Birdmen n°1 – Maggio 2016

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CINEMA

CINEMA - SERIE TV - TEATRO

Dossier Tarantino - The Hateful Eight America Bloody America: immagine e frattura in TH8

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Il Tarantino centripeto e riflessivo di TH8

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a cura di Riccardo Bellini

a cura di Daniele Fusetto

Il 70 millimetri di TH8: inattualità e nostalgia del cinema

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Mad Max - Fury Road Oltre la sfera dell’immaginazione

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Gianfranco Rosi - Da Sacro GRA a Fuocoammare

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Cannes 2016 - Una panoramica

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a cura di Sebastiano Lombardo a cura di Matteo Vajani

a cura di Chiara Boatti

a cura di Sebastiano Lombardo

SERIE TV Tra 2015 e 2016: fresche leve vs. big four

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L’universo Fargo: dal film alla serie TV

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a cura di Daniele Fusetto

a cura di Riccardo Bellini e Sebastiano Lombardo

TEATRO Quello che avete in mano è il primo numero di «Birdmen», una rivista completamente dedicata allo spettacolo, al cinema; ma anche al mondo della televisione e al teatro; scritta da chi lo spettacolo lo vive, lo fa, lo studia e lo conosce. «Birdmen», per lo spettacolo, è il nostro “Hugo Cabret” su carta, o, almeno, ci proviamo. Nel 1888, in Inghilterra, Louis Aimé Augustin Le Prince gira Roundhay Garden Scene, la prima ripresa cinematografica di cui sia ha notizia: un cortometraggio di appena tre secondi. Erano i primissimi albori di quello che noi, oggi, chiamiamo «cinema», la cosiddetta “settima arte”. Più di un secolo dopo, nel 2011, il pluripremiato regista americano Martin Scorsese, girando

Hugo Cabret, celebra il cinema e la sua storia: un film sognante, ricco di citazioni cinematografiche e rimandi. Da L’arrivée d’un train en gare de La Ciotat (1896), forse, il più celebre cortometraggio dei fratelli Lumière, inventori, nel 1895, del primo proiettore cinematografico: il cinématographe; fino a Georges Méliès, definito “il Giotto della settima arte” e considerato il “secondo padre del cinema” (dopo i fratelli Lumière), per l’introduzione e la sperimentazione di numerose novità tecniche e narrative, prima fra tutte: la regia cinematografica in senso stretto. Hugo Cabret, l’omaggio di Scorsese alla storia del cinema, nel 2012, si aggiudica cinque Oscar e vale al regista newyorkese il Golden Globe per la miglior regia.

Dove germoglia l’arte - il teatro di Edoardo Erba

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Torino Jazz Festival - Quando la musica incontra le altre arti

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a cura di Davide Cioffrese e Sofia Perissinotto a cura di Daniele Testa e Chiara Pollini

Arlecchino servitore di due padroni – Ferruccio Soleri 29 a cura di Paola Mogni e Silvia Varrani Allegato speciale a Inchiostro #147, maggio 2016

Direttore editoriale Birdmen: Lorenzo Giardina

“Inchiostro presenta Birdmen (cinema, tv e teatro)” è un’iniziativa realizzata con il contributo concesso dalla Commissione permanente studenti dell’Università di Pavia, nell’ambito del programma per la promozione delle attività culturali e ricreative degli studenti.

Redattori: Riccardo Bellini, Daniele Fusetto, Sebastiano Lombardo, Giorgia Maestri, Sofia Perissinotto, Davide Cioffrese, Silvia Varrani, Paola Mogni, Chiara Pollini, Daniele Testa; coordinati da Chiara Boatti e Matteo Vajani. Grafica e impaginazione: Marina Girgis, Danny Raimondi, Valerio Marco Ciampi Correttori di bozze: Lorenzo Giardina, Barbara Palla

Fondi ACERSAT 2016 per Birdmen: 1638 € Inchiostro: Registrazione n. 481 del Registro della Stampa periodica; autorizzazione del Tribunale di Pavia del 13 febbraio 1998. Sede legale: Via Mentana, 4 - 27100, Pavia Direttore responsabile: Simone Lo Giudice Direttore editoriale Inchiostro: Matteo Camenzind

Ringraziamo, per la collaborazione e il supporto, il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Pavia; in particolare, i docenti e i collaboratori della Sezione Spettacolo (Federica Villa, Fabrizio Fiaschini, Lorenzo Donghi, Giada Cipollone). Mandato in stampa il 23/05/2016 presso Industria grafica pavese s.a.s. - 27100, Pavia

Per info contattaci: inchiostropavia@gmail.com - birdmen.inchiostro@gmail.com


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CINEMA

Lo spettacolo è un’arte complessa e multiforme, certamente non limitata al cinema. In «Birdmen», abbiamo scelto di dedicare alla “settima arte” un’attenzione prevalente, includendo, però, anche il mondo della televisione, le serie TV, poiché, come diceva Woody Allen: «È assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla TV». Per concludere, eccoci al teatro; Eduardo De Filippo disse che «Il cinematografo – il cinema – non ha niente a che vedere col teatro», eppure, è innegabile che il teatro sia fra le espressioni più antiche della primigenia volontà umana di rappresentare la realtà, passata, attuale, futura o immaginaria, che sia; la medesima volontà che muove il cinema. Lo stesso lemma “teatro” deriva dalla parola greca θέατρον (théatron), “spettacolo”: in coscienza, capirete che non ce la siamo sentita di omettere il teatro da «Birdmen», e «Birdmen» dal teatro. Per il nome della rivista, ci siamo ispirati liberamente a Birdman o (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza), il film di Alejandro González Iñárritu che, nel 2015, fra i molti riconoscimenti, ha vinto quattro Premi Oscar, fra cui miglior film e miglior regia. Coloro che conoscono il film, probabilmente, già colgono la ratio della nostra scelta: l’intera pellicola si coniuga fra la dicotomia instancabile

di due mondi complementari e, a tratti, antitetici: cinema e teatro; in uno sposalizio magistrale dal gusto grottesco, un gusto che, forse, in fondo, non ci è così estraneo. Birdman, per quasi tutta la sua interezza, si sviluppa in un lungo piano sequenza che segue gli attori all’interno di un teatro di Broadway, fra i corridoi, le stanze e il palco. L’eccezionale utilizzo di questa tecnica contribuisce a creare ciò che oserei definire “l’esperienza Birdman”: un magistrale continuum narrativo nel quale ci sentiamo risucchiati; e, non di meno, vale a Emmanuel Lubezki l’Oscar per la miglior fotografia. Di modestia e umiltà non si è mai abbastanza lauti, è vero, ma noi “bird-men” un intento manifesto l’abbiamo: offrire un “piano sequenza” di pagine e parole, opinioni e informazioni, fra cinema, televisione e teatro; offrire una rivista di critica alla portata anche di coloro che di critica non si sono mai interessati, una rivista di nicchia che spera di non esserlo troppo. Vi presentiamo, dunque, «Birdmen», con l’auspicio che ciò non si esaurisca in questo inesperto e, per certo, poco ortodosso editoriale. «Oh, andiamo, gente! Non siate patetici! Smettetela di vedere il mondo dallo schermo di un cellulare. Vivete davvero!» Mike Shiner (Edward Norton) in Birdman Lorenzo Giardina

AMERICA BLOODY AMERICA: IMMAGINE E FRATTURA IN THE HATEFUL EIGHT di Riccardo Bellini Per decenni Tarantino ci ha abituati ad immagini costrette alla demenza del movimento circolare, visioni reiterabili all’infinito, intessenti una dialettica interna, in perfetto accordo con un cinema assurto a sintesi riflessiva della post-modernità. Un cinema ripiegantesi su se stesso, concepito come microcosmo ordinato (con le sue leggi, la sua fisica, la sua oggettistica, i suoi eroi e anti-eroi) o come fabbrica audiovisiva autoalimentata, di cui lo schermo costituisce una parete trasparente. In The Hateful Eight (2015) l’inquadratura assomiglia a una “scatola magica” che, paradossalmente, dilatandosi, si restringe, grazie all’inconsueto utilizzo dell’Ultra Panavision 70 per stipare in interni claustrofobici (la diligenza di memoria fordiana prima e l’emporio di Minnie poi) gli otto odiosi personaggi. Una costante

tendenza alla circoscrizione acuitasi da Kill Bill - Volume 1 (2003). Nel tempo, Tarantino configura lo spazio cinematografico come macchina deformante a cui demandare la facoltà di riscrivere la storia, sviluppando universi paralleli in cui Hitler e Goebbels vengono massacrati da un gruppo di soldati ebrei, proprio all’interno di un cinema parigino e uno schiavo afroamericano affrancato può far esplodere la casa di un ricco proprietario terriero del Mississippi, prima della guerra civile americana. In questo modo, il cinema proietta sullo schermo i desideri e le frustrazioni della collettività, sancendo una rivincita delle immagini sulla storia, a patto, però, di restare entro i limiti di un mondo virtuale (ma sempre nella realtà), il cui gioco illusorio è più che mai manifesto, un mondo “solamente”, appunto, immaginato.


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America Bloody America - di Riccardo Bellini tra le principali fonti ispiratrici del film insieme a La cosa (1982) di Carpenter – per cui niente è come sembra e tutto è come appare. L’idea stessa che l’illusione possa incidere sulla realtà, determinandone risvolti decisivi, è emblematizzata dalla falsa lettera di Abramo Lincoln che il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson) porta con sé come passe-partout in un mondo dominato dall’uomo bianco. L’inganno funziona, ma la riscrittura della storia assume qui caratteri ambigui e inquietanti che la trasformano in beffa grottesca, denunciando al contempo le falle rimaste aperte dopo il conflitto secessionista. È l’ennesima piaga di un cinema che trova nell’ultima inquadratura la sua piena condensazione. La sequenza iniziale e l’impiccagione di Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), infatti, suggellano il film tra due analoghi movimenti di macchina le cui funzioni sono però specularmente opposte: se il primo sottende l’immersione spettatoriale nell’universo tarantiniano tramite il graduale allontanamento dal crocefisso, il secondo corrisponde ad un implicito sfondamento della quarta parete, possibile solo dopo aver preso coscienza di quell’ultima, straordinaria immagine di morte che è appunto l’impiccagione di Daisy. In essa è racchiuso il valore dell’intero film e il suo impatto sta nella perfetta concrezione di elementi che riesce a raggiungere: in primo piano, una donna impiccata (immagine della pena di morte), di

fronte ad essa un nero e un bianco (immagine dell’eterogeneità razziale) rappresentanti di due opposte ideologie (democratica e repubblicana), immersi entrambi in un bagno di sangue (immagine di una nazione fondata sulla violenza); nelle loro mani la falsa lettera di Abramo Lincoln. Siamo al distillato dell’America più cupa catturata da Tarantino fino a questo momento, visivamente vicino, nella decostruzione del mito americano, all’immaginario di certa “Nuova Hollywood” – si pensi al finale di Easy Rider (1969), con il moribondo Billy (Dennis Hopper) coperto da una giacca effigiante la bandiera a stelle e strisce. Immagine dell’eterna incrinatura e del contrasto, sospesa nella sua pertinace problematicità – fratture e contrasti sono del resto fattori già presenti nella musica, non solo nella meravigliosa colonna sonora di Morricone, ma anche nella profetica ballata Jim Jones At Botany Bay cantata da Daisy. L’impiccagione non suona, infatti, come una punizione inferta alla canaglia, né come l’esito di una vendetta atroce, ma come l’esatta applicazione della giustizia americana (analogamente a ciò che per la legge romana rappresenta la crocifissione di Cristo). A rendere così straniante l’ultima sequenza sono la determinazione con cui Warren decreta la fine di Daisy e la repentinità con cui si passa alla sua esecuzione, ad esaltare l’ovvia attuazione di un sistema basato sul sangue. Compiuto l’ultimo atto, la mdp arretra

lentamente dal corpo esanime della donna, lo spazio si allarga e con questo doppio gesto di allontanamento e dilatazione lo sguardo tenta di aprire uno spiraglio sulla realtà dall’interno della visione cinematografica, interpellando di conseguenza la coscienza critica dello spettatore. È il colpo caudale che ci restituisce alla realtà, l’avvenuto sfondamento che utilizza il cinema come porta aperta sul mondo a partire da un regime di rigorosa segregazione, una porta come quella dell’emporio di Minnie che, per essere spalancata, va presa a calci con tutta la violenza possibile, così come può essere chiusa soltanto se inchiodata a colpi di martello. Quando il cinema dischiude la soglia, pone inevitabilmente l’interrogativo su ciò che sta al di là dello schermo, spianando il passaggio ai suoi fantasmi, siano essi Ethan Edwards (John Wayne) di Sentieri Selvaggi (1956) o la coppia Jules e Vincent di Pulp Fiction (1994), come nel finale dei rispettivi film.

L’epilogo di The Hateful Eight rientra nel novero con tutta la forza della virata inattesa a detrimento del Tarantino più familiare, rivelandoci inoltre come, ad osservare le cose sotto una certa lente, ogni western, da Porter a Ford, da Leone a Peckimpah, sia di per sé, per il mondo con cui si confronta, crepuscolare.

FILMOGRAFIA Le iene (1992) Pulp Fiction (1994) Jackie Brown (1997) Kill Bill vol. 1 (2003) Kill Bill vol. 2 (2004) Grindhouse (2007) Bastardi senza gloria (2009) Django Unchained (2012) The Hateful Eight (2015)

RICONOSCIMENTI E PREMI 1995 – Premio Oscar Migliore sceneggiatura originale: Pulp Fiction

2013 – Premio Oscar Migliore sceneggiatura originale: Django Unchained

1995 – Premio Golden Globe Migliore sceneggiatura: Pulp Fiction

2013 – Premio Golden Globe Migliore sceneggiatura: Django Unchained

1995 – David di Donatello Miglior film straniero: Pulp Fiction

2013 – David di Donatello Miglior film straniero: Django Unchained

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CINEMA

CINEMA

Il rapporto tra interno ed esterno, tra realtà virtuale e realtà attuale, in Tarantino risiede in queste operazioni di chiusura. The Hateful Eight costituisce un caso anomalo nella filmografia tarantiniana, ombra enigmatica gettata sull’America e il mito della sua fondazione. Uomini ed eventi incespicano, avviluppati dalla nivea ambiguità di una bufera che ne disorienta i percorsi e offusca lo sguardo, mentre lo spazio si piega all’allegoria paranoica e allucinata di una nazione dalle endemiche incrinature, melting pot razziale in cui il confronto socioideologico assume le caratteristiche di un’efferata partita a scacchi nel segno di un ribaltamento del meridiano Ombre Rosse (1939), dove la convivenza tra tipi sociali eterogenei poteva ancora risolversi positivamente. Lo sguardo tarantiniano non è mai stato tanto teso, serrato, morbosamente dissonante, capace di fare dell’inquietudine un basso continuo in cui le identità dei personaggi sono costantemente a repentaglio, metafora dell’irriducibilità del conflitto civile alimentato dal sospetto – ben più cupa dell’antecedente Le Iene (1992),

America Bloody America - di Riccardo Bellini


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TITOLO - a cura di

Tarantino - di Daniele Fusetto

di Daniele Fusetto C’è chi sostiene che Tarantino di The Hateful Eight (2015) sia un regista di scarsa originalità, eccessiva autoreferenzialità e saturazione dialogica. Al di là del significato che la pellicola ha all’interno della cinematografia tarantiniana, o come film in sé, vorrei però porre le basi per una futura analisi più profonda di questa ottava fatica del regista di Knoxville, che, a mio parere, costituisce un interessante terreno d’indagine cinematografica. Per fare ciò analizzerò alcune caratteristiche del tappeto di riferimenti e citazioni di cui The Hateful Eight è colmo. Cinema centripeto Già nel 1996 c’era chi definiva, a ben vedere, Tarantino come colui «che ha aperto gli occhi: ha intuito che il cinema contemporaneo, salvo rare eccezioni, per una specie di retaggio scolastico letterario, trascura una vastissima quantità di materiali della vita comune» (Giacomo Manzoli, Talking Heads: Mr. T., la scrittura e la tecnica, su Garage n. 6, febbraio 1996). In effetti, Tarantino ci ha abituato ad un uso vastissimo di citazioni, tutte autoreferenziali e di “bassa” levatura. Oltre ai richiami a suoi stessi film, anche quando

inserisce riferimenti a b-movies di altri registi, Tarantino pesca dal proprio vissuto: sono b-movies che lui ha visto e toccato con mano nella sua vita, al di là della loro fama tra fanatici dell’underground. Nelle sette precedenti “pellicole”, dal seminale Le Iene all’apice (forse) ottenuto nei due Kill Bill, Tarantino è dunque un citazionista di forza centrifuga: ogni riferimento entra nel vortice della storia raccontata per poi essere sbattuto in faccia allo spettatore, che può esclamare il fatidico “ecco, sta citando XYZ” – in una eccitazione spastica da cinefilo che, non metto in dubbio, anche io ho provato qualche volta. Sono per lo più le citazioni visive e iconografiche a mantenere The Hateful Eight nel territorio di questo “vecchio Tarantino”, là dove vengono ricalcati grandi titoli del cinema come (ma sono solo esempi) Lawrence d’Arabia (David Lean, 1962), nella scena in cui Mannix (Walton Goggins) si avvicina alla carovana di Ruth (Kurt Russell), proprio ad inizio film, o Il Buono, il Brutto e il Cattivo (The Good, The Bad and The Ugly, Leone, 1966), nella scena flashback in cui Warren racconta al generale Samford Smithers (Bruce Dern) la tortura inflitta a suo figlio tra le “dune” di neve. Gran parte degli altri riferimenti tarantiniani risultano

Una cassa di risonanza cinematografica: La Locanda-Palco di Minnie

personaggi hanno appena esternato, ovvero la proiezione della loro interpretazione della guerra civile. La stanza diventa dunque un piccolo grande palcoscenico degli USA. Non ho potuto a questo punto evitare di collegare The Hateful Eight ad un film che lo stesso Tarantino annovera tra i suoi preferiti: Dogville di Lars von Trier (2003). Non è tanto la struttura a capitoli e l’uso di un narratore ad avvicinare i due titoli, quanto la riflessione sull’oggettività e la proiezione delle nostre idee. In Dogville, una sconosciuta, Grace, giunta per caso in un piccolo villaggio, viene convinta ad un esperimento di redenzione dallo scrittore di paese; ma subito dopo, e per tutta la durata del film, la donna diventa una badante, una fidanzata, una schiava; ciò che Grace diventa per la cittadina sovrascrive fino alla fine del film ciò che lei è davvero. Von

Questa forza centripeta dona al film un effetto di risonanza, un livello aggiuntivo di lettura del film, uno scarto che non è stato forse colto da alcuni critici e spettatori (e dai fan di Tarantino). In una scena emblematica, il personaggio di Tim Roth, Oswaldo Mobray (English Pete Hicox), traccia una curiosa divisione scenica e scenografica della locanda di Minnie (curioso nome disneyano), replicando alcune zone degli States; fa questo per calmare gli animi del maggiore Warren e del Generale Samford. Addirittura, prima di designare “il nord di quà e il sud di quà”, “il tavolo da pranzo come territorio neuatrale” e la zona del camino quale “rappresentanza simbolica della Georgia”, Oswaldo consiglia ai due di “non rimettere in scena la Battaglia di Baton Rouge”. Egli, in pratica, dirige dei lavori di messa in scena di ciò che i

Trier, chiudendo il film con Young Americans di Bowie e declamandolo come primo della Trilogia USA - Terra delle Opportunità, sta di fatto costruendo un proiezione in scala del suo punto di vista sugli States (che non ha mai visitato). Anche The Hateful Eight è una rappresentazione in scala di un punto di vista, ma di stampo diverso. Nel film c’è un fitto gioco di finzioni, create per essere le più performanti possibili nel loro scopo. La scena di Mobray è emblematica, in tal senso, ma anche l’inganno della banda Domergue o la recita di Warren sull’omicidio del figlio di Smithers sottolineano come una rappresentazione finzionale possa essere così convincente da sovrapporsi allo stato delle cose. Per citare un esempio, nelle diverse scene tra Warren e il Messicano entrambi combattono discutendo non sulle regole della

CINEMA

CINEMA

Il Tarantino centripeto e riflessivo di The Hateful Eight

però molto più atmosferici, tratteggiati, velati: oltre a El Topo (Jodorowsky, 1970), Ombre Rosse (Stagecoach, John Ford, 1956), Sentieri Selvaggi (John Ford, 1956), La Cosa di Carpenter (The Thing, 1982) e National Lampoon’s Animal House (John Landis, 1978). L’uso dei «miti d’oggi» in The Hateful Eight è quindi lontano dalle influenze dichiarate di un The Inglorious Basterds (Castellari, 1978) e non si muove più dall’interno (la conoscenza di b-movies di Tarantino) verso l’esterno (lo spettatore). Questa volta sembrano costruire uno schema di senso compiuto, partendo dal cinema in senso lato (esterno) per entrare nel film (interno) e costruire una potente forza centripeta.

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Tarantino - di Daniele Fusetto

The Hateful Eight come interpretazione tarantiniana del cinema? Fin da subito mi sono chiesto se la forza centripeta del film di Tarantino non sia una riflessione sulla potenza delle finzioni. A comprova di questa teoria stanno, per ora, tre riferimenti importanti, messi in The Hateful Eight. Il primo è Il Grande Silenzio di Corbucci (1968), che è il classico riferimento b-movie alla Tarantino. In questo caso, però, il regista non lo annuncia sontuosamente e preferisce inserire alcuni punti di contatto velati. È piuttosto il Il Grande Silenzio quale film western ad essere importante, giacché rappresenta una reinterpretazione del genere fatta da Corbucci ricca di carico finzionale, specie nel rapporto tra cowboys e bounty killers. Il secondo riferimento è Il Mucchio Selvaggio (1969). Sebbene possa sembrare tangenziale, la pellicola di Peckinpah, in realtà, si sovrappone alla storia di The Hateful Eight fin dal suo inizio, nel quale dei banditi Interpreti e Personaggi Samuel L. Jackson: Maggiore Marquis Warren Kurt Russell: John Ruth “Il Boia” Jennifer Jason Leigh: Daisy Domergue Walton Goggins: Chris Mannix Demián Bichir: Bob/Marco “il Messicano” Tim Roth: Oswaldo Mobray/Pete Hicox Michael Madsen: Joe Gage/Grouch Douglas Bruce Dern: Gen. Sanford Smithers

riescono a penetrare in una cittadina per una rapina fingendosi dei militari. Il film utilizza un cast scelto con precisione anche per rendere verosimile la “finzione” di questi banditi verso lo spettatore, giocandoci poi sopra fino alla fine, nascondendo verità e motivazioni dietro a dei personaggi che, partiti come ipotetici eroi, rimangono sospesi in un limbo di umanità. Il terzo riferimento, più intuibile e notabile, è La Cosa di John Carpenter (1982). La scelta di questo film non sta solo per via del protagonista Kurt Russell o per le atmosfere glaciali, ma per la creatura aliena, simbolo perfetto della finzione - quella tanto performante da poter ricreare al cento per cento un essere umano e sospendere l’oggettività delle cose anche sul finale, dove non riusciamo a capire con esattezza chi tra Childs e MacReady sia umano o disumano. Questi tre riferimenti, più emblematici degli altri, stanno a certificare la presenza di un doppio livello di lettura, che il regista inserisce coscientemente (considerando anche la travagliata produzione, che può aver spinto ad una analisi e profondità maggiore della sceneggiatura). The Hateful Eight si impregna di un continuo elemento specifico: quello di far riflettere sul fingere e sull’essere creduti, sulla finzione che agisce a dispetto di una oggettività e convince gli altri che essere vera – che è metafora filmica per eccellenza! Così Warren, ogni volta che tira fuori la lettera di Licoln, non ha in mano un McGuffin sbagliato (come molti sostengono), quanto, forse, il correlativo oggettivo di una pellicola: un’opera finzionale che, anche in colui che è stato ingannato da essa, alla fine, risulta essere dotata di “un bel tocco”.

