Inchiostro N°139 - Aprile 2015

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Il giornale degli studenti dell’Università di Pavia

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Aprile 2015 - Anno XX - Numero 139


Il giornale degli studenti dell’Università degli Studi di Pavia.

DIRETTORE RESPONSABILE: Simone Lo Giudice DIRETTORI EDITORIALI: Matteo Camenzind, Eleonora Salaroli, Elisa Zamboni DIRETTORE SITO: Giorgio Di Misa TESORIERE: Elisa Zamboni IMPAGINAZIONE: Elsa Bortolotti, Giorgio Di Misa, Elisa Zamboni IMMAGINE DI COPERTINA: Matteo Camenzind ILLUSTRAZIONI: Matteo Camenzind CORRETTORI DI BOZZE: Ignazio Borgonovo, Cristina Ferrulli, Elisabetta Gri, Giulia Marini, Ludovica Petracca, Gloria Romano, Elisa Zamboni REDAZIONE: Ignazio Borgonovo, Elsa Bortolotti, Matteo Camenzind, Francesca Carral, Giorgio Di Misa, Irene Doda, Matteo Croce, Elisa Enrile, Cristina Ferrulli, Niki Figus, Giorgia Ghersi, Elisabetta Gri, Giorgio Intropido, Alessio Labanca, Simone Lo Giudice, Giulia Marini, Airina Paccalini, Ludovica Petracca, Gloria Romano, Camilla Rossini, Angelo Ruggieri, Eleonora Salaroli, Valeria Sforzini, Elisa Zamboni COLLABORATORI ESTERNI: Beppe Battaglia, Irene Brusa, Claudio Cesarano, Cristina Motta Anno XX - Numero 139 - Aprile 2015 Sede Legale: via Mentana, 4 - Pavia Simone 3467053520 Eleonora 3384208867 Elisa 3463951170 Iniziativa realizzata con il contributo concesso dalla Commissione Permanente Studenti dell’università di Pavia nell’ambito del programma per la promozione delle attività culturali e ricreative degli studenti. Fondi 2015: 6162,76 euro Mandato in stampa il 27 Aprile 2015 presso l’Industria Grafica Pavese s.a.s. - Pavia Registrazione n.481 del Registro della Stampa Periodica Autorizzazione del Tribunale di Pavia del 13 Febbraio 1998. Tiratura: 900 copie.

inchiostropavia@gmail.com inchiostro.unipv.it

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EDITORIALE

di Matteo Camenzind WELCOME TO EXPO 2015 di Niki Figus

#INK20

di Elisa Zamboni

SPECIALE: ERASMUS

di Elisa Zamboni, Ludovica Petracca

LIBERI, ARMATI E PERICOLOLI di Ignazio Borgonovo

A MAGIC TOWN FOR A MAGIC CARD di Eleonora Salaroli

Pag 4 - 5 Pag 6 - 7 Pag 8 - 11 Pag 12 Pag 13

LSD: TRAINSPOTTING di Cristina Ferrulli

Pag 14

LSD: BURROUGHS

Pag 15

di Niki Figus

NB: 20 ANNI DI TELEFILM di Giulia Marini

Pag 16 - 17

DEL RUOLO SOCIOLE DI Pag 18 FILIPPA LAGERBACK E ALTRI RACCONTI di Alessio Labanca

NELLE SCUDERIE PAVESI PARAPONZI PONZI PO di Matteo Croce

Pag 19

Ich weiss nicht wie viele verstehen werden was ich schreibe. Aber vielleicht sind es weniger als die, die in einem Land wo man Deutsch ein Erasmus gemacht haben. La questione è semplice: io non ti ci mando a studiare in un posto di cui non conosci la lingua. La questione è un po’ più complicata: l’opportunità dell’Erasmus è proprio quella di impararla sul posto, la lingua. Gente che impazzisce sui moduli e sulle regole, incomprensibili, per andare in Erasmus, faccenda sempre più macchinosa (come un po’ tutte quelle qua all’UniPv, altro che elogio, siamoW sinceri). Che dire? Come da copertina, l’Erasmus a Pavia non è un risultato non trovato, ma più drammaticamente qualcosa che non va per il verso giusto. Esattamente un anno fa, Fabio Palanza ci presentava il nuovo (avveniristico?) programma Erasmus+ promosso dalla Commissione Europea (“Inchiostro” 132, p. 4), una sorta di evoluzione pokemoniana dell’Erasmus; oggi siamo qua a mettere in discussione l’Erasmus puro e semplice, come realtà (ben presto solo teorica) all’UniPv. È solo un luogo comune che la maggior parte delle persone che va in Erasmus lo faccia per sbronzarsi, di sicuro: come in tutte le cose, sono sempre i peggiori a risaltare. (Ho visto molte immagini prima di realizzare la copertina di questo numero, e google, immancabilmente, quando cercavo «erasmus» mi consigliava «erasmus party».) Però tanto basta, ad una prima superficiale analisi per dare un motivo all’introduzione dei test di lingua per accedere alle graduatorie. Ma di sicuro, Elisa Zamboni e Ludovica Petracca saranno più chiare nello speciale da loro curato. Buona lettura! Nelle altre pagine, Niki Figus ci spiegherà che cosa sia effettivamente l’EXPO 2015. Per l’iniziativa #INK20+ (vent’anni di “Inchiostro”), Alice Gioia ci svela come fosse la redazione nel 2010. Mentre Ignazio Borgonovo ed Eleonora Salaroli ci porteranno per mano nella Pavia dei film (#Pavianuovabollywood). E per la serie di recensioni allucinate, Cristina Ferrulli e Figus ci presenteranno le loro ultime letture. Giulia Marini, invece, ci ha voluto ricordare, tra le serie TV, due di vent’anni fa. Matteo Croce (#messiinCroce) ci spiega cosa vedere, e perché no, alla nuova mostra installata alle scuderie del Castello. Conclude Alessio Labanca, che svela il vero senso della vita (e il ruolo di Filippa Lagerbäck nella stessa), forse ancora più incantatamente dei Monty Python. Ah, non dimenticatevi di seguire con noi le rassegne di cinema Indie e Dystopia, oltre all’UMF (University Music Festival). Noi le seguiamo con voi! Solo su inchiostro.unipv.it

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di Niki Figus

WELCOME

WHAT IS AN EXPO? «An Expo is a global event that aims at educating the public, promoting progr together countries, the private sector, the civil society and the general public around interac

DA EXPO...

Recita così l’home page del BIE (Bureau International des Exposition), l’Ufficio Internazionale delle Esposizioni, l’organismo, con sede a Parigi, che si occupa di predisporre le esposizioni - universali o internazionali - nelle quali un paese ospitante è chiamato a organizzare l’evento, con la partecipazione di più nazioni e organizzazioni internazionali. Un evento globale, storico, che ha avuto luogo in alcune delle più importanti città del pianeta, modificando (anche) l’architettura dei centri urbani ospitanti: il Crystal Palace di Londra, la Torre Eiffel di Parigi e l’Acquario Civico di Milano sono solo alcune delle meraviglie architettoniche lasciate da Expo negli anni. Una manifestazione che dal 1851 raccoglie milioni di visitatori, fonte di interesse e incredibile opportunità di formazione, confronto e innovazione tra differenti culture e tradizioni. Un evento con la capacità di catalizzare l’attenzione del mondo intero su alcune delle scoperte più importanti della storia umana; basti pensare, ad esempio, che a Expo 1876, tenutosi a Philadelphia, Alexander Graham Bell presentò il telefono, Thomas Edison il telegrafo e Eliphalet Remington la macchina da scrivere.

...E EXPO 2015

Un viaggio lungo la storia dell’evoluzione (tecnologica) umana, in arrivo tra due settimane in quel di Milano, Italia. Se ne parla da qualche anno, ma quasi esclusivamente in relazione agli eonici ritardi, ma la decisione risale al 2008. Anno nel quale Letizia Moratti e Roberto Formigoni, rispettivamente sindaco di Milano e presidente della Regione Lombardia, videro la propria città e regione destinate a tale grande onore e responsabilità. Il processo decisionale, tuttavia, iniziò nel 2006, quando il Governo sottopose la candidatura di Milano alla BIE e, a seguito della presentazione dei progetti delle due candidate - oltre a Milano, anche Smirne, in Turchia, presentò la propria candidatura - si concluse il 31 marzo 2008, con la votazione finale e la proclamazione di Milano come città organizzatrice dell’evento. Dal 1 maggio al 31 ottobre il mondo intero avrà gli occhi puntati sul “Bel Paese”; 145 nazioni, infatti, concentreranno le proprie competenze con unico scopo: «Nutrire il pianeta, energia per la vita».

