Inchiostro Pavia 122 - dicembre 2012

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inchiostro.unipv.it Il giornale degli studenti dell’Università di Pavia Dicembre 2012 Distribuzione gratuita Anno XVII - Numero 122

in questo numero: PRIMARIE PD GIACOMINO PORETTI LA FUGA DEI CERVELLI

VII edizione “Inchiostro a volontà” I racconti vincitori


Sommario

Il giornale degli studenti dell’Università di Pavia

pag.3

EDITORIALE / Lo Giudice

pag.4

PROFUMO DI SINISTRA / Intropido PAVIART POETRY / Favalli

pag.6 -7

FUGA CERVELLI / Doda

pag.8 - 9

LA CINA DI ZHEN DONG / Brusa

pag.10 -11

MARILYN IN MOSTRA / Bozzo

pag.12

SPECIALE CONCORSO LETTERARIO

pag.13 16

MASTRO BIRRAIO / Cesarano - Battaglia MALATTIE IN VENDITA / Rossini

pag.17 pag.18 -19

PORETTI SCRITTORE / Lo Giudice pag.20 -21

Anno XVII - Numero 122 - dicembre 2012 Sede legale: Via Mentana, 4 - Pavia Tel. 346/7053520 (Simone), 338/1311837 (Giuseppe), 338/7606483 (Maria Grazia) E-mail: redazione@inchiostro.unipv.it Internet: http://inchiostro.unipv.it DIRETTORE RESPONSABILE: Matteo Miglietta COMITATO EDITORIALE: Simone Lo Giudice, Giuseppe Enrico Battaglia, Maria Grazia Bozzo DIRETTORI BLOG: Francesco Iacona CO-DIRETTORI INCHIOSTRO.UNIPV.IT: Francesco Iacona, Chiara Valli TESORIERE: Irene Brusa IMPAGINATORI: Emanuele Canzonieri, Matteo Conca, Chiara Pertusati VIGNETTE: Federica Anna Amini, Chiara Vassena CORRETTORI DI BOZZE: Matteo Merogno, Stefano Sfondrini, Chiara Valli Iniziativa realizzata con il contributo concesso dalla Commissione Permanente Studenti dell’Università di Pavia nell’ambito del programma per la promozione delle attività culturali e ricreative degli studenti Fondi 2012: 6350 Euro. Stampa: Industria Grafica Pavese s.a.s. Registrazione n. 481 del Registro della Stampa Periodica Autorizzazione del Tribunale di Pavia del 23 Febbraio 1998. Tiratura: 1000 copie Questo giornale è distribuito con licenza Creative Commons Attribution Share Alike 2.5 Italy Questo giornale è andato in stampa in data 17-12-2012 IN QUESTO NUMERO HANNO COLLABORATO: Federica Anna Amini, Giuseppe Enrico Battaglia, Maria Grazia Bozzo, Irene Brusa, Emanuele Canzonieri, Claudio Cesarano, Matteo Conca, Irene Doda, Erica Gazzoldi Favalli, Francesco Iacona, Giorgio Intropido, Simone Lo Giudice, Matteo Merogno, Chiara Pertusati, Camilla Rossini, Stefano Sette, Stefano Sfondrini, Chiara Valli, Chiara Vassena.

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IL CALCIO DI OGGI SECONDO BECCANTINI / Sette

pag.22

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CARO BABBO NATALE/ Sfondrini

