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Impaginazione grafica di Massimo Piutti
Hendi ilma: merkúr
rUdOlF STeiner
SiGillO PlaneTariO di merCUriO
Astra inclinant, non necessitant.
Johannes Kepler
Ideák csillagakrobatája
Diplomaták, orvosok
Nemzetközi űrállomása
Ész, szellemesség planétája, Juttass fényeddel megértést
Sárrá vált, fekete
Földanyánkra!
dalla raccolta di poesie Rózsa óra (L’ora della rosa) di Ilma Hendi (1947-2022), Idahegyi Editore, Genf-Budapest, 2003.
ilma Hendi, merCUriO
Astra inclinant, non necessitant.
Johannes Kepler
Acrobata stellare di idee Stazione spaziale internazionale di diplomatici e medici, Pianeta della mente, dell’arguzia, Fa’ che arrivi, con la tua luce, comprensione Sulla nostra Madre Terra
Divenuta paludosa e nera!
Traduzione della poesia a cura di Kata Szabados
11 - Fuoco greco di Kata Szabados, dicembre 2022 pg. 44
12 - Antroposofia, sentimento religioso e culto cristiano rinnovato di Elio Biagini, 1999 pg. 51 pg. 59
13 - Christmas II/ Natale II di Adam Bittleston/Traduzione Elio Biagini, 1993/2019 pg. 64
14 - Qual’è il ruolo degli Ostacolatori nel nostro tempo? Idee pratiche ed esercizi di protezione di Yarince Vicenzo, dicembre 2022 pg. 60
15 - Epiphany/ Epifania di Adam Bittleston/Traduzione Antonella Casella
16 - “La coscienza morale dell’Europa” a cura di Kata Szabados, dicembre 2022 pg. 66
17 - Per la Pace pg. 72
18 - I bambini di Betlemme di Selma Lagerlöf, 1978 pg. 75
IUVENTAS - Nr. 2 - 25 dicembre 2022 INDICE_parte 2
Fra pochi giorni arriviamo al centenario di quella notte tremenda in cui il primo Goetheanum venne distrutto. Rievocare gli avvenimenti di quella notte sembra essere una prima cosa che possiamo fare in questi giorni. Prima di iniziare una piccola riflessione personale, vorrei lasciare la parola a due persone, tra l’altro colleghe alla Clinica di Arlesheim, che hanno vissuto i momenti di quella notte tra 1922 e 1923 sulla propria pelle: ci racconteranno i medici Ita Wegman e Madeleine van Deventer.
***
Dal
Quaderno n.74 di Ita Wegman1:
“Il 31 dicembre 1922, alle 10 del mattino, il signor Imrie tenne una conferenza nel corso di un incontro di scienza naturale. [...] Questa conferenza ha suscitato una grande agitazione tra i visitatori, perché il relatore ha dato un’impressione confusa. L’atmosfera che si respirava quel giorno era quindi desolante. Non potevamo liberarci dalla sensazione di un pericolo imminente.
La sera abbiamo ascoltato una conferenza di Capodanno di R. Steiner. Ricordo bene che molte persone erano inquiete, eppure la conferenza si
svolse senza interruzioni. Alle 22 il Goetheanum si è svuotato. La guardia di turno è stata sostituita dalla guardia notturna. Prima ancora, la signorina Bauer, responsabile del guardaroba dell’euritmia artistica, fece un ultimo accurato giro nel guardaroba, una sorta di ansia la spinse a farlo. Ha notato che nella tromba delle scale c’era un odore molto forte e sgradevole, che ha associato però ai vicini servizi igienici. Incontrò la guardia notturna e richiamò la sua attenzione sull’odore. Egli ha girato immediatamente l’edificio. Quando arrivò nella Sala Bianca, scoprì che la stanza era piena di fumo. Ha immediatamente dato l’allarme con il corno dell’allarme antincendio. Erano circa le dieci e un quarto, la signorina Maryon corse dal suo appartamento alla falegnameria e chiamò il dottor Steiner. Egli arrivò immediatamente e diede ogni sorta di ordini, e nel frattempo arrivarono i vigili del fuoco da Basilea e dai dintorni. Tutti accorsero dalle case circostanti e la zona si riempì presto di gente. Molti sono entrati nell’edificio per aiutare a spegnere l’incendio o per salvare il salvabile. Ma nonostante tutti i nostri sforzi, non siamo riusciti a contenere il fuoco. Alle undici le fiamme sono divampate dal tetto. Quando l’edificio si è riempito sempre di più di fumo, il dottor Steiner ha ordinato a tutti i presenti di abbandonare l’edificio. Poi ha fatto l’appello pronunciando qualche nome per assicurarsi che tutti fossero fuori. In quel momento si scoprì che Kolisko era scomparso. Questo è stato il momento di maggiore
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FUOCO GreCO di Kata Szabados, dicembre 2022
agitazione, quando lo cercavamo ovunque, pensando che potesse aver perso coscienza nell’edificio. Poi da ultimo ne è uscito, esausto. Alcune persone sono rimaste stordite dal fumo, altre sono rimaste ferite, quindi abbiamo dovuto allestire un pronto soccorso, dove i medici presenti hanno avuto il loro bel da fare. La falegnameria è stata così surriscaldata dalle braci dell’incendio, tanto da bruciare, ed era in un grande pericolo perché era fatto di assi di legno. Quando ci siamo resi conto ed ammesso che il Goetheanum non poteva più essere salvato, perché le fiamme si erano impossessate dell’intero edificio, un mare di fiamme che arrivava fino al cielo, così autorevole ed immane come non avevamo mai visto, abbiamo rivolto tutta la nostra attenzione alla falegnameria per salvarla dal fuoco. Continuavamo ad annaffiarla. Ora, oltre al dolore provato nel vedere il Goetheanum avvolto dalle fiamme, la nostra più grande preoccupazione era quella di salvare questo laboratorio, che di fatto era l’unico rifugio per il nostro lavoro in seguito. Abbiamo rimosso ogni cosa di valore da qui. L’atelier di R. Steiner è stato svuotato, così come gli archivi. È stato sconvolgente vedere come tutta l’attenzione del dottor Steiner e di coloro che lo circondavano - affinché i lavori potessero continuare - si sia ora improvvisamente rivolta all’insignificante laboratorio di falegnameria, per salvare l’ultimo rifugio. Il dottor Steiner lo si vedeva ovunque, sia nel campo, che aveva attraversato da tutte le direzioni, sia nella falegnameria, sempre con un volto profondamente triste e serio, senza il minimo nervosismo, pienamente consapevole di ciò che si stava perdendo per l’umanità con questo lavoro. Questo edificio era unico, conteneva nelle sue forme e nelle sue immagini l’intera evoluzione del mondo e dell’umanità. Se qualcuno si trovava nell’edificio ed era sensibile per questo, in lui era suscito il potere creativo artistico nei suoi strati più profondi. Questo edificio - con le sue forme all’interno e all’esterno, i suoi dipinti sulle pareti e sui soffitti, le sue vetrate, le sue colonne di diversi tipi di legno, le sculture con un significato profondo sui capitelli - era un simbolo per l’uomo, soprattutto per coloro che potevano capire ciò che stavano vedendo. Nascosti all’interno dell’edificio, ma comunque evidenti a tutti – perché tutti potevano vederli – , c’erano quei segni che parlavano dei misteri del passato, del presente e del futuro.
Per questo esso è indimenticabile nella mente di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di trascorrervi del tempo. Dieci anni di lavoro distrutti in una notte.
Alle otto del mattino, il dottor Steiner era di nuovo in piedi davanti alle rovine dell’edificio, che stava ancora bruciando e fumando. La maggior parte della gente era tornata a casa, il campo era vuoto, mentre anime fedeli restauravano il laboratorio e la falegnameria veniva riallestita per il lavoro.
Era lì, da solo, a guardare la devastazione. Mi sono avvicinata a lui con umiltà e sono riuscita a pronunciare solo queste parole: Questo è terribile per noi. « Sì », disse, «ormai tutto è registrato nell’etere del mondo».”
Dagli Abbozzi di una conferenza su Rudolf Steiner di Ita Wegman; la conferenza della dottoressa si è tenuta a Londra il 27 febbraio 19312:
“[...] Una compassione infinita operava nella sua anima per la sofferenza dell’umanità, per la cecità in cui l’umanità viveva. Nessun sacrificio o sforzo era troppo grande per lui per contribuire a sollevare il velo dagli occhi degli uomini. Il lavoro che ha svolto a favore dell’umanità negli ultimi due anni della sua vita è quasi inconcepibile. Con l’incendio del Goetheanum, che distrusse il suo corpo fisico - il corpo eterico era fortemente dissolto, parzialmente separato dal corpo fisico - la sua salute stava declinando sempre di più. «Rispetto alle altre persone, in realtà io sono già morto sulla Terra», ha ripetuto più volte, «il mio Io e il mio corpo astrale reggono il
corpo fisico e completano quello eterico».
Sì, cari amici, si poteva quasi rabbrividire di fronte a una simile affermazione e considerare una grazie divina che Rudolf Steiner sia stato ancora qui.
Quanto questo fosse considerato da lui stesso una grazia, lo si vedeva dagli instancabili sforzi che faceva per risvegliare la Società dal letargo in cui era sprofondata e per stimolarla. Nel periodo che intercorse tra l’incendio e la rifondazione della Società, egli si batté costantemente per trovare modi e mezzi per incoraggiare i soci a lavorare di più. [...] «La Società, così come è gestita ora, non può continuare a crescere se non viene rivitalizzata», diceva più volte. Ho avuto la fortuna di essere intensamente coinvolta nei lavori in questo periodo. È stato sconvolgente vedere le delusioni che Rudolf Steiner ha dovuto subire a causa delle persone. Non capivano cosa volesse, non volevano accettare i nuovi impulsi, e si arrivò al punto che Rudolf Steiner pensò a questo: con un piccolo gruppo di persone che voleva scegliere per sé - avrebbe lasciato la Società Antroposofica e avrebbe iniziato a lavorare con loro, da qualche parte. All’ultima ora, tuttavia, decise - e ciò avvenne alla fine di novembre del 1923 - di assumere lui stesso la guida della Società Antroposofica, con tutte le sue forze, non solo come maestro e consigliere, ma come vero e proprio guida, senza la cui iniziativa e volontà nulla poteva accadere.
Questa decisione è stata vista agire come un incredibile impulso di volontà nelle conferenze sui misteri che ci sono state date poco dopo. Poi tutto procedeva per il meglio, abbiamo ricevuto il Convegno di Natale, con la quale ha ricostituito la Società e ha assunto la guida con un consiglio di amministrazione di sua concezione. A quanto pare tutto è stato accolto con grande entusiasmo. Ma le persone hanno davvero accolto al cuore il Convegno di Natale? L’appello degli spiriti elementari, chiamati come testimoni alla Pietra di Fondazione, la richiesta che «possano udirlo gli uomini», non ha ottenuto ciò che avrebbe dovuto ottenere, le orecchie sono rimaste sorde e gli spiriti elementari hanno guardato con ansia a ciò che poteva venire dalla gente e si sono agitati quando non c’è stata una risposta sufficiente da parte della gente, mi ha detto il dottor Steiner. Poi Rudolf Steiner mi parlò di una promessa che aveva fatto al mondo spirituale, una promessa che avrebbe dovuto mantenere se le cose non fossero andate diversamente.
Qual era questa sua la promessa da mantenere? Non me l’ha mai detto, ma mi è sembrato che si avrebbe dovuto capire meglio il sacrificio che aveva fatto per noi, avendo collegato il movimento antroposofico, che lui stesso incarnava, con la Società Antroposofica, e che lui avrebbe potuto rimanere tra noi solo se avessimo compreso meglio le idee del Convegno di Natale. Poiché non sembrava che questo accadesse, ci ha lasciato. [...] Sono fermamente convinta che Rudolf Steiner sarebbe stato di nuovo meglio se non ci fossero state certe necessità di accorciare la sua vita sulla terra e di assumere la guida degli eventi mondiali su un altro piano. [...] Lui non era stato seguito pienamente, disse con tristezza, ma pur sempre con amore, come uno che aveva perdonato e già rivolto i suoi pensieri ad altre e più immense missioni di vita. [...]
Molti si pongono la domanda scottante: Rudolf Steiner è ancora in contatto con noi dopo la sua morte? Se non lo abbiamo compreso durante la sua vita, è possibile comprenderlo ora, e rimarrà una guida per coloro che sulla Terra lo sostengono, nonostante non sia in un corpo fisico? Cari amici, dopo la morte, lì agisce solo la realtà. Se a lui ascendono sentimenti che esprimono rispetto e vero amore, se ci si ricollega nuovamente a lui di propria libera volontà, egli rimane reale per noi e resta la nostra guida per sempre.
Solo una persona che non ha la sensazione di essere collegato a lui, può avere la strana opinione di non percepire che Rudolf Steiner stia veramente lavorando in mezzo a noi dopo la sua morte. Se abbiamo un senso di connessione, come quello che possiamo sperimentare
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con una persona che ci ama, allora sentiremo la presenza di Rudolf Steiner ovunque, e non ci sarà nessuna forza sulla Terra che possa separarci da questo; allora sentiremo il suo aiuto, il suo amore in tutto ciò che facciamo, anche se le nostre azioni a volte sono sbagliate.
Ciò che si deve comprendere ora è l’azione coraggiosa che è stata imposta a coloro che, nel periodo di Michele, devono contribuire a ricreare le condizioni sulla Terra. Michele non si trova nella contemplazione, ma nella lotta contro concetti e idee antiche che non si adattano più alla nostra civiltà odierna.”
Wegman ricorda nel 1927, come ella poco prima di quel Natale del 1922 ebbe un importante impulso dopo un colloquio avuto con Rudolf Steiner ed Albert Steffen – da Appunti per un discorso, c. 19273:
[...] Al mattino (forse alle cinque) Steiner si ritirò con la dottoressa Wegman nella casetta di legno tra la falegnameria e la casa editrice, dove la signora Finck stava dattilografando le conferenze. Da lì sono tornati entrambi alla falegnameria verso le otto del mattino. [...]”
(da una lettera del 17 novembre 1981)
“ [...] Chiunque fosse presente la notte dell’incendio la ricorderà come l’esperienza più significativa della sua vita. Non passa giorno senza che ci vengano in mente le immagini di quella notte.
Il primo Goetheanum era un essere vivente, più caro di qualsiasi altro essere umano. La sua perdita ci ha reso senza casa. A questo si è aggiunto il dolore di pensare a ciò che Rudolf Steiner ha dovuto vivere. Ma egli era in lutto perché l’umanità era stata privata di un edificio in cui le forme dovevano evocare una visione del karma.
“
[...] l’uomo aveva inoltre bisogno di un atteggiamento interiore risoluto per poter percepire lo spirito che si celava dietro la materia e dire pienamente sì ad essa. È di questa accettazione dello spirito che parlava il dottor Steiner, e del coraggio necessario per abbracciarlo senza compromessi, senza farsi scoraggiare da ostilità o attacchi. È stato allora che è sorto in me l’impulso, nel profondo del mio cuore, a fare così [...].”
Descrizioni similmente toccanti e dettagliate sono riportate da Madeleine van Deventer4:
[...] Quando la maggior parte dei membri se ne andò a casa dopo l’ultima conferenza sulla comunione spirituale dell’umanità [Die geistige Kommunion der Menschheit, GA 219], fu forse una premonizione preoccupante a tenermi prigioniero, così camminai a lungo intorno all’edificio abbandonato. Poi, improvvisamente, Rudolf Steiner uscì dallo studio, da solo. Ci incontrammo sulle scale tra la falegnameria e la porta sud, mi salutò come al solito, ma guardò dritto davanti a sé e non gettò nemmeno uno sguardo laterale all’edificio, dove il fuoco stava già bruciando, ma non ancora visibile dall’esterno. Era come se si fosse proibito di guardare in quella direzione. Mezz’ora dopo è stato informato dell’incendio e si è recato di corsa all’edificio. Egli stesso guidò i lavori di spegnimento, si prese cura delle vite messe in pericolo dal fumo e, dopo che l’edificio fu ormai perduto, quando le fiamme divamparono sulla grande cupola a mezzanotte, fu impegnato a concentrare tutti i suoi sforzi per salvare la falegnameria, assicurando così la continuazione del lavoro spirituale e non rendendo completa la vittoria delle forze nemiche. Mentre camminava in mezzo a noi quella notte - spesso fissando a lungo la fiamma colorata - beh, le parole non riescono a descriverlo. Quando la mattina presto salì sulla collina, accompagnato da Ita Wegman, fu circondato dai giovani che continuavano a vegliare da soli nella falegnameria. [...] Poi ci disse: «Il lavoro continua. La falegnameria deve essere risistemata».”
(da Manuskript für eine Ansprache zum 26. Februar 1961)
“[...] La sera di Capodanno del 1922, Pieter de Haan e io fummo invitati a cena in clinica dopo la conferenza. Quando arrivai - in ritardo - arrivò subito il telefono: «Il Goetheanum è in fiamme. Ci chiedono di salire con tutti gli estintori disponibili». Così ci siamo recati tutti al Goetheanum con la nostra attrezzatura ridicolmente piccola. Abbiamo guardato l’edificio con preoccupazione, senza vedere né fuoco né fumo. La speranza cresceva, fino a quando, arrivati in cima, abbiamo appreso che un enorme incendio stava divampando tra le pareti esterne e interne spesse un metro. Ho visto Ita Wegman poi diverse volte durante la notte, una volta stava in piedi accanto a Rudolf Steiner - in una fase successiva -, entrambi con lo sguardo fisso rivolto all’enorme mare di fuoco (dopo il crollo della grande cupola).
Una delle immagini di quella notte rimane particolarmente vivida nell’anima: Rudolf Steiner che rimaneva a lungo immobile lì a guardare la fiamma colorata. Un anno dopo, ci ha detto che l’immagine dell’incendio di Efeso gli è apparsa allora.
«Guarda alla Parola / Nel fuoco rovente / Trova la soluzione / Nella casa di Diana »
Ita Wegman stava allora al suo fianco. È probabile che anche in lei siano sorte delle immagini che Rudolf Steiner le ha potuto interpretare solo più tardi. In ogni caso, fu in quella notte che nacque in lei il germe che poi maturò nella domanda relativa ai nuovi misteri.
Quella sera è successo ancora qualcos’altro. Wegman ha sempre avuto una forte volontà di essere indipendente, di creare tutto con le proprie forze da sola. D’ora in poi è potuta mettersi completamente a disposizione di Rudolf Steiner.
La mattina presto, dopo la notte dell’incendio, Rudolf Steiner e Ita Wegman salirono sulla collina. Ci siamo riuniti intorno a loro in silenzio. Rudolf Steiner disse allora: «Il lavoro prosegue - lo ricostruiremo» [...]”
(Dagli appunti manoscritti della Van Deventer per una sua conferenza) ***
Vedere da vicino un grande fuoco è sempre un’esperienza visiva ed animica molto forte. Uno spettacolo di fiamme potrebbe suscitare la nostra più grande meraviglia ma anche il dolore più profondo: se vediamo la propria casa bruciare. Che tra l’altro, tutt’oggi capita a tante persone.
Dopo le testimonianze di prima, e richiamando i riferimenti fatti dallo stesso Steiner sul pensiero ed impulso che lo aveva portato alla costruzione del primo Goetheanum, possiamo avere forse una minima idea cosa significava per loro, vedere bruciare e crollare il Bau. Sentire vagamente qualche eco di quello che passava per il cuore ed anima di tutti coloro che assistevano all’incendio. L’esperienza rimane comunque indescrivibile a parole. “Voleva costruire un Tempio che rivelasse nelle sue forme architettoniche che l’uomo «accoglie lo spirito nella sua anima» e diventa così portatore del Cristo”5
Cosa è bruciato veramente!? Cosa abbiamo perso!? Chi abbiamo perso!? Come andare avanti con quello che ci è rimasto!? Dove troviamo oggi l’essenza e lo spirito del primo Goetheanum!?
In un documento inedito si possono trovare parole assai
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significanti di Steiner, confidate al conte Polzer-Hoditz il giorno subito dopo l’incendio:
“La differenza tra le anime è troppo grande. Sebbene vogliano vedere e sentire tutto ed essere presenti ovunque, non vogliono invece svegliarsi. Così questo deve avvenire a costo di disastri e dolori personali. Non è il karma ad agire qui, ma solo l’essere non svegliati dei membri e l’invidia delle persone, penetrante fino al fisico. È stata data la possibilità di creare uno spazio per la Parola tra di noi, ma lo spazio della Parola può nascere solo se i suoi equivalenti - la sua immagine viva nel cuore - nascono per una coscienza della Parola, cioè se uno non solo ascolta qualcosa, ma vuole e sa assumersene la propria responsabilità come un uomo, di fronte alla Parola del Mondo. Questo era il senso dell’edificio: Verbo e Risposta, Logos e Uomo.