James Parks: O.B. Jackson Channing Tatum: Jody Domingray Dana Gourrier: Minnie Mink Zoë Bell: Judy “sei cavalli” Lee Horsley: Ed Gene Jones: Sweet Dave Keith Jefferson: Charly Craig Stark: Chester Charles Smithers Belinda Owino: Gemma

C’è dunque una domanda che spero ci perseguiterà - che mi perseguiterà - fino a nuove prove e conferme: che Tarantino stia iniziando, avviatosi ormai verso gli sgoccioli del suo preannunciato decalogo, una riflessione consapevole e personale sul cinema?

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locanda di Minnie, ma su come entrambi pensano le regole della locanda: Warren le sa, il Messicano invece vuole sovrascriverle con le proprie.

TITOLO - a cura di

Il 70 millimetri di The Hateful Eight Inattualità e nostalgia del cinema

Superati i vent’anni di carriera, arrivato al suo ottavo film, Quentin Tarantino ribadisce quello che sostanzialmente può essere riconosciuto come il messaggio più manifesto della sua poetica, ossia, l’amore per il cinema. Declinato, di volta in volta, rendendo omaggio agli universi cinematografici esplorati nell’adolescenza (e, in seguito, avidamente frequentati), dagli esordi hard-boiled come lungo l’intero attraversamento dello sterminato catalogo exploitation (Jackie Brown e successivi), un sentimento di devozione incontenibile anima da sempre le pellicole del regista postmoderno di culto per eccellenza. Cinefilia che, dunque, funzionando da baricentro per tutta la filmografia tarantiniana, restituisce la cifra stilistica di un cinema debitore nei confronti di un passato (più o meno glorioso) da riscoprire e idolatrare, di una storia — più che da riscrivere — da suggellare apponendo la propria firma alla maniera di chi compie un gesto reverenziale. Con il suo ultimo

di Sebastiano Lombardo lavoro, sorta di western claustrofobico in cui (come per Django) le armi da fuoco fanno da pendant a quelle — non meno esiziali — della dialettica, il regista di Pulp Fiction non si smentisce e trova una giustificazione al proprio film nel desiderio di celebrare un modello di cinema morto e sepolto da più di quarant’anni, del quale dissotterrare supporti, modalità di fruizione e narrazione epica. La riesumazione della tecnologia Ultra Panavision 70 è allora la ragion d’essere di The Hateful Eight, interamente girato e pensato da Tarantino (insieme al direttore della fotografia Robert Richardson) per la sua riproduzione in sala ricorrendo al formato 70 millimetri. Diversamente dal canonico 35 millimetri, tale misura si caratterizza per una maggiore estensione del fotogramma impressionato, con conseguente aumento della ricchezza delle immagini. Una scelta


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70 mm - di Sebastiano Lombardo Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo (Stanley Kramer, 1963), La più grande storia mai raccontata (George Stevens, 1965), La carovana dell’alleluia (John Sturges, 1965), La battaglia dei giganti (Ken Annakin, 1965) e Khartoum (Basil Dearden ed Eliot Elisofon, 1966; ultimo precedente interamente filmato in 70 millimetri). Si tratta di un vero e proprio filone sfruttato, in un’ottica commerciale, facendo leva sulla componente esperienziale della visione cinematografica, rafforzata dall’innovazione tecnologica: assumendo dimensioni in grado di esaltare il coefficiente spettacolare della rappresentazione, schermi e pellicole ipertrofici provano in questi anni a tracciare una linea di demarcazione fra ciò che è cinema e ciò che invece, anche per il carattere eterogeneo dei suoi contenuti, si colloca su un territorio altro e liminare come quello della televisione. Mezzo secolo dopo, la concorrenza esercitata dal piccolo schermo ha lasciato definitivamente il posto a una nuova configurazione mediale scaturita con l’avvento del digitale. A seguito dell’imporsi di un nuovo segnale di codifica basato su serie numerica (invece che su processo chimico), guardare film è diventata infatti una pratica del tutto integrata all’utilizzo di dispositivi come tablet, smartphone e computer portatili, strumenti che permettono allo spettatore di designare spazi e tempi di visione non più prestabiliti, bensì diversi ad ogni “play”. In questo rinnovato scenario, il cinema è chiamato a districarsi da una situazione di generale livellamento: le sue immagini

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CINEMA

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costosissima, ma ancor di più una mossa audace, spiazzante e in controtendenza, se si considera l’egemonia — già decennale — del digitale nel quadro della produzione e della distribuzione da parte dell’industria cinematografica (dal gennaio del 2014, anche in Italia è vigente in tutte le sale l’obbligo di apparecchiature adatte al nuovo tipo di proiezione). Riabilitare la celluloide significa infatti andare incontro a una serie di dettami oggi limitanti, che impongono precise dinamiche di realizzazione ma soprattutto la prescrizione di pratiche della visione del tutto desuete. A partire dalla seconda metà degli anni cinquanta — in un momento di forte impasse per il cinema hollywoodiano, la cui audience ha ormai ingaggiato un nuovo e ancor più massivo rapporto con il medium televisivo —, l’adozione di nuovi formati panoramici, grazie ai quali pubblicizzare la fruizione in sala, rappresenta l’ultimo tentativo di riscatto avanzato dallo studio system prima del suo definitivo collasso. La stagione è quella che vede buona parte della produzione orientarsi su titoli di genere epico-storico, film dalle ambientazioni spesso esotiche e dalle trame di ampio respiro, il cui pubblico si dimostra alla ricerca di un tipo di coinvolgimento dichiaratamente spettacolare ed immersivo, consentito dall’introduzione del cosiddetto Cinerama (sistema di triplice sincronizzazione delle immagini in fase di ripresa e di proiezione), in concomitanza con quella delle nuove lenti anamorfiche (le stesse utilizzate per The Hateful Eight). Ne sono alcuni esempi

70 mm - di Sebastiano Lombardo

appaiono invischiate nel grande marasma dell’audiovisivo, dove tendono a smarrire la propria matrice, venendo a contatto con l’informe quantità di video caricati e scaricati dalla rete (lampante l’esempio offerto dal più frequentato dei contenitori di media, ovvero YouTube). Quali, dunque, le prospettive di sopravvivenza per la settima arte all’interno di un panorama che ne mette a repentaglio la specifica fisionomia? Essenzialmente due: da un lato, quella dell’adattamento — non inconsapevole — alle nuove logiche produttive e di diffusione (si pensi a realtà di successo come il crowfunding o la nascita di piattaforme — in stile Mubi — che consentono, per via pienamente legale, di accedere allo streaming di svariate cinematografie); dall’altro, quella del ritorno nostalgico a una dimensione originaria avente nella sala cinematografica il proprio luogo di interesse, della quale riscoprire l’insieme delle capacità attrattive avvalendosi di espedienti tecnici come il 3D o appunto la riproduzione di formati panoramici. Quest’ultima, in concreto, la strada ri-percorsa da Quentin Tarantino con The Hateful Eight, ai fini di un’operazione soltanto in parte anacronistica se si tiene conto del portato teorico messo in gioco dalla stessa. È nell’ambito di una profonda rilettura delle convenzioni filmiche e narrative tipiche del western che il ricorso

al 70 millimetri fornisce infatti le possibilità per una particolare sperimentazione. Il film, ambientato per più di due terzi (3 ore e 7 minuti la durata complessiva) negli interni di uno sperduto emporio fra le montagne innevate del Wyoming, oltre a svincolare la rappresentazione dalle tradizionali esplorazioni paesaggistiche proprie del genere, sfida il pubblico invitandolo ad assistere molto da vicino a una messinscena — questo sì, come ci si aspetterebbe dal regista de Le iene — violenta e sanguinosa. La sensazione di un micidiale agguato aleggia intorno agli otto personaggi, soltanto in apparenza rimasti bloccati nel rifugio della nota Minnie a causa dell’imperversare di una bufera. Epicentro di tutta l’azione del film, lo spazio chiuso dell’emporio costringe l’occhio dello spettatore all’attenta osservazione di positure e spostamenti entro un perimetro allestito per la risoluzione del giallo. Così, interessando in maniera decisiva la costruzione della scena (messa a fuoco al contempo in più punti e da più visuali), il risultato consentito dallo speciale sistema Ultra Panavision amplifica l’esperienza della visione: chi guarda lo spettacolo, dapprima sinistro, poi ferocemente granguignolesco, offerto da The Hateful Eight, non può evitare di rimanere magicamente catturato da quell’inganno possibile soltanto al cinema.


Mad Max - di Matteo Vajani

di Matteo Vajani È passato un anno ormai dall’uscita in sala di Mad Max: Fury Road, eppure questo distillato di pura azione e adrenalina non smette ancora di far parlare di sé. E come potrebbe, soprattutto dopo il clamoroso trionfo all’88ª edizione degli Academy Awards, dove si è aggiudicato 6 Oscar su 10 nomination dominando la classifica, con uno stacco di ben 3 statuette dal secondo classificato: Revenant – Redivivo. Per chi se lo fosse perso o proprio non sapesse di cosa sto parlando, due parole giusto due sul film. Fury Road è a tutti gli effetti un sequel (nonostante i tentativi di depistaggio del regista, smentiti dalla miniserie a fumetti del 2015 che ha tolto ogni dubbio) della saga che tra 1979 e ’85 ha fatto impazzire mezzo mondo e ispirato un numero sterminato di opere letterarie e audiovisive. A 30 anni esatti da Oltre la sfera del tuono (una via di mezzo tra Hook e Waterworld e non del tutto in linea con i primi due film), quel pazzo scatenato di George Miller è riuscito a recuperare

atmosfere e assiomi del secondo capitolo, Il guerriero della strada (che è poi il Mad Max più compiuto, quello che più di tutti ha influito sull’immaginario collettivo), portando ai limiti estremi il discorso avviato nel ’79 con Interceptor e dando forma definitiva al suo disperato, disperatissimo medioevo post-apocalittico. Fury Road è sia un completamento che un nuovo inizio, ma ciò che davvero lo distingue dai capitoli precedenti, e da qualsiasi altro film d’azione che abbiate mai visto, è la furia incalzante di un ritmo che non conosce tregua, una corsa ininterrotta e svolta con precisione geometrica. Come un regista settantenne sia riuscito in questa impresa, soprattutto dopo essere passato per pellicole come Babe e Happy Feet, non ne ho proprio idea. Quello che però mi è più chiaro, è come abbia fatto a sbaragliare la concorrenza portandosi a casa tutti i premi tecnici più importanti (fatta eccezione per i migliori effetti speciali). Vediamo insieme il perché.