EX PRE E EX POST: I NUMERI DI EXPO

Il sito adibito a Expo 2015 si trova all’estrema periferia a nord di Milano, area compresa tra: un cimitero, un carcere, due autostrade, una ferrovia e un’area agricola inutilizzata e inutilizzabile. L’area è stata acquistata dalla Fondazione Fiera di Milano (società a partecipazione pubblica, costituita dal Governo Italiano, dalla Regione Lombardia, dalla Provincia di Milano, dal Comune di Milano e dalla Camera di commercio di Milano), per un totale di 160 milioni, nonostante il valore del lotto si aggirasse attorno ai 20 milioni. Aiutati certo dalle banche, ma con l’obbligo di provvedere alla restituzione dei fondi, con gli interessi. I terreni, tuttavia, verranno utilizzati da privati; senza contare che la gara per rivendere i terreni Expo, con base di 314 milioni, non vede ancora la presenza di nessuna società. Nessuno ha dunque certezza di cosa ne sarà di tale area. Già, perché, è bene ricordare che, al termine dell’evento, le strutture costruite per Expo saranno smantellante - tranne il Padiglione Italia, del costo di 92 milioni. Attesi, promessi (pare?) e annunciati 15 miliardi di investimento estero - per la verità, mai visti -, il costo di preparazione dell’evento si aggira attorno ai 4 miliardi - per la costruzione del sito vero e proprio -, cui vanno sommati altri 14 miliardi per opere connesse (autostrade, strade, bretelle etc.). Verranno versati, nella sola area dell’esposizione, circa 750 mila metri quadri di cemento; ma non solo. Anche le aree circostanti a Expo saranno interessate a numerose costruzioni: in via Stephenson, ad esempio, con la costruzione di nuovi palazzi e case, come anche nella zona di Cascina Merlata - area accanto a Expo, dove saranno concentrati quasi 400 mila

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TO EXPO

ress and fostering cooperation. It is the world’s largest meeting place, bringing ctive exhibitions, live shows, workshops, conferences and much more».

metri quadri di cemento. Un affare che, nonostante le promesse, ad esempio di Roberto Maroni - attuale presidente di Regione Lombardia -, che ha parlato di un evento «Mafia free», ha visto una massiccia presenza di infiltrazioni mafiose e criminali. Basti pensare che i quattro appalti principali sono stati tutti quanti oggetto di attenzione da parte della Magistratura: 18 arrestati legati a Expo, parecchi indagati e, addirittura, 60 aziende sono state escluse dai cantieri, in quanto connesse alla criminalità organizzata, in particolare l’’Ndrangheta (associazione criminale di stampo mafioso, nata in Calabria, espansasi in tutto il mondo, con un giro d’affari - secondo Eurispes 2008 - di 44 miliardi). Proprio gli appalti sono stati oggetto di importanti polemiche (e indagini), complice anche il fatto che, a motivo dei forti ritardi, sono stati concessi - in alcuni casi - tramite gare in deroga. O, addirittura, senza gare (è notizia di poco tempo fa - per citare un esempio - che Eataly si è assicurata un appalto senza gara e senza «una preventiva ricerca di mercato» di ottomila metri quadri, 20 ristoranti e circa 2,2 milioni di pasti da distribuire; lasciando, inoltre, forti dubbi - tanto che Raffaele Cantone, presidente della Autorità Nazionale Anticorruzione, ha chiesto conto - sulla ripartizione dei ricavi, stimati in 40 milioni, di cui solo il 5% andrà alla società pubblica organizzatrice dell’evento). Restano, infine, persino perplessità sulla previsione dei visitatori, stimata a 29 milioni di biglietti venduti; quasi certamente destinata a essere al di sotto delle attese.

E(XPO) SE FOSSE STATO...

Expo 2015, dunque, si è trasformato ben presto più in un’operazione immobiliare che in una reale opportunità per il paese (quanto meno questo è ciò sembra emerge dal comportamento di imprenditori e - alcuni amministratori). I consigli di autorevoli figure di settore - per citare un nome, Carlo Petrini, fondatore di “Slow Food”, che aveva proposto la possibilità di costruire un orto planetario, rappresentate la biodiversità mondiale - non sono state accolte. Inoltre, molte delle opere presentate nel progetto di Expo 2015 - che hanno, tra l’altro, aiutato l’Italia ad accaparrarsi la nomina per l’evento - non verranno realizzate: la Biblioteca Europea, il Centro Europeo di Ricerca Biomedica Avanzata, le Vie d’Acqua (20 km di canali dal centro fino all’Expo), 70 km di piste ciclabili e pedonali dal Duolo fino alle periferie (i cosiddetti Raggi Verdi), la messa in opera di 40 mila nuovi alberi, la Città dello Sport e la Città del Gusto. Così, mentre dagli amministratori locali, da alcuni membri del Parlamento e del Governo, nonché dal Presidente del Consiglio, arrivavano - fino a qualche settimana fa - rassicurazioni sulla puntualità delle opere all’apertura, gli organizzatori correvano ai ripari. Basti pensare che proprio nel giorno in cui Matteo Renzi si recava in visita ai cantieri, dicendo «Ce la faremo», partì la gara d’appalto per i cosiddetti “camouflage”: pannelli per nascondere le opere incompiute, del valore di più di 1 milione, 100€ per ogni metro quadrato dei totali 11 mila.

PRO EXPO? CONTRO EXPO?

Niente di tutto ciò. Expo è un’occasione, certo. L’ennesima, però, che il nostro paese sembra cogliere solo a metà. Perché magari “sperare”, nel paese in cui un appalto su tre è irregolare, non basta. Perché può darsi che privare i cittadini della possibilità di essere informati, chiudendo i cantieri alla stampa, non sia ciò che serve. O forse, molto più semplicemente, perché Expo 2015 si terrà a Milano. Italia. Ma queste cose le capiremo in ritardo, come le nostre opere pubbliche, come il nostro senso critico, come sempre. E dunque, che Expo sia.

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#INK20 di Elisa Zamboni

Alice Gioia è produttrice freelance per la BBC Radio4 e freelance journalist per BadTaste.it e Confronti Magazine. Precedentemente ha lavorato come assistente all’ufficio stampa al Parlamento Europeo (2012) e come produttrice alla Rai (2009-2011).

Inchiostro compie vent’anni. Per l’occasione abbiamo riescumato i vecchi numeri e iniziato a cercare chi ha letteralmente scritto la sua storia. ATTENZIONE: a tutti coloro che non sono ancora stati tediati dalle Nostre Persone e volessero lasciare un loro contributo stto forma di intervista o articolo revival, ci contatti a inchiostropavia@gmail.com

Perché sei entrata in Inchiostro? È stato Inchiostro che ti ha aperto al giornalismo o il giornalismo che ti ha portato a Inchiostro? Cos’è stato per te lavorare per questo giornale? Ha qualche legame con il tuo lavoro attuale? È la prima volta che mi viene fatta questa domanda e non so bene cosa rispondere. Da un certo punto di vista, ho sempre sognato di diventare una giornalista. Ho realizzato il mio primo giornalino a 8 anni, un foglio a protocollo con tanto di prima pagina, editoriale e rubriche varie. Conservo ancora ogni copia di Atinù, il giornale dei piccoli dell’Unità. Da adolescente avevo una venerazione totale per Oriana Fallaci, Tiziano Terzani e Marco Travaglio. Ma è con Inchiostro che per la prima volta ho fatto “qualcosa” che davvero aveva a che fare con il giornalismo. Perché sono entrata? Perché un giorno un’amica mi ha detto che aveva scritto una recensione su un giornale di musica. E io mi sono detta: perché non provi anche tu? Eravamo in un bar vicino all’università, c’era un volantino di Inchiostro appeso alla vetrata. Ho scritto una mail, di getto, e la settimana successiva prendevo parte alla mia prima riunione di redazione. Avevo da poco compiuto 18 anni, stavo ancora al liceo, e mi sembrava una cosa da grandi. È davvero difficile definire gli anni a Inchiostro. Totalizzanti, intensi, gratificanti. È stato conoscere gli amici che sono, ancora oggi, la mia famiglia. È stato scoprire quello che Marco Cagnotti – insostituibile e preziosissimo insegnante di giornalismo all’Univeristà di Pavia – chiama, citando Socrate, il mio “daimon”: una passione viscerale che mi tiene sveglia la notte, ora come allora. È stato crescere in fretta, affrontare problemi e prendere decisioni. Sono stati anni di riunioni infinite e infinite risate. Sono state notti in bianco a correggere bozze e impaginare. In un certo senso, quegli anni e quelle esperienze non mi hanno lasciato mai. Tutto quello che ho sperimentato a Inchiostro è rimasto intessuto nelle giornate – e nelle nottate – che sono seguite negli anni successivi. Perché, sì, sono ancora qui a scrivere e tagliare pezzi, e questa risposta la sto scrivendo tra un turno e l’altro in redazione. Non fosse stato per Inchiostro, forse adesso non starei facendo questo lavoro. Di cosa ti occupavi o preferivi occuparti quando scrivevi per Inchiostro? Il mio primo articolo, lo ammetto, è stato una ricetta culinaria per studenti fuori sede – biscottini al cocco. Poi mi sono specializzata in interviste. Anche da direttrice, non mi è mai piaciuto scrivere editoriali. Mi piace conoscere la gente, parlarci assieme, raccontare le loro storie. Che è poi è uno degli aspetti più belli di questo lavoro. Ricordo uno speciale in cui avevo intervistato un’attivista palestinese, diventata

