10 minute read

Nuove catene globali del valore: chi terrà il passo dei cambiamenti imposti da Covid-19?

Sicuramente le imprese capaci di innovare e creare relazioni. La nostra intervista a Valentina De Marchi

Le scosse del terremoto Covid-19 non si sono ancora arrestate, ma i cambiamenti all’interno delle Catene globali del valore sono già in atto. Per comprendere le direzioni della globalizzazione e del commercio internazionale nella cosiddetta nuova normalità, abbiamo raggiunto Valentina De Marchi, professoressa associata presso il dipartimento di Economia e management “Marco Fanno” dell'Università di Padova ed esperta in materia.

Professoressa De Marchi, le sue ricerche si sono sviluppate nell’analisi di alcuni distretti industriali italiani, in particolare in Veneto. Alla luce dei cambiamenti già in atto nelle catene globali del valore, quali ulteriori evoluzioni verranno accelerate dalla pandemia Covid-19?

«Già prima della crisi del 2008 e di quella recente legata a Covid, i distretti stavano vivendo profonde trasformazioni. Ora è probabile che queste saranno accelerate dalla pandemia. Già da qualche anno per esempio si parla di “regionalizzazione” – l’accorciamento delle catene globali del valore (CGV). Ciò non significa necessariamente che stanno tornando in patria le produzioni delocalizzate nei decenni scorsi, ma piuttosto che sempre un maggior numero di imprese stanno facendo affidamento a partner commerciali in territori più vicini, entro la stessa macro-regione (e.g. Europa). Le nostre piccole e medie imprese italiane, tradizionalmente si po- sizionano a monte delle catene globali del valore, sono fornitori importanti di clienti internazionali. Tanto più questi clienti cambiano strategia, tanto più si potrebbero creare opportunità per le nostre aziende. Purché sappiano stare al passo con altri aspetti sempre più necessari per partecipare alle CGV».

Quali?

«La capacità di gestire aspetti complessi quali: qualità, efficienza e capacità digitali. E la capacità di garantire prodotti e processi sostenibili. La crisi ha reso evidente quanto siamo fragili rispetto alle crisi ambientali. In questo senso molte imprese internazionali si stanno attrezzando per ridurre il proprio impatto e questo vuol dire - necessariamente - una richiesta di standard sempre più elevati ai propri fornitori. Anche alle imprese più piccole verrà richiesto di ridurre il proprio impatto sociale e ambientale; chi avrà già iniziato percorsi di sostenibilità sarà quindi più capace di partecipare a queste CGV».

Spesso però, lo abbiamo visto in questi mesi, i clienti più grandi scaricano sui fornitori maggiori gli oneri di questa “trasformazione”…

«Non in tutti i settori c’è stata una riduzione delle vendite, ma in quasi tutti registriamo una maggiore difficoltà a garantire flussi di cassa. Quindi se da un lato i fornitori hanno maggiori difficoltà, dall’altra c’è una crescente richiesta da parte delle imprese globali di standard più elevati. Quindi prendi meno, ma devi dare di più. Un tema molto complesso. Chi deve assumersi la responsabilità di ridurre l’impatto ambientale? È vero, molte imprese leader hanno lasciato questo onere in capo ai fornitori, senza dare strumenti per sostenere questa transizione; e non sempre per tali imprese è facile rientrare di tali investimenti, soprattutto nel medio termine. Ma è anche vero che possiamo adottare almeno due azioni di supporto alle PMI».

E sarebbero?

«Posto che tutti siamo d’accordo sull’importanza di questa sfida, la sostenibilità di processi e prodotti rappresenta un cambiamento e ogni cambiamento richiede investimenti. Ora, se vogliamo garantire una transizione davvero efficace, che contribuisca a raggiungere gli obiettivi delle grandi imprese e degli stakeholders (governi, media, etc…) è importante che ai fornitori sia riconosciuto qualcosa. O sul fronte di una marginalità più alta – e ci sono esempi interessanti in questo senso – o attraverso l’azione dello Stato, dato che l’interesse è anche pubblico. Penso ad incentivi e agevolazioni per le imprese più sostenibili. Andando a creare maggiori vantaggi e opportunità per chi dimostra di sostenere investimenti ed ottenere risultati in ambito di riduzione dell’impronta ambientale e di miglioramento delle condizioni di lavoratori e altri soggetti del territorio».

Tornando alla regionalizzazione, crede che questo cambiamento rafforzerà le catene intraeuropee dopo anni di predominanza asiatica?