MIGLIOR MONTAGGIO Il lavoro svolto in fase di montaggio da Marga- (inquadratura a mirino) e l’Eye Trace (traietret Sixel, moglie di Miller, è a dir poco sovru- toria dell’occhio). Su richiesta del regista, inmano. Dalla bellezza di 480 ore di girato (ba- fatti, il direttore della fotografia John Seale ha sate su uno storyboard di 3500 immagini ad posto ogni azione al centro dell’inquadratura, opera di Mark Sexton) è riuscita in due anni a così come la messa a fuoco, semplificando da ricavare 2700 shot, dando forma a un film di una parte il compito della montatrice (che ha 120 minuti esatti. Un montaggio dal ritmo fre- potuto velocizzare il ritmo dei tagli mostrannetico, senza sosta, che tuttavia non disorien- do il minimo indispensabile) e scongiurando ta lo spettatore ma anzi lo proietta al centro dall’altra indesiderati effetti collaterali nello dell’azione, anche grazie a due tecniche ado- spettatore quali strabismo, nausea o torcicolperate durante le riprese: il Crosshair Framing lo.

In un’era dominata dalla computer grafica, Miller e lo scenografo Colin Gibson hanno deciso di affrontare alla vecchia maniera un compito tutt’altro che semplice: recuperare le atmosfere della trilogia originale adattandole a una visuale contemporanea, il tutto senza alcun ritocco digitale in post-produzione. Uno scenario allegorico in cui anche i veicoli, funzionanti e perfettamente rispondenti alle logiche interne della storia, sembrano fungere da correlativi oggettivi dello stato d’animo dei personaggi: sono lo specchio di un futuro senza futuro, una sopravvivenza fondata sul riciclaggio degli scarti del passato, dove niente si butta e tutto trova un nuovo posto negli spazi più impensati. Nascono così concept

visionari che fondono camion cecoslovacchi con Chevrolet anni ’40 (la War Rig di Furiosa), e ancora ibridi di vecchie Volkswagen e Cadillac con muscle car, monster truck, hot rod, rat rod, moto Yamaha, mostri deformi come i Figli della Guerra che le guidano. Fino ad arrivare a quel capolavoro che è la Doof Wagon: un gigantesco autocarro militare di dodici tonnellate, equipaggiato con una parete di subwoofer e un palco, dal quale il Doof Warrior sovrasta ogni rombo con la sua chitarra lanciafiamme (fiamme vere!) che barrisce inquietanti inni di guerra.

MIGLIORI COSTUMI La britannica Jenny Beavan (acclamata dal web per l’abbigliamento da badass esibito alla cerimonia di premiazione), con alle spalle otto nomination e un Oscar vinto nel 1987 per Camera con vista, è riuscita a distinguersi con una reinterpretazione del look post-apocalittico che non si esaurisce in un’estetica ad effetto e cool (siamo lontani anni luce dal punk alquanto grottesco della trilogia originale), ma, anzi, riveste di simbolismo ogni dettaglio (basti solo pensare all’armatura di Immortan Joe), dando vita a un universo visivo coerente con le caratteristiche dei personaggi e con la mitologia rombante del motore. Una cura maniacale per accessori quali maschere, apparati respiratori o cinture di castità, non solo funzionali alla storia ma anche funzionanti e pratici per attori, stuntman e comparse. Il tutto reso ancora più arduo dall’inospitale deserto della Namibia, dove si sono svolte le riprese, e dalla necessità di proteggere il cast e i costumi da

sabbia e condizioni climatiche estreme. Un’operazione a dir poco sorprendente per una signora che in passato ci aveva abituati a ricostruzioni filologiche di film in costume come Casa Howard, Gosford Park e Il discorso del re (solo per citarne alcuni, ma la lista è molto più lunga).

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MAD MAX: fury road OLTRE LA SFERA DELL’IMMAGINAZIONE

MIGLIOR SCENOGRAFIA

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Mad Max - di Matteo Vajani

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MIGLIOR TRUCCO Con una crew di 35 elementi provenienti da Sudafrica, Regno Unito, Australia, Irlanda, Namibia e Stati Uniti, la makeup designer Lesley Vanderwalt (già al servizio di Miller in Oltre la sfera del tuono) ha supervisionato la produzione di parrucche, acconciature, makeup e protesi, dando vita a un "look desertico" che risulta in perfetta armonia con le creazioni di

TITOLO - a cura di

costumista e scenografo. Un impegno notevole, quello sul set, scandito da giornate lavorative di almeno dodici ore nelle quali, dopo le quotidiane miglia percorse nel deserto per raggiungere la location, la Vaderwalt e la sua crew si sono occupati del trucco di 130 Figli di Guerra tra stuntman, comparse e attori principali.

MIGLIOR MONTAGGIO SONORO Uno degli aspetti che di solito passa in secondo piano quando si pensa alla realizzazione di un film è la registrazione del suono in presa diretta. Provate a immaginare di dover registrare le voci di otto attori stipati nella cabina della War Rig, voci che talvolta arrivano a sussurrare, mentre all’esterno infuriano tonnellate di motori ruggenti in movimento. Aggiungete poi qualche esplosione, gli schianti e le sempre sfavorevoli condizioni ambientali. Vi farete così un’idea dell’impresa titanica portata a termine dal sound recordist Ben Osmo, che nei sei mesi trascorsi in Namibia ha letteralmente rincorso il suono a bordo del

suo furgone (ribattezzato Osmotron dal suo stesso team), per essere sempre vicino all’azione. Ma non solo: ogni veicolo, come detto, è dotato nel film di una propria personalità, e quindi di una specifica identità sonora, impossibile da catturare in un secondo momento. Osmo e il suo team hanno perciò trascorso più di un mese a registrare il suono dei singoli veicoli, facendo in modo che la voce del 90 percento di essi risuonasse nel mix finale, rielaborato poi dai tre volte premi Oscar Chris Jenkins (L’ultimo dei Mohicani) e Gregg Rudloff (Matrix).

MIGLIOR SONORO Se ogni veicolo nel film è stato fornito di una propria identità, nessuno può rivaleggiare con la War Rig guidata da Furiosa: una bestia possente, infaticabile, che nella testa del sound editor Mark Mangini assume le sembianze di una balena bianca in fuga dal Capitano Achab. Ecco allora la necessità di donare a questo gigante del deserto un suono ancora più personale, qualcosa che lo faccia vibrare di vita propria. Un tocco impercettibile, che passi

inosservato. E perché allora non usare proprio il verso di una balena? Ispirato dall’analogia, Mangini ha mixato i richiami delle balene con i rombi del motore, arrivando perfino a intensificare il suono del latte che spruzza dalla carena ferita dagli arpioni con quello degli sfiatatoi dell’animale, in un gioco estremo di personificazione del mezzo che vive, respira e sanguina.

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Gianfranco Rosi Il documentarista italiano vincitore del Leone d’Oro per Sacro GRA premiato anche quest’anno con Fuocoammare, Orso d’Oro a Berlino di Chiara Boatti Nato in Eritrea, Asmara 1964, Gianfranco Rosi è cittadino italiano e statunitense. Dopo aver frequentato l’università in Italia ed essersi diplomato negli Stati Uniti presso la New York University Film School, tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90, realizza in India il suo primo mediometraggio, Boatman (1993), racconto della realtà di un barcaiolo sul fiume Gange che si svolge nell’arco di una giornata. Con il suo primo film, Below sea level (2008), girato a Slab City in California, Rosi, attraverso il suo cinema del reale, ha indagato la vita di una comunità di senzatetto a 40 metri sotto il livello del mare, abitanti di quello che rimane di una base militare nel deserto americano. Per El sicario - Room 164 (2010), ha invece raccolto l’inaspettata testimonianza di un ex sicario appartenente alla criminalità del narcotraffico messicano. Il successivo Sacro GRA, presentato nel 2013 alla 70º Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è stato il primo documentario nella storia del Festival ad aggiudicarsi il Leone alato. In realtà tra i riconoscimenti ricevuti per i suoi lavori precedenti, Rosi ne aveva già conseguiti alcuni in ambiente veneziano: premi Orizzonti e Doc/It nel 2008 per Below sea level, ancora Doc/It e Fipresci Award 2010 a El sicario Room 164. Al successo di Venezia quest’anno

ha fatto seguito un riconoscimento estero per Fuocoammare, premiato con l’Orso d’Oro alla 66º edizione della Berlinale. Presentando in concorso al Festival di Berlino un film di nofiction su Lampedusa, Rosi ha portato un luogo simbolo del fenomeno degli sbarchi simbolicamente al centro d’Europa. Gianfranco Rosi nei suoi viaggi ha raccolto esperienze, personali e altrui, filmando e riargomentando realtà non viste o che la maggior parte di noi conosce solo attraverso la cronaca. A partire da un viaggio-scoperta, il regista costruisce ogni volta un documentario di incontri, di persone. Così anche per i suoi più recenti e premiati documentari, Sacro GRA e Fuocoammare, per i quali è tornato in Italia. Dopo la vicinanza ideale di Fuocoammare alle coste dell’Africa, Rosi però lascia ora pensare che il suo prossimo lavoro potrà svolgersi proprio in questo continente, portandolo nuovamente all’estero. Volti e racconti per le strade di Sacro GRA Sacro GRA, dalle iniziali del “Grande Raccordo Anulare”, la più grande autostrada urbana d’Italia per un’estensione di circa 70 kilometri, è il nome di un progetto multimediale nato da un’idea del paesaggista Nicolò Bassetti: oltre all’omonimo documentario di Rosi, primo


Gianfranco Rosi - di Chiara Boatti

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grande successo del regista, del progetto fanno parte anche un libro (Sacro romano Gra, a cura di Bassetti e Sapo Matteucci), una mostra, fotografie e materiale sul web, che raccontano un colosso della trasformazione urbana di Roma attraverso diversi sguardi e linguaggi. Per documentare il Raccordo, Rosi lo ha percorso per oltre due anni, cui sono seguiti otto mesi dedicati esclusivamente al montaggio, realizzato con la collaborazione di Jacopo Quadri. È proprio l’euritmia del montaggio a rivestire un ruolo dominante nel film, che di per sé non presenta una trama. I tempi di Sacro GRA sono scanditi dalle attività e dalle parole delle persone: tra notte e giorno, lungo gli indefinibili confini del GRA, il regista ha realizzato un film corale, ritraendo la presenza di una varietà umana a tratti sorprendente. Tra gli altri, un nobile piemontese che vive in un appartamento insieme alla figlia studentessa, accanto ad un ragazzo indiano che fa musica con il suo set da dj; o un principe che affitta le stanze della sua magione per la realizzazione di fotoromanzi, gli stessi su cui la compagna ucraina di un

Gianfranco Rosi - di Chiara Boatti pescatore di anguille impara l’italiano. Le strade del GRA però sono note alle cronache soprattutto per l’elevato indice di decessi causati da incidenti stradali. I primi momenti del film riportano nottetempo immagini di traffico, caos e sporcizia, e seguono Roberto, paramedico romano, a bordo dell’autoambulanza su cui effettua le operazioni di primo soccorso agli incidentati. Forse, accostando a tanti momenti di vita anche la sua assenza - dalla cruda prosaicità dell’apertura dei feretri di un cimitero per il trasferimento delle salme, fino alla poetica delle immagini di un camposanto innevato -, Rosi si è così collegato al “sacro” del progetto: quel qualcosa di troppo grande per essere compreso, come lo sono allegoricamente i giganti strutturali della modernità. O ancora: un gruppo di fedeli che al Santuario del Divino Amore pregano la Vergine durante un’eclissi di sole; la valenza metaforica dell’attività e delle parole di un anziano botanico che cerca di contrastare i danni recati alle palme dal punteruolo rosso. Prima di lavorare al documentario, Rosi conosceva il GRA solo come un luogo, o nonluogo, da percorrere in macchina tra una città e l’altra. Per il regista, che durante le sue esplorazioni ha portato con sé un’edizione di Città invisibili di Italo Calvino, il Raccordo diventa un pretesto narrativo: un “anello di Saturno” che ruota tutto attorno a Roma, così pieno di contraddizioni e allo stesso tempo così poco identificabile con la città da poter appartenere in astratto a qualsiasi altra. I molti sguardi di Fuocoammare Dopo il naufragio del 3 ottobre 2013, l’Istituto Luce chiede a Gianfranco Rosi di realizzare un instant-movie a Lampedusa. La proposta iniziale di un corto evolve per il regista in un film, e per realizzarlo Rosi vive per un anno sull’isola siciliana, dove ha svolto l’intera lavorazione del documentario, seguendo il suo tipico metodo immersivo che necessariamente porta a tanti incontri, tante

scoperte. Nasce così Fuocoammare, opera su Lampedusa e sullo sguardo, in cui alla testimonianza filmata dei migranti che qui approdano come luogo di passaggio, della loro accoglienza ma anche delle loro morti, si alternano momenti di vita di chi sull’isola ha sempre vissuto. Da una parte la storia di Samuele, ragazzino dall’innata simpatia che preferisce i giochi di terra perché soffre il mal di mare e che scopre di avere un occhio pigro; dall’altra, brevi episodi tratti dal quotidiano dei lampedusani. Il nome del film funziona da aggancio alla storia dell’isola: Fuocoammare, “il fuoco sul mare”, è un’espressione che si riferisce ai bombardamenti sulle navi in tempo di guerra, che ha dato il titolo ad una canzone popolare, di cui non si conserva il testo ma solo la musica. Gianfranco Rosi l’ha sentita e ha proposto a dei musicisti di realizzarne alcune versioni, una delle quali sentiamo nel film. Degli abitanti di Lampedusa, ripresa con un’illuminazione prevalentemente crepuscolare e spesso in notturna, il documentario fornisce degli elementi tratti dalla vita di tutti i giorni: le trasmissioni della radio locale, la quotidianità domestica di una coppia di anziani, le immersioni di un sub; ma offre anche visibilità a chi, come il medico Pietro Bartolo, si occupa delle procedure di soccorso dei migranti. Rosi ritrae poi un’isola di pescatori, attraverso le storie che la nonna e il papà raccontano a Samuele, che probabilmente diventerà pescatore a sua volta. Per Gianfranco Rosi quello con Samuele è stato un incontro fortunato: il suo occhio pigro gli ha permesso di applicare al film una metafora di grande impatto, che porta a una riflessione sullo sguardo. L’impossibilità di agire e di capire appieno, di fronte a una delle più grandi tragedie della contemporaneità, diventa allegoria di uno sguardo collettivo; vedere solo a metà, il bisogno di “allenare la vista”, per avvicinarsi a uno sguardo d’insieme, non più appannato ma lucido. Samuele ama andare a caccia con la fionda

e gioca a far finta di sparare a braccia tese mimando il suono di un mitra, ma scopre che l’occhio che normalmente tiene chiuso per mirare in realtà da solo non vede: come in un racconto di formazione, causa l’imbarazzo o il reale impaccio di un paio di buffi occhiali che simulano una benda sull’occhio sano, man mano che il ragazzino recupera diottrie anche il suo atteggiamento cambia. Samuele non incontra mai i migranti: è lo spettatore a vedere, e lo fa attraverso il filtro dell’autorialità e dell’esperienza diretta di Rosi. Così avviene che i migranti siano inizialmente solo evocati, con gli sos delle trasmissioni radar che dai barconi arrivano all’isola; e diventino in seguito, per estetica e poetica dello sguardo, corpi neri nella notte avvolti da coperte termiche come da mantelli dorati; fino ad arrivare, progressivamente ma senza indorare la pillola, alla realtà più tragica ed urgente: quella delle morti, che il regista ha filmato e portato nel documentario. Paradigma di quanto detto sulla metafora in molti sensi “visiva” di Fuocoammare, è lo sguardo che uno dei profughi rivolge in camera attraverso un primissimo piano del regista.

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CANNES 2016

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Dall’11 al 22 maggio, si rinnova anche quest’anno l’appuntamento con la più importante manifestazione cinematografica Concorso: internazionale. Il Festival di Cannes approda alla 69ª edizione, Toni Erdmann (Maren Ade) dando particolare lustro alla sua tradizione con un programma Julieta (Pedro Almodóvar) American Honey (Andrea Arnold) che vede ufficialmente selezionate le opere di alcuni autori fra Personal Shopper (Olivier Assayas) i più interessanti della scena contemporanea. La fille inconnue (Jean-Pierre e Luc DardenScorrendo la lista dei film scelti per ambire alla Palma d’oro, ne) molti nomi di registi autorevoli si alternano a quelli di personaJuste la fin du monde (Xavier Dolan) lità emergenti che hanno saputo guadagnare rapidamente un Ma Loute (Bruno Dumont) Paterson (Jim Jarmusch) certo credito grazie al successo raggiunto con la partecipazioRester Vertical (Alain Guiraudie) ne alle precedenti edizioni del Festival. Ottenuti diversi riconoAquarius (Kleber Mendonça Filho) scimenti minori negli ultimi anni, directors come la britannica Mal de Pierres (Nicole Garcia) Andrea Arnold, il filippino Brillante Mendoza, lo statunitense I, Daniel Blake (Ken Loach) Jeff Nichols li ritroviamo questa volta a competere in Concorso Ma’Rosa (Brillante Mendoza) Bacalaureat (Cristian Mungiu) insieme ai pluripremiati Park Chan-wook (Oldboy, 2003), Alain Loving (Jeff Nichols) Guiraudie (Lo sconosciuto del lago, 2013), Xavier Dolan (LauAgassi (Park Chan-wook) rence Anyways, 2012; Mommy, 2014) e Cristian Mungiu (4 The Last Face (Sean Penn) mesi, 3 settimane, 2 giorni, 2007). A queste si aggiungono altre Sieranevada (Cristi Puiu) figure di cineasti che inElle (Paul Verhoeven) The Neon Demon (Nicolas Winding Refn) trattengono ormai da temFuori concorso: po un rapporto privilegiaCafé Society (Woody Allen) to con le sezioni principali Il gigante gentile (Steven Spielberg) della rassegna: i francesi Olivier Assayas e Bruno Dumont, la Money Monster – L’altra faccia del denaro coppia di registi belgi dei fratelli Dardenne, il danese Nicolas (Jodie Foster) Goksung (Na Hong-jin) Winding Refn e l’esponente di punta del cinema britannico The Nice Guys (Shane Black) Ken Loach. Altre scelte illustri a completare l’elenco dei presenti in gara ricadono su autentiche vecchie glorie del cineMidnight Screenings: ma degli anni ottanta e novanta come lo spagnolo Pedro Gimme Danger (Jim Jarmusch) Almodóvar, l’olandeBu-San-Haeng (Yeon Sang-Ho) se Paul Verhoeven e Un Certain Regard: Special Screenings: lo statunitense Jim Varoonegi (Behnam Behzadi) La mort de Louis XIV (Albert Serra) Jarmusch (al quale Apprentice (Boo Junfeng) Le cancre (Paul Vecchiali) Voir du Pays (Delphine Coulin e Muriel Couviene riservato un ulHissein Habré (Mahamat-Saleh Haroun) lin) teriore spazio Fuori L’ultima spiaggia (Thanos Anastopoulos & La Danseuse (Stephanie di Giusto) concorso con la MidDavide Del Degan) Eshtebak (Mohamed Diab) night Screening di un La Tortue Rouge (Michael Dubok de Wit) secondo film). Fuchi Bi Tatsu (Fukada Koji) Omar Shakhsiya (Maha Haj) Alcune visioni collaterali ampliano una proposta fin qui Me'Ever Laharim Vehagvaot (Eran Kolirin) già assolutamente eclatante, arricchita soprattutto dalle After the Storm (Kore-Eda Hirokazu) anteprime di importanti produzioni d’oltreoceano (i nuoHymyileva Mies (Juho Kuosmanen) vi lavori di Woody Allen — ad aprire il sipario sulla CroiLa larga noche de Francisco Sanctis (Francisette — e di Steven Spielberg) e dalla proiezione speciale sco Marquez e Andrea Testa) Caini (Bogdan Mirica) dell’ultima fatica dello spagnolo Albert Serra (con protaPericlei il nero (Stefano Mordini) gonista Jean-Pierre Léaud nel ruolo di Luigi XIV). Captain Fantastic (di Matt Ross) Ospite d’onore, William Friedkin (autore di alcuni dei più The Transfiguration (Michael O'Shea) grandi capolavori della Nuova Hollywood come Il bracUchenik (Kirill Serebrennikov) cio violento della legge e L’esorcista) invitato a svolgere la consueta masterclass per lo straordinario magistero del suo cinema.

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di Sebastiano Lombardo

6: 1 v 0 t 2 g ie Ser 2015 e e vs. Bi ata vanz X, a v ’ l a l e a r l t b. F to d che rizza vo o we dute s tt e a ca ro car fr ti via ve case p iffu! tato e s r r , è d o ridotti visivo Fou ur di s: nu ),

p x ie tele linsesti n Ser sive che, , NBC, Fo a nno o z p a ’ a t n S i s Que ittenti co etflix, Am rie telev ABC, CB a ( e N base di em The CW, no ora s Big Four n i i li , o rv e AMC a cui esc petto all orcere. consiglia ziale qua t s n i d tive minore r ro filo da rie tv da e la pote troppo. e r o s l e ti u l sion ando to alcune , gli asco retizza, p ve! d o stann indi scel mittente e si conc televisi r ie u e Ho q menti: l’ on semp ata di ser n e l l l tre e tuttavia la carre e e tà, ch o dunqu m a Inizi di Daniele Fusetto Una coraggiosa The CW! The CW è promossa per una mossa unica nella storia della televisione americana: aver rinnovato tutti i suoi show per la stagione 2016/2017. Fargo: PROMOSSA! Alla stella nascente di FX, Rinnovo anche per The Arrow che, artefice della positiva che ambienta stagioni antologiche nello stesso apertura Warner Bros (co-detentrice del canale) a nuovi mondo dell’omonimo film dei fratelli Coen, deserial dei super eroi DC, ora sta marciando verso incoedichiamo un articolo apposito. renze narrative. DC’s Legend of Tomorrow, show corale dal raffinato potenziale spettacolare, rimane dietro al Mr. Robot: PROMOSSO! Mr. Robot, serie del gettonato The Flash, capace non solo di incrementarsi ducanale via cavo USA ora impegnata nelle riprese rante la 2° stagione, ma anche di slanciare lo show cugino della seconda stagione, racconta di un giovane Supergirl dell’emittente “rivale” CBS (forse l’anno prossihacker coinvolto in un gioco di cospirazioni più mo emigrerà proprio su The CW). Anche gli altri show The grande di lui. Ottimo il cast, che vede anche CW (alcuni ormai agli sgoccioli come The Vampire Diaries, Christian Slater oltre a Rami Malek; buon ritmo altri rinnovati come The 100 e il veterano Supernatural) e un’atmosfera molto gritty e realistica. rappresentano la conferma della forza strategica dell’emittente: essere al di fuori delle Big Four e, pur acconX-Files: BOCCIATO! La Fox sta raschiando il tentandosi di rating minori, riuscire a fare più che mera fondo: alcuni suoi show importanti, come Emsopravvivenza! pire o Gotham, possono mantenerla stabile, ma c’è il fallimento relativo del ritorno di X-Files. Limitless: DA RECUPERARE! Ottimo inizio per la serie teleBenché gli ascolti siano stati buoni, la serie ha visiva prodotta da Bradley Cooper, Limitless, sequel dell’oavuto recensioni contrastanti e non è stato l’emonimo film del 2011 che racconta le avventure di Brian vento tanto pubblicizzato. Finch, “incastrato”, suo malgrado, nella stessa droga che ha reso supergenius Bradley Cooper nel film. Il vero punto AMC: PROMOSSO! Oltre a The Walking Dead, forte della serie è quello di saper giocare con i canoni teche a livello di spettatori tiene testa perfino a lefilmici e filmici, costruendo davvero episodi senza limiti. The Big Bang Theory e ha generato un buon Ovviamente anche le comparsate di Cooper sono un forte spin-off (Fear the Walking Dead), è da riscoprire asso nella manica... Into the Badlands, un action drama che mischia canoni del genere wuxia a quelli del post-apocalittico e del pulp, con un grande lavoro di caCi sarebbero tante serie di cui parlare ancosting. Tenete inoltre d’occhio anche Preacher, ra, ma non accennare uno show può essere serie tv tratta dal fumetto del graffiante Garth un castigo più equo del parlarne. Tra tante Ennis, prossimamente sugli schermi. altre interessanti novità (Code Black, The Expanse) e grande fallimenti - Damien della A&E e Rush Hour (Fox) – gli ascolti della stagione 2015/2016 spingeranno sicuramente le Big Four ad un intenso rinnovo del loro palinsesto per combattere ad armi pare con le nuove realtà del mercato.


Fargo - di Lombardo, Bellini, Maestri

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o g r Fa V E R S O L ’ U N I

rie dal film alla se

Da uno dei titoli di maggiore successo non solo della filmografia di Joel ed Ethan Coen, ma della produzione cinematografica statunitense nei nineties, deriva la serie televisiva che, snodandosi al momento fra prima (2014) e seconda stagione (2015), ha finito col dare vita al macrotesto Fargo.

Film, miniserie, vero e proprio brand: questo l’itinerario tracciato con un lavoro di ri-scrittura che, traendo linfa dal cult del 1996, non si limita a riproporre ambiente, registro e stile dell’opera capostipite, ma ne adatta, con particolare estro creativo, il complesso delle situazioni (sempre all’insegna dell’imprevisto e dell’assurdo) a un impianto seriale. Più che una corrispondenza, dunque, la costruzione

di un immaginario affidato alla competenza irriducibile della figura di showrunner Noah Hawley, senza prescindere dalla mediazione dei registi di St. Louis Park (Minnesota), i cui nomi compaiono fra quelli nella lista dei produttori esecutivi. Alla scelta di un cast a dir poco talentuoso (di livello ottimo grazie alla presenza di attori sottratti al cinema come Martin Freeman, Bob Odenkirk, ma soprattutto Billy Bob Thornton, Kirsten Dunst e i veterani Keith Carradine e Ted Danson), si aggiungono le carte vincenti messe in tavola dai realizzatori, non ultima FX, emittente televisiva costola del network americano Fox che ancora una volta si conferma attenta nella distribuzione di prodotti dall’estetica accattivante (Sons of Anarchy, American Horror Story) pensati per un forte coinvolgimento nel pubblico. Ma perché rispolverare un cult degli anni novanta, subito osannato dal pubblico e dalla critica, per trarne una serie televisiva, col duplice rischio di affondare nella perigliosa palude di un mondo volutamente stilizzato senza riuscire a sostenere il confronto con l’originale cinematografico? Principalmente perché la serie si pone in rapporto al film nella misura in cui ne attua il superamento. A garantire tale possibilità è il formato seriale, capace di estendere in profondità l’universo tracciato dai fratelli Coen a partire da un’evoluzione condotta sui personaggi. Nelle due stagioni, ambientate in epoche diverse e sviluppate intorno a vicende altrettanto differenti, assistiamo infatti alle proliferanti simulazioni dei prototipi offerti dalla pellicola che, episodio dopo episodio, si arricchiscono di sfumature assenti nell’archetipo. Ciò è visibile soprattutto isolando le tre triadi di personaggi ai vertici del triangolo Male-Bene-Volubilità, rispettivamente Gaear – Malvo – Ohanzee, Marge – Molly – Lou, Jerry – Lester – Ed e Peggy. Facendo un esempio, Gaear è solo una variante embrionale – e assai meno inquietante – di quella pura, inarrestabile incarnazione del Male rappresentata da Lorne Malvo nella prima stagione, mentre con la seconda l’enig-

matico sicario Ohanzee porta sullo schermo un’ulteriore declinazione dell’abisso umano: affermazione del diritto del simulacro e negazione del medesimo. Fargo è una storia di simulacri, non di copie. Un discorso analogo può essere applicato allo spazio, tanto più considerando la maggiore complessità degli intrecci rispetto al film: quante più ombre sovrastano il mondo di Fargo tanto più labirintica appare la sua rete di eventi, costringendo lo sguardo a sconfinare dalle familiari nevi del Minnesota e del North Dakota per spingersi fino a Las Vegas o per puntare addirittura verso il cosmo infinito, abitato da chissà quali esseri in ascolto. Lo spazio si espande e l’uomo, l’eroe in particolare, tentenna smarrito in una realtà vorace e insensata, Caos in cui le minacce si moltiplicano ad ogni passo. Dal film alla serie e dalla prima alla seconda stagione, il rapporto tra uomo e ambiente (nelle sue varie accezioni) tende ad un progressivo sbilanciamento a sfavore del primo, sempre più ridimensionato, misero, impotente e, soprattutto, inconsapevole. Inconsapevole in primis dell’universo che abita senza riuscire a comprenderne i meccanismi perché troppo ancorato al fallace bisogno di dare un senso univoco (non importa se teologico, naturalistico o politico) ad eventi sorretti da ben più complessi sistemi,

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SERIE CINEMA TV

di Sebastiano Lombardo, Riccardo Bellini, Giorgia Maestri

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Fargo - di Lombardo, Bellini, Maestri

In una simile ringkomposition, inesorabile e fatale, eventi e personaggi trovano la propria ragion d’essere vorticando vertiginosamente nel tempo senza fine a condizione, però, che a seguito di ogni tempesta omicida, di ogni efferato delitto e di ogni tragica morte, tutto torni esattamente come era in principio, effimero e senza senso. Ogni cosa si trasforma ma nulla cambia in questo flusso eracliteo in cui l’aporia è la condizione fondante della realtà. All’assenza di logica, i Coen rispondono con l’assenza della ragione, e una macabra ironia diviene l’ultima arma di difesa contro l’assurdo; un assurdo che, come scrive Camus, sorge dalla collisione della domanda dell’uomo con l’irragionevole silenzio del mondo. Ed è proprio il silenzio delle lande ghiacciate e desolate portate in scena a far precipitare l’uomo in una tundra morale e a far sorgere spontanea nello spettatore un’unica domanda: esiste una morale? Malvo ci insegna che non ci sono regole in questa nostra vita, perché un tempo eravamo gorilla e nel profondo lo siamo ancora. Il conflitto buono/cattivo dominante nel film si evolve, nel corso delle due stagioni, in un titanico conflitto manicheo tra bene e

male, senza vincitori né vinti, in cui ad emergere come protagonisti sono Malvo e Ohanzee (sebbene l’uno sia vinto l’altro vincitore), portavoce di quel nichilismo lebowskiano [in riferimento a Il Grande Lebowski, altro famoso film dei fratelli Coen. n.d.r.] che ancora una volta regna incontrastato. Ecco quindi, che le pedine di questa grande scacchiera esistenziale si muovono nel non luogo glaciale, alienate e profondamente disconnesse dalla realtà e dalla società di uomini di cui pure fanno parte, incapaci di stabilire relazioni interpersonali univoche ed efficaci. Il microcosmo generato dai Coen, infatti, trova le sue fondamenta nella discomunicazione: ogni scambio dialogico è potenzialmente fallace e intenzionalmente opaco; ogni tentativo ermeneutico è vano e la parola si dimostra costantemente obliqua, plurivoca, ingannevole. Assistiamo allo spettacolo di individui fluttuanti bradicineticamente nel vuoto, soli e incapaci di comunicare, fatalmente destinati ad una fine tragica. Si tratta di una visione postmoderna e nichilista del mondo, certo, che tuttavia suona come un avvertimento: il cartello iniziale (esempio prototipico dell’ambiguità comunicativa data l’affermazione e poi la negazione che i fatti siano accaduti realmente) ci mette in guardia circa la possibilità che un simile spettacolo, grottesco e spietato, possa davvero avere luogo e che tu, spettatore, potresti essere Jerry Lundegaard, il tuo vicino Lester Nygaard oppure Ed Blumquist. Occorre dunque prestare molta attenzione a non precipitare in questa spirale caotica poiché, in fin dei conti, «a lot can happen in the middle of nowhere».

Dove germoglia Il teatro di l’arte. Edoardo Erba di Davide Cioffrese e Sofia Perissinotto NB: l’ordine degli autori è questione di cavalleria e potenzialmente di facoltà mentali (dalla sana al fuori di testa, si intende). Sofia si è occupata della stesura della seconda parte dell’articolo odierno; Davide ha fatto la prima. Quindi, nel caso quest’ultimo vi stia pesantemente sulle scatole e ne aborriate anche solo la vista, siete pregati di saltare alla più professionale sezione di Sofia (riga [...]). Grazie, buona lettura e, per allinearci alla sezione cinematografica, niente cibo da fuori. Edoardo. Erba. Edoardo Erba. Uno splendido nome allitterante che è già un programma. Nato nel 1954 nella nostra piccola e nebbiosa cittadina universitaria, Edoardo Erba è uno degli autori teatrali più interessanti sulla scena italiana ed europea. Le sue opere sono state tradotte in numerose lingue, adattate e messe in scena oltreoceano, insignite di numerosi premi; sono... Vi state annoiando? Di già? Catturare la platea al giorno d’oggi è un’impresa. Va bene... Volete un contentino? Arriva il contentino. Prima di diventare la stella teatrale che è oggi, Erba ha collaborato alla realizzazione dei programmi televisivi Ciao Ciao e Bim bum bam. Tutti noi giovani e disillusi universitari, ne sono sicuro, ricorderemo con gioia, o forse con orrore, il secondo contenitore per eccellenza di cartoni animati e altre distrazioni della nostra infanzia, per oltre vent’anni di storia Mediaset. In quanto al primo... posso presumere fosse semplicemente la versione anni ‘80 di Bim bum bam. Non so se la cosa debba farmi gioire o rabbrividire. Ecco, siete soddisfatti? Possiamo tornare al nostro protagonista? Bene. Lasciate che vi rassicuri: Edoardo Erba non è il classico autore teatrale, ligio a una solennità dolorosa o a un pathos raggiunto solo tramite dialoghi sfiancanti. Il suo è un teatro vivace, moderno e forse postmoderno, comprensibile