A Efeso abbiamo visto davanti a noi il mistero di incarnazione del Verbo. Doveva essere demolito, altrimenti sarebbe diventato un importante centro operativo delle contropotenze, perché l’invidia degli dèi influenzava fino all’atmosferico. Ma qui si tratta del contrario di questo. Gli dèi guardavano con attesa lo spazio della Parola, ma non c’erano persone che potessero sorvegliare l’edificio. Una possibilità è stata data, ma la risposta delle persone è venuta meno, soltanto l’invidia non ha taciuto.”
(Da un Diario inedito del conte Ludwig von Polzer-Hoditz6).
Mi colpiscono certi parallelismi che avevo incontrato mentre leggevo i vari testi sul tema.
Per un’ individualità di straordinariamente vasta portata, anche per la futura collaborazione di Steiner e Wegman, quel particolare giorno di luglio in cui il Tempio di Efeso fu incendiato, era destinato ad essere l’inizio della sua nuova vita sulla terra. Così nell’antica città di Pella, separata dalla città di Efeso dall’immensità del Mar Egeo, nell’anno 356 a.C. nacque Alessandro Magno.
Quel giorno l’intero santuario fu avvolto e consumato dal fuoco feroce, solo l’Artemide Efesia, la statua in alabastro raffigurante la dea a cui venne dedicato il Tempio, sopravvisse alla conflagrazione.
Il significato di questo episodio è intuibile dalle seguenti parole di Steiner:
“Nei misteri efesini si sperimentava con particolare intensità e con la partecipazione dell’intero essere umano quello che più tardi trovò espressione paradigmatica nelle prime parole del vangelo di Giovanni: “Nel principio era il Verbo. E il Verbo era presso Dio e il Verbo era un Dio”. In Efeso il discepolo dei misteri non veniva posto di fronte a due statue, bensì a una sola, la celebre statua della Diana (o Artemide) Efesia. Identificandosi con quel simulacro, che per così dire scoppiava di vita, il discepolo si immergeva vivamente nell’etere cosmico. Sollevandosi con tutto il proprio sentire al di sopra della vita esclusivamente terrestre, il discepolo si immergeva nell’esperienza dell’etere universale. Così acquistava chiarezza su molte cose. Anzitutto gli veniva chiarita l’essenza del linguaggio umano: dalla conoscenza del linguaggio umano, cioè dal logos umano, egli ne apprendeva la differenza dal Logos della Parola cosmica, e apprendeva che la Parola cosmica opera creativamente in tutto l’universo.” 7
Secoli dopo, un tempio di misteri era di nuovo in fiamme: il moderno Tempio dei Misteri, destinato a risvegliare la memoria karmica nell’uomo che varcava le sue porte. “Chi era capace di un certo sentire poteva davvero trovare nel Goetheanum un ricordo del tempio di Efeso” 8
Una dopo l’altra, le strutture in legno del primo Goetheanum
bruciarono: al mattino seguente, tutto ciò che è rimasto, a parte la base di cemento, fumante e carbonizzata, era di nuovo una statua. L’opera scultorea in legno, raffigurante il Cristo tra le due forze ostacolatrici; Egli ci è rimasto, il Rappresentante dell’Umanità: non essendo ancora completato, non si trovava ancora nella Sala Grande, ma nell’adiacente edificio della falegnameria, Atelier del Dottore.
La scultura “doveva essere il fulcro, il punto centrale a cui dovevano guardare tutti coloro che, seduti nella Sala Grande, si rivolgevano all’Antroposofia. Questa scultura colossale avrebbe dovuto far capire, già solo con le sue dimensioni e il suo splendore, che l’intero impulso dell’Antroposofia e quindi anche l’intero impulso artistico era orientato verso questo centro. [...] Il dominio delle due potenze che minacciano l’uomo dall’esterno e dall’interno e che vorrebbero sviarlo dal suo cammino di sviluppo, attraverso l’azione del Cristo, è l’idea centrale dell’Antroposofia. Il nostro futuro dipende tuttavia dal prendere in considerazione questo pensiero e farlo nostro.” 9
Steiner l’ha vista arrivare la tragedia, presentiva, sapeva che stava arrivando? Nella sua prima notte insonne a Dornach, che cosa si svolgeva davanti ai suoi occhi dell’anima?
Eppure, quale potere e fuoco interiore deve averlo spinto a dare l’impulso a costruire tutto quello!
E sebbene la sua forza fisica fosse estremamente indebolita in seguito all’incendio, come per delle gravi ustioni invisibili (similmente alla collega scultore Edith Maryion, che morì ancora prima di Steiner), fu solo grazie alla presenza e alle cure sovrumane della dottoressa Wegman che lui sopravvisse a quella notte e agli anni successivi sul piano fisico - e già il giorno dopo ha ripreso il lavoro. Steiner tenne anche una conferenza nello Schreinerei.
Due settimane dopo il tragico evento, durante la sua visita a Stoccarda, partecipa alla lezione di epoca di letteratura degli studenti dell’undicesima classe della Freie Waldorfschule: spiega loro la figura di Parsifal e li guida attraverso alcune domande.10
La cupola minore del primo Goetheanum, ancora un momento prima del fuoco, durante lo spettacolo di euritmia e poi la conferenza del Dottore, copriva fedele quel spazio sacro, incorniciato dalle colonne guardiani; uno spazio che mi ricorda così fortemente la forma e disegno del settore della cupola del Duomo di Siena, di cui Richard Wagner rimase così affascinato da ambientare la gran sala del Tempio del Gral del suo Parsifal in una scenografia ricostruita sui disegni dell’interno del Duomo. “Sanato sii - purificato e assolto!/Poiché io sono, che ormai al tuo rito adempio. /Benedetto sia il tuo dolore, / che la forza suprema della compassione/ e la potenza d’un purissimo sapere /donò ad un timido folle!”– sono le parole del prossimo re del Sacro Gral, il cavaliere Parsifal, appena aver chiuso la ferita di Amfortas, il vecchio re, con il tocco della santa lancia, nell’ultima scena del dramma. Parole di Parsifal che sembrano poter essere rivolte similmente a quell’uomo che subì così impensabilmente tanto, su tutti i livelli, nella notte di San Silvestro 1922-1923.
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Un anno dopo, per il Convegno di Natale arrivarono non meno di ottocento membri da tutto il mondo: per arrivare alla sala delle conferenze, all’epoca instaurata in una delle sale della falegnameria, dovevano attraversare proprio quell’area dove sorgeva il Bau, camminando accanto alle rovine del primo Goetheanum11.
Più volte disse Steiner, che sapevano bene i suoi più stretti colleghi ed allievi: gli antroposofi di quel periodo sarebbero dovuti ritornare presto, in una nuova incarnazione, verso la fine del XX seolo, per procedere con i lavori iniziati allora ma preparati da tantissimo tempo.
Sono passati cento, poco più di tre volte trentatre anni dalla distruzione del Bau.
Cosa è stato fatto in questo secolo, e cosa non è stato compiuto? Con quali prospettive e responsabilità possiamo inaugurare l’inizio dei prossimi cento anni?
“Poiché ci troviamo qui riuniti nell’anniversario di quella sciagura, ritengo che il giusto stato d’animo sia per noi oggi quello di prometterci solennemente di portare avanti nello spirito quello che nel Goetheanum esisteva anche come forma fisica, come creazione fisica, e che fu sottratto alla vista fisica da un’azione degna di un Erostrato. Il nostro dolore rimane legato al vecchio Goetheanum. Tuttavia dobbiamo essere degni del compito (che ci fu pure a suo tempo affidato) di avere costruito il Goetheanum stesso: e per mostrarcene degni noi dobbiamo far voto di rimanere fedeli con la parte migliore, divina, di noi stessi agli impulsi spirituali che avevano trovato la loro espressione esteriore nelle forme del Goetheanum. Esso ci fu tolto, ma se la nostra volontà sarà veramente sincera e onesta, non potrà venirci tolto in alcun modo lo spirito del Goetheanum. Meno che mai esso potrà venirci tolto, se in quest’ora seria e solenne, che precede di poco l’ora in cui l’anno scorso scoppiò l’incendio, dai nostri cuori nasce la promessa di rimanere fedeli allo Spirito al quale ci fu concesso per dieci anni di edificare il nostro amato Goetheanum. [...]
Ecco dunque, miei cari amici, che il nostro sguardo si rivolge indietro, verso le fiamme divoratrici che ci riempirono di tanto dolore. Oggi però vogliamo fare appello alle migliori forze divine presenti in noi, vogliamo sentire nei nostri cuori la sacra fiamma destinata a illuminare e a riscaldare ciò che nel Goetheanum ci proponevamo di realizzare: vogliamo impegnarci a portare avanti quelle mete, sull’onda del progresso dell’umanità. [...] Questo proposito, questa speranza possa congiungere i nostri cuori al vecchio Goetheanum che fummo costretti ad abbandonare agli elementi. Possano i nostri cuori restare congiunti con lo spirito, con l’anima del Goetheanum. Con questo voto la parte migliore di noi stessi si impegna non solo a entrare nel nuovo anno, ma ad inoltrarci nel nuovo anno cosmico in piena forza di attività, sorreggendo la nostra attività con lo spirito, guidandola con l’anima.” 12
Grandi fuochi hanno attraversato la storia dell’umanità: incendi di luoghi di mistero e di cultura, di templi e cattedrali, anche non troppo tempo fa. Fuochi stanno bruciando anche oggi, a volte visibili e feroci, a volte meno visibili ma non meno feroci.
Pure tra i fuochi possono esistere accanto a quelli che tolgono la vita, quelli che riscaldano e salvano la vita. Oppure il fuoco interiore, il fuoco dello spirito, il fuoco risanatore che dà nuova vita, come dalle ceneri la fenice morta, rinasce.
Il fuoco greco, “fuoco liquido”, fu l’arma usata dai Bizantini contro il nemico nelle battaglie sul mare: un fuoco che non poteva essere spento con l’acqua (che anzi rafforzava l’incendio) grazie alla particolare miscela degli ingredienti.
E allora forse potremo preparare quel nostro fuoco greco interiore, non per minacciare ma per non sentirci mai minacciati, e tenerlo vivo con cura quotidiana, che la luce del nostro spirito possa irradiare anche i giorni più oscuri che ci incomberanno. Che le forze che stanno agendo contro l’armonia e contro lo sviluppo ideale dell’umanità, non possano mai spegnere quel nostro fuoco.
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Il finale del terzo atto del Parsifal, Festspielhaus di Bayreuth, 1882. Scenografo: Paul von Joukowsky
Modellino della cupola minore del Primo Goetheanum
Hilma af Klint, Fuoco e ghiaccio, 1913
NOTE
1 - J. Emanuel Zeylmans van Emmichoven, Ki volt Ita Wegman?
[Wer war Ita Wegman] Vol. 1 - 1876-1925, Arkánum Szellemi Iskola Alapítvány, Ispánk, 2016, pp.111-113. Traduzione mia;
2 - Ivi, pp. 290-293;
3 - Ivi, pp. 108-109;
4 - Ivi, pp. 110-111;
5 - Frank Teichmann, Die Entstehung der Anthroposofischen Gesellschaft auf mysteriengeschichtlichem Hintergrund, Verlag Freies Geistesleben, Stuttgart, 2002, p. 69. Traduzione mia;
6 - J. Emanuel Zeylmans van Emmichoven, Ki volt Ita Wegman?
[Wer war Ita Wegman] Vol. 1 - 1876-1925, Arkánum Szellemi Iskola Alapítvány, Ispánk, 2016, p. 113. Traduzione mia;
7 - Rudolf Steiner, La storia alla luce dell’Antroposofia, O.O. 233, “I misteri di Ibernia e i misteri di Efeso. Alessandro e Aristotele.”;
8 - Ivi, ”L’incendio di Efeso e l’incendio del Goetheanum”;
9 - Teichmann, Die Entstehung der Anthroposofischen Gesellschaft auf mysteriengeschichtlichem Hintergrund, p. 98 e p. 100;
10 - Cfr. Johannes Tautz, W. J. Stein. Egy életrajz, NaturaBudapest Kft. Ita Wegman Alapítvány, pp. 106-107;
11 - Cfr. ivi, p. 131;
12 - Rudolf Steiner, O.O. 233, L’incendio di Efeso e l’incendio del Goetheanum”
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50 IUVENTAS - Nr. 2 - 25 dicembre 2022
Vincenzo Foppa, Il Salvatore benedicente. Cristo benedicente, olio su tavola, 1483
anTrOPOSOFia, SenTimenTO reliGiOSO e
CUlTO CriSTianO rinnOvaTO di Elio Biagini, 1999
Il sentimento religioso esprime l’anelito dell’anima umana a ricongiungersi con il mondo spirituale. Il suo carattere intimo suscita rispettosa considerazione, ma al tempo stesso lo confina alla stretta sfera personale.
L’esperienza del culto e dei sacramenti rinnovati, invece, può dare un impulso alla formazione di comunità e quindi avere un grande interesse per chi segue la via di conoscenza antroposofica e vuole aiutare l’opera di Rudolf Steiner con una nuova socialità.
Questo interesse dovrebbe manifestarsi particolarmente in Italia dove questi temi sono rimasti un po’ in disparte e dove, forse, i tempi sono maturi per farli uscire dallo stato di silenzio che li avvolge.
Legata intimamente ad essi è la realtà della Comunità dei Cristiani.
Possiamo sviluppare questi argomenti partendo da due opinioni che oggi li racchiudono e, in un certo senso, li esauriscono. Una vede nella Comunità dei Cristiani solo la chiesa di coloro che seguono la via antroposofica: senza riferimenti antroposofici sarebbe difficile, se non impossibile, aderirvi.
L’altra sostiene che chi fa l’esperienza della scienza dello spirito non ha bisogno del culto e quindi trova antistorica la realtà delle chiese.
Sono due opinioni a carattere limitativo. La prima perché restringe ad una piccola parte dell’umanità il numero di quanti potrebbero ricevere i ricchi doni della Comunità dei Cristiani. La seconda perché attribuisce all’essere antroposofi un carattere che si potrà riscontrare solo in futuro e quindi limita il numero di quanti possono riconoscersi in questa condizione. Questo scritto cercherà di oltrepassare tali limiti e di portare la questione alla sua essenza oggettiva.
Capita, parlando di antroposofia, di fare riferimento alla figura del Cristo o ad avvenimenti della Sua vita terrena o alla Sua esistenza sovrasensibile. Ebbene in questo caso può manifestarsi nell’interlocutore una prima forma di resistenza: l’antroposofia non sarebbe una scienza, bensì una diversa forma di religione; essa riconosce e festeggia le ricorrenze religiose ed è basata su comunicazioni delle quali non si ha una prova diretta, dunque presuppone una fede.
Questo atteggiamento caratterizza tanto quelli che hanno avuto nell’infanzia e giovinezza esperienze religiose, quanto quelli che vengono dal materialismo. Esso consiste nell’associare il Nome e l’Essere del Cristo immediatamente all’esperienza religiosa e nel sovrapporre automaticamente l’esistenza del mondo spirituale e la vita religiosa dell’anima umana.
In realtà all’Essere del Cristo ci si può avvicinare per una via affatto religiosa. Prima ancora di divenire fratello e soccorritore degli uomini, e per questo guida di una religione, Egli aveva ed ha una esistenza oggettiva nel mondo spirituale. Per questo può essere incontrato da quelli che hanno la facoltà di vederLo e di contemplarLo, ma anche da quelli che possono compiere questo cammino con una sano esercizio di pensiero sostenuto dal calore del cuore.
In una preghiera di Adam Bittleston viene detto: “Già prima dell’inizio del mondo il Cristo risplendeva nella Sua gloria” 1. Questa bella immagine ci pone davanti all’anima il fatto che il Cristo ha, ha sempre avuto ed avrà sempre una realtà oggettiva che prescinde da chi si pone davanti a Lui nelle varie forme possibili.
L’incontro con il mondo spirituale in chiarezza di idee può avvenire anche fuori dall’esperienza cristiana: per lo stesso dott. Steiner è stato così.
Alla fine di questo mio primo periodo, sentii impellente il bisogno di chiarire a me stesso certi orientamenti dell’anima umana. Uno di questi era il misticismo. La mia speciale disposizione interiore mi rendeva difficile acquisire un contatto con questo atteggiamento dell’anima, quale mi si presentava attraverso le diverse epoche dello sviluppo spirituale dell’umanità, nella saggezza orientale, nel neoplatonismo, nel cristianesimo medioevale, nelle ricerche cabalistiche. Il mistico mi appariva come un uomo che non riesce a raggiungere un rapporto chiaro col mondo delle idee, nel quale, per me, viveva e si manifestava lo spirito. Volersi immergere con le idee nell’interiorità priva di idee, allo scopo di conseguire l’ultimo appagamento dell’anima, era un atteggiamento ch’io sentivo come una mancanza di vera spiritualità. Non mi appariva come una via verso la luce, ma verso le tenebre spirituali. Secondo me era un’impotenza conoscitiva dell’anima quella che voleva raggiungere, fuggendo le idee, la realtà spirituale la quale, se non opera essa medesima nelle idee, può però attraverso le idee, essere dall’uomo sperimentata. Eppure anche nelle aspirazioni mistiche dell’umanità c’era qualcosa che mi attirava; ed era il modo come i mistici vivono l’esperienza interiore. Essi vogliono congiungersi con le sorgenti dell’esistenza umana nel proprio intimo e non solo percepirle da fuori con l’osservazione esteriore che si conforma alle idee. Ma a me era chiaro che lo stesso genere di esperienza interiore si può raggiungere anche se ci si immerge nei sostrati profondi dell’anima col pieno e chiaro contenuto del mondo delle idee, invece di eliminarlo. Io volevo introdurre la luce delle idee nel calore dell’esperienza interiore. [...] Il mistico mi sembrava rafforzare, anziché indebolire, la posizione del materialista rispetto alla natura. Questi rifiuta la contemplazione del mondo spirituale perché, o non lo ammette affatto, o ritiene che la conoscenza umana sia atta ad afferrare unicamente ciò che è percepibile ai sensi. Egli pone dei limiti alla conoscenza là dove sono i limiti della visione sensibile. Il mistico comune ha lo stesso atteggiamento del
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materialista di fronte alla conoscenza umana a mezzo di idee. Egli afferma che le idee non giungono fino allo spirito, e che perciò, nella conoscenza a mezzo di idee, si rimane sempre fuori dello spirito. Ma poiché tuttavia vuole giungere allo spirito, si rivolge a un’esperienza interiore libera da idee, dando ragione in tal modo all’osservatore materialistico della natura, in quanto limita alla sola natura la conoscenza a mezzo di idee. Ora, se si penetra nell’interiorità dell’anima rinunziando alle idee, si arriva alla regione del solo sentimento e si afferma allora l’impossibilità di giungere allo spirito per la via che nella vita comune si chiama conoscitiva; si dice che, dalla sfera della conoscenza, bisogna, per conseguire l’esperienza dello spirito, immergersi in quella del sentimento. Con una concezione simile può dichiararsi d’accordo anche l’osservatore materialistico della natura, dato che quanto riguarda lo spirito non sia per lui un fantastico gioco di parole prive di realtà, Egli, allora, vede nel suo mondo di idee dirette al sensibile, l’unica legittima base di conoscenza e nel rapporto mistico dell’uomo con lo spirito, qualcosa di puramente personale a cui si è inclini o no, secondo la propria disposizione, senza però poterlo mai qualificare come “oggetto di sicura conoscenza”. Il rapporto dell’uomo con lo spirito va appunto lasciato al “sentimento soggettivo”. [...] (Invece) Io volevo plasmare delle idee che interpretassero lo spirito in modo simile a quello in cui le idee della scienza naturale interpretano ciò che è percepibile ai sensi. Tale via mi permetteva di conservare il carattere di pensiero a quanto avevo da dire; mentre ciò non mi sarebbe stato possibile facendo uso delle forme mistiche, poiché queste, in sostanza, non si riferiscono a quanto esiste e vive al di fuori dell’uomo, ma descrivono unicamente le esperienze soggettive dell’uomo stesso. Io non volevo descrivere esperienze umane, ma mostrare come, a mezzo di organi spirituali, il mondo spirituale si manifesti nell’uomo. Su queste basi si andavano configurando quelle forme ideali da cui sorse più tardi la mia Filosofia della libertà. Nel far ciò non volevo lasciare che dominasse in me nessuna tendenza mistica, quantunque mi fosse chiaro che l’esperienza ultima di ciò che doveva manifestarsi in forma di idee dovesse avere, nell’intima dell’anima, la stessa natura della percezione interiore dei mistici. Sussisteva però questa differenza: che nella mia concezione l’essere umano si apre e porta in sé a oggettiva manifestazione il mondo spirituale esterno; mentre il mistico intensifica la propria vita interiore, cancellando così il vero aspetto dell’elemento spirituale oggettivo.2
Rudolf Steiner si basava, in queste esperienze, su di una sicura conoscenza del mondo spirituale dovuta alle doti di percezione soprasensibile. Eppure i processi di cui parla hanno un riscontro anche nell’esercizio del pensiero legato alla realtà ordinaria, comune ad ogni uomo. Questo tipo di pensiero, liberato da pregiudizi (grazie all’aiuto dato dall’opera del dott. Steiner) può dare anch’esso una sicurezza interiore ed una certa chiarezza sul mondo spirituale. Questa attività di pensiero non richiede nulla di più del suo uso libero e non ha bisogno di sistemi di idee preesistenti (quindi neppure del cristianesimo), ma è una pura esperienza dell’anima. “ [...] è necessario osservare che il pensare stesso deve trasformarsi se vuole cogliere i fatti spirituali. Generalmente si pensa che la mente non possa afferrare le rivelazioni del mondo spirituale. Essa può afferrarle, ma occorre che allarghi i confini della propria logica. [...] alle comunicazioni provenienti dal mondo spirituale si deve portare incontro un pensare adatto a quel mondo. Esso però si presenta già al semplice pensare logico.” 3
Allargando i confini della propria logica il pensare umano può scoprire e riconoscere all’interno della propria anima quanto accolto e conosciuto dalle comunicazioni di Rudolf Steiner. L’incontro con il Cristo e con il cristianesimo può avvenire su questo cammino.