pag.24 IMMAGINE COPERTINA Irene Doda & Camilla Rossini


Editoriale

di Simone Lo Giudice

LE NOSTRE PRIMARIE L’Italia ha emulato la fenice della mitologia: morte e rinascita dalle proprie ceneri. Impossibile negarlo. Se sul nostro calendario possiamo spuntare questo dicembre 2012, lo dobbiamo alla nostra tenacia. Tra meno di tre settimane calerà il sipario sull’anno italiano più difficile dell’ultimo ventennio. Con la fine del berlusconismo (sperando che di fine si tratti davvero) abbiamo tirato un sospiro di sollievo, dopo stagioni di soubrettismo diffuso a macchia d’olio presso i palchetti di Palazzo Chigi. Unica controindicazione del caso: in mancanza di alternative attuabili in tempi brevi, l’amministrazione della cosa pubblica è passata dalle mani dei politici a quelle dei tecnici. Ci siamo riscoperti improvvisamente pragmatici, quelli che la cinghia la sanno stringere se proprio lo devono fare, disillusi nel profondo dalle false promesse dei finti politici. Il punto è che gli Italiani sono un popolo meraviglioso, pieno di talento, estroso quanto vuoi, ma con scarso spirito critico. In una realtà in cui le idee sincere (diciamo pure sentite col cuore) scarseggiano, dovremmo riflettere su un valore fondamentale: la sobrietà di pensiero. Il portamento severo di Mario Monti ci ha fatto riscoprire come è bello un mondo in cui ciascuno sa stare al suo posto. Il comico deve farci ridere, l’attore intrattenere, il politico guidare. Il berlusconismo (e con esso tutti i suoi fratelli minori) si è radicato nella mass-medialità più schizofrenica, convincendoci che l’apparenza contasse più della sostanza. L’amministrazione della cosa pubblica, lungamente incensata da uno come Dante più di ottocento anni fa, si è riscoperta aperta a tutti: un po’ come capita nella casa più fraterna d’Italia (alias GF), in cui gente fino a ieri dimenticata si scopre d’un tratto professionista del piccolo schermo. La politica di B. ha offerto un’opportunità a tutti coloro che potessero assolvere un compito semplicissimo: fare i servi. Ce ne stiamo accorgendo adesso quando, venuto meno il padron Silvio, a destra mancano opzioni credibili per eventuali primarie. Il centro-sinistra ha optato per una scelta conservatrice. Bersani è l’usato fin troppo sicuro, mentre Renzi rimane solo una piacevole suggestione. In un periodo ipotetico dell’irrealtà, sarebbe stato intrigante ascoltare il Pierluigi pensiero proferito dal corpo di Matteo. Un’idea conservatrice (da vecchia sinistra, per intenderci) professata da un ragazzo di “soli” trentasettenne anni avrebbe fatto davvero notizia. Chiudiamo l’anno con tenacia, dopo essere rinati dalle nostre ceneri. Sperando che il buon senso accompagni stabilmente le nostre scelte, riappropriandoci soprattutto di noi stessi. Senza intravvedere le primarie altrui come quelle di un nemico, ma come le nostre in quanto Italiani. Non contano i vincitori o i vinti: conta vincere insieme come Paese! Primarie interne anche per noi di Inchiostro intanto. Novità significative non voglio svelarvi al momento. Scopritele insieme a noi col nuovo anno solare!

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POLITICA

«PROFUMO DI SINISTRA» E PUZZA DI PRIMARIE di Giorgio Intropido 60,8% e 39,2%: questi i numeri che hanno decretato la vittoria del segretario del PD Pier Luigi Bersani a scapito dello sfidante, il “ragazzetto ambizioso” Matteo Renzi, alle primarie di centrosinistra svoltesi a cavallo tra fine novembre e inizio dicembre. Un risultato che, anche se non del tutto scontato, se lo aspettavano un po’ tutti: dagli addetti ai lavori e non, al popolo intero dei votanti che in questi ultimi dieci giorni di fuoco hanno visto i toni della sfida alzarsi. A partire dalle baruffe sulle regole per il voto, passando per il confronto/duello andato in onda su Rai1 o all’inserzione pro-Renzi apparsa su diversi quotidiani, fino ad arrivare addirittura all’invocazione di espulsione del candidato toscano dal ballottaggio, gli screzi ci sono stati, eccome. Una battaglia svoltasi sui numeri, arrivata al culmine quando è pervenuta la notizia che riportava quanti nuovi elettori sarebbero stati ammessi al ballottaggio: 7094 su più di 100.000 richiedenti. D’altra parte non poteva essere altrimenti in una sfida alla tradizione così come è stata quella portata avanti dal sindaco di Firenze, il quale ha tentato di avviare una revisione di quel conservatorismo partitico che mai è stato scalfito (se non nei nomi e nelle apparenze) a partire dai tempi del PCI. Insomma una sinistra che si ripete, sempre uguale a se stessa. C’era chi ci sperava, nella “vittoria rottamatrice”: a parte i renziani stessi, molti erano quegli elettori delusi del centrodestra che guardavano con simpatia alla figura del sindaco di Firenze. Una simpatia che forse è costata non poco al diretto interessato dato che, pur riconoscendo fondatezza nella volontà ma soprattutto nella necessità di rinnovo dei volti della politica, gli uomini e le donne che domenica 2 dicembre si sono recati ai seggi hanno confermato in netta maggioranza la loro fiducia al segretario Bersani. Ciò che si spera è che quest’ultimo sappia far proprie le richieste di rinnovamento del partito che sono arrivate da quel 40% che non l’ha votato, ma che rappresenta un bacino elettorale di primaria importanza in vista delle politiche dell’anno prossimo. Una percentuale di votanti che comunque ha reso Renzi un interlocutore che non può assolutamente essere ignorato. Ora come ora, la vera sfida per il centrosinistra che va profilandosi all’orizzonte sta tutta nel riuscire a togliere consensi e voti a quella bufera imprevedibile che, secondo i sondaggi, pare essere diventata la seconda forza politica nel Paese, cioè il Movimento 5 Stelle. Discorso a parte merita il PDL. Un partito a dir poco agonizzante, impegnato a sprecare l’opportunità di fare le primarie di centrodestra (Cicchitto: «Pagheremo caro il non averle fatte»), di fatto in balia delle diverse correnti interne. I fedelissimi dell’ex premier che continuano a premere per annullare le potenziali primarie, Berlusconi che prima rilancia Alfano per poi ritrattare impaurito da una convocazione dell’Ufficio di presidenza in cui potrebbe essere messo in minoranza, ancora titubante sulla creazione di un nuovo soggetto politico nel quale poi non è ben chiara la collocazione degli ex AN: forse esclusi, forse solo ridimensionati, con la Meloni unica e sola che ancora preme perché le primarie si facciano «almeno a gennaio». Il “ritorno in campo” del Cavaliere non è comunque un’ipotesi irreale: galvanizzato dal risultato delle primarie del Partito Democratico («ecco la sinistra che non cambia mai»), Berlusconi aspetta la conferma di due incognite, e cioè election day a febbraio e riforma elettorale nei prossimi giorni al Senato.

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CULTURA

LA POESIA SCENDE IN PIAZZA di Erica Gazzoldi Favalli Il “PaviArt Poetry Festival” è giunto alla VI edizione. L’evento è stato organizzato dall’O.M.P. (Officina Multimediale Pavese) e dalle Edizioni FarePoesia. Hanno collaborato l’Osteria Letteraria Sottovento e il Gruppo Armonie Popolari. Il patrocinio è giunto dalla Provincia di Pavia, ma anche dal Comune omonimo, in partenariato con quelli di Travacò Siccomario e Zeccone. Il festival fa parte del progetto P.A.V.I.A. (Partecipare, Abitare, Valorizzare, Ideare, Ascoltare la città), realizzato nell’ambito dei Servizi agli studenti nei Comuni sedi di Università. Ha visto il sostegno del Dipartimento della Gioventù – Presidenza del Consiglio dei Ministri e dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), su bando. Si è svolto dal 23 al 25 novembre, aprendosi con uno sguardo sulle realtà sociali e cittadine: la presentazione del percorso didattico “Per una società libera dalla mafia”, degli allievi dell’Istituto Statale Adelaide Cairoli. La mattina del 25 novembre è stata dedicata al “Fare Rete”, col convegno tra le associazioni locali. Gli incontri di poesia vera e propria sono stati inaugurati dalla memoria di Charles Bukowski. Ne ha parlato Simona Viciani, sua traduttrice in Italia. È emersa la persona dimessa e ironica dell’autore, in viaggio su un’auto “vissuta” come lui. L’introduttore di questo e degli altri reading era naturalmente Dario Bertini, studente fuori sede e giovane poeta, convinto sostenitore del “Manifesto” di Lawrence Ferlinghetti: “Poeti, uscite dai vostri studi,/aprite le vostre finestre, aprite le vostre porte,/siete stati ritirati troppo a lungo/nei vostri mondi chiusi.” L’appello è giunto anche a Milano, rappresentata da figure come il “bardo” Vincenzo Costantino “Cinaski”. Il suo pseudonimo ricalca, non a caso, l’alter ego di Bukowski. Anche lui – figura barbata, da “gigante buono” – ritrae una realtà urbana disadorna, ma distillata dai versi d’uno “sfaccendato”. Poi è arrivata la chitarra di Folco Orselli, con i suoi bar dove s’incontra una “stirpe di Caino” assai poco assassina e molto franca. Una poesia aderente agli oggetti, alle sensazioni concrete sembra essere la via per rilanciare quest’arte. Naturalmente, senza che l’aderenza alla realtà rinunci allo spirito critico. Di questo hanno discorso Guido Oldani, Tomaso Kemeny, Giovanni Giovannetti, Fabio Franzin, Vincenzo Pezzella, Alfredo Panetta, Fabrizio Bianchi, Ottavio Rossani e Lelio Scanavini: in questo “pool” i poeti erano affiancati a giornalisti e documentaristi. È seguita la presentazione di riviste come “Kamen” e “Poliscritture”, nonché di case editrici quali FaraEditore e Puntoacapo. La microeditoria è il canale principale per la diffusione dei versi, a fianco del web. La resistenza del cartaceo al digitale è stata testimoniata anche dalla mostra di “Mail Art” che ha fatto da sfondo al festival: “Arte postale”, inviata da ogni angolo del mondo,

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CULTURA al di fuori dei circuiti commerciali. Il formato delle opere andava dalla cartolina al murale. Arte e movimento sono le parole d’ordine di Fluxus: un movimento nato nei primissimi anni ’60, per merito di George Maciunas. La raccolta di materiali per la mostra è stata organizzata da due suoi esponenti, Giancarlo Da Lio e Tiziana Baracchi. Essi hanno fatto conoscere un’arte “disobbediente”, che “fa rumore”. Il “rumore” è arrivato anche per opera della Brigata Topolino, che ha riso e pianto sulla crisi con performance incisive. Giuliano Zosi ha denunciato quel “bungabunghismo” che si prende gioco dell’Italia . I Miatralvia hanno tratto dai “rifiuti” (scatole, fili di nylon…) la musica di Kraftwerk, ACDC e Pink Floyd. Poeti locali, dialettali e non, accompagnati da voci d’altre regioni e altri Paesi, si sono presentati con quiete letture o sfidati nella Slam Poetry (“poesia cronometrata”). Da Milano, “Il Carro dei Testi” ha proposto la messa in scena degli “Esercizi di stile” (R. Queneau), incarnati da volti liceali o universitari. Ennio Abate ha resuscitato la figura di Franco Fortini, “rimossa” dal panorama contemporaneo. Bertini ha ospitato e introdotto i poeti che si vanno affermando attualmente: Dome Bulfaro, Flavio Santi, Andrea De Alberti, Jean Robaey, Tiziana Cera Rosco. Ettore Castagna e Giampiero Nitti hanno portato la musica pastorale di Calabria e Lucania, seguiti dalla pavese “Corte dei Miracoli” coi suoi canti di guerra e Resistenza. Degna conclusione a tre giorni di combattivo sberleffo, contro chi pensa che i versi siano “noiosi” e “avulsi dalla realtà”. (Ringraziamo Tito Truglia per la fotografia.)

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GIOVANI

RICERCATORI DI FELICITÀ Perché i giovani italiani scelgono lʼestero di Irene Doda

In Italia, nell’ultimo decennio, è nato un nuovo tipo di immigrazione, che non riguarda più gli strati più bassi o poveri della popolazione, bensì quelli che una volta sarebbero stati annoverati tra l’élite intellettuale del paese. Si tratta di giovani dottori, o dottorandi che decidono di prendere la via dell’estero per realizzare le loro aspirazioni lavorative. L’Italia non è un paese che investe sulla ricerca o sull’istruzione: negli ultimi anni i governi che si sono susseguiti non hanno fatto che sacrificare scuola, Università e cultura in generale, con tagli lineari. Si mira al risparmio su istituzioni che non sono immediatamente remunerative. Si pecca di scarsa lungimiranza, provocando così un’emorragia di risorse preziose. Nel 2011 l’Italia ha investito l’1,1% del Pil nelle spese destinate alla ricerca e allo sviluppo; la Germania il 2,3%, la Danimarca il 2,4%, la Svezia il 3,3%, la Finlandia il 3,1% e Israele il 4,4%. Lo squilibrio è evidente. A fuggire non sono solo i ricercatori ma anche una buona fetta di coloro che, conseguito un titolo di studio sudato e magari prestigioso, sentono di non essere riconosciuti nel proprio valore professionale. Chi di noi non sogna dopo la laurea di fare lo zaino e trovare un posto in Germania, Stati Uniti o Olanda, stati dove vige un briciolo in più di meritocrazia rispetto all’Italia? È proprio qui che sta il problema: pare che da noi non sia costume investire sulle giovani menti. Molti ragazzi, nonostante le recenti dichiarazioni del Ministro Elsa Fornero (che ci invita a non essere schizzinosi nella scelta della professione) sono disincantati riguardo alla possibilità di trovare un impiego grazie alle proprie capacità. Prevale la sensazione di doversi accontentare. Secondo un sondaggio della Cisl condotto su 3600 giovani tra i 18 e 34 anni, la chiave più sicura per il mondo professionale in Italia restano le conoscenze personali (78% del campione). Il merito e la preparazione non sembrano dunque essere un canale di realizzazione. Per questo per molti la speranza si proietta oltre i confini nazionali, nel nord Europa, oltre oceano. Per dare la misura del fenomeno, ecco qualche dato nazionale. Secondo un’indagine Istat, su 18.000 dottori di ricerca quasi 1300 sono andati all’estero tra il 2009 e il 2010. Secondo “The Economist” nel 2011 i laureati italiani trasferitisi all’estero arrivavano a 300.000. Ci sono poi da considerare le posizioni ricoperte dai laureati italiani che lavorano oltre confine: secondo lo studio AlmaLaurea il 18% ricopre cariche di direzione o amministrazione, contro l’8% di coloro che sono rimasti in Italia. Per non parlare della paga: sempre AlmaLaurea la segnala come quasi doppia, 2078 euro mensili contro i 1332 recepiti nella madrepatria. La vera sfida dei prossimi anni non sarà però quella di fermare la fuga di cervelli, cosa impossibile in un mondo dove i confini nazionali sono sempre più labili, ma quella di far sì che chi emigra ritorni in patria dopo alcuni anni. In questo modo le risorse investite in ricerca e istruzione non saranno vanificate, e si potrà sfruttare

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GIOVANI anche l’esperienza lavorativa che i “cervelli in fuga” hanno maturato all’estero. Solo così si trasformerà il circolo vizioso che dissangua le risorse umane del nostro paese in circolo virtuoso, che si accresce grazie alle nuove opportunità offerte dall’internazionalizzazione. Lauree deboli? Una riflessione “Cosa studierai l’anno prossimo?” “Pensavo a Scienze Politiche.” “Scienze Politiche? E per fare che? Dammi retta, cambia idea, se non vuoi finire a servire hamburger in un fast food…” Ho riportato la versione più gentile delle risposte che ottenevo un anno fa circa, quando decisi che strada prendere nel mio percorso universitario. Nella maggior parte dei casi non erano così diplomatiche (“ah, hai deciso di iscriverti all’albo dei disoccupati?”). La mia esperienza non è isolata e non vale solo per la facoltà di Scienze Politiche: Lettere, Lingue, Filosofia, Storia, Sociologia, Scienze della Comunicazione sono considerate scelte azzardate, che conducono comunque verso un futuro incerto, fatto di contratti a termine e continue delusioni. Non si può far finta che la spirale laurea debole-disoccupazione non esista: si sente sempre più spesso di laureati costretti ai cosiddetti MacJobs o a cercare riparo in un call center. Purtroppo è finita l’epoca in cui “per pagare le spese bastava un diploma”, per dirla con Caparezza. Ora bisogna puntare molto di più sulla valorizzazione di capacità personali, piuttosto che sul titolo di studio. Bisogna essere propositivi e versatili, essere disposti anche a fare le valigie e cercare un po’ più lontano dal focolare domestico. Creatività, coraggio: pare saranno queste le parole-chiave del mondo del lavoro di domani. Niente più posto fisso sotto casa, bisogna pensare in grande: e chissà se in questo saranno ancora i manager a essere meglio dei filosofi.

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PAVIA

I (WOULD LIKE TO) HAVE A DREAM Impressioni sulla Cina che cambia di Irene Brusa

Questo articolo non è un’ intervista, nemmeno un reportage. È il resoconto di quattro ore di complessa conversazione con Zheng Dong, studente cinese al secondo anno della specialistica in Scienze Politiche, originario di Chengdu, Sichuan. Sono state ore di intenso dialogo; anche se non tutto mi è stato chiarito, l’opinione di un giovane sull’attualità del suo paese è materiale prezioso. Una chiave di lettura sul modo di pensare di una generazione alla quale ci stiamo avvicinando. Ringrazio Dong, di cuore. “Questo, però, non lo scrivere”. Dong me lo ripete continuamente, mentre scrivo quello che forse non dovrei. Perché in Cina, oggi, tutti possono dire quello che pensano. Curioso, però, che a migliaia di chilometri di distanza me ne parli a bassa voce. Nascere in una città con più di dieci milioni di abitanti non è facile, eppure l’integrazione avviene immediatamente. Lo Stato, ti culla il tempo che basta per rendersi abbastanza rassicurante da essere l’alternativa migliore alla mamma. La vita di un bambino è scandita da lezioni in classi da 70 alunni, molti compiti da svolgere e poco tempo libero. Alle elementari, Dong parlava solo il Putonghua, la lingua ufficiale cinese, e i suoi compagni parlavano tra loro in dialetto. Questo è un simbolo dell’enormità della sua nazione, che ha stratificato nel tempo le differenze anche minime della lingua parlata. Capita tutt’oggi che due cinesi non si comprendano, e ricorrano alla scrittura che è invece identica per tutte le regioni. Anche le regole da rispettare sono molte. Tante, affascinanti quanto controverse: la tradizione cinese impone all’ uomo di inserirsi nell’ambiente lavorativo in fretta e provvedere ai bisogni della sua famiglia. Questo compito richiede tempo, e gli anni della gioventù sono i migliori da impiegare; non stupisce che la gran parte della popolazione non abbia tempo e risorse per viaggiare. I genitori di Dong non sono mai stati fuori dalla Cina, e lui stesso per ottenere il visto di espatrio ha dovuto compilare molti moduli, e rispondere a diverse domande. È più facile uscire dalla Cina grazie ad un viaggio preconfezionato piuttosto che ottenere un visto singolo, quindi vedere luoghi nuovi è un lusso. I gruppi di turisti cinesi che riempiono le città d’arte, intenti a scattare centinaia di fotografie, ora ai miei occhi appaiono anche da questa prospettiva. Chiedo a Dong se sia felice di vivere per il suo paese. “È una questione di valore universale”; gli occidentali sono tesi alla costruzione di se stessi, mentre in Cina la vita si può considerare realizzata, se consacrata alla nazione. Sembra essere più una questione di amore incondizionato: un amore del genere, sembra difficile da vivere con gioia. Il mio intervistato mi racconta di questo, col tono di chi ti rivela un segreto. L’idea che i cinesi hanno di quello che accade nel loro paese, e di chi decide di non adeguarsi al collettivismo, è oscura. Come se avere un’idea di senso opposto fosse poco sicuro, folle. Su questo punto, non ottengo da Dong una risposta decisa. La Cina si trova nel pieno di un cambiamento. Tutti desiderano una riforma, culturale e politica. Il governo