e terra-terra quanto inevitabilmente profondo, portatore di grandi significati e grandi interrogativi. Siamo lontani dalle magniloquenti formule del teatro tradizionale e borghese, dalla teatralità come la intendeva l’ottocentesco Henrik Ibsen. Ricapitoliamo: nel caso in cui, sia il nome di Erba che quello di Ibsen, li stiate leggendo per la prima volta in questo articolo (e non è nulla che debba preoccupare i profani dell’ambito teatrale), è probabile che vi divertiate di più con la lettura del primo. La lingua di Erba è tutto tranne che antiquata e solenne: con lui la quotidianità si fa strada sul palcoscenico; un palcoscenico che inevitabilmente viene trasfigurato in uno spaccato pulsante della realtà. Sulla scena di Erba sono benvenuti i colloquialismi, il turpiloquio, le forme gergali. I due corridori della Maratona di New York, uno tra i testi più noti dell’autore, ansimano e imprecano come lo si può fare solo correndo alle prime ore del mattino (lo dico per pur povera esperienza); allo stesso modo, la coppia di Muratori che erige una parete (non è una metafora) sul palcoscenico usa un romanesco vivo e sentito, frutto della permanenza stabile di Erba a Roma. Nota invisibile ai lettori rivolta a Sofia (può leggerla solo Sofia. Nel caso per qualche strano motivo voi lettori riusciate a vederla, siete pregati di non leggerla): questi tizi sono allucinanti, sul serio. Se ne fregano bellamente. Non hai idea di quello che ho dovuto tirare fuori per riguadagnarmi la loro attenzione. Hey, se si distraggono di nuovo, dì loro che il testo d’esordio di Erba, Ostruzionismo radicale, dell’85, l’ha interpretato Claudio Bisio. Forse la cosa ci guadagnerà qualche punto... Ecco, magari puntualizza che non c’entra nulla con gli struzzi. Le opere di Erba, profonde e dense di riferimenti, non risultano carenti di momenti focali, di grandi e provocatori exploit da ricordare. La storia

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per avere così l’illusione di poterli dominare. Tali situazioni ed eventi, destinati a ripetersi nel girone di umana follia, si assomigliano ma è nella differenza che essi ritornano, secondo una prospettiva offerta pienamente dalla seconda stagione la quale, proiettando il ventaglio dei riferimenti storico-politico lungo l’arco di circa un secolo, delinea in modo ancor più definitivo il teatrino delle vicende umane. Ancora una volta, dunque, storia di simulacri, storia dell’Eterno Ritorno.

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Edoardo Erba - di Cioffrese, Perissinotto

Ti passo il testimone, Sofia. Ti ringrazio Davide. Sia per le frasi cavalleresche, sia per l’introduzione brillante. Vediamo ora cosa dire per poter portare a termine questa irriverente e irriverita panoramica su Edoardo Erba. Nella produzione di Erba fondante, ma peculiare, è il rapporto tra reale e surreale. Nella maggior parte dei suoi testi egli comincia da situazioni di apparente realtà. Ma poi rimane lì? Non proprio. Per esempio In Margarita e il gallo, una delle sue opere più famose, tutto sembra iniziare in maniera assolutamente verosimile. In una casa signorile della Firenze del Cinquecento, una famiglia agiata assume una povera ed ignorante contadina. Verosimile è il gustoso scambio di battute tra i vari personaggi appartenenti alle differenti classi sociali e nella norma può dirsi anche il racconto della popolana, che sostiene di essere figlia di una strega capace di trasformarsi in gatto. Il tutto, però, comincia a non potersi più definire tale quando è la stessa Margarita a scambiarsi di corpo con il padrone, facendo così in modo che sia il ricco gentiluomo, ormai incastrato nel corpo femminile, ad avere l’onore o l’onere delle avances piuttosto insistenti di un marchese dai gusti stravaganti.

Quando a c i s u m la e l a r t n o inc i t r a e r t l a

Ad ogni modo, in Erba il fantastico e il surreale non sono mai fini a se stessi, ma permettono al testo di liberarsi in riflessioni ulteriori. Questo procedimento avviene sempre in modo sorprendente. Non appena si acquisisce un po’ di familiarità con il teatro di Erba, infatti, si attende lo slittamento nel surreale, ma essendo esso il più delle volte quasi improvviso è come se non si sia mai del tutto pronti. Pare quasi di sentirsi beffati. Ultimo elemento con cui spesso Erba ama giocare è quello della Storia. In Senza Hitler, viene proposto un mondo in cui l’uomo non sia mai diventato führer, ma che abbia invece coronato il sogno, decisamente più innocuo, di dipingere. Il pittore Hitler è portatore della stessa ideologia estrema, capace ancora di inquietarci, ma, fortunatamente, non può far altro che farneticare e minacciare armato solo di un pennello. Una sorta di dittatura effettiva invece, accompagnata da un salto nel futuro, si ha in Vaiolo. Non è tra le opere erbiane più conosciute, tuttavia è proprio quella che desidero menzionare prima di salutarci. È un testo che parla di teatro. O meglio, parla della fine del teatro. L’opera è ambientata in un futuro dittatoriale e vede due uomini (che poi si rivelano essere due spie governative) incontrarsi in un luogo che una volta era, per l’appunto, un teatro ma che ora non esiste più. Non solo, l’umanità lo ha dimenticato, ma la tirannia che ora governa lo reputa potenzialmente pericoloso, tanto da arrivare ad eliminare chiunque ne risulti un suo conoscitore. Le due spie evocano le modalità di funzionamento di questo luogo che emerge quasi come ridicolo e assurdo. Perché mai perdere tempo per andare a vedere delle persone che si muovono e parlano? Perché mai, soprattutto, farlo pagando? Forse, come insinuano poi loro stessi, perché esso aveva delle strane potenzialità curative. Ed ora, cari lettori, approfitto per fare un invito che sono certa Davide condividerà. Andiamo a teatro. Esso merita di vivere e di continuare a parlarci. Coloro ai quali la vecchia storia della guarigione tramite il teatro può sembrare eccessiva, ci facciano almeno dire, citando proprio le parole di un personaggio erbiano, che si può andare a teatro anche solo per sentire un accidente di qualcosa che dia l’illusione di capire in che genere di merda stiamo razzolando.

di Chiara Pollini e Daniele Testa Si è appena conclusa la quinta edizione del Torino Jazz Festival, una manifestazione che continua a crescere ed alla quale il pubblico torinese e non - sembra essersi molto affezionato. Per dieci giorni - dal 22 aprile al 1° maggio - strade, teatri e piazze della città sono state invase da un’ondata di musica jazz, divenendo il cuore pulsante del festival. Ma non è stata la musica la sola protagonista di questa edizione; infatti, come ha sottolineato il direttore artistico Stefano Zenni, «il Torino Jazz Festival non è solo un festival musicale, ma l’occasione per scoprire come il jazz si intreccia con le altre arti»: teatro, danza, arti visive, cinema, fotografia, letteratura. La prima giornata è stata “a tutto Fringe”, l’anima più sperimentale ed originale del festival, che ha risuonato ogni giorno, dal 22 al 25 aprile. Da sempre occasione per creare eventi unici ed originali, il TJF Fringe, anche quest’anno, ha fatto incontrare musicisti dai background eterogenei e professionisti delle diverse discipline artistiche: dalle danzatrici del MAO ai musicisti del festival jazz di Edimburgo, passando attraverso l’omaggio di artisti internazionali a tre indimenticabili musicisti: Joni Mitchell, Jean-Luc Ponty, Albert Ayler. Oltre ai numerosi concerti di Piazza Castello (tutti gratuiti!), si è potuto assistere a spettacoli che avvicinano il mondo del jazz a quello del

teatro, del cinema e dell’arte figurativa; il 23 aprile presso l’Auditorium RAI, Vinicio Marchioni, attore e regista (per intenderci, il “Freddo” di Romanzo Criminale), e Francesco Cafiso, uno dei talenti più precoci del jazz, hanno presentato Il persecutore, uno spettacolo di jazz teatrale, tratto dal romanzo di Julio Cortázar. L’uno, con la sua voce, l’altro con il suo sassofono, hanno esplorato questa storia per realizzarne una performance al confine tra musica, vita e teatro. «Il testo», come sostiene Marchioni, che si è anche occupato dell’adattamento drammaturgico, «ha a che fare con qualcosa di mistico come i concetti di tempo, creazione, morte e vita. Attraverso un sassofono e un genio che lo suona, proveremo a giocare sul palco insieme a Cafiso». Unione di musica e arte nello spettacolo del chitarrista e compositore Battista Lena, che, il 24 aprile presso il Teatro Piccolo Regio Puccini, ha suonato insieme ad altri musicisti di fronte alle proiezioni delle opere di Pinot Gallizio. Lo spettacolo, dal titolo Ultimo Cielo, ha fatto conoscere al pubblico la figura del pittore piemontese, attivo fra gli anni Cinquanta e Sessanta e riconosciuto per

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del teatro è piena di simili e memorabili scene: l’Amleto lo associamo immediatamente alla figura di un un individuo intento a chiacchierare del più e del meno con un teschio; Macbeth ha come immagine mentale incontrastata le tre arzille incantatrici, una conciata peggio dell’altra, chine a rimestare qualche mefitico fluido (Chinotto, secondo alcuni illustri teorici) nel loro calderone. In tale ottica, Venditori di Erba si potrebbe associare alla scena di sesso sadomaso in cui l’orgasmo è raggiunto tramite una sapiente combinazione di frustate e uso martellante di terminologia economica. Non credo avrò bisogno di ri-attirare la vostra attenzione, a questo giro.

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Torino Jazz Festival - di Pollini, Testa

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performance di Monica Demuru, andata in scena il 27 aprile, sul palco del Teatro Gobetti, con Otto storie poco standard: un concerto narrativo in cui una voce, un contrabbasso e una batteria hanno mostrato alcune storie sorprendenti di standard; motivi come Over the Rainbow, Georgia on my mind, Nature Boy sono stati attraversati per ricordare l’anima dell’America del dopoguerra. Il Cinema Massimo, infine, ha ospitato uno degli eventi più interessanti e attesi del festival: il 30 aprile, infatti, è stato proiettato il film pluripremiato Birdman (2014), accompagnato dalla colonna sonora suonata dal vivo dallo stesso compositore e percussionista, Antonio Sanchez. Birdman Live si è rivelata un’occasione imperdibile per tutti gli amanti della musica, ma anche del cinema. Tra i tanti concerti all’aperto, si segnala PULSE! (Jazz and the city): incrociando jazz, elettronica e hip hop, importanti musicisti torinesi e internazionali hanno saputo far rivivere in musica i rumori della città. Torino è stata la vera protagonista, letta attraverso le sfumature della sua sonorità. Della sezione Fringe vi segnaliamo le esibizioni di danza contemporanea delle ballerine del MAO, Museo di Arte Orientale, dove è stato possibile riscontrare ancora una volta la vicinanza

del festival alle altre arti; Frammenti di lady Macbeth (sabato 23 aprile), è il titolo della performance di Frida Vannini e Sara Orselli, che hanno interpretato il tema shakespeariano in un contesto tutt’altro che convenzionale; Marije Nie, tap dancer, ha ballato in Walking songs (23-24 aprile), in cui suoni acustici ed elettronici ai confini del jazz contemporaneo si sono rimescolati nella world music e nei ritmi afro-americani; infine, nello spettacolo dal titolo Voci da una riva all’altra (24 aprile ore 17), Nuria Sala Grau ha mostrato al pubblico il Bharata natyam, la più antica delle danze classiche indiane, dove il battito dei piedi si armonizza con il ritmo delle percussioni. Il TJF porta avanti una tradizione più antica che lega il jazz alla città torinese, un incontro sancito nel 1935 quando Louis Armstrong approda sulle rive del Po, regalando al pubblico torinese le note magiche della sua tromba e la sua voce inconfondibile, ispirando giovani musicisti attratti dal nuovo genere musicale. Questo episodio è il prodotto di un interesse già in nuce presso gli ambienti culturali torinesi: grandi personaggi, come Antonio Gramsci, Mario Soldati e Cesare Pavese, i quali, già dalla fine degli anni Venti, mostrarono interesse per la musica d’oltre Atlantico, sono solo alcuni dei nomi che testimoniano il terreno ricettivo della città. Va proprio a Torino il primato della fondazione del primo hot club italiano, avvenuta nel 1933, progenitore degli attuali jazz club ormai diffusi in tutto il mondo. Un amore intramontabile, quindi, quello tra Torino e il jazz, una storia che anche quest’anno il TJF ci ha fatto rivivere.