Quando a quel tempo adoperavo la parola “cristianesimo”, intendevo parlare di quella “dottrina dell’al di là” che operava nelle confessioni cristiane. Tutto il contenuto dell’esperienza religiosa rimandava ad un mondo spirituale che si diceva irraggiungibile all’uomo nello sviluppo delle sue forze spirituali. Ciò che dice la religione, ciò che prescrive come precetto morale, procede da rivelazioni che giungono all’uomo dall’esterno. A questo si opponeva la mia concezione dello spirito che voleva sperimentare il mondo spirituale esattamente come il mondo sensibile in ciò che è percepibile nell’uomo e nella natura; e vi si ribellava pure il mio individualismo etico che voleva far procedere la vita morale non da fuori, per mezzo di comandamenti, ma dallo sviluppo dell’essere umano animico-spirituale nel quale vive il divino. [...] Il cristianesimo che io sentivo di dover cercare non lo trovavo in nessuna delle confessioni esistenti. E, dopo che in quel periodo ero stato sottoposto ad aspre lotte dell’anima, dovetti immergermi io stesso nel cristianesimo e precisamente nel mondo in cui lo spirito stesso ne parla. Dal mio atteggiamento di fronte al cristianesimo risulta evidente che nella scienza dello spirito nulla ho cercato e nulla ho trovato per la via che molti mi attribuiscono. Questi molti presentano la cosa come se io avessi composto ed elaborato la scienza dello spirito con ogni sorta di antiche tradizioni, teorie gnostiche ed altre. Ma non è così: la conoscenza spirituale che si trova nel Cristianesimo quale fatto mistico è attinta direttamente dal mondo spirituale. Solo per mostrare agli uditori delle mie conferenze e ai lettori del mio libro l’armonia tra quanto è percepito spiritualmente e le tradizioni storiche, vi ho inserito queste ultime, ma non ho mai accolto nulla da tali documenti che non abbia prima avuto davanti a me nello spirito. Il tempo in cui dicevo sul cristianesimo cose tanto contrastanti, se si guarda solo alla lettera, con quanto ho detto più tardi, fu quello in cui il vero contenuto del cristianesimo cominciò a germogliare dinanzi alla mia anima come fenomeno di conoscenza interiore. Sul declinare del secolo quel germe si sviluppò sempre più. [...] Lo sviluppo della mia anima fu dovuto all’essere stato spiritualmente dinanzi al Mistero del Golgota nella più intima e profonda solennità della conoscenza.4
Rudolf Steiner aveva esperienze spirituali che a noi sono attualmente inaccessibili, ma il metodo di ricerca ed il percorso seguito possono essere gli stessi per qualunque ricercatore dello spirito. Immergendosi nel mondo spirituale, l’incontro con il Cristo ed il Cristianesimo possono essere i frutti dell’esperienza e non i suoi presupposti. Questo incontro può mantenersi in una dimensione, seppur solenne, di conoscenza.
E’ questa possibilità di incontrare il Cristo che giustifica l’affermazione per cui si può essere membri della Società Antroposofica senza distinzione di religione5
Per essere antroposofi, cioè “uomini che intendono aver cura della vita dell’anima nell’uomo singolo e nella società umana sulla base di una vera conoscenza del mondo spirituale” 6, non è necessario essere cristiani. Le verità del mondo spirituale, e tra di esse la realtà dell’Essere del Cristo, possono essere ricevute e maturate nella propria anima, con un sano ed armonioso esercizio di pensiero e sentimento. Chiunque, anche umilmente e pur se in forme diverse, può avere un’esperienza animica della realtà del mondo spirituale che accompagni i preziosi doni conoscitivi ricevuti da Rudolf Steiner. Questa esperienza animica genera un profondo sentimento della verità. Esso, unito ad un pensare libero, ci accompagna tutti sulla via di conoscenza antroposofica. L’aspirazione a seguire questa via può essere di qualunque uomo che ami la verità.
Su questo cammino egli incontrerà il Cristo, prima o poi, ma non sarà ancora un cristiano. Questa condizione non significa solo conoscere e riconoscere il Cristo con il Suo ruolo nelle vicende evolutive dell’umanità, ma scegliere coscientemente
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di appartenere ad una comunità che sia strumento del Suo operare sulla Terra. Questa scelta non è una diretta ed immediata conseguenza dell’incontro con il Cristo generato da una ricerca scientifico-spirituale.
L’altra opinione, citata all’inizio, vede nel moderno cammino di conoscenza le condizioni per un diverso rapporto col mondo spirituale che rende superate le chiese e le pratiche religiose.
Nelle prime settimane dopo la fondazione della Comunità dei Cristiani, si parla dell’autunno 1922, si verificò una tendenza tra molti antroposofi, che erano stati vicini al dott. Steiner nelle cerchie ristrette degli inizi, a riconoscere nella Comunità dei Cristiani una riproposizione del primo lavoro esoterico intorno al loro maestro. Essi tendevano ad immergersi in esso trascurando la Società.
Il 30 dicembre 1922, durante l’ultima conferenza di Natale nel primo Goetheanum, (Rudolf Steiner) dedicò un’intera serata a questo problema del giusto rapporto tra la Società Antroposofica e la Comunità dei Cristiani. In questa occasione difese molto calorosamente il fatto che gli antroposofi non dovessero semplicemente sommergersi nella Comunità dei Cristiani. Profondamente ansioso circa il futuro della Società Antroposofica, le cui energie, stabilità, senso dell’obbiettivo e la stessa sicurezza economica potevano essere minacciate dalla potente attrattiva del nuovo movimento, egli tentò di richiamare i membri della Società Antroposofica al loro primo dovere e lealtà, appellandosi quasi al loro orgoglio, quando disse che gli antroposofi non avrebbero dovuto aver bisogno del rinnovamento religioso e che la Comunità dei Cristiani avrebbe dovuto occuparsi di persone che non possono assumere l’antroposofia, ma semplicemente cercare una forma moderna della religione cristiana7.
Forse l’opinione che gli antroposofi non hanno più bisogno del culto e dell’esperienza religiosa può essere nata anche da queste parole di Rudolf Steiner. Ma alcune settimane dopo (in una conferenza a Stoccarda il 23 gennaio 1923) il dottor Steiner ebbe a spiegare che quelle considerazioni erano nate dalla sua gravissima preoccupazione per la salvezza ed il benessere della Società Antroposofica.
Proprio questo, nella penultima conferenza tenuta al Goetheanum nel particolare settore del movimento religioso, mi aveva obbligato a parlare. Non starò certo a criticare il movimento per il rinnovamento religioso realizzato, or son tre mesi e mezzo secondo i miei consigli, ed è evidente che lo riguardo provando la più profonda soddisfazione se prospera. Tuttavia dopo questi tre mesi e mezzo di vita, devo riprendere il discorso che a Dornach allora avevo indirizzato non al movimento per il rinnovamento religioso, bensì agli antroposofi, e naturalmente anche a quelli che sono impegnati nel movimento per il rinnovamento religioso. E quel discorso non poteva voler dire se non: ci si rallegri pure per la figlia, ma non si dimentichi la madre, non ci si dimentichi che anche la madre deve essere coltivata e protetta. Di tale compito devono ricordarsi tanto il movimento per il rinnovamento religioso, quanto specialmente gli antroposofi che vivono nella Società Antroposofica8
In seguito
Rudolf Steiner stesso espresse esplicitamente la speranza che la Comunità potesse portare le benedizioni di una equilibrata vita di comunità nelle ampie sfere del movimento antroposofico. Contemporaneamente non desiderava che il movimento antroposofico dipendesse da questo. Nel trattare il problema
fece alcune profonde rivelazioni sulla natura delle comunità e sul come si formano. Le comunità, in quanto distinte dalle organizzazioni, contengono un elemento occulto. I membri di una comunità religiosa condividono una comune reminiscenza istintiva della loro preesistenza spirituale. In particolare l’esperienza comunitaria di un vero culto risveglia nei fedeli quei livelli più profondi di coscienza dove sono depositati i ricordi della preesistenza. In un incontro antroposofico si può fare l’esperienza della comunità in modo diverso. Egli lo chiamò “il risveglio attraverso l’incontro con l’anima e lo spirito di un essere umano simile”, che si può avere “in quanto il contenuto dell’antroposofia è sperimentato da un gruppo di anime in modo adeguato” 9
E completando le somiglianze comparative e le differenze tra questi due eventi paralleli proseguì:
Se abbiamo il limite che separa il mondo soprasensibile da quello sensibile, nel culto vi sono i processi e le essenzialità dei mondi superiori; nella parola del culto e nell’azione cultuale ci si presenta una loro proiezione nel mondo fisico. Se invece abbiamo un gruppo antroposofico, trasferiamo nel mondo spirituale ciò che nel mondo fisico vi si sperimenta grazie alla forza del vero idealismo che diviene spirituale. Mediante il culto il soprasensibile viene trasferito nel mondo fisico grazie alla parola e all’azione. Mediante il gruppo antroposofico vengono innalzati al mondo soprasensibile i pensieri e i sentimenti. Se un gruppo di persone sperimenta nel giusto atteggiamento il contenuto antroposofico, destandosi ogni anima umana all’altra, le singole anime vengono realmente elevate a formare una vera comunità spirituale. Occorre soltanto che questa coscienza sia davvero presente. Se è presente e nella Società Antroposofica sorgono tali gruppi, in questo, che vorrei chiamare culto rovesciato, in quest’altro polo cultuale, è presente qualcosa che nel senso più vero è creatore di comunità. Volendo parlare per immagini, si potrebbe dire che la comunità cultica cerca di far discendere gli Angeli del cielo nel luogo in cui si svolge il culto, affinché siano tra gli uomini; la comunità antroposofica cerca di sollevare le anime umane ai mondi soprasensibili per farle giungere tra gli Angeli. Ciò è nei due casi l’elemento formatore di comunità. 10
Molte anime hanno trovato e stanno trovando che entrambi i modi di formare comunità si completano e si supplementano a vicenda. Può essere un accrescimento di ricchezza della vita spirituale partecipare ad entrambi processi di esperienza. Per dirla con le parole stesse del dott. Steiner: “Ciò che deve essere chiaramente differenziato nell’idea, è nuovamente unito nell’essere umano”.11
Ma il valore dell’esperienza del culto non sta solo nel suo significato comunitario. Esso è importante anche per l’attività che svolge nelle singole anime e per ciò che vi risveglia:
A questo punto credo che sarebbe necessario fare una dichiarazione che è importante e che dovrebbe essere ben compresa dagli amici della Scienza dello Spirito. Non dovrebbe venir rappresentato che gli sforzi scientifico spirituali sono intesi quali sostituti per la vita e la pratica religiosa. La Scienza dello Spirito, nel grado più elevato, ed in particolare la parte riguardante il mistero del Cristo, può essere presa come supporto per la vita e la pratica religiosa. Ma la Scienza dello Spirito non dovrebbe essere tradotta in una religione. Dovrebbe essere chiaro che la religione nella sua vita essenziale, nella sua pratica vivente accende la consapevolezza spirituale dell’anima. Se questo spirito cosciente deve essere vivificato nell’essere umano, questi non si può fermare all’idea astratta di Dio o di Cristo, ma deve essere sempre impegnato di nuovo in pratiche ed attività religiose, che possono assumere forme diverse presso i diversi popoli, deve vivere in un’atmosfera religiosa, in un ambiente religioso che gli parla12
Non c’è niente che abbia maggior potenza di formare comunità di quanto ne abbia il culto comune. E il culto sacramentale, in cui ripetutamente la medesima processione sacra di parole, simboli e azioni attraversa le anime dei presenti, è la forma di culto che maggiormente unisce. In esso la “potenza salutare del Cristo” è attiva nella forma più pura. In un autentico servizio eucaristico i veri Io dei fedeli sono uniti con Cristo. Quando noi lo ricordiamo, Egli ricorda noi, perché così ha promesso di fare. Ma la Sua memoria non è legata ad un cervello mortale che consente di far sorgere mere ombre dal passato, la Sua memoria è un vero “ri-membrare”. Egli è là dove manda i Suoi pensieri; Egli diventa un “membro” reale della congregazione all’altare e può essere in molti luoghi contemporaneamente. Quando disse ai Suoi discepoli nell’Ultima Cena: “Fate questo in memoria di me” non suggerì una pallida commemorazione di un evento passato, ma un ri-vivere della Sua reale presenza in cui Egli co-opererà davvero. E mentre questa unione è messa in atto al livello dei nostri Io [...] il pane ed il vino portano in noi le forze guaritrici del Cristo allo scopo di includere anche il nostro corpo nel processo di redenzione ed imprimere in noi, stadio dopo stadio, la perfezione incorruttibile del corpo di resurrezione di Cristo. [...] Rudolf Steiner ebbe a dire qualcosa di molto pertinente a proposito dell’opposizione interiore al culto sacramentale. ”Io conosco – disse un giorno – quanto grande sia l’antipatia che vive nei cuori della gente moderna a riguardo del culto sacramentale”. Ed aggiunse che è sorta dalle stesse potenze che dicono nei Vangeli: “Noi ti conosciamo, Gesù di Nazareth”, e che cominciano a combattere il Cristo proprio perché lo riconoscono. Forse ci sono poche cose che penetrano così profondamente nel centro della situazione religiosa come questa osservazione. Il clima mentale per l’atteggiamento che Rudolf Steiner caratterizzò con tale gravità è stato preparato, passo dopo passo, dallo sviluppo intellettuale degli ultimi secoli, attraverso i quali spirito e materia sono andati sempre più divorziando. Sarebbe in verità una vittoria decisiva per le potenze demoniache se potessero infine ispirare l’umanità con il credo che la materia, o energia materiale, è realmente “niente altro” che materia e che non ha posto nel processo di salvezza. Darebbe ai demoni l’eventuale dominio sulla terra perché nel controllo della “mera” materia essi sono eccelsi. Il culto sacramentale in cui la materia è usata per amore delle sua intrinseche virtù, e pertanto spiritualizzata, è il possente e realistico antidoto alle aspirazioni demoniache. Tuttavia, quasi in parallelo con la fondazione della Comunità dei Cristiani per cui mediò i misteri sacramentali comunitari nella loro forma cristiana moderna, Rudolf Steiner parlò di vie e mezzi con cui il singolo ricercatore dello spirito può da sé raggiungere l’unione con il mondo spirituale. Per questa unione Rudolf Steiner usò il termine di “comunione cosmica”. [...] Nell’ultimo quarto del XIX secolo, durante il lavoro per la pubblicazione delle opere scientifiche di Goethe, Rudolf Steiner formulò una frase che gli sembrò esprimesse un elemento vitale dell’attività spirituale e mentale di Goethe stesso: “La percezione dell’Idea nella realtà esistente è la vera comunione dell’uomo”. Questa frase a cui frequentemente Rudolf Steiner fece riferimento negli anni successivi, spesso in forma breve o modificata, testimonia un’esperienza, osservata per prima in Goethe, che segna un momento storico nell’evoluzione della coscienza umana. L’anima umana individuale ha cominciato ad essere in grado di comunicare liberamente e coscientemente con il mondo oggettivo dello spirito, con le idee oggettive che vivono nelle cose. E ciò che in Goethe apparve come un seme Rudolf Steiner lo portò a piena fioritura.14
Questa capacità acquisita dall’anima non riguarda necessariamente una sfera di esperienze diverse o addirittura alternative a quelle della comunità di culto sacramentale.
Infatti:
Questo passo fondamentale nell’evoluzione della coscienza umana fu
pienamente preso in considerazione dalla Comunità dei Cristiani. Viene ad espressione in una qualità caratteristica che per tutti i suoi significati è difficile da spiegare a chi interroga dall’esterno. Si tratta del fatto che la Comunità dei Cristiani non ha un corpo formulato di dottrina e che né ai membri, né ai sacerdoti è richiesto di sottoscrivere alcuna formula di fede.
In modo caratteristico il Credo non contiene la frase “Io credo”, ma consiste in una sequenza di asserzioni che, se usate in contemplazione attiva, portano, infine ad “una realizzazione dell’Idea nella realtà esistente” della natura creata e della storia; di fatto ad una vera realizzazione della sacra trinità di Padre, Figlio e Spirito.
C’è ancora, tuttavia, un’intima domanda a cui dare risposta.
“La percezione dell’idea nella realtà esistente” è tutto quel che è implicato nella “comunione cosmica”, o c’è altro, al riguardo, oltre a questo?
Allo sguardo retrospettivo appare come una grande benedizione che i membri più maturi tra i fondatori furono capaci, forse anticipando futuri problemi, di porre domande a Rudolf Steiner che sollecitarono risposte e direttive che sono di valore inestimabile e che, senza simili domande perspicaci, non avrebbero mai potuto essere date. Nel suo libro Incontro di vita con Rudolf Steiner, Friedrich Rittelmeyer riferisce su come un giorno chiese a Rudolf Steiner: “Non è possibile ricevere il corpo ed il sangue di Cristo senza il pane ed il vino, puramente in meditazione?”. Rudolf Steiner rispose: ”E’ possibile, dal retro della lingua è esattamente lo stesso”.
Qui domanda e risposta conducono chiaramente oltre il primo stadio “della percezione dell’Idea nella realtà esistente”. Esse indicano il coronamento finale dell’esperienza che era implicito nel modo di pensare di Goethe. Perché, non è la Parola divina che fu incarnata in Cristo, l’Idea in tutte le cose percepite? Qui la comunione di coscienza cresce in una comunione dell’essere.
Forse il serio e rispettoso ricercatore ha ancora una domanda da fare: “Anche la transustanziazione ha luogo in questa comunione ‘cosmica’?”. A questo Rudolf Steiner risponde in una conferenza che tenne il 31 dicembre 1922, nel primo Goetheanum, solo poche ore prima del tragico incendio che distrusse quel glorioso edificio.
In questa conferenza allude in primo luogo al modo di pensare di Goethe e dice: “Fui in grado di dire di queste idee creative, nel mio piccolo libro Linee fondamentali per una gnoseologia della concezione goethiana del mondo: questo pensiero rappresenta la forma spirituale della comunione dell’umanità”.
Poi prosegue dicendo che l’uomo sarà gradualmente in grado di donare la propria vita spirituale al mondo. “L’uomo lo cambia (il mondo) dal proprio spirito, se offre della sua natura spirituale al mondo; così facendo egli eleva i suoi pensieri all’Immaginazione, Ispirazione e Intuizione; così facendo realizza la comunione spirituale dell’Umanità”. Ed infine dà la meravigliosa spiegazione: “Dovremmo essere coscienti che nel nostro volere, nel nostro volere permeato d’amore, noi, quali esseri umani, trasformiamo in spirito ciò che è divenuto materia; che noi compiamo una reale transustanziazione se diventiamo coscienti del nostro posto umano nel mondo, così che l’attività del nostro pensiero e del nostro spirito cresce realmente vivente in noi”.
Queste brevi citazioni danno, naturalmente, soltanto la più semplice indicazione di ciò che Rudolf Steiner sottolineò in quella conferenza come “l’inizio di un culto cosmico appropriato per l’umanità del tempo presente”. E forse non molte persone oggigiorno potrebbero affermare di poter già pienamente raggiungere ciò che Rudolf Steiner ha posto davanti all’umanità come compito e come possibilità.