«La verità è che al momento non abbiamo dati a supporto di queste tesi; c’è bisogno di più tempo per poter valutare questi fenomeni considerato per la loro dinamica temporale. La globalizzazione ha implicato che in molti settori si siano portati all’estero parti di attività produttive, tendenzialmente quelle a minor valore aggiunto, con un’intensità tale che oggi in molti paesi non ci sono più le competenze e la capacità produttive necessarie per sostituire quanto dislocato altrove. Per fare un esempio recente pensiamo ai ritardi nella fornitura di mascherine o di dispositivi di protezione individuale. Il fatto che negli ultimi anni si siano perse le capacità produttive in alcune fasi produttive, per cui dipendiamo da fornitori esteri, ha comportato in Italia così come in altri paesi quali gli Stati Uniti tutti i ritardi che ricordiamo. Quindi se è vero che avere catene più corte può comportare evidenti benefici - e in questo senso mi aspetto che gli scambi intraeuropei aumentino nel medio periodo - è altrettanto vero che questo fenomeno richiede tempo. Ad ogni modo ritengo improbabile che queste dinamiche impattino su tutti i settori e comunque non sostituiranno completamente l’Asia. Covid-19 non cambierà questa rotta».

In un recente studio lei ha descritto tre “categorie” di distretti industriali italiani, con parametri precisi per classificarli. Perché può essere utile partire da qui per comprendere meglio le loro relazioni nelle catene globali del valore?

«I distretti industriali sono stati per anni la colonna portante della nostra economia. Oggi sono molto diversi rispetto a quelli rilevati per la prima volta negli anni ’70 e che ci hanno resi famosi nel contesto internazionale. Esistono ancora tanti distretti industriali, ma non tutti si comportano allo stesso modo. Alcuni hanno ancora successo, altri meno. Nel nostro studio abbiamo cercato di capire se era possibile classificarli in base alla loro capacità di creare valore. In particolare, siamo andati a misurare il numero di imprese attive e quanto esse si erano ridotte nel tempo. Abbiamo quindi messo in relazione questi numeri con la capacità di creare valore e, in aggiunta, verificato se alla riduzione del numero di imprese corrispondesse una concentrazione, o meglio un consolidamento, delle (poche) grandi imprese presenti nel distretto. Combinando queste variabili abbiamo distinto i distretti del Veneto in tre grandi categorie: quelli in “declino”, con una forte riduzione di imprese e valore prodotto; quelli “gerarchizzati", dove a fronte della riduzione del numero di imprese attive fa da contraltare una forte concentrazione in capo ad alcune grandi imprese (Luxottica nel bellunese, tanto per fare un nome noto), capaci di produrre come, se non di più, di quanto prodotto nel periodo di massima presenza di imprese; e infine forse la categoria più interessante, quella dei distretti “resilienti”. Quelli cioè in grado di generare valore grazie all’interazione tra imprese medio piccole. Tra questi il distretto Montebelluna sportsystem, e quello calzaturiero della Riviera del Brenta, dove pure il contesto produttivo è molto mutato rispetto agli anni’80 ».

Cosa distingue il modello del “distretto resiliente” dagli altri due?

«Secondo le nostre analisi sembrano esserci due fattori principali che distinguono i distretti resilienti dagli altri. In particolare la presenza di imprese leader nei mercati internazionali e quella di "soggetti locali dinamici”. I distretti che hanno resistito meglio alle crisi precedenti, continuando a creare valore in maniera distribuita, sono quindi quelli dove le grandi imprese multinazionali (estere o italiane) sono presenti e collaborano con le imprese locali. A loro volta le piccole e medie imprese sono in grado di interagire con le multinazionali. In questa tipologia di distretti sono inoltre attive istituzioni locali efficaci e imprese di servizio o di progettazione, particolarmente innovative. Quindi un mix di soggetti altamente qualificati che generano nel contesto locale una situazione molto favorevole al “fare impresa” sui mercati nazionali e soprattutto internazionali».

Negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di medie imprese capaci di inserirsi all’interno di processi produttivi grazie alla loro capacità di produrre alto valore aggiunto a monte delle catene globali del valore, se non in taluni casi grazie a prodotti propri. La piccole imprese della subfornitura sono destinate a scomparire o ad essere assorbite da imprese più strutturate?