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la cosiddetta “ p i t t u r a i n d u st r i a l e ”. Al confine tra reading, concerto e spettacolo teatrale si c o l l o c a , invece, la

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A cura di Silvia Varrani e Paola Mogni Ferruccio Soleri riporta in scena al Piccolo Teatro Grassi l’intramontabile commedia. Piccolo Teatro Grassi, dal 3 al 22 maggio 2016. Martedì, giovedì e sabato h. 19.30, mercoledì e venerdì h. 20.30, domenica h.16.00 Come ogni stagione, anche quest’anno torna in scena al Piccolo Teatro Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni per la regia di Giorgio Strehler, con Ferruccio Soleri nel ruolo dell’infaticabile Arlecchino. Il Servitore di due padroni (questo era infatti il titolo originale della commedia) è una delle regie storiche del Piccolo e vanta un successo ininterrotto: in scena per la prima volta a Milano nel luglio 1947, si sono susseguite da allora tournée in Italia e all’estero, rendendolo lo spettacolo italiano più visto nel mondo e quello più rappresentato nella storia. Creato sessantanove anni fa da Strehler con la volontà di riconsegnare Goldoni al pubblico italiano, lo spettacolo è testimonianza del percorso artistico del regista e della sua capacità di reinvenzione, attraverso la quale è stato capace di riportare in vita la tradizione del teatro goldoniano.

Al centro della commedia, scritta da Goldoni come canovaccio nel 1745, poi modificato e precisato fino alla forma definitiva della prima rappresentazione nel 1747, troviamo un povero servo veneziano che mette a frutto il proprio ingegno per riuscire a mangiare due volte, ingannando i padroni e scatenando una serie di equivoci. Gioco comico basato su lazzi e buffonerie, la commedia è specchio di una società in cambiamento e ben rappresenta l’interesse di Strehler per l’uomo in tutte le sue azioni; del resto quest’obiettivo era centrale anche per Goldoni, il quale si riproponeva di sviluppare, con la sua riforma del teatro, una commedia di costume che potesse cogliere l’umanità vera, lontana sia dal teatro aulico ed eroico del Seicento che dalla tradizione della Commedia dell’Arte, ormai legata al talento improvvisativo dell’attore e irrigidita in convenzioni e testi codificati.


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Arlecchino - di Varrani, Mogni Ferruccio Soleri nasce a Firenze il 6 novembre 1929. Caratterista di natura (da bambino sognava di diventare un clown), abbandona ben presto gli studi di Matematica e Fisica, per nulla adatti a lui, ed intraprende la strada della recitazione, iscrivendosi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma. Lì, si diploma e le sue doti fisiche e vocali non comuni vengono subito notate da Strehler, che lo chiama nella sua scuola. Soleri inizia così a recitare al Piccolo Teatro di Milano, dove debutta nel 1957, ne La favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello. In seguito, ottiene una parte all’interno della commedia goldoniana, prima nel modesto ruolo di cameriere, poi come Arlecchino, sostituendo solo in via provvisoria Marcello Moretti. Dopo la morte di Moretti, Soleri ne eredita definitivamente il personaggio e non lo abbandonerà più, tanto da aggiudicarsi una menzione nel libro del Guinness dei Primati per la più lunga performance di teatro nello stesso ruolo. Nonostante la partenza incerta a causa dei dissensi da parte di un pubblico troppo affezionato all’Arlecchino “morettiano”, Ferruccio Soleri mostra subito una predisposizione quasi innata al ruolo: la maschera del servo aderisce perfettamente all’ingegno dell’attore, quasi fosse stata creata su misura per lui. Sotto la precisa e inflessibile regia di Strehler, ne studia accuratamente l’aspetto umano, la poetica dell’astuzia e della fame; si sofferma sull’espressività del personaggio ed in particolare sulla sua voce, un lavoro (a suo dire) molto complesso per via della parlata incalzante ed impetuosa. Grazie ad un ampio margine di improvvisazione, che rende sempre nuovo ed insolito lo spettacolo, l’attore può mettere in risalto le abilità più caratteristiche del personaggio, come i movimenti acrobatici e la gestualità quasi felina che richiamano proprio l’Arlecchino settecentesco della rinnovata Commedia dell’Arte. Allenandosi attraverso il training (oggi ancora più impegnativi a causa dell’età) e gli esercizi davanti allo specchio, Soleri cerca in tutti i modi di rendere proprio quel travestimento, di “cucirselo addosso”. Ed ecco che, ogni volta che ne indossa il costume variopinto e la maschera di pelle (la stessa che apparteneva a Moretti), la trasformazione è avvenuta. Ancora oggi, un Arlecchino di 86 anni ma sempre più giovane (tanto da essere stato

soprannominato Arlecchino-Peter Pan), stupisce e incanta per la sua bizzarria e grande attualità. Una magia, un “gioco” (se si vuole usare la traduzione inglese e francese di “recitare”) che dura giusto il tempo della rappresentazione e, quando le luci si spengono e il sipario si chiude, la maschera vivace e colorata scompare, perché «non sei, devi solo fingere e far credere. C’è il testo, c’è la regia e noi interpretiamo. Un mestiere che solo in rari momenti diventa arte» (Ferruccio Soleri). Nel corso della sua carriera al Piccolo, Soleri ha interpretato altri ruoli, prendendo parte a spettacoli come L’anitra selvatica di Ibsen, La tempesta di Shakespeare, Vita di Galileo di Brecht, Il trionfo dell’amore di Marivaux e si è dedicato anche alla regia di opere liriche e in prosa, tra cui l’allestimento di drammaturgie originali, in particolare Arlecchino, l’amore e la fame e, insieme a Luigi Lunari, Arlecchino e gli altri, con protagonista, ovviamente, l’amato servitore. Ha insegnato in varie scuole di teatro europee e oltreoceano, tra le quali Ecole Mudra di Bruxelles, la Santa Clara University in California, Scuola di teatro di Valencia e tiene tuttora corsi sulla Commedia dell’Arte e sul teatro in tutto il mondo. Oltre alla menzione da record, ha ricevuto premi importanti tra cui il Leone d’oro alla carriera alla Biennale Internazionale di Venezia nel 2006, la Maschera d’oro nel 2001 a Mosca ed altri riconoscimenti che lo hanno consacrato attore straordinario, non solo nel personaggio che l’ha reso celebre, ma anche per la sua ricchissima esperienza teatrale. Riportando per l’ennesima volta questo spettacolo sulla scena, Soleri ci restituisce l’immagine di un uomo in lotta tra due mondi con tutte le sue contraddizioni e le sue astuzie. Un ruolo che nessuno come lui può interpretare così magistralmente, saltando per il palco, intrufolandosi in bauli e cambiandosi addirittura d’abito. L’evoluzione interpretativa vissuta dalla maturazione del corpo dell’attore lo rende un manifesto di un modo tutto particolare di fare teatro. L’Arlecchino strehleriano è sorprendentemente agile e buffonesco, un testo classico che è ancora fresco e imprevedibile, uno spettacolo da vedere per l’umanità del testo, l’energia e la vitalità con cui diverte e appassiona il pubblico conquistando spettatori di ogni età.

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Con la ripresa di Goldoni, e quindi del primo grande teatro nazional-popolare italiano, Strehler si riappropria insieme di un passato segnato dalla storia della Commedia dell’Arte, cui l’opera, con le sue maschere e i suoi travestimenti, è comunque ancora fortemente legata: dal personaggio del protagonista, che deriva da una delle più celebri maschere della Commedia dell’Arte, al linguaggio, fatto non solo di parole ma anche dei corpi e dei gesti degli attori. I personaggi agiscono intorno e sopra una pedana adagiata sul palcoscenico, delimitata da un lato da una fila di candele accese e spente atto per atto, mentre dall’altro, da fondali e quinte dipinte che fungono da scena e che vengono cambiati a vista dagli stessi attori. Questa struttura meta-teatrale si riflette anche nella rappresentazione durante la quale gli attori, prima di entrare o non appena usciti di scena, si tolgono la maschera e intervengono commentando dai bordi della pedana. Gli attori punteggiano e sincronizzano l’azione con la parola, ritrovando l’espressività del gesto in ritmi giocosi e sfrenati, arricchiti ulteriormente dagli intermezzi musicali. Il ritmo accelerato dell’azione è contornato dai salti e dalle acrobazie degli attori, primo tra tutti l’intramontabile Ferruccio Soleri, che dal 1963 interpreta il ruolo di protagonista.

Arlecchino - di Varrani, Mogni

PAOLO POLI Il 25 marzo, all’età di 86 anni, ci ha lasciato l’attore fiorentino Paolo Poli, personalità eccezionale nel panorama artistico ed intellettuale italiano. Attore, regista, comico, trasformista e persino cantante, Poli ha diviso la sua vita tra teatro, cinema e televisione. Ha preso parte ad allestimenti di opere di grandi autori come Beckett, Genet, Gozzano, Alfieri, spesso in ruoli en travesti con effetti estremamente surreali ed esilaranti, e ha partecipato a trasmissioni Rai e miniserie, tra cui il programma televisivo E lasciatemi divertire, in onda solo un anno fa, poco prima del suo annunciato addio alle scene. Poli ci lascia anche un’importante eredità culturale e morale, per la scelta coraggiosa di aver dichiarato apertamente la sua omosessualità, in un’epoca ancora troppo chiusa e giudicante. Oltre alla sua lunga carriera, non resta che il ricordo di un uomo multiforme, divertente, geniale e anche un po’ ribelle, o meglio anticonformista, secondo la definizione discussa durante l’incontro con Umberto Eco in una puntata del programma Rai Babau da lui condotto: «cos’è il conformismo?» chiede Eco «È la cravatta che ti sei messo per venire qui in trasmissione».


lm si 6 I fi atte 201 e più stat e ll’ de

Suicide Squad 18/7

La Notte del Giudizio: Election Year 28/7

Star Trek Beyond 21/7 Cattivi Vicini 2 30/6 Mother’s Day 23/6

Now You See Me 2: I Maghi del Crimine 08/6 The Nice Guys 01/6

Alice Attraverso Lo Specchio 25/5

X-Men: Apocalisse 18/5

ndrai a m l fi i l a ? E tu? qu state al cinema uest’e q e r e d e av


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