Ciò nondimeno, anche questi fattori sono stati pienamente presi in considerazione nella fondazione della Comunità dei Cristiani. Sin dal principio visse la convinzione nella Comunità che è passato il tempo in cui si poteva considerare come completo e vero discepolo di Cristo e membro del Suo corpo soltanto colui che si comunicava regolarmente all’altare.
IUVENTAS - Nr. 2 - 25 dicembre 2022 [...]
La Comunità dei Cristiani riconosce pienamente il fatto che la nuova era del cristianesimo, che sta iniziando oggi, include una possibile comunione “cosmica” per il singolo.
Tra gli orientamenti interiori della storia del Cristianesimo c’è sempre stata una tensione tra le forme “sacramentali” e le forme “mistiche” della vita spirituale. Fu solamente un fatto naturale che la Comunità dei Cristiani, in quanto si evolvette dal suo retroscena storico e spirituale, s’incontrasse anch’essa con queste polarità profondamente radicate nella vita e nella pratica cristiana.
Ovviamente coloro che avevano un passato di misticismo – il termine è usato nel suo senso tecnico – desiderarono scandagliare più profondamente il campo della comunione cosmica individuale.
E talvolta essi andarono così lontano da immaginare una linea di divisione e persino un reciproco contrasto esclusivo tra la comunione cosmica e sacramentale. Ancora una volta il consiglio soccorritore di Rudolf Steiner guidò ad un atteggiamento equilibrato [...]”Non si dovrebbero mettere in evidenza le differenze - disse - perché senza dubbio i due modi non si contraddicono l’un l’altro”. [...]
In modo simile egli trattò l’opinione fraintesa che la comunione cosmica fosse superiore alla comunione sacramentale. “Questo dubbio - disseche sembra sia sorto, che si suppone che l’Antroposofia si rappresenti il sacramento come qualcosa di meno importante, [...] questa divergenza può soltanto basarsi su un equivoco di ordine emotivo”. [...]
Col passare del tempo cominciò a diventare operante l’autentico ed organico rapporto tra la comunione cosmica e la comunione sacramentale e sta operando nella vita e nell’esperienza di molti fervidi ricercatori. Molti tra coloro che aspirano all’esperienza della comunione cosmica hanno testimoniato sull’aiuto che hanno trovato nell’Atto di Consacrazione dell’Uomo, ed in particolare sull’infallibile livello di realtà sacramentale che fornisce. Ma anche coloro per cui l’Atto di Consacrazione è il luogo della loro normale comunione conoscono che in esso incontrano e ricevono Cristo pienamente ed in modo del tutto appropriato alla coscienza dell’epoca.15
Si sono così delineate quattro realtà distinte.
La prima è la via di conoscenza antroposofica. Essa riguarda l’individuo in se stesso e, maturando in esso la capacità di percepire “l’Idea nella realtà esistente”, realizza, almeno in tendenza, la “comunione cosmica”.
La seconda è il gruppo antroposofico il quale, “risvegliando attraverso l’incontro con l’anima e lo spirito di un essere umano simile” ed “innalzando pensieri e sentimenti al mondo soprasensibile”, è creatore di una vera comunità spirituale. La terza è la comunione sacramentale che realizza l’unione con il Cristo e le Sue forze guaritrici.
La quarta è l’Atto di Consacrazione dell’Uomo, la messa rinnovata. Esso è un essere spirituale disceso sulla terra grazie alla mediazione del dott. Steiner e dà corpo alle necessità cultuali dell’umanità di oggi creando un potente impulso a formare comunità terrene al servizio del Cristo. Sono quattro realtà distinguibili con l’attività di pensiero che possono essere tuttavia compresenti e cooperanti nelle singole anime. Esse costituiscono una complementarità di forze.
Tornando alle due opinioni da cui ha preso spunto questo lavoro possiamo vedere se i limiti che esse ponevano sono stati ampliati.
Osservando che “si può essere antroposofi senza essere cristiani” riconosciamo alla via di conoscenza antroposofica la sua specifica essenza: essa è lo strumento con il quale gli uomini della nostra epoca possono ricongiungersi in chiarezza di pensiero con il mondo spirituale. E nel farlo non devono
rinunciare a nulla di quanto viene loro incontro dalle scienze della natura né delle ricche facoltà che il pensare di oggi può suscitare.
In questo senso l’antroposofia è una via scientifica ed è una via “laica”, nel significato esteso, ed oggi più diffuso, di questo attributo.
Dunque un antroposofo può non essere cristiano (comunque le due esperienze apparterrebbero a due sfere diverse della vita dello stesso individuo16) e può non aver bisogno di una chiesa. Questo però ha a che fare con la sua vicenda personale e non è una caratteristica peculiare né dell’essere antroposofo, né dell’essere uomo della nostra epoca. Significa solo che quella persona, nel punto in cui si trova del suo cammino, ha maturato quella specifica forma di coscienza e vive in quella dimensione di sentimento.
Osservando che “i sentimenti e le pratiche religiose sono ancora necessari agli uomini contemporanei” riconosciamo al culto, alla celebrazione sacramentale, alla preghiera ed all’intima religiosità dell’anima un portare incontro all’uomo, anche nella nostra epoca, forze e facoltà diverse da quelle conseguite con il cammino di conoscenza.
Allora l’affermazione alla quale si è accennato all’inizio, secondo cui la Comunità dei Cristiani è o sarebbe solo la chiesa di chi conosce l’antroposofia, è semplicemente inadeguata ad esprimere una realtà molto più ricca ed articolata.
Mentre un antroposofo può non vivere un vero sentimento religioso in senso cristiano la Comunità dei Cristiani è nata come movimento per il rinnovamento della vita religiosa di tutti gli uomini e non solo degli antroposofi.
Essa è la chiesa di Cristo nell’epoca nella quale gli uomini cominceranno a percepirLo nel mondo eterico. E’ la chiesa che non segue la successione di Pietro ma ne ha inaugurata una nuova nel nome di Giovanni e manifesta i contenuti del cristianesimo esoterico così ampiamente rivelati dal dott. Steiner.
Essa è aperta a tutti gli esseri umani ai quali porta la presenza di Cristo nei sacramenti rinnovati. E’ una fonte di pace per le anime umane le quali per dissetarsene non hanno affatto bisogno del retroterra culturale né dell’esperienza spirituale antroposofici.
E’ una delle carissime figlie dell’antroposofia ma, come tutte le altre, è rivolta ad ogni essere umano e per questo è una chiesa universale.
Ciò nonostante in questo suo essere la Comunità dei Cristiani può dare un grande aiuto agli antroposofi accompagnandoli sul loro cammino.
Sarebbe interessante sviluppare anche un altro aspetto: gli antroposofi e le altre chiese cristiane, ovvero “perché se un antroposofo fa parte di una chiesa non si rivolge alla Comunità dei Cristiani?”. Esso però riguarda il modo individuale ed intimo con cui una persona vive questa sfera e dovrebbe essere trattato da chi ne ha un’esperienza interiore.
Ciò che ho cercato di portare trae, infatti, origine dalla mia personale esperienza. Pur attingendo a letture antroposofiche, ho affrontato solo quella parte del tema che avevo vissuto. Se cercassi quindi di trattare questa ulteriore possibilità dell’argomento, esso acquisterebbe un carattere astrattamente intellettuale, non basato su esperienze dell’anima, che voglio assolutamente evitare.
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Chi invece potesse portare altre testimonianze arricchirebbe questo tema della sua viva esperienza personale alla luce dell’antroposofia.
NOTE
1 - Adam Bittleston, Preghiere per i giorni della settimana, in “Bollettino della Comunità dei Cristiani in Italia” – Pasqua 1998;
2 - R. Steiner, La mia vita - O.O 28., Ed.Antroposofica , Milano 1987, Cap.XI, p.128
3 - R. Steiner, Nessi karmici vol. I - O.O 235, Ed.Antroposofica, Milano 1985 , 1° Conferenza, p. 20
4 - R. Steiner, La mia vita, Cap. XXVI, p. 277
5 - Cfr. Principi della Società Antroposofica Universale, punto 4
6 - Ibid., punto 1
7 - Alfred Heidenreich, Punto di crescita, trad. italiana a cura della Comunità dei Cristiani dalla edizione inglese (Growing point, Floris Book, Edimburgo), p. 69. Heidenreich (1898 – 1969) è stato sacerdote fondatore della Comunità. Ha fatto parte della cerchia dei reggenti: come ‘Lenker’ fino al 1938 e poi, come ‘Oberlenker’, fino alla sua morte. Ha curato lo sviluppo della Comunità dei Cristiani nei paesi di lingua inglese.
8 - R. Steiner, Formazione di comunità - O.O. 257, Ed. Antroposofica, Milano 1992 , 1° conferenza , p. 19
9 - Heidenreich, Punto di crescita, p. 70
10 - R. Steiner, Formazione di comunità, 9° conferenza, p. 159
11 - Heidenreich, Punto di crescita, p. 71
12 - R. Steiner, O.O. 175 - 3° conferenza (non edita in italiano),
cit. in Punto di crescita, p. 10
13 - Le parole tra virgolette all’interno della nota 14 fanno parte del Credo della Comunità dei Cristiani.
14 - Heidenreich, Punto di crescita, p. 78 e seguenti
15 - Ivi, p. 81 e seguenti
16 - Con l’antroposofia una persona compie una ricerca che vuol portare ad una chiarezza oggettiva il mondo spirituale ivi comprendendo la parte spirituale dell’uomo e quindi di se
stesso. Questo processo, condotto dapprima con le forze di pensiero stimolerà e svilupperà in lui una nuova dimensione del sentimento ed il suo perfezionamento morale. Con il cristianesimo ed il culto cristiano una persona accoglie le forze cristiche in una dimensione di pre-pensiero e le lascia agire dentro di sé. Questo processo stimolerà le forze di pensiero sul cammino di conoscenza e lo sviluppo formativo della comunità a sostegno dell’opera terrena del Cristo. Le forze interiorizzate con il culto e la preghiera saranno anche potenti difese dell’anima dalle difficoltà, se non dai veri e propri drammi, che talvolta si possono incontrare lungo il cammino di conoscenza per opera delle potenze dell’ostacolo. Questi due processi si manifestano in un tessere reciproco nell’anima umana ed agiscono uno nell’altro, ciò nondimeno è possibile caratterizzarli come processi diversi. (Vedi anche la frase di Rudolf Steiner nel passo citato alla nota 11.)
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Raffaello Sanzio, Madonna del Belvedere, 1505 – 1506, olio su tavola, 113 x 88 cm, Vienna, Kunsthistorisches Museum
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Sandro Botticelli, Natività Mistica, 1501, pittura a olio su tela, 108,5×75 cm, National Gallery, Londra
Christmas II
Voices in thunder from the bounds of heaven Through age on age prepared the world of earth To hold the form of man, whose inmost soul Is born to serve the Christ.
His glory is about the humble child Laid in the manger, bringing paradise New among men who lift their hearts to see The gift beyond all thought.
Bless Thou our troubled souls, grown poor in love, From Thy eternal mercy which brings back All that is lost into the fold of God, O Word of worlds made man!
Natale II
Adam Bittleston, Meditative Prayers For Today, Floris Books, Edimburgo, 1993
Voci di tuono dai confini dei cieli, attraverso le ere prepararono il mondo terreno a contenere la forma umana la cui più intima anima è nata per servire il Cristo.
La Sua gloria viene in un umile bambino, adagiato in una mangiatoia, e recante il Paradiso, nuovo, tra gli uomini che sollevano i loro cuori per vedere il dono, al di là di ogni pensiero.
Benedici, Tu, le nostre anime sofferenti, cresciute povere d’amore, dalla Tua eterna grazia che riporta tutto ciò che è perduto nella comunità di Dio. O Parola dei mondi fatta uomo.
Traduzione dall’edizione inglese di Elio Biagini, in Adam Bittleston, Preghiere meditative per il nostro tempo, Editrice Novalis, 2019
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QUal’è l’aziOne deGli OSTaCOlaTOri nel nOSTrO TemPO?
idee PraTiCHe ed eSerCizi di PrOTeziOne di Yarince Vicenzo, dicembre 2022
Cerchiamo di riprendere il filo delle considerazioni che avevamo lasciato in sospeso la volta scorsa: ci eravamo chiesti come riconoscere l’azione degli Ostacolatori nel nostro tempo e soprattutto come fare a contrastarla, cercando poi di offrire una chiave di lettura del presente alla luce delle conoscenze spirituali, chiedendo ai lettori di ampliare o commentare i nostri esempi. Purtroppo al momento nessun lettore coraggioso ci ha scritto i suoi pensieri a riguardo, dunque abbiamo deciso di cominciare citando alcuni passi di Rudolf Steiner e Ernst Jünger in proposito al nostro tema: “Gli uomini moderni conducono in certa misura anche una vita spirituale, che però è puramente intellettuale e non entra in relazione con il mondo spirituale. Si diffonde sempre più tra la gente questa vita semplicemente intellettuale, che dapprima ha trovato una collocazione soprattutto nelle scienze, ma ora anche nella vita sociale, e che conduce a tutti i possibili eccessi sociali. [...] Essa è ben poco permeata dei veri interessi della gente. Vi domando: quanti insegnanti vedete oggi entrare e uscire dalle scuole inferiori e superiori i quali non si dedicano con intimo entusiasmo alla loro materia, ma esercitano la loro professione solo in modo esteriore? Non vi è in costoro un interesse immediato dell’anima collegato a quanto viene trasmesso con l’insegnamento. [...] Tutto quello che si sviluppa come vita spirituale intellettuale, senza brillare del calore animico umano, senza essere accompagnata dall’umano entusiasmo, alimenta direttamente l’incarnazione di Arimane nel suo vero senso. [...] E quando oggi si fa appello ai legami di popolo, di stirpe e roba del genere, a legami che non scaturiscono dalla ragione o dallo spirito, si genera disarmonia entro l’umanità. Una disarmonia che può servire in modo del tutto particolare alla potenza di Arimane. Lo sciovinismo nazionalista e ogni sorta di patriottismo deviato diventano il materiale con cui Arimane si costituisce quello che deve avere”1
“Così si può dire che, nel campo materiale, le malattie da bacilli, come la
Catturati nel gioco di potenti illusioni ottiche siamo abituati a considerare l’uomo, se confrontato con le sue macchine e con l’arsenale della sua tecnica, un granello di sabbia. Ma queste illusioni sono e rimangono i fondali di una immaginazione gregaria. Come l’uomo le ha costruite così le può demolire, ovvero le può inserire in un nuovo ordine di significati. I vincoli della tecnica si possono infrangere, e a farlo può essere proprio il singolo.
Ernst Jünger, Il Trattato del Ribelle, p.15
tubercolosi e altre, hanno un’origine simile a quella, in campo spiritualeanimico, del materialismo intellettuale ora dominante. Le due cose si equivalgono senz’altro nel loro significato superiore. [...] Alcuni sviluppano un’irresistibile propensione per il materialismo intellettuale, proprio perché essa deriva dal loro personale legame con Arimane precipitato sulla terra. Cominciano a poco a poco ad amare gli impulsi che Arimane dirige nelle loro anime, e a considerarli come qualcosa di particolarmente elevato e alto nel modo di pensare”2.
“I rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano. Fin tanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non sol tanto la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali hanno conservato la loro forza, esercitino un’autorità assoluta. [...] È possibile attenuare il terrore mentre l’automatismo perdura, o, come è prevedibile, mentre esso si avvicina sempre più alla perfezione? Non sarebbe insomma possibile rimanere sulla nave e conservare la nostra autonomia di decisione - ossia non soltanto preservare, ma addirittura rafforzare le radici che ancora affondano nel suolo originario?” 3
Queste domande assomigliano molto a quelle con cui avevamo
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concluso la volta scorsa: ci eravamo chiesti cosa significhi aver svenduto le nostre facoltà superiori ad Arimane e avevamo visto come la Scienza dello Spirito insegni che lo sviluppo di facoltà spirituali nasca da lunghe preparazioni e percorsi iniziatici. Oggi invece la “chiaroveggenza tecnologica”, portata incontro all’Uomo dall’esterno e a buon mercato, rappresenta un vero e proprio trauma per la coscienza ordinaria a cui viene concesso uno strumento senza essersi guadagnata la capacità interiore di poterlo usare adeguatamente. Così è possibile comprendere meglio le difficoltà di orientamento nel mondo digitale odierno: queste sono le stesse che si incontrano varcando impreparati la soglia dei mondi spirituali. Inoltre, l’aver riprodotto sul piano fisico le facoltà che l’essere umano avrebbe altrimenti cercato nello spirito ha spesso colmato e spento in molti giovani quella sete e quella necessità di un percorso spirituale.
Queste considerazioni ci riportano direttamente alle domande con cui avevamo concluso la volta scorsa: in che cosa consistono questa preparazione e questo percorso spirituale? Grazie a essi sarebbe possibile convivere con le macchine senza che l’essenza e l’esistenza umane ne vengano annichilite? Nelle opere di Steiner troviamo molte indicazioni concrete a riguardo, per esempio nel libro Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori? (O.O. 10, in italiano spesso tradotto col titolo l’Iniziazione) e nella raccolta di appunti e trascrizioni delle lezioni esoteriche da lui tenute tra il 1904 e il 1923 (O.O. 266/1-2-3). In questi testi sono descritte minuziosamente la preparazione e il cammino spirituale adatti per gli esseri umani del tempo, attraverso meditazioni e leggi spirituali alle quali il discepolo deve imparare ad attenersi. Si tratta quindi di un lungo percorso che non passa solo attraverso la lettura o lo studio (piano del pensiero), ma bensí coinvolge tutte le facoltá dell’anima umana: innanzitutto colmando il cuore di sentimenti di gratitudine, devozione e venerazione e poi rinforzando la volontà attraverso la ripetizione ritmica degli esercizi, poiché secondo l’aurea legge “per ogni passo nella conoscenza delle verità occulte, devi al tempo stesso fare tre passi verso il perfezionamento morale del tuo carattere” (O.O. 10, p.52).
Uno dei fondamenti per questo cammino sono i cosiddetti sei esercizi complementari (descritti nei testi O.O. 95 - Alle Porte della Scienza dello Spirito, pp. 120-126, O.O. 245 - Indicazioni per una Scuola Esoterica, pp.15-20 e O.O. 145 - Lo Sviluppo Occulto dell’Uomo nelle sue quattro Parti costitutive). Il primo di questi esercizi è proprio adatto al nostro tema, come vedremo più avanti, e consiste nell’acquisizione di un pensare perfettamente chiaro. Steiner lo descrive così: “sia pure per breve tempo, anche solo per cinque minuti ogni giorno (meglio ancora se per più tempo), ci si deve rendere liberi dal confuso vagare dei pensieri. Bisogna diventare padroni del proprio mondo di pensiero. Non se ne è padroni se le condizioni esterne, lavoro, tradizione, relazioni sociali, persino l’appartenenza a un certo popolo, l’ora del giorno, o i doveri da compiere, determinano un nostro pensiero e il modo in cui si sviluppa. Occorre dunque nel tempo accennato, poter svuotare completamente l’anima, per libera volontà, dal corso diuturno e consueto dei pensieri, e di propria iniziativa porre un pensiero al centro dell’anima. Non bisogna credere che debba essere un pensiero elevato o interessante. Ciò che va raggiunto sul piano occulto si consegue persino meglio, se da principio ci sforziamo di scegliere il pensiero meno interessante e meno significativo possibile. Viene così più stimolata la forza autonomamente attiva del pensare, ed è questo che importa, mentre
un pensiero interessante, al contrario, trascinerebbe di per sé la mente. [...]
Ci si dice: ‘Partirò da questo pensiero e, per mia iniziativa interiore, vi aggiungerò tutto quanto può esservi oggettivamente connesso’. Alla fine del tempo prefissato, il pensiero deve stare dinanzi all’anima ancora altrettanto colorito e vivido quanto al principio. Si faccia questo esercizio giorno dopo giorno, almeno per un mese; ogni giorno ci si può proporre un nuovo pensiero, ma si può anche mantenere lo stesso soggetto per parecchi giorni. Alla fine dell’esercizio, si cerchi di portare a piena consapevolezza l’interiore sentimento di solidità e di sicurezza che si potrà presto notare con sottile attenzione alla propria anima. Si concluda l’esercizio, pensando al proprio capo e alla linea mediana della schiena (cervelletto - midollo spinale), come se si volesse riversare quel sentimento in questa parte del corpo”. (O.O. 245 Indicazioni per una Scuola Esoterica p.15). Per chi non conosce o pratica già questa serie di esercizi proponiamo di iniziare con questo esercizio e portarlo avanti almeno fino al prossimo articolo, dove potremo proseguire con il secondo. Tornando nel vivo del nostro tema è proprio nelle lezioni esoteriche degli ultimi anni, prima della rifondazione della Società Antroposofica, che Steiner fa alcune considerazioni molto significative su come proteggersi dagli Ostacolatori: “il solo antidoto che abbiamo nei confronti di Lucifero è un atteggiamento di modestia e umiltà”, perciò “esercita la conoscenza di te osservando i tuoi atti e non un dio illusorio in te stesso” (O.O. 266/3, p.164).