«La dimensione non è tutto in un mondo globalizzato, in cui le imprese producono solo parti di un processo produttivo più ampio e diversificato. È però vero che le catene globali del valore impongono una dimensione minima per interagire con i grandi brand come Ikea o Gucci, per fare due nomi, che definiscono quali sono gli standard produttivi. In questo senso le imprese poco strutturate fanno più fatica. In ogni modo nel distretto le piccole imprese possono contare sulle medie per rimanere agganciate alle catene globali del valore. C’è poi un fenomeno recente da considerare, il sempre maggior interesse da parte delle grandi imprese ad acquistare le piccole imprese “dinamiche”, per integrarsi verticalmente».

Dal suo punto di vista quali politiche pubbliche hanno il maggiore impatto per sostenere il tessuto imprenditoriale in queste trasformazioni?

«Le catene globali del valore richiedono nuove competenze, tecnologiche e organizzative. Su questo aspetto le istituzioni locali e le associazioni possono giocare un ruolo cruciale per potenziare la resilienza di un distretto. Non solo per garantire una manodopera all’altezza delle richieste del mercato, ma anche per creare geometrie che generino innovazione e sviluppo di tutti gli attori coinvolti: imprese, scuole, università e associazioni. In più sul fronte della sostenibilità le istituzioni possono aiutare a collaborare tra loro imprese e soggetti in grado di fornire strumenti utili per supportare queste traiettorie. In Veneto, negli anni sono state approvate due leggi regionali specifiche, volte a identificare i distretti nella loro diversità e a supportarle queste trasformazioni nelle imprese locali».

Intervistato su queste colonne (Imprese & Territorio n°2/2020), il professor Rullani sollecitava grandi imprese leader e fornitori, ma anche fondi di investimento, associazioni e sindacati, a nuove forme di condivisione del rischio. Nei distretti che ha analizzato, esistono esempi di condivisione tra imprese e altri attori, replicabili in altri distretti/cluster?

«È un’ottima provocazione. Diventa centrale oggi ma a ben vedere lo era anche ieri. Pensiamo al cosiddetto “effetto frusta” durante la recessione del 2008, quando le imprese più strutturate scaricavano sui fornitori più piccoli i fattori di rischio. Oggi a livello europeo si stanno sviluppando politiche che attribuiscono alle imprese leader o capofila maggiori responsabilità su ciò che fanno i fornitori, per esempio in materia di sostenibilità ambientale o sociale, che stanno stimolando molte imprese a cambiare le proprie politiche verso i fornitori. Le politiche pubbliche sono quindi importanti così come (o meglio; insieme a…) le azioni in capo alle imprese leader. Pensiamo agli anticipi sui pagamenti o la condivisione di investimenti in una certa direzione».

Diventano cruciali le relazioni tra tutti gli attori coinvolti. O sbaglio?

«È così. Oggi le lead firm, le aziende leader, anche per difendersi dallo scrutinio degli stakeholders, dal cliente, delle ONG, dei media in generale, hanno messo in campo azioni a sostegno delle catene di fornitura molto efficaci e spesso anche molto generose. Azioni di supporto formativo, o finanziario se non addirittura di garanzia. Le catene del valore stanno diventando sempre più relazionali, anche perché le grandi imprese multinazionali si sono rese conto dell’importanza dei fornitori e nel nostro caso dei fornitori italiani e delle loro sapienti competenze produttive e di progettazione. In questo senso gli altri attori e in particolare istituzioni e associazioni, possono giocare un ruolo importante per supportare e tutelare il valore generato dai fornitori locali, ma non possono prescindere dal considerare il ruolo fondamentale di tali aziende leader».

Chi è Valentina De Marchi

Valentina De Marchi è professoressa associata presso l'Università di Padova, Dipartimento di Economia e Management 'Marco Fanno’. È interessata alle innovazioni ambientali e alla sostenibilità in impresa e all'evoluzione dei distretti industriali italiani in catene globali del valore. Il suo lavoro è stato pubblicato su riviste quali Research Policy, European Journal of Development Research, Business Strategy & the Environment, International Business Review, Journal of Cleaner Production, European Planning Studies. Ha recentemente co-editato il libro ‘Local Clusters in Global Value Chains: Linking Actors and Territories Through Manufacturing and Innovation’ (2018) con Eleonora Di Maria e Gary Gereffi. È presidentessa dell’associazione europea di studiosi di organizzazioni e ambiente (GRONEN) e parte del comitato organizzatore della Network ‘Global Value chains’ alla conferenza SASE . Per maggiori informazioni: www.valentinademarchi.it

This article is from: