultät für Mathematik in Trient ein und wohnte dort bei den Salesianern. Bei ihnen durfte ich stundenweise mit Kindern und Jugendlichen arbeiten und sammelte somit wertvolle Erfahrungen als Erzieher. Ich denke sehr gerne an diese Zeit zurück!

Im Jahr 1980 hatte ich meinen Studienabschluss in der Tasche. In der Zwischenzeit hatte ich ein Ausschreibungsverfahren für einen Lehramtsposten an verschiedenen Grundschulen gewonnen und hatte so, kurz vor meiner Diplomarbeit, eine unbefriste-

te Arbeitsstelle in Branzoll. Nach meiner Hochzeit im Jahr 1981 bat ich um eine Versetzung nach Meran, um dort gemeinsam mit meiner Frau zu leben. Als einziger Lehrer der Grundschule die Kinder unterrichten zu dürfen, habe ich sehr genossen. Natürlich hatte in meinem Unterricht das Fach Mathematik einen besonderen Platz, was einigen Eltern wohl ein bisschen Sorge bereitete. Einige Jahre später bekam ich die staatliche Zulassung für den Unterricht in den Primar- und Sekundarschulen und entschied mich 1984 für den Unterricht in der Sekundarstufe, auch um dort meine Fachkenntnisse zu nutzen und mit älteren Kindern arbeiten zu können. Ich unterrichtete ab dann an den Berufsschulen in Meran und Bozen.

1994 wurde mir ein Posten beim italienischen Schulamt angeboten, um mich um die Weiterbildung der Lehrer im mathematisch-naturwissenschaftlichen Bereich zu kümmern.

Gerne akzeptierte ich das Angebot und arbeitete fortan bis 2013 beim Schulamt.

1999 gewann ich das Berufswahlverfahren für Führungskräfte und wurde zum Schulinspektor des mathematisch-naturwissenschaftlich-technischen Bereichs ernannt. Auch diese berufliche Erfahrung war sehr positiv und lehrreich. Weniger

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wegen der Sanktionsaspekte, die Teil der Rolle des Inspektors sind, sondern wegen der Möglichkeit, die Projektdimension zu fördern und Initiativen, Interventionen und innovative Aktivitäten in den Schulen entwickeln und vorschlagen zu können.

Ich konnte eine weitreichende Planung einführen, welche nicht nur auf lokaler Ebene, sondern auch - dank der ständigen Zusammenarbeit mit Beamten und Experten des Ministeriums -, auf die nationale Ebene ausstrahlte. Ich durfte an der Ausarbeitung der nationalen Leitlinien für Gymnasien mitwirken und koordinierte die Ausarbeitung der Leitlinien für die Provinzen. Das Glück, viele kompetente und hilfsbereite Menschen zu treffen von denen ich viel lernen konnte, habe ich sehr zu schätzen gewusst. Schon immer habe ich mich leidenschaftlich für Fort- und Weiterbildung eingesetzt, ich habe die Wichtigkeit dieser unverzichtbaren Unterstützung für Lehrer und Manager früh erkannt.

So kann immer gemeinsam über die tägliche Praxis, über neue Praktiken, Stile, Modelle und sogar über neue Regelungen reflektiert werden. Mein Ziel war es, den mathematisch-naturwissenschaftlichen Unterricht zu überarbeiten, um den vorwiegend theoretische Ansatz mit dem

praktischen Lernen im Labor zu verbinden. So sollte der Grund für Formalismen und Lehrsätze verständlich und “sichtbar” gemacht werden.

Es geht dabei nicht nur um das sogenannte „problem solving“, also das Finden einer Lösung, sondern darum, in diesen prekären, herausfordernden Bereichen konkrete praktische Erfahrungen mit Physikalischer Bewegung, Konstruktion und Manipulation zu ermöglichen um dann abstrakte Konzeptkarten erstellen zu können.

Bestimmt ist diese, meine Denkhaltung aus der Erfahrung im Unterricht mit den Kindern hervorgegangen und verstärkt worden.

Zahlreiche Erfahrungen aus drei Schulstufen ermöglichen es mir, einen authentisch überzeugenden Dialog mit Lehrern und Schulleitern führen zu können.

Ich begann mit verschiedenen Universitätsinstituten und verschiedenen wissenschaftlichen Museen zusammenzuarbeiten, darunter die Universitäten von Mailand und Trient und die Museen in Neapel, Mailand und hier in Bozen. Hauptgrund dafür war, dass die Fächer Mathematik und Naturwissenschaften seit jeher von einer Aura des Misstrauens, ja wenn nicht gar von Ablehnung umgeben sind. Dabei sollte jeder in der Lage sein, Formulierungen und Mittel

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nutzen zu können, um sich mit der Realität auseinander zu setzen und sie dadurch besser kennenlernen zu können.

Ich habe eine Zeit miterlebt, die durch harte Arbeit und zahlreiche Reformversuche an den italienischen Schulen gekennzeichnet war. Diese Anstrengungen haben aber zu wich-

tigen Veränderungen und Innovationen geführt, trotz aller damit verbundenen Konflikte.

Eine sehr positive Erfahrung machte ich durch den Glücksfall, in meiner Karriere während den entscheidenden Momenten in den Bildungseinrichtungen arbeiten zu können, als es dort die Möglichkeit gab, die da-

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maligen Situationen zu verändern und dem Bildungssystem damit neue Richtungen zu geben.

So konnte ich meine theoretischen Ideen weiterentwickeln und verbreiten und sie zusammen mit akademischen Spezialisten überprüfen und umsetzen. Die Zusammenarbeit mit den kompetenten und gut ausge-

bildeten Experten war ein ständiges Lernen, also eine echte Lebenserfahrung.

Diese Erfahrung hat mich besonders dazu inspiriert, mich als Inspektor mit Managern und Lehrern mit deren problematischen Situationen und Fällen an ihren Schulen zu befassen.

Die Reform hat allerdings nicht die gewünschten Ergebnisse gebracht, denn das Schulsystem scheint immer noch auf demselben, alten Punkt stehen geblieben zu sein. Die Änderungen sind meist nur terminologisch vorgenommen worden und betreffen nur begrenzte Bereiche, wie zum Beispiel bei der Art und Weise wie Prüfungen durchgeführt werden.

Das Bildungswesen wird mit tausend Anfragen und Forderungen überschwemmt, aber es fehlt die kohärente Gesamtvision, auf deren Grundlage Entscheidungen getroffen und Orientierungskriterien festgelegt werden können.

Und so werden Dringlichkeiten verfolgt, Löcher gestopft, immer mehr Interventionen angehäuft und neue Themen eingeführt.

Die Debatte zwischen denjenigen, die von den Schulen eine angemessene Bildung fordern und jenen, die ein Modell für eine integrative Schule vorschlagen, wird ständig weitergeführt. Es ist nicht möglich, dass beide Ziele kontinuierlich verfolgt werden

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können. Dabei muss jedes Mal ein Gleichgewicht und eine Synthese angestrebt werden. Selbst in meiner Erfahrung als Schulleiter bin ich Lehrern und Eltern begegnet, die Strenge, Härte und Selektion als Lösung anpriesen. Für mich waren diese Maßnahmen keine Lösung.

Ich bin davon überzeugt, dass wir in erster Linie unserem Tun und unseren Methoden einen Sinn geben müssen, um die übliche Wiederholung von Schulabläufen die keinen Sinn und keinen pädagogischen Wert haben, zu vermeiden.

Ich denke an das Stichwort “Bewertung”, welche in einer breiteren Perspektive und frei von übermäßiger Bürokratisierung, vom Streben nach einer unmöglichen Objektivität und von der Aufdringlichkeit überzogener Konzepte erfolgen sollte.

Die Integration aller Schüler ist trotz der Probleme und Schwierigkeiten, die sie mit sich bringt, sinnvoll und notwendig.

Es stimmt, dass die Schule immer noch nicht in ausreichendem Maße auf die vorhandenen Ungleichheiten eingeht, so wie sie es sollte. Jedoch habe ich in vielen Fällen gesehen, wie die Schule das Leben der jungen Menschen positiv beeinflusst und ihnen so neue Möglichkeiten und Perspektiven bietet.

Solche Leistungen werden meist durch leidenschaftliche und kompetente Lehrer ermöglicht. Ich habe viele von ihnen kennengelernt, erst als Inspektor und dann als Schulleiter. Sie waren sehr kompetent, gleichzeitig aber auch gelassen und stets disponibel für alle.

Im Laufe der Jahre hat das Vertrauen der Familien in die Schule abgenommen. Zum einen wegen gewünschter stärkerer Interaktion und Kooperation, zum anderen einfach aus mangelndem Interesse. Gleichzeitig sind die Anforderungen an das Schulsystem gestiegen und erfordern mehr Maßnahmen und mehr Verantwortung.

Auch das Phänomen der sogenannten „Baby Gangs“ breitet sich aus. Wir müssen auch dafür eine zusätzlich spezifische Maßnahme einführen! Hier handelt es sich um ein absurdes Geschehen, welches ich nicht akzeptieren kann.

Die Schule ist nicht die einzige Bildungseinrichtung die wir haben. Inzwischen hat sie im täglichen Alltag der Jugendlichen nicht einmal mehr Priorität, denn die Jugend verbringt ihre Zeit lieber zu Hause, mit den Freunden und in den Einkaufszentren.

Es ist nicht die Verantwortung der Schulen, dieses Verhalten zu ändern. Vielmehr besteht die Aufgabe

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der Schulen darin, junge Menschen zu motivieren und ihr Interesse zu wecken, um somit die Wichtigkeit der schulischen Erfahrung in ihrem Leben erkennen und verstehen zu können.

Denn nur so ist es möglich, die wichtige erzieherische Aufgabe zu erfüllen, jedes Kind einzeln zu formen und es nicht nur zu kontrollieren und zu beschäftigen.

Es könnte sonst passieren, dass sich Bildungseinrichtungen in verschiedene Leistungs-Klassen unterteilen, von denen manche unauffällig selektiv und exklusiv werden, zum Nachteil der anderen Bildungseinrichtungen.