Da queste indicazioni risulta chiaramente che l’esercizio di riferimento per proteggersi dagli influssi luciferici è una retrospettiva serale obiettiva attraverso la quale osservare le proprie azioni dall’esterno o dal punto di vista degli altri. Dall’altra parte invece in che modo ci si può proteggere da Arimane? “Accontentandosi di ciò che ci viene concesso:
Io sono grato per ciò che ricevo e rinuncio a ciò che non mi è destinato.
Allora Arimane non può accostarsi a noi. Non si deve essere senza desideri, né un asceta che fugge dal mondo, ma nemmeno essere sempre soltanto pieni di gioia, bensì mantenere l’equilibrio tra queste condizioni” (O.O. 266/3, p.163). Questi due versi indicati da Steiner possono anche diventare il contenuto mantrico o il modello per una meditazione.
Abbiamo raccolto a questo punto due indicazioni fondamentali per contrastare l’azione degli Ostacolatori in noi: da una parte lo sviluppo di un sano senso della verità, in particolar modo per quanto riguarda la comprensione della propria individualità (conoscenza di sé con modestia e umiltà), mentre dall’altra l’accettazione dell’essere e del divenire del proprio destino (gratitudine e rinuncia).
Il passo successivo al proteggersi dalle influenze ostacolatrici è lo sviluppo della capacità di perdonare e trasformare queste forze e questi esseri, che hanno anche un ruolo e delle ragioni di esistere ben precise in un disegno cosmico molto ampio. In quest’ottica evolutiva infatti, chi rimane indietro è colui che si sacrifica per permettere ad altri di andare avanti più velocemente. Gli Ostacolatori sono dunque coloro che, a costo della propria evoluzione personale, hanno offerto e continuano a offrire il contrasto necessario all’essere umano per permettergli di evolvere verso la meta della Libertà nell’Amore.
Rendendosi veramente conto dell’incredibile dono che anche gli Ostacolatori fanno amorevolmente all’Uomo (mettendolo in difficoltà) sorgono spontanee alcune domande: come è
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Michelangelo Buonarroti, Giudizio Universale, 1536-1541, affresco, Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano
possibile ringraziare per questo enorme sacrificio e cominciare ad aiutare e sostenere l’ evoluzione di questi esseri? Ma soprattutto: qual è la loro meta evolutiva? A questo proposito è molto interessante il racconto della contessa Johanna von Keyserlingk, al termine del Corso di Agricoltura (O.O. 327, nella Pentecoste del 1924): “chiesi a Rudolf Steiner: ‘È d’oro l’interno della Terra, che origina dallo spazio vuoto all’interno del Sole, a cui di nuovo torna ad appartenere?’ Egli rispose: ‘Sì, l’interno della Terra è d’oro’. Per scrupolo di sicurezza gli chiesi ancora: ‘Dottore, se io sto qui sul suolo, allora sotto di me, nella profondità della Terra c’è una terra dorata. Se dovessi raggiungere la libertà dal peccato e dovessi stare nelle profondità, i demoni non sarebbero in grado di nuocermi e io li potrei attraversare giungendo alla terra d’oro. È così?’ Egli rispose: ‘Se uno passa attraverso di loro insieme al Cristo, allora i demoni sono incapaci di nuocergli, ma altrimenti essi sarebbero in grado di distruggerlo!’ Egli aggiunse le parole significative: ‘Però essi possono divenire i nostri aiutanti. Sì, è così. Il cammino è giusto, ma è molto difficoltoso” (Adalbert von Keyserlingk, Koberwitz 1924: Die Geburtsstunde einer neuen Landwirtschaft). Il tema della redenzione degli Ostacolatori e della loro trasformazione evolutiva è dunque imprescindibilmente legato alla figura del Cristo (il Redentore) e allo sviluppo concreto di una relazione con Esso. Forse possiamo infine arrivare a chiederci cosa vuol dire veramente “essere insieme al Cristo”?
Indagando in questa direzione riusciremo anche a comprendere meglio il senso del primo degli esercizi complementari (del chiaro pensare), infatti, secondo Steiner, Arimane può essere redento quando trova la sua essenza nello specchio del pensare umano: “la redenzione di Arimane avviene attraverso il pensiero. Come rimedio contro gli attacchi arimanici troppo forti, si raccomanda di riflettere sul primo capitolo del Vangelo di Giovanni [...] e sull’ottavo capitolo” (GA 168).
Inoltre nel finale del suo quarto Dramma Mistero (O.O.14 - Il risveglio delle anime) Rudolf Steiner fa indicare a Benedictus la via alla redenzione di Arimane:
“Egli si sforza di confondere il pensiero dell’uomo, Perché in esso trova le sorgenti della sua sofferenza Per un antico errore ereditato. Egli non sa ancora che la sua liberazione sarà possibile solo in futuro, quando scoprirà il suo essere Nello specchio di questo pensiero”.5
Così arriviamo all’immagine dell’essere umano che ha consapevolezza della proprio origine cosmica e del pensare puro come forza creatrice: sta soltanto al singolo individuo, come indivisibile nucleo spirituale incarnato sulla terra “scegliere se usare il bastone unicamente per sostenersi durante il viaggio terreno, oppure come scettro. Il tempo ci mette a disposizione nuove metafore. Abbiamo scoperto forme di energia enormemente superiori a quelle finora conosciute. Eppure tutto ciò rimane propriamente una metafora; le formule che la scienza umana scopre col passare del tempo ci conducono soltanto a quello che già da tempo sapevamo. Le nuove luci, i nuovi soli sono protuberanze fuggevoli che si staccano dallo spirito, e mettono alla prova l’uomo sul suo assoluto, sul suo mirabile potere. I colpi del destino ritornano di continuo e sfidano l’uomo a mettersi in gioco non più a questo o quel titolo, ma semplicemente in quanto uomo”.
(Ernst Jünger, Il Trattato del Ribelle p.72)
L’autore invita caldamente i lettori a condividere riflessioni e considerazioni o porre domande, contattandolo via mail oppure per lettera “per chi sa accontentarsi di una comunicazione più lenta”. Indirizzo elettronico e/o fisico dell’autore possono essere richiesti contattando la Redazione.
NOTE
1 - Rudolf Steiner, O.O.193, Sull’incarnazione di Arimane, Editrice Antroposofica, Milano, pp.39-40
2 - Rudolf Steiner, O.O.177, La Caduta degli Spiriti delle Tenebre, I Retroscena spirituali del Mondo, Editrice Antroposofica, Milano, pp.145-146
3 - Ernst Jünger, Il Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano, 1990, pp.45-46
4 - ibidem, p. 72
5 - GA 14, pp.534-535
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Epiphany
May the revelation of Christ
Shine out to the world, Granting to the mind
Understanding
As clear gold.
May the love of Christ
Stream forth to souls, Kindling in the heart
Prayer
As rising incense.
May the deeds of Christ
Be known by men’s spirits, Teaching in the hands
Devotion
As healing myrrh.
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Gaetano Previati, Adorazione dei Magi, 1890-1894, Olio su tela, 58,8×131, Pinacoteca di Brera, Milano
Adam Bittleston, Meditative Prayers For Today, Floris Books, Edimburgo, 1993
Possa la rivelazione del Cristo irradiare nel mondo, concedendo alla mente acutezza per intendere simile a oro che risplende.
Possa l’amore del Cristo fluire nelle anime, accendendo nel cuore preghiera simile a incenso che sale.
Possano le azioni del Cristo essere conosciute dagli spiriti umani insegnando alle mani devozione simile a mirra che risana.
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Beato Angelico, Adorazione dei Re Magi, ca. 1439-1443, intonaco/pittura a fresco, Convento di S. Marco, Firenze
Epifania
Traduzione dall’edizione inglese di Antonella Casella
a cura di Kata Szabados, 2022
Lo scrittore e musicologo francese Romain Rolland (18661944), nel suo Diario ci ha lasciato una testimonianza unica degli avvenimenti tragici che hanno infiammato l’Europa e tutto il mondo negli anni 1914-18. Il suo sguardo profondo e sincero, le sue instancabili e precise descrizioni, dense di osservazioni implacabili, mostrano dei parallelismi sorprendenti e spesso inquietanti con gli avvenimenti più recenti del nostro tempo. A distanza di un secolo, purtroppo risuonano fin troppe attualità dalle sue parole. Per questo motivo leggere le annotazioni del suo Diario nel nostro momento storico mi appare come un vero e proprio sollecito.
Coetaneo di Rudolf Steiner, vissuto anch’egli per lo più in Svizzera durante gli anni della guerra, Rolland analizza gli avvenimenti sanguinosi e le loro varie e complesse cause, spesso taciute, con una incredibile intuizione; il suo atteggiamento anche come intellettuale e come “uomo di pensiero” mira ad arrivare al pensare oggettivo e libero.
Incarnava quella figura intellettuale e della vita culturaleartistica a cui la libertà e la libera coscienza era il più prezioso; ma dalle sue righe, che spesso riportano delle lettere scambiate con i più importanti pensatori, artisti, scrittori e poeti europei e d’oltreoceano del suo tempo, possiamo avere un’impressione quanto lui si trovasse da solo con il suo atteggiamento pacifista, con i suoi alti ideali di un umanesimo attivo e responsabile, di un pacifismo intellettuale che avrebbe dovuto collegare le anime libere ad esso aderite.
Uno spirito davvero eccezionale ed indipendente, di cui, ricordando un loro incontro avvenuto nel 1917, scrive Stefan Zweig: “Ero pienamente consapevole che l’uomo che avevo davanti, era l’uomo più importante in quelle ore del mondo, e che tramite lui mi stava parlando la coscienza morale dell’Europa”. Zweig arriverà a nominare il suo amico addirittura la coscienza dell’intero mondo: “Dal 1914 Romain Rolland è un tutt’uno con il suo ideale e con la sua lotta. Non è più né uno scrittore, né un poeta, né un artista, né un individuo. È la voce dell’Europa, nel mezzo della più profonda angoscia europea. Lui è la coscienza del mondo.”
Premessa
Vorrei esporre brevemente la ragione e la composizione di questa raccolta di note e documenti sulla guerra. Nelle prime settimane (agosto 1914 ), questo diario fu solo un dialogo con me stesso, un tragico esame di coscienza provocato dalla catastrofe. Ma, sin dai primi giorni, presi nota di alcune fra le lettere ricevute, per la loro bellezza come documenti umani,
oppure di questa o quella manifestazione singolare di spirito nazionale, come fenomeni della psicosi collettiva.
La situazione si precisò con estrema rapidità. Io ero solo di fronte a un mondo invasato di odio e furor guerriero. Per la brusca esplosione di oltraggio contro il mio atteggiamento, per la risposta meno numerosa, ma ardente e fedele, di coloro che la difesero, senza averlo voluto, io mi trovai ad incarnare la causa dell’Europa, au-dessus de la mêlée, al di sopra della mischia sacrilega delle nazioni. La grandezza della causa, di cui era troppo debole interprete, mi impose il dovere di registrare per iscritto giorno per giorno, la storia delle prove ch’essa era costretta ad attraversare. La mia posizione privilegiata in Svizzera, al centro dei popoli in guerra, e i miei rapporti di amicizia con i più alti ingegni di tutti quei popoli, mi assicuravano documenti di eccezione, rivelazioni impressionanti sul dramma di coscienza che si dibatteva in cento anime diverse. Nell’annotarli io scrivevo una Storia dell’anima europea durante la guerra delle nazioni.
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“la COSCienza mOrale dell’eUrOPa”
Non ho voluto imporre alle mie note un ordine che non fosse quello delle impressioni e dei fatti susseguentisi sul filo del tempo. Nessuna idea preconcetta sfigura il mio racconto. Ho voluto che l’impressione si sprigionasse, a chiusura dei fatti dalla naturale successione dei pensieri e degli avvenimenti. Non ho esitato a far posto a ciò che mi riguardava come persona. ll mio destino ha voluto che la mia causa si confondesse, per un’ora, con una grande causa vilipesa. Ho trascritto gli insulti, e così pure gli incoraggiamenti che ad essa indirizzavano attraverso la mia persona. Assicuro che nelle note che scrivo la mia persona e per me “un altro”, uno straniero dal quale mi sento staccato nello stesso modo in cui, da qui a qualche anno, fra me e il mio nome si scaverà il fossato della morte. A chi apparterrà allora il nome di Romain Rolland? Al suo corpo diventato fango o alla causa sempre viva che un giorno egli ha servito? Il mio racconto e la storia di questa causa. Bisogna far conoscere all’avvenire ciò di cui io sono stato uno dei rari spettatori: lo straziante dibattito delle anime dell’occidente, le loro sofferenze, i loro dubbi, le loro speranze, tutta la tragedia dello spirito europeo che la guerra copriva come un sepolto vivo, questa stoica, minuscola schiera fedele e perseguitata che continuò a credere nell’unità dell’Europa crocifissa e che, grazie alla sua fede, la riportò alla vita.
Romain Rolland Sierre, giovedì 23 novembre 1916
1914
31 luglio 1914, ore 3,30. Un telegramma del Consiglio federale affisso nella stazione di Vevey annuncia “la mobilitazione totale in Russia e lo stato di guerra proclamato in Germania”. E’ uno dei più bei giorni dell’anno, una serata meravigliosa. Le montagne si librano in una leggera bruma luminosa e turchiniccia; il chiaro di luna spande sul lago una colata d’oro rosso che parte dalla costa della Savoia, fra Bouveret e SaintGingolph, e va fino a Vevey. L’aria è deliziosa, il profumo dei glicini fluttua nella notte, e le stelle brillano con così puro splendore! In questa pace divina e in questa tenera bellezza i popoli d’Europa cominciano la grande carneficina.
Sabato 1° agosto [...] Quando, come noi, non ci si senta capaci di nessun odio di razza, quando si stimano ugualmente il popolo che si combatte e il popolo che si difende, quando si conosce la follia criminale e insensata di questa guerra, e quando si avverte dentro di se un mondo di pensiero, di bellezza, di bontà che vuol sbocciare, non è forse lo strazio peggiore essere forzati a sgozzare gli altri per una causa mostruosa? Oh, la morte di Jaurès non è il lato più lamentevole. Egli, almeno, cade martire della sua missione, del nuovo Vangelo. Ma cosa dire dei cristiani che si preparano a farsi uccidere e ad uccidere anch’essi per idoli ai quali non credono più?
3-4 agosto La Germania invade il Lussemburgo e lancia un ultimatum al Belgio. Mi sento sopraffatto. Vorrei essere morto. E’ orribile vivere in mezzo a questa umanità demente e assistere, impotente, al fallimento della civiltà. Questa guerra europea è la più grande catastrofe della storia, da secoli e secoli, la distruzione delle nostre più sante speranze nella fraternità umana. Peggio di tutto è osservare che non solo non c’è progresso, ma c’è un ritorno indietro. Nel 1870, per lo meno, gli uomini di una eletta minoranza si erano schierati contro la guerra. [...]
In Europa manca una grande autorità morale dopo la morte di Tolstoj. Il papato scaglia fulmini contro alcuni poveri preti liberali, mette all’Indice qualche opera meschina, e non sa fare ascoltare al suo gregge li suo veto contro la guerra. Sa che solo una minoranza obbedisce, e non osa preferire questa piccola chiesa, pura e fedele, alla grande Chiesa dei compromessi e delle combinazioni; si contenta di malinconici belati come se non disponesse di sanzioni spirituali! L’indegno vicario del Principe della Pace non è spietato che contro gli inermi.
5-7 agosto [...] Il fatto più caratteristico di questa convulsione europea è, come ho già detto, “l’unanimità” per la guerra, unanimità dei partiti, persino dei più avversi alla guerra nazionale per definizione stessa e per essenza morale: così i socialisti e i cattolici. [...]
Gli Stati Uniti che mirano a diventare i banchieri dell’universo, cominciano dalla conquista dell’America Latina. Dopo di che, passeranno, senza dubbio, alla conquista dei mercati finanziari dell’Estremo Oriente. Essi dirigono i cambi dell’intero universo. E l’autore degli studi economici che io riassumo conclude che, con la pace, l’Europa, esaurita e priva di risorse, diverrà una dipendente economica degli Stati Uniti.
22 agosto La mia sofferenza è una massa di sofferenze, così compatta e rappresa che non mi lascia tregua per respirare. [...] E’ l’agonia morale che produce in me lo spettacolo di questo fallimento della civiltà, di questa pazza umanità che sacrifica i suoi tesori più preziosi, le sue forze, il suo genio, le sue virtù più alte, il suo ardore di eroico sacrificio all’idolo omicida e stupido della guerra. E il vuoto che mi soffoca il cuore, il vuoto di ogni parola divina, di ogni raggio del Cristo, di ogni guida morale, che al di sopra della mischia, additi la Città di Dio. E, per coronare ogni cosa, l’inutilità della mia vita e la vanità della mia opera. Vorrei addormentarmi e non più riaprire gli occhi.
25 agosto [...] La patria: un idolo sanguinoso! Entrambe (Germania e Francia) pretendono di amare l’Alsazia-Lorena, e la dicono del loro sangue. Menzogna. Esse non l’amano. Non l’amano per quello che è, ma per sé e per il loro orgoglio. Comincerebbero altrimenti col distruggerla? Entrambe l’assassinano per strapparla all’altra. Sono la madre cattiva del Giudizio di Salomone. La madre buona, l’unica vera madre, dice: «Piuttosto che ucciderla, preferisco privarmene».
Nuova lettera di Rodin (1° ottobre):
“Caro Romain Rolland, c’è più di una guerra. Questo flagello di Dio è una catastrofe dell’umanità che separa le epoche. Il sibaritismo dell’intelligenza è produttore di questi cataclismi, suicidio collettivo. Dappertutto l’ignoranza è tale che credono si possa restaurare e rifare una cattedrale1! Tutto sommato il male non sarebbe estremo: con una certa somma si ricostruirebbero le cattedrali allo stesso modo che una corazzata. Ma il dolore è che non si capisca più in nessun modo.
Rodin”
*E’ la biblioteca di Alessandria incendiata. Il tempio di Gerusalemme bruciato.
ottobre 1914. II professor Aulard, mio collega alla Sorbona, mi denuncia nel Matin del 23 ottobre, sotto il titolo: Germanofilia
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fuori posto; i miei articoli del Journal de Genève gli sembrano eretici; prova il bisogno di scindere dalle mie opinioni ogni solidarietà sua e della Sorbona (Era proprio superfluo).
Suarès è d’accordo con lui nel prendersela con la mia «germanofilia» : giacché pare che si avvelena la Francia. Suarès mi aveva scritto, pare, una lettera alquanto ingiuriosa il 21 settembre dopo l’incendio di «Rherms»: mi intimava di «non più credere alla Germania e ai germani». Me ne informa lui stesso, perché la lettera si è perduta, e oggi è un po’ spiacente della sua violenza contro di me, ma non modifica affatto la sua opinione: infatti in un’altra lettera del 19 ottobre, pretende di obbligarmi a spezzare le mie amicizie tedesche. «Un uomo di Francia non può avere amico tedesco. L’amicizia non si basa sull’ineguaglianza ... » E riparte con la sua idea fissa della superiorità di razza, che tutti gli intellettuali d’Europa inforcano ora [...] Ma Suarès, come Péguy, non conosce nulla d’oltre frontiera, e si rifiuta di conoscere per disprezzare più liberamente...Rispondo a Suarès che e «non posso odiare nessun popolo. Non ho un “segreto favore”, com’egli dice, per il popolo tedesco. Non ne ho per nessuno. Credo che non siano gran cosa, né gli uni né gli altri; ma in tutti ci sono anime che amo. Sono esse il mio paese, e qualunque paese appartengano» . [...]
Frattanto la stampa tedesca mi insulta più che mai. Dalla mia frase a Hauptmann: «Siete voi figlio di Goethe o di Attila?», la stampa francese ha preso: «Egli li chiama figli di Goethe!», e la stampa tedesca: «Egli ci chiama figli di Attila!».