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famosa per un servizio dell’allora Annozero, e un soldato isreaeliano coinvolto negli scontri (via facebook, dalla base militare, un piccolo scoop). Entrambi 18enni, per capire quale fosse il loro, di daimon. Che cosa li facesse stare svegli la notte. Ti è capitato in questi anni di leggerlo ancora? Cosa ne pensi della sua evoluzione nel tempo? C’è qualche rubrica che ricordi con particolare affetto e vorresti rispolverare? Inizialmente seguivo ogni update del sito, scaricavo ogni pdf. Poi divenne troppo doloroso, e per un po’ mi rifiutai di leggerlo. La mia “dipartita” da Inchiostro è ancora un ricordo che fa male. Avevo ricevuto una buona offerta di lavoro: in poche settimane lasciai amici, collegio e università per trasferirmi a Roma. Passai il testimone a Mauro Del Corno e Matteo Miglietta, che se la sono cavata egregiamente. Ma per me è stato come lasciare un fidanzato che amavo tantissimo. Accettare l’idea che non fossi più parte del gruppo è stata dura. Ma penso sia anche questo parte di quello che si chiama “crescere”. Ogni volta che capito in città, ovviamente, ne prendo una copia. Devo dire che ho pensato spesso che ci fossero sempre un po’ troppi editoriali, troppa aria fritta sulla politica nazionale, quando invece la cosa bella di Ink – e di tutti i giornali universitari – è che è libero di fare inchieste, di raccontare storie locali. Ma questa è un po’ una mia fissazione. Trovo molto curioso provare a immaginare come fosse organizzata la redazione e se fosse tanto diversa da quella di cui oggi, a 21 anni, faccio parte: come si gestiva un giornale senza potersi confrontare in gruppo via mezzi rapidi come whatsapp? Sfruttavate già i social network per la promozione del giornale? Come avveniva l’impaginazione? Come avveniva il “retaggio” delle nuove leve? Oddio, mi fai sentire una vecchia bacucca! Si usavano le mail, i messaggi, e ci si trovava una volta a settimana. All’epoca il sito veniva aggiornato con meno frequenza, non ci serviva whatsapp per dirigere un mensile, dove non è proprio necessario dover prendere decisioni immediate. No, non mi sembra usassimo molto i social. Quando ho lasciato io Twitter non era ancora un fenomeno di massa. E le nuove leve si reclutavano per strada, all’epoca organizzavamo anche eventi in università e ci fermavamo a parlare con gli studenti. Faccia a faccia, alla vecchia maniera, insomma. L’impaginazione era un parto doloroso. C’era un correttore di bozze che dava la prima passata agli articoli (di solito sempre in ritardo sulla consegna!). Il direttore e il vice leggevano l’ultima stesura, poi un impaginatore (di solito Alessio Palmero Aprosio o Daniele Fusetto) procedevano a inserire gli articoli nella pagina. Io, essendo un po’ pignola, cercavo di presiedere all’operazione, in modalità civetta appollaiata sulle loro spalle. Diciamo che, accumulandosi i vari ritardi, si finiva sempre per fare una o due notti in bianco per chiudere il numero in tempo per la stampa. Del resto anche Oriana Fallaci cenava la sera tardi in tipografia per fare le ultime correzioni! Negli anni con te in qualità di direttrice responsabile sono stati introdotti diversi cambiamenti tutt’ora conservati, come il formato A4 e la divisione in sezioni (Università,

Pavia, Dossier, Politica, Cultura, Viaggi..), tra cui il Dossier che ora chiamiamo “Speciale”. Perché questa scelta editoriale? Devo dirti che non ricordo benissimo. Il formato A4 era, mi pare, una decisione per tagliare i costi. E poi era il periodo in cui anche l’Unità “aveva messo la mini”, quindi ci sembrava una scelta sensata. Oltre al fatto che io ancora adesso odio dover maneggiare giornali enormi. La scelta di dividere il giornale in sezioni – diretta conseguenza del cambio di formato - sembrava un modo più logico e funzionale per dare organicità al giornale. Per assomigliare un po’ di più ai quotidiani e alle riviste “serie”. Penso che ci ispirammo, tanto per non darsi arie, ad Internazionale e all’Economist. Non solo: era anche un modo per organizzare il lavoro interno e quindi sì, hai ragione, rappresentò una scelta editoriale importante. Almeno con le sezioni ci si obbligava a limitare la succitata aria fritta e ci costringevamo un po’ tutti a farci venire in mente idee per storie legate al contesto locale e universitario. Gli speciali – che già in qualche modo esistevano nei vecchi numeri, anche se in modo meno strutturato - nascono da una necessità pratica. La nuova impaginazione costringeva un po’ gli spazi. Ci sembrò giusto quindi dedicare uno spazio più ampio a un determinato argomento e a pezzi d’inchiesta, che magari avevano bisogno di un lavoro più lungo di ricerca. Ricordo un bel pezzo sull’acqua pubblica in cui eravamo andati a rompere le scatole a un sacco di gente. E per concludere... C’è qualche aneddoto di redazione a cui sei particolarmente legata? Il mio primo giorno in redazione. Era in corso una gran litigata, e visto che non ero coinvolta mi mandarono ad aprire il portone a un altro ragazzo “nuovo”, arrivato in ritardo (Luca Restivo). Salimmo la scala sbagliata, imboccammo il corridoio sbagliato. Dovettero venirci a cercare. Poi tutti i festival del giornalismo passati assieme. Quando uno dei nostri si alzò per fare una domanda ficcante (?) su non ricordo quale scandalo del TG1 e Gianni Riotta gli urlò dal palco “voi intellettuali fighetti radical chic!”. Inutile dire che venne adottato subito con orgoglio come soprannome. Ricordo un viaggio in macchina di ritorno da Perugia, con Alessio Palmero Aprosio e Marta Mangiarotti, all’indomani del terremoto all’Aquila, ad ascoltare la radio in diretta. E quando Alessio, Nicolò Carboni e Marco Canestrari mi regalarono un cuscino con una foto di Marco Travaglio autografato da lui medesimo. Poi tante, tantissime risate in redazione. Molte delle quali per motivi che non si possono raccontare in pubblico. E un paio di storie d’amore, e di quell’amicizia che non si scioglie neanche nel più corrosivo degli acidi.