Ich habe den Eindruck, dass der Wille an Veränderung in den letzten Jahren an Schwung verloren hat und dafür ein ständiges Hin und Her zwischen Notfällen, Notlösungen und anderen Maßnahmen festzustellen ist. Ich habe auch den Eindruck, dass es keine klare Orientierung gibt, keinen allgemeinen Ansatz und keine konkrete Vorstellung davon, welche Art von Schule wir für unsere Provinz wollen. Was sind die wesentlichen Faktoren, mit denen wir sie charakterisieren und umlenken wollen? Jahr für Jahr verlangen wir von den Lehrern eine lange Liste von Planungsunterlagen, die oftmals wirklich unnötig sind. Uns fehlt eine deutlich

strukturiertere Gesamtperspektive. Für die Situation in der kleineren Region Südtirol sollte es eigentlich einfacher sein, ein einheitliches Programm zu erstellen.

Ich traf auf den Verein “La Strada-Der Weg”, als ich Schulleiter war. Seite an Seite durfte ich mit einigen Vereinsmitarbeitern zusammenarbeiten und war von ihrer Professionalität und ihren Mediationsfähigkeiten beeindruckt. Gemeinsam hatten wir das Projekt “Tobias’ Schule” ins Leben gerufen, eine Erfahrung, die ich als sehr innovativ und positiv bezeichnen würde.

In meinem Institut hatten wir versucht, spezielle Lernräume für Schüler zu schaffen, welche mit den traditionellen Lehrmethoden nicht zurechtkamen.

Wir haben damit begonnen die einzelnen Fähigkeiten der Jugendlichen zu berücksichtigen. Dadurch sind wir der Voreingenommenheit, dass eine Eingliederung in einem simplen und einheitlichen Kontext geschehen muss, um jeden Preis entgegengetreten. Viele Jugendliche kommen in einem solchem Ambiente gut zurecht, andere eben nicht.

Die Realität hat mich zu dem Schluss gebracht, dass es besser ist, für einige Kinder ad hoc, Wege zu finden, als die Jugendlichen zu verlieren. Es soll keinen Akt der

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Separierung sein, sondern ein spezifischer und gezielter Integrationsprozess. Das Ziel war es nicht, sie aus dem Unterricht zu entfernen oder sie weniger lernen zu lassen, sondern ihnen in Form von Workshops, welche für sie machbar sind, entgegenzukommen.

Dies bedeutete, individuelle Arbeit zu leisten, indem man auf die besonderen Geschichten der Jugendlichen einging und dabei versuchte, den Panzer zu durchbrechen, den sie - oft zu ihrem eigenen Schutz - aufgebaut hatten. Es war ein weitreichendes, kreatives, experimentelles Projekt. Es war ein Versuch, sich auf neue Wege zu begeben. Natürlich erfordern derartige Initiativen finanzielle und vor allem professionelle Unterstützung.

Im Hinblick auf diese Erfahrungen bin ich der Meinung, dass der Verein La Strada in die Ausbildung und Spezialisierung von Erzieherinnen und Erziehern investieren und auch spezielle Weiterbildungskurse anbieten sollte. Ich beziehe mich dabei insbesondere auf Pädagogen, die mit und in den Schulen arbeiten. Es wäre von großer Wichtigkeit, eine

bessere Beziehung zu den Bildungseinrichtungen aufzubauen. Dies würde bedeuten, dass durch die Erzieher und Erzieherinnen innovative, originelle und kreative Gesichtspunkte in die Schulen einfließen würden.

Ich bin davon überzeugt, dass eine strukturierte und dauerhafte Präsenz von Erziehern in den Schulen neben den Lehrern sehr wichtig und hilfreich wäre.

Das Bildungssystem bleibt, aufgrund seiner Unfähigkeit institutionelle Reformen einzuleiten, in einem Zustand der Stagnation und es scheint, dass alles stillsteht. In Wirklichkeit verändern sich aber die Schulen und finden sich in einer sich stets verändernden Welt vor.

Daher ist es von grundlegender und entscheidender Bedeutung, neue Erfahrungen aus der Gegenwart und auch die Antizipation von Zukunft zu fördern. Die Schulen sollten in der Lage sein, Bedürfnisse und Anforderungen im Voraus zu erkennen und zu berücksichtigen.

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Salute mentale

Già durante gli anni di studio di medicina, prima a Padova e poi a Verona, ho maturato l’idea di specializzarmi in psichiatria, perché mi pareva permettesse di stare più a contatto con la soggettività delle persone. Ho iniziato a frequentare la clinica psichiatrica e per la tesi ho scelto un argomento in quell’ambito. Successivamente ho conseguito una specializzazione ulteriore, in psichiatria forense, per meglio conoscere la questione della responsabilità.

Il primo incarico è stato in provincia di Trento, presso l’ospedale psichia-

trico di Pergine, che ospitava anche i pazienti dell’Alto Adige-Suedtirol. Vi sono stato solo alcuni mesi, partecipando a un’esperienza innovativa di settorializzazione, che si proponeva di stabilire un collegamento tra ciascun reparto dell’ospedale psichiatrico e ciascuna zona del Trentino. Venni inserito nell’equipe delle Giudicarie e

Rodolfo Tomasi

operavo periodicamente in ambulatorio a Tione. Il progetto implicava una visione un po’ più territoriale rispetto alla tradizionale impostazione degli istituti psichiatrici, ma per i ricoverati l’ospedale restava spersonalizzante e antiterapeutico.

Poco dopo ho vinto un concorso a Bolzano, dove sono stato assunto come aiuto primario; successivamente ho superato un altro concorso a primario, a soli trent’anni, avvantaggiato dal fatto che gli specializzati in psichiatria bilingui erano pochissimi. Il primario di Bolzano, che veniva da Vicenza, è rientrato nella sua regione e nel 1982 l’ho sostituito. Allora il reparto a Bolzano copriva le esigenze di ricovero di tutta la provincia. Sino al 1978 i pazienti venivano inviati all’ospedale di Pergine, con il quale il territorio altoatesino aveva di fatto pochi collegamenti. L’unica struttura bolzanina di degenza si trovava a Vadena e ospitava pazienti dimessi da Pergine, ma non in grado di vivere autonomamente. Vi era poi una debole rete di Dispensari di igiene mentale, che effettuavano controlli periodici a favore dei pazienti dimessi da Pergine e consegnavano loro i farmaci; in seguito divennero Centri di salute mentale.

La riforma psichiatrica del 1978, legata all’esperienza di Basaglia a Trieste, trovò in provincia di Bolzano molte

resistenze e contrarietà, dovute a fattori culturali, ma anche alle concrete difficoltà applicative, per la carenza di personale e strutture. Mentre era diffusa la consapevolezza che ci si poteva riferire alle esperienze positive delle comunità terapeutiche, non tutti gli psichiatri ritenevano prioritario prevenire gli effetti patogeni delle istituzioni totali, e rispettare i diritti delle persone malate; in provincia rimaneva forte il paternalismo e deboli le spinte all’alleanza con le persone sofferenti.

La riforma comportava la chiusura degli ospedali psichiatrici, la creazione di servizi ospedalieri con quindici posti letto e di una rete di servizi territoriali, la cui programmazione era affidata alle Province.

Ci trovammo in una situazione assai difficile, che fu superata solo alla fine degli anni ‘90 (Progetto Obiettivo Nazionale 1994 e 1998; DGP 711/96).

Il primo e più urgente compito, dell’amministrazione provinciale e del personale direttivo, fu cercare, reperire, formare nuovo personale, innanzitutto infermieri psichiatrici, ma anche medici, psicologi, assistenti sociali, operatori.

Via via ho colto l’importanza strategica dell’aggiornamento del personale e dell’imparare dall’esperienza. Si avviò una più stretta collaborazione con altri reparti ospedalieri, come

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Pronto Soccorso, astanteria, neurologia e medicina interna, affinché vi potessero essere ricoverati e seguiti pazienti psichiatrici.

Oltre al lavoro in reparto era evidente l’esigenza di avviare altri interventi sul territorio. Visitammo dei centri diurni in Veneto e piccole strutture innovative in Baviera e Svizzera, per poterli introdurre nella nostra provincia.

Si pose il problema di quantificare i posti necessari per il nostro territorio e di ristrutturare o meglio sostituire Vadena. Ci si confrontò su varie soluzioni (day hospital, centri diurni e appartamenti), affinché i principi ispiratori della riforma si traducessero in azioni reali.

I vari progetti realizzati hanno avuto il merito di mimetizzarsi nel contesto. Affrontare questa trasformazione e cimentarsi con un’esperienza in qualche modo pionieristica è stato oggettivamente difficile e pesante, per i problemi e le responsabilità che ha comportato. Al contempo è stato soddisfacente riuscire nell’intento, conseguire risultati positivi, sostenere la validità della riforma pur differenziando le quattro aziende sanitarie. Per convincere e coinvolgere gli altri occorreva in primo luogo essere convinti dentro di sé e dunque risultare coerenti.

Mi sentivo ingaggiato in questo pro-

cesso di innovazione, che deve continuare, perché la società cambia e le istituzioni che non si riformano con il tempo si deformano.

Accanto, anzi alla base, dell’impegno organizzativo e progettuale vi era la cura dei pazienti e quindi l’attenzione a quella dimensione umana e soggettiva che aveva ispirato la scelta della mia specializzazione medica.

Nel piccolo reparto e nei servizi territoriali era possibile sperimentare qualche innovazione e tendere a migliorare la situazione. I pazienti compresero questa differenza tra grande ospedale e piccolo reparto, tra vecchia psichiatria e nuova salute mentale.

Certo, dovevamo dimettere in fretta ed eravamo sempre impegnati a individuare soluzioni alternative, ma nella situazione data non c’erano alternative migliori e anche in questo modo potevamo prenderci cura dei pazienti e delle famiglie. Decisivi furono la collaborazione a tutti i livelli e la realizzazione di effettive equipe di lavoro. Nel nostro ambito il ruolo in sé e l’azione individuale non bastano. Non potevamo adottare e portare avanti terapie sofisticate, ma eravamo nella necessità di metterci in gioco sul piano umano e sul piano relazionale, evitando la deriva del controllo sociale, che è un rischio

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sempre insito nella psichiatria.

Ancor più che in altri ambiti della medicina, la cura passa attraverso il mettersi in gioco del personale, individualmente e come gruppo.

Come ha sostenuto Michael Balint il farmaco prescritto al paziente è in

primo luogo il medico stesso, con il suo modo di essere, di vivere, di porsi.

Si può imparare a costruire un rapporto di fiducia con l’utente, e nello stesso tempo adottare modelli di psiche per la comprensione delle dinamiche individuali, di coppia, familiari, di gruppo e le conoscenze delle possibili interferenze biologiche.

In psichiatria – secondo l’impostazione fenomenologica - la diagnosi non poggia su esami e dati laboratoristici, ma discende, sostanzialmente, dalla relazione tra psiche del personale, del terapeuta e della persona disturbata e dalla descrizione del comportamento.

I segni che inducono il medico a elaborare una determinata diagnosi e la conseguente terapia sono di fatto percezioni, che prova di fronte alla persona che soffre. Sulla base della mia esperienza posso dire che la psichiatria è evoluta positivamente, sia come sapere teorico,

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influenzato dalle acquisizioni psicoterapeutiche e di psicologia sociale e di comunità, sia come prassi, laddove si è riusciti a salvaguardare il rispetto della dignità umana. È cambiato il suo linguaggio. La malattia mentale ora è denominata “disturbo mentale” ed è studiata in quanto reazione che la singola persona ha nei confronti delle proprie condizioni di vita. Sulla modalità di reazione incidono predisposizioni genetiche, vicende familiari, fattori ambientali. Il disturbo mentale deriva quindi da un’interazione tra più elementi. Vi può essere una predisposizione genetica al disturbo, ma non lo si eredita ed anzi l’ambiente sociale influisce moltissimo sulle manifestazioni della psiche. Perciò il manuale diagnostico dei disturbi mentali è cambiato nel tempo: ad es. l’omosessualità è stata derubricata, conservando solo un capitoletto marginale sulla “omosessualità distonica” – cioè non accettata dal soggetto.

Ecco allora che comprendiamo come, ad esempio, i casi di isteria, diffusi al tempo di Freud, caratterizzato da un evidente maschilismo repressivo, oggi sono assai rari – grazie al riconoscimento sociale del ruolo delle don-

ne, pur ancora insufficiente. Mentre oggi ci imbattiamo in sindromi nuove, quali il ritiro sociale e l’anoressia mentale, del tutto sconosciute fino a pochi decenni fa. Anche la diagnosi di “borderline”, ossia la commistione di sintomi nevrotici, caratteriali e psicotici ad andamento fluttuante, oggi è assai più frequente che in passato. Tali cambiamenti – come quelli correlati alle migrazioni di persone da culture “altre” - hanno costituito grandi sfide sul piano conoscitivo e terapeutico. Purtroppo negli ultimi anni l’azione dello psichiatra è stata irrigidita in una minuta e frammentata casistica diagnostica, spesso condizionata dalle pressioni delle case farmaceutiche, come anche da necessità amministrative; resta difficile che la valutazione dei servizi psichiatrici avvenga sulla base degli esiti, anziché sulla quantità di prestazioni erogate.

I pregiudizi verso i disturbi psichici permangono, sebbene l’ambiente e la mentalità sociali siano divenute assai più accoglienti nei confronti della sofferenza mentale, basti pensare al recente riconoscimento della attività di recovery1 . Insomma la salute mentale è in continua trasformazione, per certi versi

1Si tratta di un’impostazione innovativa che mira a restituire all’utente il controllo, la possibilità di scegliere e decidere, “risveglia” la speranza e un rinnovato senso di sé e del proprio destino; pur attraverso lunghi e tortuosi percorsi di crisi e di riprese costituisce il fondamento di una nuova assunzione di responsabilità rispetto a sé stessi, alla malattia, alla società.

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positiva, per altri meno; essenziale è che sussista la alleanza con l’utenza e i familiari.

Purtroppo l’impoverimento di ampie fasce di popolazione, in corso in questi ultimi periodi, la crescita del grado di ansia e stress di persone e famiglie, la riduzione degli strumenti di welfare e del senso di comunità, la mancata attenzione a programmi come il welfare generativo, l’aumento delle disuguaglianze, riducono la disponibilità a farsi carico della sofferenza altrui.

Dopo il pensionamento ho collaborato con l’Associazione “La Strada–Der Weg” anche nell’organizzare alcuni convegni di psicologia di comunità ed uno sul superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Oggi la politica e la società civile paiono rincorrere le emergenze senza avere una visione complessiva e prin-

cipi guida: si procede in uno stato di incertezza e nebulosità.

L’Asl di Bolzano, ad esempio, ha dei servizi di salute mentale, ma risulta disinteressata a conoscerne il funzionamento (cfr. il mio documento disponibile sul sito della Associazione). I servizi – pubblici e privati - devono essere trasparenti e il mondo associativo deve studiare di più per poter interagire con loro consapevolmente. Serve una riflessione generale. L’impegno dell’Associazione “La Strada-Der Weg” può concorrere a mantenere attiva la riflessione e la capacità di visione alla luce delle encicliche di Papa Francesco. È importante che essa promuova la partecipazione, il coinvolgimento della cittadinanza che riesce ad attirare, per farne emergere bisogni e visioni; specialmente vanno interpellati ed ascoltati i giovani.

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Mentale Gesundheit

Während meines Medizinstudiums in Padua und später in Verona, hatte ich die Idee, mich auf das Fachgebiet der Psychiatrie zu spezialisieren, da ich einen tieferen Einblick in die Subjektivität der Menschen bekommen wollte.

Nach einem Besuch während meines Studiums in einer Klinik für psychiatrisch Kranke, habe ich Thema forensische Psychatrie mit all ihrer Verantwortung entdeckt. Es hat mich von da an so sehr interessiert, dass ich mich darauf spezialisiert habe und über dieses Fachgebiet meine Abschlussarbeit geschrieben habe. Meinen ersten Arbeitsplatz hatte ich im psychiatrischen Krankenhaus von Pergine in der Provinz Trient, wo auch mehrere Südtiroler Patienten untergebracht waren. Während den ersten paar Monaten nahm ich an einer innovativen Entwicklung der Sektorisierung teil, die eine Verbindung zwischen jeder Abteilung des psychiatrischen Krankenhauses in Pergine und jedem Fachbereich des Trentino herstellen sollte.

Als ich in das Team der Giudicarie aufgenommen wurde, arbeitete ich nebenbei zeitweise in der Ambulanz in Tione.

Im Vergleich zum traditionellen Ansatz der psychiatrischen Einrichtun-

Rodolfo Tomasi

gen beinhaltete das Projekt eine etwas territorialere Vision, aber für die Patienten blieb das Krankenhaus weiterhin entfremdend und anti-therapeutisch.

Durch den Gewinn eines Berufswahlverfahrens wurde ich als Assistenzarzt des Primars in der Stadt Bozen angestellt.

Durch die Teilnahme an einem weiterem Wettbewerb wurde ich bereits im Alter von 30 Jahren zum Primararzt ernannt. Einer der wenigen zweisprachigen Psychiater zu sein, war für mich ein großer Vorteil.

Der Chefarzt in Bozen, der aus Vicenza stammte, kehrte 1982 in seine Region zurück und ich konnte seine Stelle und Position übernehmen.

Damals deckte die Abteilung in Bozen den stationären Bedarf der gesamten Provinz ab.

Bis 1978 wurden die Patienten in das Krankenhaus in Pergine geschickt, zu dem das Südtiroler Gebiet kaum Verbindungen hatte.

Die einzige stationäre Einrichtung in Bozen befand sich in der Gemeinde Pfatten, wo Patienten aus Pergine, welche noch nicht in der Lage waren selbstständig zu leben, aufgenommen wurden.

Es gab wenige psychiatrischen Einrichtungen, die bei den entlassenen

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Patienten regelmäßige allgemeine Kontrollbesuche durchführten und ihnen ihre Medikamente verabreichten. Später wurden diese Einrichtungen zu Zentren psychischer Gesundheit.

Die Psychiatriereform von 1978, die an die Erfahrungen Basaglias in Triest anknüpfte, stieß in der Provinz Bozen auf Widerstand und Ablehnung. Dies war nicht nur auf kulturelle Faktoren, sondern auch auf die konkreten Schwierigkeiten bei der Umsetzung und dem Mangel an Personal und Einrichtungen zurückzuführen. Zwar war man sich weitgehend bewusst, dass man sich auf die positiven Erfahrungen der therapeutischen Gemeinschaft verlassen konnte, jedoch hielten es nicht alle Psychiater für wichtig, die pathogenen Auswirkungen von totalen Institutionen zu vermeiden und die zugesprochenen Rechte der Kranken zu respektieren.

Die Reform führte zur Schließung psychiatrischer Krankenhäuser, trug gleichzeitig aber auch zur Schaffung neuer Krankenhausdienste und einem Netz von territorialen Diensten, deren Planung den Provinzen überlassen wurde, bei. Wir befanden uns in einer sehr schwierigen Situation, welche erst Ende der 1990er Jahre überwunden wurde (P.O.N. 1994 und P.O.N. 1998;

Beschluss der Landesregierung Nr. 711/96).

Die erste und wichtigste Aufgabe der Provinzverwaltung und des Führungspersonals bestand darin, neues Personal zu finden und dies auszubilden. Es wurden nicht nur Ärzte, Psychologen, Sozialarbeiter und Pflegekräfte gesucht, sondern auch vor allem psychiatrische Krankenschwestern und Krankenpfleger. Nach und nach habe ich die strategische Bedeutung der Weiterbildung des Personals und die Wichtigkeit der Berufserfahrung erkannt.

Es kam zu einer noch engeren Zusammenarbeit mit weiteren Fachabteilungen des Krankenhauses, wie z. B. der Notaufnahme, der Krankenpflegestation, der Neurologie und der Inneren Medizin, sodass psychiatrische Patienten dort aufgenommen und betreut werden konnten.

Neben der Arbeit auf der Station brauchte es natürlich zusätzlich noch weitere Interventionen. So besuchten wir Tageszentren in Venetien und kleine innovative Einrichtungen in Bayern und der Schweiz, um sie kennenzulernen und in unserer Provinz umzusetzen.

Die Organisation und Planung bei der Suche nach den notwendigen Plätzen in der Umgebung und die Rekonstruktion bzw. die komplette Neugestaltung der Station in Pfatten war

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schwieriger als gedacht. So haben wir über andere mögliche Lösungen, wie z.B. Tageskliniken, Tageszentren und Wohnungen diskutiert, um die der Reform zugrunde liegenden Prinzipien in die Praxis umsetzen zu können.

Die danach realisierten Projekte passten gut in das Angebot unserer Einrichtungen.

Sich diesem Wandel zu stellen und für diese pionierähnliche Erfahrung zu kämpfen war aufgrund der damit verbundenen Probleme und Verantwortungen objektiv gesehen schwierig und beschwerlich. Gleichzeitig war es befriedigend positive Ergebnisse zu erzielen, den Erfolg zu sehen und die Validität der Reform zu unterstützen.

Um die Anderen zu überzeugen und effizient mit einzubeziehen, musste man innerlich selbst fest überzeugt und kohärent sein.

Ich fühlte mich verpflichtet an diesem Innovationsprozess, der nicht beeinträchtigt werden durfte, mitzuwirken. Institutionen, welche nicht mit der sich ständig verändernden Gesellschaft mitgehen und sich anpassen, werden im Laufe der Zeit überholt werden.

Der Hauptgrund des organisatorischen Einsatzes war die Pflege der Patienten und damit wieder die menschliche und subjektive Verant-

wortung, die mich bei der Wahl meines medizinischen Fachgebiets inspiriert hatte.

In unserer kleinen Station und den Gemeindeeinrichtungen konnten wir stets mit neuen Änderungen experimentieren und mit verschiedensten Innovationen die Situation verbessern. Die Patienten haben den Unterschied zwischen dem großen Krankenhaus und der kleinen Station, also zwischen der alten Psychiatrie und dem neuen psychischen Gesundheitszentrum wahrgenommen und verstanden.

Natürlich – mussten wir manchmal Patienten nach kurzer Zeit wieder entlassen, weshalb wir stets nach alternativen Lösungen gesucht haben.

In der damaligen Situation jedoch gab es keine besseren Alternativen, doch das Wichtigste war, dass wir uns auf diese Weise um die Patienten und ihre Familien kümmern konnten.

In unserem Beruf reicht das individuelle Handeln nicht aus, deshalb war die Zusammenarbeit zwischen den verschiedenen Bereichen und die Bildung effizienter Arbeitsteams schon immer von großer Bedeutung. Wir konnten zwar keine hochentwickelten Therapien durchführen, bewegten uns jedoch stets auf der menschlichen und relationalen Ebene um das Abdriften in die soziale Kont-

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rolle zu vermeiden, was in der Psychiatrie oft ein großes Risiko darstellt. Mehr noch als in anderen Bereichen der Medizin wird die Pflege durch das Engagement und Einfühlvermögen des Personals erreicht, sowohl ein-

zeln als auch im Team. Laut Michael Balint ist das beste Medikament, welches dem Patienten verschrieben wird, in erster Linie der Arzt selbst, mit seinem Leben und seinem Sein und seinem Tun.

Man kann lernen eine vertrauensvolle Beziehung zu den Klienten zu entwickeln und sich gleichzeitig psychisch orientierte Modelle aneignen. Auch die Dynamik von Individuen, Paaren, Familien und Gruppen zu verstehen und mögliche biologische Interferenzen zu erkennen muss man können.

In der Psychiatrie wird die Diagnose - entsprechend dem phänomenologischen Ansatz - nicht auf der Grundlage von Untersuchungen und Labordaten ermittelt, sondern sie ergibt sich im Wesentlichen aus der Beziehung zwischen der Psyche des Therapeuten und der des betroffenen Patienten.

Die spezifische Diagnose und die eventuell darauffolgende Therapie basieren auf der Wahrneh-

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mung und Beobachtung des Arztes gegenüber dem leidenden Menschen. Aus meiner Erfahrung kann ich sagen, dass sich die Psychiatrie positiv entwickelt hat, sowohl in der Theorie, die von psychotherapeutischen Errungenschaften und der Sozialund Gemeindepsychologie beeinflusst wurde, als auch in der Praxis, der es gelungen ist die Achtung der Menschenwürde zu wahren. Es hat sich jedoch die Sprache geändert. Psychische Erkrankungen werden heute als “psychische Störung” bezeichnet. Jeder einzelne Betroffene wird auf sein Verhalten und auf die Reaktion seiner Lebensumstände untersucht.