Risposta a Gutkind (6 novembre): Caro signor E. Gutkind. E’ bello l’essere superumano. Più bello e più difficile l’ essere umano. La Germania vive, dopo Nietzsche, una specie di perpetuo delirio. II suo misticismo apoplettico le impedisce di vedere la realtà. Non so cosa farmene di Dioniso e dei fantasmi metafisici. I miei simili non sono dei, ma poveri esseri che chiedono il loro pane quotidiano, gli uomini umili, i miei fratelli. Non ci tengo davvero a istituire il regno dell’Eterno e dell’Assoluto sulla terra. Queste magnifiche chimere, inseguite una dopa l’altra da tutte le religioni, hanno inondato la terra di lacrime e di sangue. Diffido degli uomini eletti e dei popoli eletti. Il trionfo di un popolo eletto e pagato a troppo caro prezzo dalla sofferenza di migliaia di innocenti. Pascal diceva: «Chi si vuole angelo si fa bestia». Oggi è possibile vederlo. Dioniso è ebbro, dell’ebbrezza degli iloti ... Il mio ideale di vita e più umile. Non si spinge a quelle vette sublimi dove ad ogni svolta si rischia di incontrare il corteo delle Baccanti con le loro pantere dell’India. E non si innalza neppure fino al sogno del sommo bene. Ridurre un po’ di male, e diminuire la sofferenza: a questo si limita il mio sforzo e la mia speranza. E quest’ultima e anche assai fievole in un tempo come il nostro, quando gli uomini migliori sono privi di buon senso e di cuore . [...] In mezzo ai leoni che ridono e ai mortai da 420, la mia voce vi farà l’effetto di un grillo. Ma spero venga l’ora in cui, passato l’uragano, la sottile voce del grillo si udrà nell’immensa pace dei campi.
E nello stesso tempo tanta brava gente, dalla Germania, si dà un gran da fare per convincermi, con lettere o pubblicazioni, che la Germania è la potenza più pacifica e la migliore amica della Francia! Le più evidenti menzogne si mescolano ingenuamente a parole eccellenti, piene di cuore e di sincerità. Ad una di queste brave persone (la signora Elisabeth Nelson-
Deuchter di Berlino), che vuol nascondersi le vere ragioni della guerra, scrivo una lunga lettera, da cui stralcio solo le righe conclusive (26 novembre):
...Non vi fate illussioni ... Dopa Algesiras e Agadir questa guerra era come un temporale che covava nel cuore delle nazioni. C’è un solo mezzo, l’unico, per sottrarsi all’atmosfera d’uragano (che subite voi come me): sottrarsi all’ideale di patria. Chi vorrà la salvezza della civiltà umana dovrà fatalmente arrivare a quest’atto terribile ma necessario...
Identica nota in una lettera che scrivo a Gustav Schneeli (il quale mi aveva comunicato una nobile lettera del suo amico, il barone von Gleichen-Russwurm)
…Il vostro amico è uno spirito nobile che sarò felice di conoscere più tardi. Ma io conosco bene il solo terreno dove le anime come le nostre potranno concludere la «Tregua di Dio» di cui egli parla: questo terreno è al di fuori delle patrie, di tutte le patrie. Fino a quando i maggiori intelletti d’Europa non avranno il coraggio di compiere questo passo decisivo, invano si dibatteranno nell’incubo...
Della bellissima lettera di Gleichen-Russwurm trascrivo qui solo un passaggio significativo:
“... L’importante non è ora di cercare la giustizia e la verità giacché esse sono introvabili e del resto non servono a nulla oggi, in quest’incubo assurdo. Bisogna opporre le follie dell’amore alle follie dell’odio, le pie menzogne alle menzogne perniciose, idealizzare, giustificare ad ogni costo, per liberare dall’orrore almeno un pezzetto di terreno dove si potrà concludere una «Tregua di Dio » ...”
28 novembre Per la prima volta dopo quattro mesi (se si eccettua la romanza di Otello che mi ha cantato, l’altro giorno, T.) ascolto della musica. Non potevo, finora, la musica mi faceva male. [...] Le arie di Mozart mi commuovono alle lagrime. L’ouverture di Leonora mi fa sentire in Beethoven, già in lui, la forza germanica, il regno della forza, Faustreicht. Solo che il pugno (Faust) era allora onesto. Ma, a ben rifletterci, dicevo a me stesso che è sempre il medesimo spirito di una stirpe che ispira in un caso i capolavori della sua arte, nell’altro i suoi fatti (talvolta i suoi misfatti). Un’immensa Ciaccona con variazioni per organo di J. S. Bach cantava dentro di me. Sentivo sul basso eterno, dominatore, imperiale, intrecciarsi i giochi della libera immaginazione. E mi dicevo che è questo l’ideale dell’imperialismo tedesco, così come lo sognano i grandi intellettuali. L’ordine sovrano che guida la libertà dello spirito. E mi dicevo, anche che chiunque abbia sentito lo spirito di un popolo attraverso i capolavori della sua arte, ne resta per sempre impregnato e sarà più vicino a capirlo, persino nella sua politica.
Domenica 20 dicembre Per la prima volta, dal mese di luglio, riappoggio le mani sulla tastiera di un piano. Comincio a disinteressarmi della distruzione dei popoli, che la vogliono, e mostrano persino di prendervi gusto. Ho suonato musiche del caro Mozart e alcune melodie religiose degli antichi tedeschi.
1915
Rispondo a Victor Basch (7 giugno): [...] Alla pari di voi, io so il dolore di non dire tutto, perché
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non si può e non si deve. Ecco perché mi astengo per quanto è possibile da ogni giudizio politico (per il momento) e cerco di considerare questo scontro di popoli da un punto di vista puramente umano. E mi sforzo soltanto di ricordare senza stanchezza ai due più grandi popoli, mentre si uccidono a vicenda, che sono fratelli. [...]
Risposta a E. Verhaeren, 14 giugno 1915: Bisogna che giustizia sia fatta, ma la giustizia non vuole che tutti gli uomini di un popolo siano considerati responsabili dei delitti di poche centinaia di individui. [...] Vedete: non esiste tragedia greca che possa uguagliare in cieco orrore quella che si rappresenta ora in Europa. Migliaia di innocenti sono sacrificati dappertutto ai crimini della politica. Napoleone non aveva torto di dire: «La politica, ecco la moderna fatalità». [...] Restiamo con gli oppressi, con tutti gli oppressi. E ce n’è dappertutto. Non conosco che due popoli al mondo: coloro che soffrono e coloro che fanno soffrire.
7 luglio 1915. E’ ormai il dodicesimo mese che, al centro della guerra delle nazioni, mi sforzo di difendere la mia anima dall’ingiustizia e difenderne le anime che sono nella mischia. Non oserei dire se per me stesso ci sono riuscito, ma son bene che non ci sono minimamente riuscito per gli altri. Pochissimi hanno risposto al mio appello. In nessun paese meno che nel mio paese. I miei sforzi ci hanno incontrato più di frequente le ingiurie che la comprensione, e il passar dei mesi non ha fatto che aggravare l’accecamento degli intelletti. [...] Io non mi stanco di avere fede. [...] Ma sento l’inutilità di proclamarla ancora ad uomini che si sono tappate le orecchie per non sentire. La guerra europea mi appare sempre più come una crisi cosmica, fenomeno di patologia collettiva che ha radici nelle leggi misteriose della chimica dei popoli e delle loro catastrofiche combinazioni, o forse anche più in là, in una specie di malattia plantare o di crisi di crescenza. Non c’è da far altro che osservare. E dopo dodici mesi i miei occhi sono stanchi di osservare e registrare. Li chiudo. Fra qualche giorno, vado via da Ginevra. Sospendo il mio lavoro all’Agenzia dei prigionieri, dove, per nove mesi, ogni giorno sedevo al fianco del buon dott. Ferrière. Mi propongo anche (ma manterrò la mia promessa?) di limitare il numero delle note che prendevo ogni giorno sullo stato del malato: lo spirito europeo. Cercherò di ridurmi agli aspetti essenziali, di riassumere il resto, e persino di dimenticare, se potrò, per qualche tempo, queste follie e questi folli, allo scopo di rifugiarmi, per alcuni mesi, nell’arte eterna. Sento che mi reclama. Ho visto abbastanza il mondo altrui. Ora ho i diritto di rientrare nel mio.
Risposta alla lettera di Ferd. Avenarius (28 luglio): Non mi sento autorizzato a rappresentare il mio popolo; nessun potere mi è stato conferito. Io parlo a mio nome personale e a nome delle libere coscienze di ogni paese. Aggiungo che voi stesso dimostrate l’inefficacia delle discussioni fra parlamentare delle due nazioni: ciascuna infatti crede di avere il diritto e la vittoria per sé. [...] Il terreno per un un’intesa esiste. Ma bisogna cercarlo altrove. Bisogna ricercarlo al di fiori e al di sopra delle patrie – in quelle altre patrie immateriali: nella grande comunità cristiana, e in quella, più grande ancora, della civiltà umana, la Città della Casa eterna. In essa, o Avenarius, noi resteremo, checché avvenga, concittadini.
Questa è l’origine comune che dobbiamo ricordarci costantemente. Da mesi e mesi la mia azione non ha avuto altro scopo. Cosa fanno i pensatori? Quale frenesia li porta a rinnegare la loro dignità essenziale per sposare le passioni delle folle? A cosa serve la loro partecipazione a questa guerra accanita? [...] E’ un dovere, invece, conservare la testa sana al posto di chi ce l’ha annebbiata, e i propri occhi liberi per chi è accecato. E’ un dovere, mentre all’esterno si scatena la battaglia, vegliare sul focolare abbandonato, sul santuario dello spirito e non lasciarlo aperto ad ogni vento, profanato, come oggi sono in modo criminale e vergognoso, la ragione e la religione. [...] La guerra attuale ha calpestato ogni neutralità, le neutralità politiche e quelle delle forze invisibili: la Chiesa, l’Arte, la Scienza...Io pretendo per la ragione umana un asilo inviolabile. Filosofi, scienziati, artisti, ai vostri posti! Gli occhi non vi restino immobili sulla mischia e sulla sua insensata carneficina. Siate come Archimede, proseguite il vostro lavoro nella città assediata. [...] Lavoriamo alle cose eterne. Restiamo la coscienza viva dell’eterno...A cosa potrà servire? Anticiperà di un giorno i negoziati di pace? No, e non è compito nostro. Così come la Croce Rossa medica, nella battaglia, le ferite del corpo, tocca a noi soccorrere e salvare lo spirito. [...] L’uomo moderno, l’uomo figlio di Cristo, [...] ha preso coscienza della propria universalità. Soffre, perde il suo equilibrio vitale, non sente più quello che lo unisce all’insieme dell’universo. Tocca alla scienza e all’arte essere questo legame! Spetta ad esse, allo stesso modo dei monasteri del primo medio evo, di essere un rifugio di calma, di pietà, di luce! A poco a poco il loro beneficio si irradierà all’esterno.
1916
31 dicembre 1915-1° gennaio 1916 Finito l’anno e cominciato l’altro col cuore che sanguina e le lacrime agli occhi. Non ho mai avvertito più pesante e irrimediabile la mia solitudine morale. La mia fede nelle idee che difendo resta intatta, ma ho perduto ogni fede nell’umanità. Qualunque sia la svolta dell’opinione pubblica (e so che più tardi mi renderà omaggio con la stessa esagerazione che essa impiega oggi nell’oltraggiarmi), non dimenticherò più ciò che ho visto: l’infantile (o senile) debolezza della ragione umana; i bassi istinti, vili o feroci, annidati sotto l’incosciente ipocrisia delle persone oneste; la bramosia del nulla, che respinge gli individui, con gioia insensata, nella mentalità dei ciechi armenti, da cui l’uomo aveva impiegato tanti secoli per evadere. Non dimenticherò mai che neppure uno di coloro su cui contavo di più in Francia, neppure uno dei miei amici più cari o più stimati prima del 1914, si è conservato integro. E, anche se non ho nulla contro di loro (perché sarebbe assurdo), non posso più credere in loro, né più tardi posso ridar loro la mia fiducia e il mio cuore. Non dimenticherò l’ingiustizia comune e il comune rifiuto di giustizia. Non potrò più appartenere ad alcuna di queste patrie in guerra E altri dolori intimi, dolori che mi sono propri, rendono anche più pesante il lutto universale. [...] La colpa non è di nessuno. E’ la natura umana.
Marzo 1916 [...] Chi leggerà più tardi queste interminabili annotazioni, si renderà forse conto delle giornate interminabili, dei mesi, degli anni da noi vissuti in un deserto morale, fra una umanità delirante di fanatismo e di odio, privi dei nostri
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amici, votati dalla «brava gente» agli oltraggi delle spie e dei sicofanti, condannati a vedere la verità e non poterla dire, ad assistere impotenti alla distruzione inutile, stupida, di milioni di fratelli ed essere, in un manicomio di Bedlam, i soli a difendere il nostro buon senso contra i pazzi urlanti?
Mi sento ugualmente lontano dalla mentalità degli odierni europei come dagli europei del secolo XVI. E’ la stessa ebbrezza cerebrale, la stessa esaltazione eroica e angusta che porta i popoli all’eccidio reciproco per un idolo ch’essi chiamano Onore, e che e tanto contrario alla ragione quanto all’umanità. Il suo assurdo è evidente, ma questo stesso assurdo fa la sua forza misteriosa. Credo quia absurdum
Risposta a J. Hussach (4 giugno):
Non ho detto mai che si dovesse sacrificare il proprio prossimo all’arte. Niente dà il diritto di sacrificare la vita degli altri a un’idea, o a checchessia. Ho detto che coloro i quali sacrificano se stessi alla bellezza agiscono in modo bello. [...] L’istinto della bellezza giace latente nell’umanità; ma perviene alla sua fioritura solo in circostanze eccezionali. Ognuno di questi momenti è un fiore prezioso che, una volta scomparso, non rifiorirà mai più. [...] Un capolavoro che scompare è un genio che muore. E, nel cielo del nostro pensiero, non ce ne sono molti.
Risposta a P.J. Jouve (21 agosto): lo intendo appunto «combattere a mio modo per il diritto e la civiltà» (anche se non «in un esercito»). lo intendo appunto esser francese. Ma io intendo essere di più Non opporre. Sovrapporre. [...]
Io non maledico la patria. Ero suo ospite ieri. La patria e la religione sono grandi fiamme. Criminali sono coloro che se ne servono per ardere gli altri anziché scaldarsene. Bisogna passare attraverso il piano della patria per arrivare a quello dell’umanità. Io ci sono. Non è una ragione perché io sputi sulla testa di coloro che sono al piano di sotto. lo gli dico: «Salite dove io sono ... Non vi è possibile?» (oppure «Non volete salire?» , il che è lo stesso…) «Ebbene, restate dove siete finché abbiate ripreso respiro. Ma io non scenderò». (E inoltre noi cercheremo, amico Jouve, di salire più in alto). [...]
Io non dichiaro tutti ugualmente colpevoli. Indubbiamente lo diventeranno, nella misura in cui la guerra si prolunga, e non è neppure impossibile che proprio il piatto della bilancia meno pesante all’inizio finisca per pesare di più. [...] Io dico: nessuno è senza peccato, lasciamo stare «chi lo è di più o chi lo è di meno»; «di meno e di più», bisogna essere indulgenti gli uni verso gli altri: colui che lo è «di meno» oggi, forse lo sarà «di più» domani, o lo è stato avant’ieri. (Ieri vi fu Bismarc e avant’ieri Napoleone.) Non mi piace che si dica: tutto il bene è da un lato e tutto il male dall’altro. Un po’ di umiltà non farebbe male a nessuno.
28 agosto
[...]Non si conoscono affatto: nessuna possibile organizzazione delle più pure forze dell’anima. Unica organizzazione quella degli elementi peggiori, degli interessi e dei pregiudizi. [...] Nessun popolo è meno realmente libero di spirito e meno fraterno della grande democrazia
americana. Essa è più infatuata delle vacue superiorità di sangue di quanto non lo siano i vecchi Stati europei a fondo aristocratico.
Risposta al giovane tedesco F. (19 settembre):
[...] Ho dei fratelli in tutti i paesi. Al di sopra delle patrie omicide e mortali, la libera amicizia delle anime forma la patria che non muore affatto, che non uccide, quella che viene minacciata da tutto e che nulla può colpire, la cittadella dello spirito. Essa è stata fondata più di trenta secoli fa, dai saggi dell’Oriente e della Grecia e dai pescatori di Galilea. Essa apre le braccia a tutti coloro che vi chiedono asilo. Un giorno essa finirà per abbracciare tutta la terra...
1917
Rispondo a Gorkij (27 gennaio):
[...] Oggi, in realtà, l’energia morale non manca, anzi, abbonda; ma è messa al servizio di un ideale superato, che è oppressivo e che uccide. [...] Se l’umanità non sarà capace di superare il loro [dei grandi uomini del passato] ideale e di offrire alle future generazioni orizzonti più vasti, allora temo proprio che essa mancherà ai suoi più alti destini. In breve, amo e ammiro il passato, ma voglio che l’avvenire e lo superi. Lo può. Lo deve.
5 febbraio [...] Uno dei giorni più tristi di quest’epoca terribile. Gli Stati Uniti hanno interrotto i negoziati con la Germania. Gli Stati neutrali entrano nella danza...
[...]
Menzogna di tutti i falsi cristiani, i quali mostrano di credere che Gesù abbia tollerato o, meglio, ordinato il servizio militare. [...] Come se non bastasse, per loro, ricordare i primi cristiani per rendersi conto con evidenza che tutta la pura dottrina del Maestro era rivolta contro la guerra! Nei primi tre secoli, i cristiani rifiutano di prestare il servizio militare
1918
Gli stessi sintomi di esasperazione negli spiriti più pazienti e più lontani dalla lotta. Uno Stefan Zweig, che ancor di recente mi esprimeva il proprio orrore per la rivoluzione, vi è portato, poco a poco, dalla forza delle cose (7 aprile):
“[...] Ciò che avverrà nei prossimi mesi sarà il cataclisma dell’Europa. Senza volerlo, anzi, contro la mia stessa volontà, oggi mi sento vicino a coloro che, come Guilbeaux, predicano il diluvio sociale. Come si potrebbe vivere se questo crimine si perpetuasse, se i suoi autori ne uscissero sani e salvi, e impuniti?”
Mi sento vecchio, vecchio come i secoli, quando leggo le grida di dolore e di rivolta dei miei poveri amici. Si illudono veramente che se, alla fine del melodramma, il delitto non venisse punito, la terra non potrebbe più girare? Ahimè! ho visto le stesse illusioni durante l’affare Dreyfus. Pareva che quegli onest’uomini avessero scoperto il delitto per la prima volta, e ne erano sconvolti di disperazione. Come mai io non mi sono mai stupito? Naturalmente, soffro per il delitto: ma è uno stato normale: lo conosco bene, io, questo delitto; è quotidiano, da secoli., l’ho sempre visto. L’ho visto? E dunque c’ero. Sì, ed è solo questo che mi distingue
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dagli amici che i circondano. Ho quello che gli antichi chiamavano l’ἀνάμνησις [anamnèsi], la memoria mistica dei Pitagorici...
Scrivo a Hermann Fernau (9 luglio):
[...] Sarò sempre dalla parte degli uomini e dei popoli liberi contro le potenze (politiche, militari, religiose e sociali) del passato. Mi accade talvolta di criticare aspramente anche le repubbliche contemporanee, perché, troppo spesso, sono repubbliche solo di nome. La libertà è per me il bene più caro. Chi la viola e l’opprima è mio nemico. [...] io sono fondamentalmente, essenzialmente, irriducibilmente, un indipendente. Rifuggo dalla teorizzazione, in cui vedo una eccessiva semplificazione della vita. [...] io sono un uomo di pensiero: non posso abdicare ai diritto e ai doveri del pensiero per servire una causa, qualunque essa sia. Devo vedere tutta la complessità della vita, e scriverla così come la vedo, senza passione, senza debolezza. Proprio per questo, nella guerra attuale, ho urtato tutti i partiti. [...]
La mia posizione in questa guerra è, prima di tutto, quella di un uomo di pensiero, che ha fissato a se stesso, come principale obbiettivo, di combattere le ingiustizie e gli errori, da qualunque parte essi vengano, e, soprattutto, dagli odi, poiché sono questi odi che rischiano di distruggere per sempre la civiltà europea. [...] Non credo che il trionfo cruento delle ideologie più sublimi possa compensare le reali sofferenze di milioni di uomini e la rovina che mi sembra minacciare le più nobili nazioni d’Occidente
In una parola, appartengo a coloro che temono che questa guerra mondiale sia un suicidio europeo. So che non posso far nulla per impedirlo, e che essa andrà “fino in fondo”. Ma, contro il Destino, l’uomo di pensiero ha una difesa: giudicarlo. E io vi ricorro.
1919
20 gennaio [...] La guerra ha un bell’essere finita, come dicono, da tre mesi; al coercizione del pensiero non è mai stata peggiore. La censura delle lettere è intollerabile. Metà della mia corrispondenza dalla Francia è soppressa; il rimanente è cancellato a tutto spiano. [...]