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ERASMUS VINCOLATO Da un’esperienza che ti insegna la lingua a un Bando che ti impone di conoscerla. di Ludovica Petracca e Elisa Zamboni

L’11 febbraio 2015 è stato pubblicato il Bando Erasmus 2015/16, scatenando la reazione degli studenti per i vincoli introdotti. In particolare l’art.8 lettera b) valutazione delle competenze linguistiche dove veniva limitata la partenza per l’Erasmus sulla base di un test linguistico: “I

candidati non potranno accedere a sedi che richiedono/raccomandano/consigliano un livello linguistico superiore a quello posseduto, risultante dal test. Per accedere alle eventuali sedi che non specificano il livello linguistico occorrerà possedere almeno l’A2 (quindi il livello minimo per poter accedere alla mobilità in generale sarà l’A2)”. Test per il quale l’Università di Pavia

non ha dato sufficiente preavviso e quindi possibilità di preparazione adeguata ad esso (uscita del bando l’11 febbraio, chiusura del bando 13 marzo e inizio dei test il 23 marzo). Negli anni precedenti, così come indicato peraltro dalle guide al programma Erasmus europee, era invece possibile entrare in graduatoria senza questo tipo di vincolo. Pare dunque che l’Università di Pavia sia di fatto entrata in contraddizione con la Guida al programma, parte A, sezione Multilinguismo che riporta esplicitamente che “I risultati del test di valutazione linguistica

effettuato dai partecipanti prima della loro partenza non precluderà loro di partecipare alle attività di mobilità, qualsiasi sia il risultato”. Inoltre, le modalità di valutazione di tali competenze linguistiche erano vincolate a un blocco (A2/B1, B1/B2, B2/C1) dipendente dalla lingua “richiesta / raccomandata / consigliata” dalla università ospitante, senza possibilità eventualmente di essere valutati anche per una competenza superiore, acquisendo così più punti in graduatoria, o sulla seconda lingua richiesta: “Ogni candi-

dato verrà sottoposto ad un solo test per lingua (tre test nel caso si candidi per tre sedi di lingua diversa), per il blocco che consente di raggiungere il massimo livello linguistico richiesto dalle sedi con medesima lingua per cui si è candidato”. Tale test è obbligatorio per tutti i candidati all’Erasmus dell’Università: “compresi i madrelingua, gli iscritti ai corsi di studio internazionali, i possessori di certificazioni linguistiche internazionali”. I rappresentanti degli studenti del Coordinamento per il Diritto allo Studio e il Gruppo Kos si sono opposti a questo Bando con un’istanza al Rettore - affiancati da docenti del Senato accademico, del Consiglio di Amministrazione, rappresentati dei dottorandi e personale tecnico amministrativo -, con una raccolta firme in Università e con una petizione su Change.org:

“Richiediamo la correzione del Bando Erasmus+ 2015/16 in modo tale che preveda: 8


- la rimozione del vincolo sulle partenze basato sulla valutazione delle competenze linguistiche; - la possibilità per il candidato di scegliere le lingue in cui si svolgerà il test, qualora la sede ospitante ne indichi più di una; - la possibilità per il candidato di scegliere il livello di difficoltà del test a cui sottoporsi; - l’esonero dall’obbligo di sostenere il test per i candidati in possesso di una certificazione riconosciuta a livello internazionale.” A un giorno di distanza dalla chiusura del Bando del 13 marzo 2015, è stata pubblicata una precipitosa Rettifica prorogando la possibilità di presentare la candidatura entro il 16 e apportando modifiche alla sezione “Selezioni e graduatorie”, in particolare nel punto b) Valutazione delle competenze linguistiche. Prima di tutto è stata concessa la possibilità di essere esonerati dal test qualora presenti certificazioni internazionali: “Il test linguistico sarà obbligatorio

per tutti i candidati, compresi i madrelingua e gli iscritti ai corsi di studio internazionali. Gli studenti in possesso delle certificazioni indicate nella allegata tabella CEFR delle equipollenze fra i livelli del Consiglio d’Europa e le maggiori certificazioni internazionali di lingua straniera, verranno esonerati dal test per la lingua e per il livello corrispondente alla certificazione posseduta , se quest’ultima corrisponde al livello richiesto dalla sede. Se la sede individuata richiede un livello superiore, tale livello dovrà essere accertato attraverso il test. Non sono considerati validi certificati che riportino una data anteriore all’1/1/2012, indipendentemente dalla durata ufficiale del test stabilita dall’Ente Certificatore”. Anche per quanto riguarda la possibilità di scelta della lingua a cui sottoporsi e del piazzamento nei blocchi sono state apportate modifiche:

“Per le sedi che prevedono doppia lingua d’insegnamento (es. 1^ lingua tedesco, 2^ lingua inglese), il candidato verrà sottoposto a test per una delle due lingue, a propria scelta .” “Qualora il candidato ritenga di avere una competenza linguistica superiore a quella richiesta dalla sede ospitante, potrà chiedere all’Ufficio Mobilità internazionale [...] di sostenere il test nel blocco conforme.” Resta comunque il vincolo maggiore ovvero l’impossibilità di partire per coloro che non sono raggiungono il livello minimo richiesto. Per di più, “per accedere alle eventuali sedi che non specificano il livello lin-

guistico occorrerà possedere almeno l’A2 (quindi il livello minimo per poter accedere alla mobilità in generale sarà l’A2). Chi non raggiungerà almeno il livello A2 non potrà entrare in graduatoria per la lingua per cui non ha raggiunto tale livello.” L’Università di Pavia avrebbe potuto decidere di attribuire 0 punti ai non possessori di competenze linguistiche ma allo stesso tempo lasciar partire coloro che con motivazione e media universitaria avrebbero potuto comunque ottenere un buon punteggio in graduatoria.

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INTERVISTA A GIULIA SCAGLIOTTI: Senatrice accademica per il Coordinamento per il Diritto allo Studio - UDU Pavia, Giulia risponde alle nostre domande in merito alla vicenda Erasmus. di Ludovica Petracca e Elisa Zamboni

Per quanto riguarda il processo decisionale che ha portato alla pubblicazione del bando: come si è arrivati a questa formulazione? Purtroppo il processo decisionale non è stato né trasparente né condiviso. Noi Rappresentanti abbiamo potuto visionare il Bando solo il giorno della sua pubblicazione ufficiale (11 febbraio). In due sedute della CPS (Commissione Permanente Studenti, ndr), a novembre e gennaio, si era discusso di questo tema ma le informazioni che avevamo ricevuto erano imprecise e incomplete. Già in quelle due occasioni avevamo espresso le nostre perplessità. Sei rappresentante degli studenti nella Commissione Permanente Studenti e avete fatto presente il ritardo nella comunicazione una volta compreso che qualcosa non stava funzionando. Si può pensare abbia influito una mancanza di organizzazione da parte degli uffici di Internazionalizzazione? Perché non è stata richiesta una collaborazione agli stessi rappresentanti degli studenti proprio in merito a qualcosa che li riguarda in prima persona? A mio avviso il problema più grande non è stato rappresentato dalla difficoltà di adeguamento degli uffici alla nuova modalità. Come rappresentanti non abbiamo condiviso il modo di agire del delegato all’internazionalizzazione, cui spettano le decisioni politiche. Purtroppo è mancata una riflessione sulle conseguenze che sarebbero derivate da queste modifiche al Bando e tutte le decisioni sono state prese in fretta, senza coinvolgere le parti interessate. Con che presupposto ritieni che l’Unipv abbia agito contro gli interessi degli studenti? È inaccettabile che gli studenti non siano stati informati per tempo rispetto alle modifiche e che decisioni così importanti siano state prese da poche persone. Purtroppo con queste regole partiranno meno studenti rispetto agli anni passati. Non è in questo modo che si incentiva l’internazionalizzazione!

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È opinione diffusa che i test possano selezionare i più meritevoli e migliorare la loro esperienza di apprendimento all’estero. Secondo te, è davvero il mezzo corretto per capire le motivazioni dietro a una partenza per l’Erasmus? Non rischia invece di discriminare chi non ha avuto una preparazione linguistica adeguata pregressa? Inoltre, perché si ritiene necessario conoscere la lingua prima della partenza? Molti studenti la imparano mentre sono in Erasmus. Il test non seleziona i più meritevoli. Il test linguistico vincolante attribuisce troppo valore alla conoscenza di una lingua rispetto alle competenze maturate durante il percorso formativo o alle motivazioni legate a interessi di studio. In un Ateneo che non offre corsi di lingua extracurricolari, questo sistema discrimina fortemente chi non ha avuto la possibilità di ricevere una preparazione linguistica adeguata pregressa. Conoscere la lingua del Paese ospitante può agevolare, non lo ritengo però un requisito necessario, in questi mesi mi hanno scritto molti ragazzi che negli anni passati sono stati in Erasmus ed erano partiti senza conoscere la lingua, hanno vissuto comunque esperienze molto positive e sono riusciti ad imparare una nuova lingua! Le altre università come affrontano la questione linguistica? Tutte sottopongono i propri studenti a dei test? Li preparano a questi? Non tutte le Università italiane sottopongono gli studenti a dei test. L’Università di Bologna ad esempio somministra i test ma eroga anche dei corsi di lingua. Come riportato nella nostra Istanza al Rettore, il CLA (Centro Linguistico d’Ateneo, ndr) di Bologna offre da anni corsi gratuiti di lingua inglese agli studenti della propria università, in più offre a prezzi modici (4,20€ all’ora) corsi di altre lingue straniere, organizzati ogni semestre. Inoltre gli studenti dell’Università di Bologna sono stati avvisati per tempo e hanno sostenuto le prove di valutazione nel mese di febbraio, a dimostrazione del fatto che l’Università di Pavia era in ritardo anche a causa di una cattiva gestione, non solo perché le indicazioni dell’Unione Europea (o presunte tali) sono arrivate in ritardo. Inoltre, in merito ai contenuti del Bando, Bologna apre il paragrafo relativo ai requisiti linguistici con una premessa, sottolineando le finalità della valutazione delle competenze linguistiche: “Si ricorda che tali test hanno l’obiettivo di: a) dare consapevolezza agli studenti del loro livello di competenza linguistica in tempi utili per poter provvedere a un miglioramento, b) fornire ai docenti proponenti uno strumento omogeneo per la valutazione degli studenti nella formulazione delle graduatorie, c) fornire uno strumento di certificazione del livello di competenza linguistica degli studenti per rispondere alle richieste - sempre più frequenti - delle Università partner”. A livello di rappresentanti, come pensate di muovervi per il bando dell’anno 2016/17? Avete docenti o dati alla mano che vi sostengono? Sono molti i docenti dell’Ateneo che condividono la nostra idea e che si sono già espressi in occasione della presentazione dell’istanza al Rettore (consegnata il 6 marzo). Inoltre i dati relativi agli esiti delle selezioni di quest’anno sono allarmanti, purtroppo il numero di idonei è calato rispetto agli scorsi anni. Abbiamo già chiesto un punto all’ordine del giorno della prossima seduta del Senato accademico (14 maggio) per discutere del tema Erasmus. Faremo il possibile per ottenere dei risultati e cambiare il Bando 2016/17.

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“LIBERI, ARMATI E PERICOLOSI” DI IGNAZIO BORGONOVO

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nni ’70. Tomas Milian, un Diego Abatantuono al suo esordio cinematografico e tre ragazzi annoiati figli di una classe borghese più preoccupata ad arricchirsi che a crescere i propri figli: Questi gli ingredienti per un film sorprendente, preziosa finestra sulla Milano di quel periodo e i suoi disagi sociali. Lo ammetto conoscevo questo film per il solo fatto che alcune scene sono state girate in quel di Pavia (impossibile non sorridere nel vedere durante una scena la pubblicità di Annabella) e le odierne riprese di “Magic Cards” (di cui parla la mia caporedattrice preferita nella pagina accanto) sono state l’occasione giusta per vederlo per intero e scriverne. Approcciatomi alla pellicola, non avulso da preconcetti e basse aspettative, ho dovuto ricredermi. Diciamolo, non siamo davanti a un capolavoro perduto della cinematografica italiana. Il film è pregevole e ben fatto ma il suo essere ambientato in piena Prima Repubblica (1976), in una Milano e in una Pavia ormai scomparse e lontane, gli conferisce un valore che certo all’epoca non aveva e che oggi invece emerge enormemente. I tre protagonisti, improvvisatisi rapinatori e assassini giusto per spezzare il tedio delle giornate altrimenti tutte uguali, sono figli di un’epoca senza internet, senza smartphone, dove la tv non era nemmeno a colori (nel Bel Paese infatti arriverà solo nel 1977, con enorme ritardo rispetto al resto d’Europa). Tutto questo non può che incuriosire noi ragazzi di tutt’altra generazione. Apprezzabile è sopratutto la caratterizzazione del trio: lungi dall’essere superficiale, è profonda e molto marcata. An-

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che se sono distanti da noi come atteggiamenti e reazioni non appaiono mai finti, mai irreali. Ultimi ma non meno importanti sono infine i luoghi pavesi ripresi nella pellicola. Cercherò di essere il più vago possibile per non rovinarvi la visione: vi basti sapere che c’è una lunga scena di inseguimento girata interamente in città. Auto sfrecciano attraverso Piazzale Borgo Calvenzano, ai più nota come la rotonda situata prima del Castello arrivando da Viale Bligny. Da notare in questa scena il tabaccaio ancora oggi situato nello stesso identico punto e quel surreale traffico costituito da Alfa Romeo Giulia e Fiat 500, auto minuscole almeno per i canoni odierni. Continuando assistiamo poi a una sorta di drift nel cortile del Collegio Borromeo, con tanto di slalom tra le colonne e salto finale giù per i gradini di ingresso. L’intera sequenza lascia increduli ma decisamente divertiti. Una volante della polizia sfreccia poi davanti ai navigli e per concludere abbiamo la sequenza girata nella piazza che immette in Corso Cairoli (quella con gli archi in mattoni rossi per intenderci). Qui si vede la sopra citata pubblicità di Annabella, un enorme scritta gialla su sfondo rosso. Un film interessante, sia per il suo essere documento storico della Pavia che fu, sia per la sue qualità intrinseche di pseudo noir che più di una volta mi ha ricordato le ambientazioni e lo stile dei racconti di Scerbanenco. A chi cerca una finestra sul passato, a chi cerca un sorriso nostalgico o a chi può avere interesse nel vedere un Abatantuono agli esordi, senza barba e senza baffi (io non l’avevo affatto riconosciuto): questo è ciò che fa per voi.


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rde di cinesi in corso Cavour e Strada Nuova. Social network intasati dai selfies con la Cucinotta. Capannelli di curiosi e telecamere. Ebbene sì, dopo il poliziesco Liberi, armati e pericolosi (recensito nella pagina prima, ndr) e svariati altri film, più o meno noti, come ad esempio Il cappotto e I sogni nel cassetto, Pavia ha messo nuovamente a disposizione il suo fascino medioevale trasformandosi in set cinematografico. Finanziato da capitali cinesi, italiani e statunitensi (tra cui figura il presidente del Pavia Calcio, Xiaodong Zhu) per un budget di 2 milioni di euro, Magic card è un film d’azione che vede come protagonisti la già citata Maria Grazia Cucinotta e, inizialmente, l’americano Arnold Schwarzenegger (ma le trattative con la produzione si sono recentemente arenate, perciò il suo ruolo sarà impersonato da un’altra star, questa volta italiana); i due sono coinvolti in un traffico illegale di carte di credito tra Expo di Shangai 2010 e Milano 2015.

A MAGIC TOWN FOR A MAGIC CARD DI ELEONORA SALAROLI

Molti sono stati i luoghi e gli scorci di Pavia immortalati dalla cinepresa del regista Jiang Guomin: Piazza della Vittoria, Strada Nuova, il tratto compreso tra via Gatti e via Calatafimi, galleria Cupola Arnaboldi e Piazza del Lino, Aula Magna dell’Università e Piazza Leonardo da Vinci, i vicoli in via del Comune, via Paratici e dintorni, via Felice Cavallotti, via Galliano e viale Mazzini. In più, lo Stadio Fortunati del Pavia Calcio, unico set esterno al centro città. Ma non tutte le scene coinvolgono la ex capitale longobarda: dopo il periodo a Pavia tra il 24 marzo e il 10 aprile, le riprese continuano in Cina e a Milano, altre location fondamentali. La presenza della Cucinotta e del cast cinematografico ha prodotto grandi fermenti all’interno della città; ma più ancora delle transenne, delle telecamere, delle vie cittadine chiuse al passaggio, ciò che ha messo più in subbuglio il popolo pavese è stata la notizia della disponibilità di 400 posti da comparsa.

Come mosche sul miele, i pavesi non hanno perso tempo e l’indirizzo mail di I’m agency, l’agenzia milanese alla quale è stato affidato il casting, è stato letteralmente invaso da mail di presentazione. 400 erano i posti. 4800 le candidature. «è chiaro che daremo priorità ai cittadini pavesi», queste le parole che la Provincia Pavese, nell’articolo che sponsorizzava l’annuncio, attribuiva a Simonetta Miccoli di I’m agency. Con numeri simili, le delusioni sono state molte e inevitabili: il ruolo di comparsa faceva (giustamente) gola a molti, non solo per l’opportunità di comparire in un film, ma anche per la retribuzione di 73 euro netti al giorno. Fama e soldi: cosa si può volere di più dalla vita? Il sipario si è chiuso un’altra volta sulla romantica Pavia, che resta in attesa dei risultati. Pronta a godersi i suoi famosi “15 minuti di notorietà”, come diceva Warhol. Ci rivediamo al cinema!

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TRAINSPOTTING di Cristina Ferrulli

So bene cosa è successo nella vostra testa appena vi è capitata sotto gli occhi questa pagina. Il vostro cervello ha iniziato a suonare Lust For Life di Iggy Pop e la vostra mente ha seguito Mark Renton sfrecciare, seguito dai suoi amici, per le vie di Edimburgo, mentre cerca di mettersi in salvo dopo l’ultimo furto. Scommetto che sapreste anche recitare a memoria il monologo dei titoli di testa. La consapevolezza di tutto ciò mi fa salire una notevole ansia da prestazione: parlare di romanzi da cui sono stati tratti film che poi sono diventati grandi classici non è affatto facile. Sono solitamente libri conosciuti da tutti ma letti da pochi, vivono nell’ombra della loro trasposizione cinematografica, sono poco invitanti e quindi alla fine destinati ai fan irreprensibili o ai bibliofili senza scampo. Ma Trainspotting è un’opera insolita e come tale è naturale che debba fare eccezione. Non posso permettere che la penna di Irvine Welsh rimanga defilata. Eccessivo, provocatorio, crudo ma allo stesso tempo riflessivo, delicato e doloroso, capace di un’inaspettata tenerezza, lo stile di questo autore segue e si adatta alle vicende che compongono la vita dei numerosi protagonisti. Attraverso un realismo feroce (il libro è perfino scritto in dialetto scozzese), Welsh si fa portavoce della wasted youth della periferia edimburghese di fine anni ’80 e della classe operaia alla quale appartiene. Racconta ciò che ha visto, ciò che ha vissuto, e lo fa senza mezzi termini. La cinepresa del narratore passa, di capitolo in capitolo, dalla mano dell’autore a quella dei personaggi, tutti subito ben riconoscibili dagli stilemi – a volte anche fin troppo marcati, tanto da diventare fastidiosi – ripetuti nel corso del racconto (esilaranti i dialoghi interiori di Sick Boy con Sean Connery). Ciò che ne viene fuori è una storia continuamente frammentata, che fa assomigliare il libro più a una raccolta di racconti che a un vero e proprio romanzo. Ma la vera forza dell’opera sta nel ribaltamento delle prospettive morali ed esistenziali che permette al realismo di fondersi con i temi del post moderno. “La società s'inventa una logica assurda e complicata, per liquidare quelli che si comportano in un modo diverso dagli altri. Ma se, supponiamo, e io so benissimo come stanno le cose, so che morirò giovane, sono nel pieno possesso delle mie facoltà eccetera eccetera, e decido di usarla lo stesso, l'eroina? Non me lo lasciano fare. Non mi lasciano perché lo vedono come un segno del loro fallimento, il fatto che tu scelga semplicemente di rifiutare quello che loro hanno da offrirti. Scegli noi. Scegli la vita. […] Io invece scelgo di non sceglierla, la vita. E se quei coglioni non sanno come prenderla, una cosa del genere, beh, cazzo, il problema è loro,non mio. […] io voglio andare dritto per la mia strada, fino in fondo...”

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La morale comune è sradicata per lasciar spazio alla libertà di scelta, tutto il romanzo è una protesta al “buon senso comune” che costringe tutti quanti a seguire binari già segnati. Scegliere la vita vuol dire in realtà permettere che qualcun altro scelga cosa è meglio per te. La droga, quindi, non è soltanto un mezzo per sballarsi e sfuggire alla realtà, ma una vera e propria decisione estrema di vita, una via parallela a quella comune per condurre la propria esistenza, un antidoto anticonformista alla nausea sartriana. Diventa il collante che tiene insieme la mente e il corpo, “sfasciandolo” allo stesso tempo, è “l’elisir che ti dà la vita, e te la toglie”. Trainspotting è diventato in seguito alla sua pubblicazione una trilogia: nel 2002 è uscito Porno, il seguito del romanzo – del quale è attualmente in lavorazione la trasposizione cinematografica – e, a distanza di dieci anni da quest’ultimo, Scagboys, il prequel, dove sono narrati i primi approcci dei protagonisti all’eroina.


VITA DA W. BURROUGHS di Niki Figus

Solitario, tossicomane, paranoico. Quale modo migliore di cominciare? Autore e libro, in un unico mondo cosparso di tecnologia, controllo mentale e astrazione, un limite sottile (e valicabile) tra organico e inorganico, il tutto dettato dai ritmi de «L’Algebra del bisogno». «È esploso lo studio» - Una nube di rosse esalazioni al nitrato scese sulla città - Alì boccheggiava, stava soffocando, poi si ricordò e tirò fuori il sacchetto di plastica - Si mise le branchie al collo e si tuffò in una fonte scolpita a somiglianza di un retto di pietra - Mentre affondava rapido nell’acqua verde sentiva le branchie che gli squarciavano il collo - Un improvviso e intenso sapore di sangue ed ecco che respirava e nuotava lungo un passaggio sotterraneo - Ora in fondo vedeva la luce e riemerse in un canale aperto - » Il biglietto che esplose William Seward Burroughs nel suo Pasto Nudo (1959) - prefazione della quadrilogia che comprende: La macchina morbida (1961), Il biglietto che esplose (1963) e Nova Express (1964) - racconta se stesso e le sue sensazioni. Ma, soprattutto, descrive un mondo fermo, immerso nella propria catarsi, eppure in continua evoluzione. La droga, «la roba», è il motore immobile del mondo: quando il tossicomane ha bisogno, quando «L’Algebra del bisogno» si fa sentire, questi non può far altro che rispondere. «Il tossico funziona col tempo della droga. Il suo corpo è un orologio e la droga ci passa in mezzo come una clessidra. Il tempo ha un significato per lui solo in riferimento ai suoi bisogni. Poi il tossico fa la sua brusca irruzione nel tempo degli altri e, come tutti gli Emarginati, tutti i Postulanti, deve aspettare, a meno che non finisca con l’omologarsi con il tempo dei non tossici». Pasto Nudo Il controllo mentale è esplorato in ogni sua forma: dalla dipendenza da (qualsiasi tipo di) droga alla presenza di registratori e telescriventi che manipolano istinti e linguaggi, passando per veicoli di agenti virali sotto forma di ragazze-orchidea e ragazzi-raganella fluorescente. Il corpo e la mente

definiscono l’uomo, imprigionandolo, rendendolo schiavo delle strutture create ad hoc dalla società. Solo l’autore può (cercare di) essere libero, spogliandosi (e noi con lui) di uno stile di scrittura e d’una trama canonici, dunque omologanti. Il mondo che Burroughs riesce a creare improvvisamente prende forma nel reale, proiettando il lettore in un’atmosfera cupa e acre, all’interno della quale l’opera, libera da ogni trama, finisce con l’esplodere, liberando un nuovo universo, nel quale si rimane liberi di osservare (e, di conseguenza, ribellarsi) alle forme di controllo della società. Quella di cui fa parte sia il Burroughs “scritto” che scrittore. «Cominciò a scrivere formule matematiche sul pavimento e mi spiegò in quale modo i sacerdoti esercitavano il loro racket di vigilanza «È come se con le feste e quel granturco del cazzo sapessero quello che gli altri vedranno e sentiranno e annuseranno e assaporeranno e il pensiero è proprio questo e queste unità di pensiero sono rappresentate da simboli che si trovano nei libri e loro fanno ruotare continuamente i simboli sul calendario» E mentre guardavano le sue formule qualcosa si incrinò nel mio cervello e mi sentii liberato dal raggio controllore e il passo successivo fu che ci arrestarono tutti e due e ci condannarono alla “Morte del Centopiedi” - [...] Allora mi appello a qualcosa che ho ereditato da Urano dove mio nonno inventò la calcolatrice [...] il tetto cadde e schiacciò il centopiedi [...] - Il capo sacerdote rimasto paralizzato era diventato un centopiedi [...] - Allora organizzammo questo festino e [...] noi ce ne stavano li a gridare «Nudi! Nudi!» ridendo fino a pisciare, cagare e venire - Non si era mai sentito così ridere senza controllo» La macchina morbida Grazie anche al suo stile, il cut-up (il quale consiste nell’assemblaggio “casuale” di testi preesistenti in un’unica opera, ritagliando da varie fonti parole o frasi al fine di rimescolarle e fonderle assieme), Burroughs libera il lettore da ogni trama. Ogni capitolo ha vita propria, è una pennellata che arricchisce una mostra lunga quattro libri, nella quale viene ritratto un mondo tanto sovrannaturale quanto caratterizzato da ogni atroce piaga tipica del genere umano. «Gli ordini forti e chiari: “Fate esplodere - Percuotete - Pugnalate - Uccidete! - Lo schermo si spalancò - Vidi i Codici Maya e i geroglifici egiziani - prigionieri che urlavano nei forni frantumati in forme di insetti – Ritratto a grandezza naturale di un cadavere senza pantaloni impiccato ad un palo telegrafico» Nova Express Non quattro semplici libri o una lettura facile. William Burroughs nella sua opera non ricerca una rappresentazione, crea un nuovo mondo e un nuovo sistema di razionalità: l’artista non deve essere fuori dagli schemi, deve distruggerli. Perché, come bene spiegava l’autore: « Parole, colori, luci, suoni, pietra, legno, bronzo appartengono all’artista vivente. Appartengono a chiunque sappia usarli. Saccheggiate il Louvre! »

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199 di Giulia Marini

1995: XENA – PRINCIPESSA GUERRIERA “Al tempo degli dei dell’Olimpo, dei signori della guerra, e dei re che spadroneggiavano su una terra in tumulto, il genere umano invocava il soccorso di un eroe per riconquistare la libertà…”: sì, lo benissimo che anche voi state leggendo queste parole con la colonna sonora che ha segnato più di un’infanzia telefilmica. “Finalmente arrivò Xena, l’invincibile Principessa Guerriera forgiata dal fuoco di mille battaglie, la lotta per il potere ...le sfrenate passioni... gli intrighi... i tradimenti... furono affrontati con indomito coraggio da colei che sola poteva cambiare il mondo”. Sono queste le parole che hanno segnato una generazione che ha passato diverse estati della propria infanzia sintonizzata su Italia1, con una programmazione mattutina che ci catapultava direttamente in un’era fantasy-mitologica di cui non ci

siamo stancati almeno fino all’adolescenza. Xena – Principessa Guerriera vide la luce proprio nel 1995 come spin-off della serie televisiva Hercules, l’altro capostipite delle mie mattinate, poi trasmesso in Italia dalle reti Mediaset. A prescindere dal tratto un po’ trash che contraddistingueva il 99% dei personaggi che apparivano nella vita della Principessa Guerriera (Corilo e Venere ne sono i capostipiti), quello che mi è rimasto nel cuore di questa serie è la presenza – FINALMENTE! - di un’eroina donna che, con il solo aiuto della fida compagna Olimpia, riusciva a sconfiggere eserciti di uomini e creature di ogni genere con il semplice lancio del suo chakram: una figura diversa dalla classica donna che rinuncia a tutto per l’amore verso gli altri.

1995: JAG - AVVOCATI IN DIVISA Nell’epoca in cui i palinsesti televisivi pullulano dei vari CSI, NCIS e dei loro miglia di spin-off il ricordo di JAG - Avvocati in divisa, può parerci vacuo e lontano: probabilmente però è stata proprio questa serie televisiva a lanciare la “moda degli acronimi”, ovvero quella di incentrare uno show su un determinato dipartimento del sistema amministrativo americano, il cui nome viene spesso ridotto ad un semplice acronimo (si pensi ai più famosi CIA ed FBI). Nel caso di JAG la sigla corrisponde al “Judge Advocate General”, nientepopodimeno che il servizio

di avvocati e giudici al servizio dell’intero corpo delle forze armate degli Stati Uniti: chi non si ricorda la famosa sigla, la cui colonna sonora avrebbe fatto impallidire persino gli attuali CSI con i The Who? Come NCIS (che altro non è che uno spin-off della serie in questione), JAG è una delle tante creazioni del produttore e autore di Magnum PI Donald P. Bellisario, trasmessa in Italia da Rai2: temi centrali sono (ovviamente) il mondo militare e gli eventi legati alle spedizioni belliche del Novecento portate avanti dagli USA – insomma, niente a vedere con il tempo degli dei dell’Olimpo, dei signori della guerra.

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variegato arco narrativo ci viene mostrato il percorso che ha portato l’avvocato James McGill a diventare l’azzeccagarbugli Saul Goodman. La domanda che molti fans italiani ancora si pongo è quando la serie arriverà in Italia. Nel paese d’origine è stata osannata dalla critica e omaggiata da un altissimo numero di spettatori, mentre da noi si parla di tempi lunghi: bisognerà aspettare almeno settembre 2015 e non si conosce ancora la rete televisiva che la trasmetterà; per farci un’idea basti pensare che Breaking Bad era stata trasmessa in chiaro su -altro rullo di tamburi- Rai4 e in prima visione su AXN. L’ultima cosa che ci resta da fare è benedire lo streaming e continuare a sperare nell’avvento di colui che importerà le serie televisive d’oltreoceano e le sostituirà a “Il Segreto”.

2015: 1992 Ideata da Stefano Accorsi, trasmessa in contemporanea in 5 paesi… 1992, serie televisiva trasmessa su Sky Atlantic e Sky Cinema, tramite la vita dei sei personaggi cardine viene portato sul piccolo schermo il concatenarsi delle vicende che hanno portato allo scoppio di Tangentopoli: detta in parole così semplici mette i brividi solamente per il peso storico della vicenda in questione. Dopo la Roma di Romanzo Criminale e la Napoli di Gomorra, 1992 ci porta nella Milano a cavallo tra gli anni ’90; proprio per questi illustri antecedenti, la nuova produzione firmata da Sky aveva fatto ben sperare la critica, soprattutto perché un prodotto del genere non poteva sicuramente essere creato da una produzione firmata Rai o Mediaset, tanto da farla sembrare la House of Cards de noantri. Una serie dalle ambizioni altissime

vista la portata dell’argomento trattato per la nostra storia più recente, una serie che mi ha personalmente deluso al momento della visione. Colpa forse di una sceneggiatura che non regge la caratura degli esempi sopracitati: insomma, meno scene in stile Il Peccato e La Vergogna, più dramma politico e problemi sociali. È proprio queato il problema: le vicende dei sei personaggi principali che dovrebbero servire come espediente narrativo del contorno storico della vicenda ne stanno prendendo il sopravvento. C’è però anche da elogiare la serie, che nel complessivo un prodotto di altissimo livello nel panorama italiano: per il coraggio di trattare una vicenda che spesso e volentieri si cerca di dimenticare ed per un cast (almeno in buona parte) all’altezza della situazione (una menzione va data ad uno degli interpreti migliori della serie, Antonio Gerardi nel ruolo di Antonio Di Pietro).

2015

2015: BETTER CALL SAUL Spin-off di -rullo di tamburi- Breaking Bad, premiere più vista nella storia della tv via cavo, già rinnovata per una seconda stagione: se non sapete di cosa si tratta… VERGOGNATEVI. Perché la serie che lo scorso 8 febbraio ha debuttato su AMC è l’ennesimo capolavoro legato all’universo di Breaking Bad. Per voi che in questo momento vi state vergognando, la serie tratta della vita di James McGill, ovvero Saul Goodman prima di diventare… Saul Goodman. Come c’era da aspettarsi, attorno allo spin-off di un capolavoro quale Breaking Bad si era creato un alone di mistero e di scetticismo, secondo me in parte cancellato da quello che la serie ci ha mostrato (il finale di stagione è andato in onda il 6 aprile): in un

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Capita a tutti più o meno e con una frequenza variabile da persona a persona, di sentirsi tristi, abbattuti, sconsolati, tediati, privi di fiducia verso il prossimo e l’intera specie umana per i motivi più disparati. Cercate quindi rifugio in pensieri che possano tirarvi su il morale, anche per pochi attimi, e novantanove volte su cento si finisce su chi sta peggio di noi, perché fondamentalmente il pensiero che anche gli altri soffrano ci fa stare meglio e, se siete particolarmente sociopatici (o diversamente empatici), potreste persino godere delle disgrazie altrui. In quest’ultimo caso, però, un controllo dall’analista lo farei comunque, così, giusto per togliermi il dubbio che tutto sia ok. La salute prima di tutto. Le tragicomiche incombenze della vita sanno sempre come sorprenderci e, ogni volta, sanno farci sprofondare sempre più in basso, verso l’abisso e oltre! come esclamerebbe un ipotetico nemico di Buzz Lightyear o un appassionato di batiscafi e della fossa delle Marianne con un profondo senso dell’umorismo (eheheheheheheh). Se ancora vi chiedete quale sia il senso della vostra vita, se pensate di lasciare una traccia del vostro passaggio su questa effimera Terra con un commento su Badoo o facendovi tatuare il simbolo dell’infinito sulla nuca, sicuramente avete sbagliato qualcosa o avete pestato i piedi al Karma. Sappiate però che c’è sempre qualcuno messo peggio di voi, non necessariamente da un punto di vista economico, fisico o materiale ma, peggio, esistenziale e spirituale. Oramai trascinati in uno stato di profondo malessere, alcuni personaggi riescono tuttavia a conviverci e anzi farne una professione, guadagnarci dei soldi, soldi veri, alla faccia mia e di tutti quelli che come me provano un senso di nausea non appena provano a mettersi nei loro panni. Il mio breve pensiero oggi va, in ordine confusamente sparso, a: Filippa Lagerbäck, purtroppo ora ridotta a fare pubblicità di chewing gum e a introdurre ospiti a CheTempoCheFa con la verve e la prontezza di riflessi di un carciofo biologico appena colto nella “terra dei fuochi”; la coppia Gero Caldarelli + Lorenzo Beccati, il misconosciuto duo che

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DEL RUOLO SOCIALE DI FILIPPA LAGERBÄCK E ALTRI RACCONTI CHE VI FARANNO STARE MALE MALE MALE. (Da un pensiero precedentemente esposto e discusso col mio amico Giovanni P.)

di Alessio Labanca

rispettivamente, giorno dopo giorno, continua ad indossare il costume del Gabibbo e a dargli una voce: io mi metto nei loro panni e giorno dopo giorno continuo a chiedermi con che spirito tornino la sera a casa, con che sguardo osservino i loro familiari, come si sentano quando ricevono la comunione la domenica mattina e se il parroco li assolve quando si confessano; quelle persone che decidono di frequentare il Master in Marketing, Digital Communications e Sales Management Publitalia ‘80, per un motivo non ben preciso, forse perché avevo dello spazio vuoto da riempire e non avevo idee più brillanti (provate per curiosità a dare uno sguardo al sito, sembra realizzato dagli stessi grafici dell’Expo - che tristezza); Veronica Maya, misteriosamente scomparsa dai palinsesti RAI e ricomparsa su quelli di Agon Channel dopo aver mostrato, accidentalmente, il siliconico seno in diretta nazionale: Veronica, ti prego, torna a condurre lo Zecchino d’Oro con Mago Zurlì

e Pino Insegno (anche lui a rischio esautorazione dopo aver fatto una battuta divertente per la prima volta nella vita “So che lavoro fanno Grillo e Celentano, non so che lavoro faccia Nina Moric”), con l’evidente voglia di compiere una strage di innocenti stampata in volto. Ogni volta che mi sento triste e senza speranze, mi fermo un attimo a pensare. Nulla mi risolleva più del pensiero che Adolf Hitler, dopo aver raggiunto Parigi con la facilità con cui un grissino taglia il tonno in scatola, non riuscì a salire la Torre Eiffel perché i parigini disattivarono gli ascensori e mentirono sul disservizio, abbandonandolo solo e sconsolato ai piedi della torre, al livello della misera terra che stava calpestando. Certo che i francesi sono un popolo valoroso e vendicativo. Grazie francesi.


P

ercorro il fossato del Castello Visconteo giù giù fino alle scuderie, poi entro. Acquisto il mio biglietto ridotto (6 euro) mentre scruto distintamente i cavalli di Apollo e poco più in là il grande metafisico. Non faccio in tempo a ricevere il resto che già vedo metà delle opere esposte. Potrei uscire, la mostra è modesta, ma l’esposto è geniale. Due o tre pannelli azzurri sorreggono dipinti meravigliosi, la luce naturale mista a quella artificiale sembra più da sala da pranzo che da sala museale. Leggo dal dépliant: «La mostra svela il legame di Giorgio de Chirico con il mondo classico». Credo proprio che questa affermazione farebbe inorridire Calvesi. Mi spiego: non che non sia tangibile la vicinanza dell’universo dechirichiano alla classicità («Pictor classicus sum»), ma l’esposizione pavese lascia proprio a desiderare e non svela assolutamente nulla nello splendore della sua approssimazione e del suo pressapochismo, appendendo 36 quadri e lasciando su un banchetto 24 reperti archeologici per lo più databili a.C. Era l’aprile assolato del 2010, il biglietto per i minorenni costava 6 euro, ora costerebbe 10, dai 13 ai 18 anni. Ricordo di aver preso l’autobus per tornare a casa. Poi le mostre del Castello non mi videro più; cinque anni di sabotaggi a mostre che venivano a costare sempre di più, il biglietto che sfiorava la cifra esorbitante del catalogo dell’intera esposizione. Nel 2015 ci sono ritornato, grazie anche alla scontata quanto agognata riduzione del prezzo per gli studenti universitari di questa meravigliosa città (9 euro). Potete immaginarvi lo stupore (o forse no) nel vedere una tendina che separava la ticketteria dalla mostra. La apro, poi entro. L’oscurità mi avvolge e resto stranito, sono solo nella prima sala, ho scelto l’orario giusto. Mi sdraio sul divanetto e mi guardo il breve video di presentazione: conosco Lady Phillips,

NELLE SCUDERIE PAVESI

PARAPONZI PONZI PO. di Matteo Croce la storia della sua collezione, la storia della Johannesburg Art Gallery e tutto quello che l’esposizione pavese vuole rappresentare. Mi alzo e inizio a fissare uno ad uno i quadri (ma non vi devo certo dire come si visita una mostra, lo sapete tutti come si fa). Con quei 9 euro (parlo ai soli frequentatori dell’UniPV) è compresa, che la vogliate o no, l’audioguida (se la prendete, fatemi sapere quel che dice). Sento già troppe voci di mio senza mettermene all’orecchio un’altra. La mostra è ben assortita, le opere accontentano un po’ tutti i gusti, l’ambiente è tetro e lucine sinistre puntano qua e là sui quadri. Certamente l’assetto del 2015 si presenta ai miei occhi ancora stupiti come un grande passo in avanti rispetto a quello del 2010, ma si può sempre migliorare. Il grande passo è stato soprattutto limitare l’egemonia delle esposizioni impressionistiche e post degli ultimi anni. Ma non temete cari fans dell’Impressionismo,

ci sono, ci sono! Non può esistere una mostra alle Scuderie da 5 anni a questa parte senza che vi sia appeso almeno un Impressionista. C’è anche altro questa volta. Gli artisti esposti? Degas, il Picasso del famoso e contestato periodo «questo lo facevo pur’io», Gaugin, Warhola, ToulouseLautrec, ma anche Max Pechstein con un’interessante versione del Pater Noster, Pierre Bonnard, André Derain ecc. La mostra è divisa in sezioni, ma ogni quadro e ogni autore probabilmente rappresentano una sezione a se stanti. Dopo aver visto l’opera di quel mattacchione di Andy, che completa il percorso della mostra “canonica” assieme ad un’opera fin troppo materica e inquietante, non scappate subito verso l’uscita. Un’ultima sezione vi attende: l’Africana (eh sì, perché la Johannesburg Art Gallery sta proprio in Sudafrica). Perché non sfruttare questa occasione per conoscere uno stralcio di arte africana che vada al di là degli ElefantinoPortaFortuna e dei lunghi volti d’uomo intagliati nel legno? Alcune informazioni tecniche: - La mostra terminerà il 19 luglio 2015; - Dal lunedì al venerdì apre dalle 10 alle 19, giovedì dalle 10 alle 22, sabato, domenica e festivi dalle 10 alle 20; - Tutti i prezzi comprendono la sopracitata audioguida: 12 euro biglietto intero, 11 euro per over 65, between 13 and 18, gruppi (da 15 a 30 persone) e altri, 9 euro per gli universitari pavesi e i possessori della My Museum Card, 5 euro per i bimbi, gratuito per pochi. Sul sito delle Scuderie (www. scuderiepavia.com) troverete quello che qui non ho specificato. Non odio gli Impressionisti, ma per fortuna a Pavia hanno esposto anche altro. Forse è il caso di passare a darci un’occhiata, un’occhiata attenta da intenditori d’arte, come ci crediamo un po’ tutti. Lady Phillips c’est moi!

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