Genetische Veranlagungen, familiäre Ereignisse und Umweltfaktoren beeinflussen die Art und Weise, wie eine Person reagiert. Eine psychische Störung ist also das Ergebnis einer Wechselwirkung zwischen mehreren Faktoren. Eine genetische Veranlagung für die Störung kann es bestimmt geben, aber sie wird nicht weitervererbt. Vielmehr hat das soziale Umfeld einen großen Einfluss auf die Erscheinungsformen der Psyche. Aus diesem Grund hat sich im Laufe der Zeit auch das Diagnosehandbuch für psychische Störungen verändert. Das Thema Homosexualität wurde bespielsweise herausgenommen. Es gibt lediglich ein Randkapitel über

“dystonische Homosexualität”, welches aber von den Betroffenen nicht akzeptiert wird. So ist es zu verstehen, dass zum Beispiel die zu Freuds Zeiten weit verbreitete Hysterie, die durch einen offensichtlich repressiven männlichen Chauvinismus gekennzeichnet war, heute sehr selten ist - dank der gesellschaftlichen Anerkennung der Rolle der Frau, auch wenn diese noch unzureichend ist. Dagegen stoßen wir heute auf neue Syndrome wie den sozialen Rückzug und die psychische Anorexie, die bis vor wenigen Jahrzehnten noch völlig unbekannt waren.

Auch die Diagnose “Borderline”, also die Mischung aus neurotischen, charakterlichen und psychotischen Symptomen mit schwankendem Verlauf, wird heute viel häufiger gestellt als früher. Diese Veränderungen - auch solche die mit der Migration von Menschen aus “anderen” Kulturen zusammenhängen - haben große Herausforderungen in Bezug auf Wissen und Behandlung mit sich gebracht. Leider hat sich die Arbeit des Psychiaters in den letzten Jahren auf eine kleine, fragmentierte diagnostische Fallzahl, die häufig durch den Druck der pharmazeutischen Unternehmen sowie durch administrative Anforderungen bedingt ist, beschränkt. Es ist schwierig, die Leistungen auf der Grundlage der Ergebnisse und nicht

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auf der Grundlage der Quantität der erbrachten Leistungen zu bewerten.

Die Vorurteile gegenüber psychischen Störungen halten sich hartnäckig, obwohl das soziale Umfeld und die Mentalität den psychischen Leiden gegenüber sehr viel aufgeschlossener geworden sind, man denke nur an die jüngste Anerkennung von Genesungsmaßnahmen.

Kurz gesagt befindet sich die psychische Gesundheit in einem ständigen Wandel, der in manchen Bereichen positiv, in anderen weniger positiv ist. Die in letzter Zeit eingetretene Armut großer Teile der Bevölkerung, die Zunahme von Angst und Stress bei Einzelpersonen und Familien, der Rückgang von Sozialleistungen und des Gemeinschaftssinns, die mangelnde Beachtung von Projekten wie der generativen Sozialfürsorge und die Zunahme von Ungleichheiten verringern leider die Bereitschaft, das Leid anderer zu übernehmen.

Nach meiner Pensionierung habe ich auch mit dem Verein “La Strada-Der Weg” zusammengearbeitet und mehrere Konferenzen über Gemeindepsychologie und eine über die Überwindung psychiatrischer Krankenhäuser organisiert.

Heute scheinen Politik und Zivilgesellschaft einer Notlage hinterherzujagen, ohne eine übergeordnete Vision oder Leitprinzipien zu haben und wir

bewegen uns somit in einem Zustand der Unsicherheit und Unklarheit.

Der Asl von Bozen verfügt beispielsweise über psychologische Dienste, will aber nicht wissen, wie diese funktionieren (siehe mein Dossier auf der Website des Vereins). Die öffentlichen und privaten Dienste müssen transparent sein und die assoziative Welt muss mehr über dieses Thema lernen um bewusst interagieren zu können.

Es braucht ein neues Nachdenken.

Das Engagement des Vereins “La Strada-Der Weg” kann dazu beitragen, dass die Überlegungen und Visionen im Lichte der Enzykliken von Papst Franziskus aktiv bleiben. Es ist wichtig, dass die Beteiligung und Einbeziehung der Bürger gefördert wird, um ihre Bedürfnisse und Visionen herauszufinden.

Vor allem den Jugendlichen sollte Gehör geschenkt werden.

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Edizione/Ausgabe: Nr. 01/2022 Parte prima-Erster Teil - Aprile/e 2022 Pubblicazione registrata presso il tribunale di Bolzano il 06.08.2018 R.G. n. 3009/2018 Ermächtigung Landesgericht Bozen 06.08.2018 Nr. 3009/2018

Associazione – Verein La Strada-Der Weg ONLUS

Via Visitazione - Mariaheimweg, 46 39100 Bolzano Bozen Tel 0471 203111 - Fax 0471 201585 e-mail: info@lastrada-derweg.org www.lastrada-derweg.org

Direttore responsabile/presserechtlich Verantwortlicher: Massimo Antonino Redazione/Redaktion: Dario Volani, Fabrizio Mattevi, Viktoria Gross, Harald Kunkel, Massimo Antonino Grafica/Grafik: Massimo Antonino

Se vuole devolvere il 5 per mille Falls Sie 5 Promille Ihres Einkommens schenken möchten Codice fiscale/Steuernummer: 80020390219

Se vuole fare una donazione/Falls Sie eine Spende machen möchten IBAN: IT29 R060 4511 6080 0000 0139 000 Grazie/Danke

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