Si è appena iniziata la Conferenza per la pace. Devo dire qualche parola sulla delusione di alcune fra le persone migliori che conosco. Certo, il loro idolo, Wilson, non si rivela inferiore al suo compito politico; anzi, si dimostra molto più scaltrito e rotto alle astuzie del mestiere di quanto non pensassero i suoi candidi adoratori. Ma questo è il punto! è troppo astuto [...]. Stupisce sentire il promulgatore dei “quattordici punti” elogiare Clemenceau e Poincaré, colmarli di complimenti e affermare che le proprie idee collimano perfettamente con le loro! E’ vero che il trucco riesce. [...] I seguaci di Wilson, costernati, dicono con un sorriso di sprezzante delusione: “Wilson, l’uomo del compromesso! No, non se ne ha il diritto quando si sono enunciati simili princìpi, quando si sono risvegliate simili speranze idealistiche nel mondo!”
In quanto alle sublimi dichiarazioni sul Diritto e la Libertà, ecc., il piccolo gruppo dei puri ha finito per provarne un tale disgusto che, ho saputo, molti di loro non possono più sentir pronunciare tali parole: li nauseano. Già da molto ho avvertito la spaventosa ipocrisia che si celava sotto questa ostentazione di tutte le virtù, che vengono praticate solo a
proprio vantaggio e che si violano a danno degli altri. [...]
Risposta a Bernard Shaw (28 maggio): [...]
Voi dite: “In guerra non si è più scienziati, artisti, filosofi... bisogna sacrificare e persino prostituire alla difesa nazionale oltre che la vita, l’anima stessa, lo spirito, la coscienza, e saper maneggiare la menzogna...” ecc... Non ammetterò mai che il primo dovere dell’uomo di pensiero sia la difesa nazionale; esso è, per me, la difesa del pensiero. Io non metto la nazione, la patria, il focolare, al di sopra di tutto. Prima di tutto metto la libera coscienza. Voi dite: “La pace ci rende la libertà”. Ma né voi, né io, abbiamo atteso la pace per parlare liberamente. E si tratta di sapere se vogliamo offrire in anticipo alla guerra ventura (che non tarderà a venire) un mandato in bianco per soffocare la libertà. Mi direte che essa farà a meno del nostro permesso. Sia pure! Ma almeno non lo avrà avuto. Lo spirito si salva! Non vedo alcun avvenire negli sforzi compiuti dal libero pensiero per adattarsi alle necessità della politica. Esso è trascinato nella criminale e ignominiosa caduta di quest’ultima. Se vuol salvare gli altri, cominci col salvare se stesso! Cerchi di costituire, al di sopra delle nazioni, una Internazionale del pensiero, una Coscienza universale!...
BIBLIOGRAFIA
· Romain Rolland, Diario - degli anni di guerra 1914-1919. Note e documenti per lo studio della storia morale dell’Europa odierna. Prefazione di Guido Piovene, testo a cura di Marie Romain Rolland, Parenti Editore, Milano-Firenze, 1960
· Romain Rolland, Napló a háborús évekből, 1914-1918, Gondolat, Budapest, 1960
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Le seguenti sette versi sono stati dati da Rudolf Steiner in occasione delle sue conferenze del 16 agosto 1914 (Dornach) e del 1° settembre 1914 (Berlino), tenute poche settimane dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale.
I versi, con le parole del Dottore, “potranno aiutarci a raggiungere il dialogo cristificato con lo spirito di popolo”, un compito che, innalzandoci spiritualmente al nostro proprio Spirito di popolo, ci potrebbe portare a “comprendere l’azione comune armonica degli Spiriti di popolo”
“Viviamo ora in un’epoca in cui ogni singola anima che ha imparato a considerare il mondo spirituale deve dirigere pensieri di supplica agli spiriti dai quali si sente protetta, perché possano aiutarci a inserirci correttamente nel tempo. [...] Infatti lo spirito che ci guida al giusto, e di ciò possiamo essere sicuri, è collegato al Cristo, dialoga con il Cristo. Nel mondo spirituale questi dialoghi sono tali che dalle battaglie che si combattono oggi, dal sangue che ora viene versato, verrà ciò che è giusto per il bene dell’umanità. Nello spirito del Cristo rivolgiamoci allo spirito da cui invochiamo protezione”
NOTE
1 - Spirito del mio spazio terreno = mio Spirito di popolo (nota di Rudolf Steiner)
2 - “L’essenza di uno spirito, nel linguaggio della scienza dello spirito, viene chiamata l’età dello spirito stesso”
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Per la PaCe
Du, meines Erdenraumes Geist
Enthülle Deines Alters Licht
Der Christ-begabten Seele, Dass strebend sie finden kann
Im Chor der Friedenssphären
Dich tönend von Lob und Macht
Des Christ-ergebnen Menschensinns!
Tu, spirito del mio spazio terreno1
rivela la luce della tua età2
all’anima che ha accolto il Cristo.
Che nella sua ricerca essa possa trovarti, nel coro delle sfere della pace, risuonante per la lode e la potenza
dell’intento umano devoto al Cristo!
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Rudolf Steiner, L’uomo slavo
i bambini di beTlemme
di Selma Lagerlöf, 1978
Davanti alla porta di Betlemme un soldat romano montava la guardia. Portava l’elmo e corazza, una corta spada al fianco e in mano una lunga lancia. Stava così immobile tutto il giorno che si sarebbe potuto davvero credere che fosse fatto di ferro. Gli abitanti della città andavano e venivano dalla porta, i mendicanti sedevano all’ombra del grande androne, i venditori di frutta e di vinaioli posavano a terra ceste e orci accanto a lui, ma il soldato neanche si prendeva la briga di voltare la testa a guardarli. Non ne vale proprio la pena, pareva dire. Che me ne importa di voi che lavorate, e fate affari e venite qui con i vostri orci d’olio e otri di vino? Fatemi vedere un’armata che si prepara ad affrontare il nemico! Fatemi vedere il tumulto e il fervore della lotta quando la cavalleria carica una schiera di fanti! Fatemi vedere i valorosi che si lanciano avanti per primi a scalare le mura di una città assediata! Nulla può rallegrare i miei occhi quanto la guerra. Tutto quanto desidero è vedere l’aquila di Roma rifulgere nell’aria! Il clamore dei corni, il luccichio delle armi, il rosso del sangue versato! Appena al di là della porta si stendeva un magnifico prato invaso dai gigli. Il soldato passava le giornate rivolto a quel campo, ma non gli era mai neanche passato per la testa di ammirare la straordinaria bellezza di quei fiori. A volte notava che i passanti si fermavano a godere della vista dei gigli e si stupiva che rallentassero il cammino per guardare cose tanto insignificanti. «Questa gente non sa cosa sia il bello!» pensava. E assorto in quel pensiero non vedeva più i campi verdi e le colline di ulivi intorno a Betlemme, sognava di vagare in un deserto rovente nella terra soleggiata della Libia. Vedeva una legione di soldati che marciava in una lunga fila diritta sulla sabbia gialla incontaminata. Non c’era nessun riparo dai raggi cocenti, nessuna fonte rinfrescante, nessun limite visibile al deserto o una meta al cammino. Vedeva soldati esausti dalla fame e dalla seta avanzare a passi vacillanti, li vedeva cadere uno dopo l’altro sfiniti dal caldo soffocante. Eppure il corteo di quelle truppe continuava ad avanzare senza esitazione, senza neanche pensare di abbandonare il mio comandante e tornare indietro.
«Ecco cos’è bello!» pensava. «Ecco cos’è degno dello sguardo di un uomo valoroso!»
Dal momento che il soldato era sempre di guardia allo stesso posto, giorno dopo giorno, aveva tutte le occasioni che voleva di osservare i bambini che giocavano intorno a lui. Ma con i bambini era come con i fiori: non capiva perché dovesse darsi la pena di guardarli. «Cosa c’è tanto da rallegrarsi?» si chiedeva vedendo la gente sorridere davanti a quei giochi infantili. «E’ strano che qualcuno possa godere così di niente!»
Un giorno, mentre stava come al solito al suo posto di sentinella alla porta, gli cadde l’occhio su un bimbetto di non più di tre anni uscito a giocare sul prato. Era un bambino povero, vestito di una corta pelle di pecora, che giocava tutto solo. Quasi senza rendersene conto, il soldato rimase a guardare il nuovo venuto. La prima cosa che lo colpì fu che il piccolo correva così leggero nel campo che sembrava appena sfiorare le punte dei fili d’erba. Ma quando cominciò a seguire i suoi giochi, fu ancora più stupito: «Per la mia spada!» Esclamò. «Questo bambino non gioca come gli altri. Ma cos’è che può divertirlo tanto?»
Il bimbo giocava a pochi passi di distanza, quindi il soldato poteva vedere bene cosa stava facendo. Vide che stendeva la mano per catturare un’ape posata sul petalo di un fiore, così carica di polline che quasi non riusciva a sollevare le ali in volo. E con grande stupore si accorre che l’ape si lasciava prendere senza tentare di fuggire o di usare il suo pungiglione. E una volta che la teneva al sicuro tra le dita, il bimbo correva fino a una fessura nelle mura della città dove uno sciame aveva costruito il suo alveare, e la deponeva lì. E appena aiutata un’ape, correva indietro ad aiutarne un’altra. E per tutto il giorno il soldato vide il bambino catturare api e portarle a casa loro.
«Questo bambino è davvero più pazzo di chiunque abbia mai visto», pensò il soldato. «Come fa a venirgli in mente di aiutare delle api, che sano benissimo cavarsela da sole senza di lui e che per di più possono pungerlo? Che razza di uomo diventerà, se sopravvive?»
Il piccolo tornava ogni giorno a giocare sul prato e il soldato non poteva fare a meno di meravigliarsi di lui e dei suoi giochi. «Che strano», pensava, «sono stato qui di guardia a questa porta per tre anni interi e finora non ho mai visto nulla che potesse interessarmi a parte questo bambino.»
Ma il fatto non gli dava alcuna gioia. Anzi, il piccolo gli faceva tornare in mente una terribile profezia di un antico veggente giudeo, che diceva che un’epoca di pace sarebbe scesa un giorno sulla terra. Per un periodo di mille anni non si sarebbe più versato sangue, né fatta guerra, anzi gli uomini si sarebbero amati come fratelli. Quando il soldato pensava che qualcosa di così rivoltante potesse davvero accadere, sentiva un brivido corrergli per il corpo e afferrava con forza la lancia come per cercare sostegno.
E ora, più guardava il bambino e i suoi giochi, più gli veniva da pensare al regno dei mille anni di pace. Non che temesse che potesse essere già cominciato, ma non gli piaceva dover ricordare un pensiero così esecrabile. Un giorno il piccolo stava giocando tra i fiori in quel magnifico
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campo, quando scoppiò all’improvviso dalle nuvole un violento acquazzone. Accorgendosi di quanto fossero grosse e pesanti le gocce che colpivano i fragili gigli, parve tutta a un tratto preoccupato per i suoi meravigliosi amici. Corse allora dai più grandi e più belli e curvò i rigidi steli che sostengono i fiori in modo che la pioggia battesse sul rovescio dei calici. E non appena finito con un fiore, correva a un altro e piegava anche quello in modo che il calice fosse rivolto verso terra. E poi un terzo e un quarto, finché tutti i fiori del campo furono protetti da quella pioggia impetuosa.
Il soldato sorrise tra sé vedendo il lavoro del bambino: «Temo che i gigli non gli saranno molto grati. I gambi saranno ovviamente tutti rotti, non si possono piegare così quegli steli rigidi.»
Ma quando l’acquazzone finalmente cessò, vide il bimbo correre a risollevare i fiori. E, con suo indicibile stupore, raddrizzava gli steli rigidi senza la minima difficoltà. Era evidente che nessuno si era spezzato o rovinato. E quando fu passato di fiore in fiore, i gigli salvati tornarono presto a risplendere in tutta la loro bellezza nel campo.
Allora il soldato fu preso da un insolita rabbia. «Che strano bambino! » pensò. «E’ incredibile che si metta a fare una cosa così assurda. Che razza di uomo diventerà, se non può neppure sopportare di vedere un giglio rovinato? Cosa succederebbe se uno così dovesse andare in guerra? Come si comporterebbe se gli ordinassero di incendiare una casa piena di donne e bambini, o di affondare una nave con tutto l’equipaggio a bordo?»
E ancora gli tornò il pensiero dell’antica profezia e cominciò a temere che fosse davvero arrivato il tempo in cui si sarebbe avverata. «Se è venuto al mondo un bambino come questo», pensò, «forse quel tempo terribile è vicino. Già la pace regna in quasi tutto il mondo e certo il giorno della guerra non sorgerà mai più. D’ora in poi tutti gli uomini avranno la mentalità di questo bambino. Avranno paura di farsi reciprocamente del male, sì, non avranno nemmeno il coraggio di schiacciare un’ape o un fiore. Nessun atto eroico sarà più compiuto, nessuna gloria conquistata in battaglia, nessun fulgido vincitore sfilerà più in trionfo sul Campidoglio. Non ci sarà più nulla che un uomo di valore possa desiderare. »
E il soldato, che sperava sempre di poter vivere presto una nuova guerra e di conquistarsi con atti intrepidi potere e ricchezza, si sentì così irritato da quell’esserino di tre anni, che levò minaccioso la lancia contro di lui la prima volta che gli passò di nuovo accanto.
Un altro giorno non furono né le api né i gigli che il piccolo cercò di proteggere, ma fece qualcosa che al soldato parve ancora più superfluo e ingrato.
Era una giornata spaventosamente calda, e i raggi del sole arroventavano a tal punto l’elmo e l’armatura che il soldato aveva l’impressione di indossare una veste di fuoco. I passanti avevano l’aria di pensare che dovesse soffrire terribilmente. Gli occhi venati di sangue parevano uscirgli dalle orbite, le labbra erano riarse, ma, temprato a sopportare il caldo torrido del deserto africano, pensava che quello fosse un’inezia e neanche gli passava per la testa di abbandonare il suo posto. Anzi gli piaceva mostrare ai passanti che era così forte e resistente da non aver bisogno di ripararsi dal sole.
Mentre se ne stava così immobile a farsi quasi arrostire vivo, il bambino che era solito giocare nel campo gli comparve davanti. Sapeva che il soldato non era tra i suoi amici e stava
sempre attento a non arrivargli a tiro, ma questa volta gli andò proprio vicino e rimase a osservarlo a lungo e con attenzione, poi corse via a tutta velocità sulla strada. Quando poco dopo tornò, teneva le mani a coppa portando così qualche goccia d’acqua.
«Ma che gli prende! Questo moccioso adesso si è messo in testa di correre a prendermi dell’acqua, pensava. Ma gli manca proprio una rotella. Un legionario romano non sarebbe in grado di sopportare un po’ di caldo? Ma che bisogno ha questo moccioso di correre in giro ad aiutare chi non ha bisogno di nessun aiuto? Io proprio non la voglio la sua compassione. Quello che invece vorrei è che lui e tutti quelli della sua specie sparissero dal mondo.»
Il bambino camminava piano stringendo forte le dita per non perdere neanche un po’ del contenuto. E avvicinandosi teneva gli occhi ansiosamente fissi sulla piccola quantità d’acqua che riusciva a portare senza accorgersi della fronte aggrottata e dello sguardo torvo del soldato. Mentre camminava i pesanti ricci chiari gli erano scesi sugli occhi, e aveva scosso più volte la testa per ricacciarli indietro e poter guardare in su. Quando infine ci riuscì e scorse l’espressione dura sul volto del legionario non si spaventò, rimase lì fermo e con un incantevole sorriso gli offrì da bere l’acqua che gli aveva portato.
Il soldato non aveva il minimo desiderio di accettare una gentilezza da quell’esserino che considerava suo nemico. Non si chinò a guardare il bel viso: rimase rigido e immobile, senza dar segno di avere capito quel che il bambino voleva fare per lui.
Il bimbo, da parte sua, non poteva capire che l’uomo intendesse respingerlo. Continuò a sorridere fiducioso e si alzò in punta di piedi tenendo le mani più in alto che poteva, affinché quel gigantesco soldato potesse arrivare più facilmente all’acqua. All’opposto il legionario si ritenne talmente insultato da quell’offerta che afferrò la lancia per scacciare il piccolo. Ma ecco che proprio in quel momento il sole e il caldo lo colpirono con una tale violenza che vide fiamme rosse danzare davanti agli occhi e sentì che il cervello gli si fondeva in testa. Ebbe paura che quel sole potesse ucciderlo, se non trovava un immediato refrigerio. E fuori di sé dal terrore del pericolo incombente, gettò a terra la lancia, prese il bimbo con entrambe le braccia, lo sollevò e succhiò quanto più poté l’acqua che teneva tra le mani.
Non furono che poche gocce che gli bagnarono la lingua, ma non c’era neanche bisogno di più. Non appena ebbe gustato quell’acqua, una deliziosa frescura gli corse attraverso il corpo e non sentì più né bruciare né pesare l’elmo e l’armatura. I raggi del sole avevano perso il loro potere mortale. Le labbra secche tornarono morbide e le fiamme rosse smisero di danzargli davanti agli occhi.
Prima ancora di avere il tempo di rendersi conto di tutto questo, aveva posato a terra il bambino, che era corso via a giocare nel campo. Stupefatto, il soldato cominciò a chiedersi: «Ma che acqua mi ha dato quel piccolo? Era meravigliosa! Devo proprio mostrargli riconoscenza. »
Ma siccome odiava il pargolo, scacciò rapidamente il pensiero. «Non è che un bambino», si disse. «Non sa neppure perché fa le cose in un modo o nell’altro. Gioca solo ai giochi che più lo divertono. Riceve forse gratitudine dalle api o dai gigli? Non ho bisogno di darmi pensiero per quel moccioso. Non sa neppure di avermi soccorso.»
Il soldato si sentì ancora più irritato, se possibile, verso il
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bambino l’istante dopo, quando vide il comandante dei soldati romani stanziati a Betlemme uscire dalla porta della città. «Guarda che rischio ho corso per i capricci di quell’infante!» pensò. «Se Voltigio fosse arrivato anche solo un secondo prima, mi avrebbe trovato con un bambino in braccio!»
Intanto il capitano lo raggiunse e gli chiese se potevano parlare senza che nessuno sentisse. Aveva da dirgli una cosa segreta. «Se ci allontaniamo di dieci passi dalla porta nessuno ci può sentire», rispose il legionario.
«Sai bene», disse Voltigio, «che il re Erode ha tentato più volte di mettere le mani su bambino che cresce qui a Betlemme. I suoi veggenti e sacerdoti gli hanno predetto che ascenderà al suo trono e che per di più inaugurerà un regno di mille anni di pace e santità. Capisci quindi che Erode sarebbe contento di renderlo inoffensivo.»
«Sì, capisco benissimo», rispose il soldato con slancio. «Ma sarà anche la cosa più facile del mondo.»
«Sarebbe ovviamente facilissimo», assentì il capitano, «se solo il re sapesse qual è il bambino giusto tra tutti quelli che ci sono a Betlemme.»
Il legionario corrugò la fronte:
«Peccato che i suoi indovini non sappiano fornirgli lumi. »
«Erode, però, ha trovato uno stratagemma», riprese il comandante, «grazie al quale pensa di rendere inoffensivo il giovane Principe della Pace. Promette una forte ricompensa a chiunque lo aiuterà.»
«Quello che Voltigio comanda sarà fatto anche senza ricompense o doni», disse il soldato.
«Ti ringrazio», rispose il condottiero. «Ascolta dunque il piano del re! Intende festeggiare il compleanno del suo ultimo figlio organizzando una grande festa, alla quale saranno invitati tutti i bambini di Betlemme tra i due e i tre anni, insieme alle loro madri. E alla festa...»
S’interruppe e scoppiò a ridere vedendo l’espressione di ripugnanza comparsa sulla faccia del soldato.
«No, amico», riprese, «non temere che Erode pensi di utilizzarci come bambinaie. Avvicina l’orecchio alla mia bocca e ti confiderò le sue intenzioni.»
Il comandante sussurrò a lungo all’orecchio del soldato, e quando ebbe finito di rivelargli tutto, concluse:
«Non ho bisogno di raccomandarti il più assoluto silenzio, perché il piano non vada a monte.»
«Sai bene, Voltigio, che puoi contare su di me», assicurò il legionario.
Quando il condottiero se ne fu andato, il soldato, rimasto solo al suo posto, si guardò in giro cercando il bambino. Vedendolo ancora giocare tra i fiori, si sorprese a pensare che pareva volteggiare intorno leggero e aggraziato come una farfalla. Tutt’a un tratto scoppiò a ridere.
«Già, è vero», disse tra sé, «non mi scoccerà più per molto quel moccioso. Sarà invitato anche lui alla festa di Erode stasera.»
Rimase al suo posto di sentinella tutto il giorno finché non scese la sera e arrivò a l’ora di chiudere la porta della città per la notte. Eseguito il compito, si avviò attraverso stradine strette e buie fino allo splendido palazzo che Erode possedeva a Betlemme.
Nella parte centrale dell’imponente dimora c’era un grande cortile interno lastricato di pietra, intorno al quale correvano tre file di gallerie aperte, una sopra l’altra. Quella più in alto era stata destinata da erode alla festa dei bambini di Betlemme. Per esplicito ordine del re era stata trasformata in modo da
sembrare un pergolato di un magnifico giardino di delizie. Sul soffitto si arrampicavano tralci di vite da cui pendevano grossi e succosi grappoli di uva, lungo le pareti e le colonne si allineavano alberelli di melograno e di arancio carichi di frutti maturi. Il pavimento era coperto di uno strato di foglie di rosa, spesso e morbido come un tappeto, e lungo le balaustre, i cornicioni, i tavoli, i divani bassi, ovunque, erano intrecciate ghirlande di radiosi gigli bianchi.
Qua e là in quel giardino fiorito c’erano grandi fontane di marmo, dove pesci guizzanti d’oro e d’argento giocavano nell’acqua limpida. Sui rami erano posati uccelli esotici dai colori sgargianti e una grossa cornacchia in gabbia non smetteva di ciarlare.
Quando ebbe inizio la festa, madri e figli sfilarono nella galleria. Appena entrati nel palazzo, i bambini erano stati agghindati di vesti bianche dai bordi color porpora e coroncine di rose sui ricci scuri. Le donne incedevano maestose nei loro vestiti rossi e azzurri con i veli bianchi che scendevano dagli alti turbanti a cono ornati di monete e catene d’oro. Alcune portavano il loro piccoli sulle spalle, altre li tenevano per mano e altre ancora, i cui figli erano spaventato o timidi, li portavano in braccio. Le donne si sedettero sul pavimento della galleria e, non appena preso posto, degli schiavi misero davanti a loro tavoli bassi imbanditi di cibi e bevande prelibate come si addice a una festa regale, e tutte quelle madri felici cominciarono a mangiare e a bere senza perdere la fiera e aggraziata dignità che è il più bell’ornamento delle donne di Betlemme. Lungo le pareti della galleria, e quasi nascosta dalle ghirlande di fiori e dagli alberi carichi di frutti, era schierata una doppia fila di soldati armati di tutto punto. Erano immobili, come se non avessero nulla a che fare con ciò che accadeva intorno. Le donne però non potevano evitare di lanciare ogni tanto un’occhiata interrogativa a quella schiera di uomini di ferro. «Che bisogno c’è di loro? » mormoravano. «Erode pensa forse che non sappiamo come comportarci? Crede che ci sia bisogno di tutti quei guerrieri per tenerci a bada?»
Ma altre rispondevano sussurrando che probabilmente doveva essere così a casa di un re. Erode non dava mai una festa senza avere il palazzo pieno di soldati. Era in loro onore che i guerrieri armati di tutto punto montavano la guardia. All’inizio della festa i bambini, intimiditi e incerti, stavano seduti tranquilli vicino alle loro mamme. Ma a poco a poco cominciarono a muoversi in giro e a prendere possesso di tutte le meraviglie che Erode offriva loro.
Era un paese incantato che il re aveva creato per i suoi piccoli ospiti. Vagando per la galleria trovarono arnie da cui potevano prendere il miele senza che nessuna ape infuriata lo impedisse, alberi che chinavano verso di loro i rami carichi di frutti. In un angolo c’era un prestigiatore che riempì subito per magia le loro tasche di giocattoli; in un altro un domatore con due tigri così addomesticate che si potevano cavalcare.
Ma in quel paradiso di tante delizie nulla attirava tanto lo sguardo dei piccoli quanto la lunga doppia fila dei guerrieri immobili all’estremità della galleria. I loro occhi erano catturati dal luccichio degli elmi, dalle loro facce dure e altere, dalle corte spade infilate nei foderi riccamente ornati.
Anche mentre giocavano e ruzzolavano scatenati, non smettevano mai di pensare a quei soldati. Si tenevano a una certa distanza, ma desiderando tutto il tempo di potersi avvicinare, di vedere se erano vivi e se potevano davvero muoversi.
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Il gioco e l’allegria crescevano sempre più, ma i soldati erano sempre immobili. Pareva incredibile ai bambini che qualcuno potesse stare così vicino a quei grappoli d’uva e a tutte quelle delizie senza tenendo la mano e prenderle. Alla fine un bimbo non poté più trattenere la curiosità. Piano, e pronto a scappare subito, si avvicinò a uno degli uomini armati. Visto che il soldato rimaneva immobile, gli si avvicinò ancora un pochino. Alla fine arrivò così vicino da potergli sfiorare col dito i lacci dei sandali e gli schinieri. Di colpo, come se quello fosse un crimine inaudito, tutti gli uomini di ferro scattarono in azione. Con una furia indescrivibile si gettarono ad afferrare i bambini. Alcuni li fecero roteare sopra la testa come proiettili, lanciandoli attraverso lanterne e ghirlande giù dalle balaustre e facendoli sfracellare sul pavimento di marmo. Altri sguainarono la spada e li colpirono diritti al cuore, altri ancora spaccarono loro la testa contro il muro, prima di buttarli giù nel buoi del cortile. Nel primo attimo dopo la carneficina non si sentì altro che un profondo silenzio. I piccoli corpi erano ancora sospesi in aria, le donne impietrite dallo sgomento. Ma non appena arrivarono a capire quel che era successo, quelle madri infelici si lanciarono tutte insieme con un urlo terrificante contro i carnefici. C’erano ancora dei bambini nella galleria sopravvissuti al primo assalto e inseguiti dai soldati: le madri si gettarono in mezzo, afferrando le spade con le mani nude per deviare il colpo mortale. Altre i cui bambini erano già stati uccisi si lanciavano addosso ai soldati afferrandoli per la gola e cercavano di vendicare la morte dei loro piccoli strozzando gli assassini. In quel feroce tumulto, mentre grida di terrore echeggiavano nel palazzo e il più atroce atto di sangue veniva perpetrato, il soldato che era solito fare da sentinella alla porta della città stava immobile in cima alle scale che scendevano dalla galleria. Non prendeva parte alla lotta e alla strage; solo contro le donne che erano riuscite a strappare i loro bambini e cercavano di fuggire giù per le scale alzava la spada. Ma giù solo la sua vista, cupo e implacabile com’era, era così terrificante che le fuggitive preferivano gettarsi dalla balaustra o tornare nel furore dalla lotta, piuttosto che azzardarsi a passargli davanti.
«Voltigio ha proprio fatto bene ad affidare a me questo posto», pensava. «Un giovane l’avrebbe già abbandonato per gettarsi nel tumulto. Se mi fossi lasciato tentare, almeno una decina di bambini se la sarebbero svignata.»
Proprio mentre lo pensava, gli cadde lo sguardo su una giovane donna che, stringendo a sé il suo bambino, si precipitava di corsa nella sua direzione. Nessuno dei legionari che aveva superato, alle prese on altre donne, era riuscito a sbarrarle il passo, e ora aveva raggiunto la fine della galleria.
«Ehi! Eccone una che sta per farcela!» pensò il soldato. «Né lei né il moccioso sono feriti. Se non ci fossi qui io...»
La donna veniva verso di lui a una velocità tale che sembrava volasse e gli fu impossibile distinguere il suo volto come anche quello del bambino. Aveva appena puntato la spada che lei, col bambino in braccio, vi si precipitò contro. Il soldato si aspettava di vederli stramazzare a terra trafitti l’attimo dopo, ma proprio in quell’istante sentì un ronzio rabbioso sopra la testa e insieme un dolore lancinante a un occhio. Era così violento che rimase intontito e smarrito e la spada gli cadde a terra. Portò la mano all’occhio e trovò l’ape a capì che quel che gli aveva causato un dolore terribile era solo la puntura di quella bestiola. Si chinò come un fulmine a prendere la spada,
sperando di fare ancora in tempo a colpire la fuggitiva. Ma la piccola ape aveva fatto bene le cose. Quel breve istante in cui era rimasto accecato era bastato alla madre per passargli accanto e precipitarsi giù dalle scale, e per quanto si lanciasse subito al suo inseguimento, non la vide più. Era scomparsa e in tutto il grande palazzo nessuno riuscì più a trovarla. ***
Il mattino dopo il legionario montava la guardia con qualche compagno all’interno delle mura. Era ancora presto e le pesanti porte erano appena state aperte. Ma era come se nessuno si aspettasse che si aprissero quel giorno: non c’erano frotte di lavoratori che si riversavano fuori nei campi, come erano soliti fare a quell’ora. Tutti gli abitanti di Betlemme etano talmente inorriditi dal bagno di sangue della notte che non osavano abbandonare le case.
«Per mia spada», disse il soldato guardando il vicolo che portava alle porte. «Credo che Voltigio abbia preso una decisione insensata. Sarebbe stato meglio se avesse tenuta le porte chiuse e fatto perquisire ogni casa fino a trovare il bambino che è riuscito a sfuggire alla festa. Voltigio conta sul fatto che i genitori cercheranno di portarlo via non appena sapranno che le porte sono aperte, e spera che io lo catturi proprio qui. Ma temo che non sia un buon calcolo. E’ così facile nascondere un bambino!»
E si chiedeva se avrebbero cercato dinasconderlo sotto la frutta nella cesta di un asino, o in un grande orcio d’olio, o tra i sacchi di grano di una carovana.
Mentre stava lì ad aspettare che qualcuno cercasse di ingannarlo in quel modo, si accorse che un uomo e una donna scendevano in fretta per il vicolo e si stavano avvicinando alla porta. Camminavano veloci, gettando sguardi ansiosi alle loro spalle come se stessero fuggendo da un pericolo. L’uomo aveva in mano una scure e la teneva stretta, come risoluto a ricorrere alla violenza se qualcuno gli avesse sbarrato il passo. Ma il soldato non guardava tanto l’uomo quanto la donna. Gli sembrava che fosse alta esattamente come la giovane madre che gli era sfuggita la sera prima. Inoltre osservò che teneva la sopravveste gettata sul capo. «Forse la porta così per nascondere che ha in braccio un bambino», pensò. Quanto più si avvicinavano tanto più chiaramente il legionario vedeva il bambino che la donna aveva in braccio delinearsi sotto il vestito rialzato. «Sono sicuro che è quella che mi è sfuggita ieri, disse tra sé. Non ero riuscito a vederla in faccia, ma riconosco la figura alta. E adesso mi compare qui davanti con il bambino in braccio e neanche cerca di nasconderlo. Non avere mai osato neanche sperare in un tale colpo di fortuna!»
L’uomo e la donna continuavano il loro frettoloso cammino fino alla porta. Evidentemente non pensavano di essere fermati lì. Trasalirono di spavento quando il soldato puntò la lancia contro di loro per sbarrare la strada.
«Perché vuoi impedirci di uscire a lavorare nei campi?» chiese l’uomo.
«Tra un po’ potrete passare, ma prima devo vedere cosa tiene nascosto sotto il vestito la tua donna.»
«Cosa vuoi che ci sia da vedere? E’ solo pane a vino, quel che ci serve per la giornata.»
«Può anche essere che tu dica il vero, ma allora perché sta girata così dall’altra parte, perché non mi lascia vedere di sua
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spontanea volontà quello che porta?»
«Non voglio che tu veda», rispose l’uomo. «E ti consiglio di lasciarci passare.»
E così dicendo sollevò la scure, ma la donna gli posò la mano sul braccio.
«Non litigare», lo pregò. «Provo in un altro modo. Gli lascio vedere cosa porto e sono sicura che non potrà fare nulla di male.»
E con un sorriso di orgoglio e di fiducia si voltò verso il soldato lasciando cadere un lembo della sua veste.
Il legionario balzò indietro chiudendo gli occhi come accecato da una luce violenta. Quel che la donna portava nascosto sotto la veste irradiava una luce bianca talmente abbagliante che al primo momento non capì cosa vedeva.
«Credevo che tu tenessi in braccio un bambino.»
«Lo vedi quello che porto», rispose la donna.
E finalmente il soldato vide che quello che l’aveva abbagliato non era altro che un fascio di gigli, gli stessi che crescevano fuori nel campo, ma il loro splendore era ancora più intenso e più radioso, tanto che a stento a guardarli.
Infilò la mano tra i fiori. Non riusciva a liberarsi dall’idea che dovesse essere un bambino che la donna portava, ma non sentì altro che freschi petali.
Amaramente deluso, avrebbe volentieri gettato in prigione sia l’uomo che la donna, nella sua rabbia, ma capiva che non poteva fornire nessuna scusa per farlo. Vedendo il suo sconcerto, la donna chiese: «Non ci lasci andare ora?»
Il legionario abbassò in silenzio la lancia e si fece da parte. La donna ricoprì con la veste i fiori rivolgendo a quel che portava in braccio un mite sorriso:
«Lo sapevo che non potevi fargli nulla di male, se solo lo vedevi!» disse al legionario.
E con ciò i due si allontanarono in fretta, mentre il soldato rimase a guardarli finché non scomparvero dalla sua vista.
E mentre li seguiva con gli occhi, di nuovo aveva la netta sensazione che quello che la donna portava in braccio non fosse un fascio di gigli, ma un bambino in carne e ossa.
Mentre era ancora lì a fissare i due viandanti, sentì delle grida che venivano dalla strada. Era Voltigio che arrivava di corsa con parecchi suoi uomini.
«Fermali!» urlavano. «Chiudi le porte! Non lasciarli scappare!» Quando lo raggiunsero, raccontarono che avevano rintracciato il bambino scampato, erano andati a prenderlo a casa sua, ma era di nuovo sfuggito. Avevano visto i genitori scappare con lui. Il padre era un uomo robusto con la barba grigia e una scure in mano, la made una donna alta col bimbo nascosto sotto la veste rialzata.
Mentre Voltigio gli riferiva queste cose, un beduino a cavallo entrò dalle porte della città. Senza un parola, il soldato gli si precipitò incontro, lo tirò giù dal cavallo gettandolo a terra, balzò in sella e partì al galoppo sulla strada.
sprofondare sottoterra», protestava tra sé. «Quante volte in questi giorni sono arrivato così vicino da prepararmi a scagliare la lancia contro il bambino, eppure mi sono sempre sfuggiti! Comincio a pensare che non li raggiungerò mai.»
E si sentiva scoraggiato come chi crede di combattere contro qualche potenza sovrumana. Si chiedeva se per caso non fossero gli dei a proteggerli contro di lui.
«Tutta fatica sprecata. Meglio che torni indietro, prima di morire di fame e di sete in questo deserto», continuava a ripetere a se stesso.
Ma poi veniva preso dalla paura di quello che l’attendeva se fosse tornato indietro senza aver compiuto la sua missione. Già era stato lui a lasciar fuggire il bambino due volte. Era impensabile che sia Voltigio che Erode glielo perdonassero. «Finché Erode sa che un bambino di Betlemme è vivo, sarà sempre tormentato dalla stessa angoscia, diceva tra sé. E la cosa più probabile è che cercherà di alleviare il suo tormento appendendomi a una croce.»
Era un mezzogiorno rovente e il soldato soffriva terribilmente cavalcando in quella regione montuosa senza un albero, su un sentiero che serpeggiava tra gole scoscese dove non si muoveva un filo d’aria. Cavallo e cavaliere erano entrambi sul punto di stramazzare.
Parecchie ore dopo aveva ormai perso ogni traccia dei fuggitivi ed era più demoralizzato che mai.
«Devo rinunciare», pensava. «Credo proprio che non valga la pena di continuare a inseguirli. Tanto in questo spaventoso deserto moriranno comunque anche loro.»
Mentre lo pensava, intravide nella parete rocciosa che si ergeva non lontano dal sentiero l’entrata a volta di una grotta.
«Mi riposerò un momento al fresco di quella caverna», pensò. «Poi magari potrò riprendere l’inseguimento con nuove forze.»
Ma quando stava per entrare, rimase sbalordito da una cosa incredibile: ai lati dell’entrata crescevano due gigli meravigliosi. Alti, diritti, pieno di fiori. Emanavano un profumo inebriante di miele e una quantità di api ronzavano intorno.
Era una cosa così straordinaria in quel deserto che anche il soldato fece una cosa straordinaria: colse uno di quei grandi fiori bianchi portandolo con sé nella grotta.
La caverna non era né fonda né buia e, non appena entrato sotto la volta, vide subito che era già occupata da tre viandanti. Un uomo, una donna e un bambino dormivano a terra, abbandonati nel sonno.
Mai il soldato aveva sentito il cuore battere come a quella vista. Non erano altro che i tre fuggitivi che inseguiva da tempo. Li riconobbe all’istante. Ed erano lì che dormivano, senza potersi difendere, in suoi totale potere.
Sguainò la spada e si chinò sul bambino assopito. L’abbassò piano verso il suo cuore, prendendo bene la misura per ucciderlo in un colpo solo. Ma mentre stava per sferrarlo si fermò un attimo a guardare il volto del piccolo. Sicuro della vittoria, provava un piacere feroce a contemplare la sua vittima. Quando poi lo guardò bene, la sua gioia fu ancora più grande: riconobbe il piccolo che aveva visto giocare con le api e con i gigli nel campo davanti alle porte della città.
Qualche giorno dopo il soldato cavalcava attraverso il terribile deserto di montagna, che si estende per tutto il sud della Giudea. Continuava a inseguire i tre fuggitivi di Betlemme ed era fuori di sé dall’ira perché quella caccia infruttuosa non aveva mai fine.
«Si direbbe davvero che questa gente abbia il potere di
«Ma certo, avrei dovuto capirlo subito», disse. «Ecco perché ho sempre odiato questo moccioso. E’ lui l’annunciato Principe della Pace!»
Abbassò di nuovo la spada pensando: «Se porto a Erode la testa di questo bambino mi farà capitano della sua guardia del corpo.»
78 IUVENTAS - Nr. 2 - 25 dicembre 2022
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E mentre avvicinava sempre più la punta affilata al cuore del piccolo dormiente, gongolava tra sé: «Questa volta almeno non si intrometterà nessuno a strapparlo dal mio potere!»
Il soldato però teneva sempre in mano il giglio che aveva colto all’entrata della grotta e mentre pregustava la futura fortuna, un’ape che era nascosto nel calice volò verso di lui e prese a ronzargli intorno al capo.
Il soldato balzò indietro. Ricordò le api che il bambino aveva riportato al loro alveare e ricordò che era stata un’ape ad aiutare il piccolo a fuggire dalla festa di Erode. Il pensiero lo lasciò stupefatto. Tene la spada sospesa e rimase in ascolto. Non sentiva più il ronzio. Ma stando così fermo si accorse del profumo intenso e meraviglioso che emanava il giglio che teneva in mano.
Allora gli venne da pensare ai gigli che il bambino aveva salvato e ricordò che era appunto un fascio di gigli che l’aveva poi nascosto al suo sguardo aiutandolo a fuggire dalle porte della città.
Si fece ancora più pensieroso e ritirò la spada.
«Le api e i gigli hanno ricompensato le sue buone azioni», mormorò tra sé.
E fu colpito dal pensiero che anche a lui quel bambino aveva fatto del bene. Un improvviso rossore gli montò al viso.
«Può un soldato romano dimenticare di restituire un favore accettato?» sussurrò.
Lottò per un po’ con se stesso. Pensò a Erode e anche al proprio desiderio di distruggere il giovane Principe della Pace.
«Non è da me uccidere il bambino che mi ha salvato la vita», disse alla fine.
Si chinò e depose la spada accanto al piccolo, in modo che i fuggitivi svegliandosi capissero da quale pericolo erano scampati.
Allora si accorse che il bambino non dormiva, lo stava guardando con i suoi begli occhi che brillavano come stelle.
E il guerriero si inginocchiò davanti a lui.
«Signore, tu sei il potente! Tu sei il forte vincitore! Tu sei l’amato dagli dei! Tu sei colui che camminerà sopra scorpioni e serpenti!»
Gli baciò i piedi e uscì piano dalla grotta, mentre il piccolo sorrideva e continuava a seguirlo con i suoi grandi occhi stupefatti di bambino.
NOTE
Tratto da Selma Lagerlöf, Kristuslegender (Stockholm, 1978) in traduzione italiana di Maria Svendsen-Bianchi, La notte di Natale. Le leggende di Gesù, Iperborea, Milano, 2015
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Ringraziamenti
La Redazione desidera ringraziare tutti gli autori degli articoli della Rivista per la bella collaborazione.
A presto!
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Marie-Laure Viriot, Die 3 Könige