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PAVIA sta ragionando sul metodo. Come cambiare? Gli obiettivi più urgenti mirano ad abbattere la corruzione, e sostenere i diritti fondamentali dell’uomo. Un cambiamento è già in atto, riguarda la Politica del figlio unico approvata nel 1979 : questa prescriveva l’obbligo di generare un solo figlio, pena il pagamento di sanzioni che negli anni novanta consistevano nel pagamento di una multa di circa 3000 yuan, unita alla perdita del lavoro. Adesso, e solo se la tua carta d’identità può dimostrare che tu sia figlio unico, è probabile che ti sia concesso di avere più figli. Oggi i giovani cinesi desiderano avere due o più bambini, e sognano un paese giusto, perché attento ai loro bisogni. Ecco, la Cina deve avere coraggio. Ammettere i propri errori, vuol dire essere sulla strada per il cambiamento. Quello che lo rende difficile nel breve periodo è il contrasto tra interessi differenti. Dong lo ammette, manca unità territoriale e di intenti, non è pensabile una Cina democratica. Serve “un governo forte, per un grande paese”. Il Presidente uscente Hu Jintao, aprendo il Congresso del Partito Comunista l’8 Novembre, ha dichiarato che il Partito Unico non può essere messo in discussione. Però- e su questo io e Dong non riusciamo ad intenderci perfettamente- un governo che per millenni ha insegnato il valore dell’onore e la disciplina, deve essere pronto ad accogliere il malumore della sua gente. Perché si arrivi ad una riforma costruttiva, bisogna limitare i poteri dello Stato. Soprattutto, va concesso uno spazio alla capacità decisionale dei cittadini. Infatti, pensare cose che non si possono realizzare, è avvilente. Che un cittadino non trovi il coraggio di chiedere più concretezza, è ancora peggio. La censura è un’arma potente. Così abile da calzarti a pennello, farti sentire a tuo agio e credere di essere libero, mentre i tuoi pensieri le appartengono. Sui suoi concittadini dissidenti, Dong fatica ad avere un’opinione salda; chi vuole capire a fondo la realtà del suo paese è obbligato a ricercare siti non legati ai mass media ufficiali, come sina.com. Lui è molto informato e attento a chiarire ogni mia perplessità. Sostiene che i contrasti nel dialogo tra orientali ed occidentali siano legati al diverso modo di valutare i fatti. “La storia ha deciso così”, sostiene per giustificare una serie di eventi più o meno decisivi per la Cina; provo a ribattere che la storia è fatta da decisioni prese da persone, e il suo sguardo mi conferma il divario immenso che esiste non solo tra noi due, ma tra il nostro modo di ragionare. È un dialogo emozionante, che mi fa comprendere per la prima volta il significato di “diversità”. Torniamo a parlare di sogni, che riescono ad avvicinare tutti.

Una volta laureato, Dong vuole diventare professore di storia e politica all’università, in Cina; sa che sarà un lungo percorso, tra concorsi e dottorato. Su questo, Italia e Cina sono davvero simili. Tornerà in Cina dalla sua famiglia, dalla fidanzata e dai suoi doveri. È felice di aver visto l’Italia, è il suo primo viaggio fuori dalla sua terra natale, e l’ha scoperta avverando il suo sogno di bambino: scoprire l’Europa, vedere tante persone e posti diversi. Ha ottenuto questa possibilità grazie al sostegno economico dei suoi genitori, ai quali potrà restituire la soddisfazione di una laurea conseguita con impegno. Abbiamo fatto un grande discorso, mi dice Dong. Per un cinese, parlare una lingua straniera è faticoso. È quasi un ostacolo, che molti preferiscono evitare. Io in effetti, noto che molti ragazzi orientali giunti a Pavia preferiscono stare tra loro. Dong spiega che non saprebbero di cosa parlare con me, perché è troppo diverso il loro modo di divertirsi, ci sono troppe differenze. È tardi. Tornando a casa, gli chiedo dove preferisce andare, in Cina, per sentirsi felice. Vicino a Chengdu, c’è una montagna chiamata Qing Cheng Shan; guardo una fotografia, è bella davvero.

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PAVIA

UN VOLTO IN MOSTRA Giornata dedicata al ricordo della celebre diva Marilyn Monroe di Maria Grazia Bozzo Provocante, seducente, sorridente,pensosa,sono tanti i volti che Marilyn mostra dalle copertine di riviste o in primo piano in una pubblicità datata. Il corridoio nel polo San Tommaso di fronte all’aula Caminetto si riveste di originalità e rivela tante teste bionde una accostata all’altra nella mostra temporanea che dal 23 novembre al 9 dicembre vede protagonista l’attrice americana. Il contributo e i materiali sono tutti attinti dal Fondo Davide Turconi, una grande risorsa per Pavia che continua a fare emergere sempre nuove testimonianze inedite. Pannelli rivelano punti salienti della vita e carriera di Norma J. Baker ,al secolo l’amata Marilyn, ”la donna che tutti gli uomini vorrebbero”, con temi come un focus sul volto dell’attrice e l’icona che l’ha circondato, alla sua carriera, vita privata (ma non troppo, vista l’attenzione mediatica di cui godeva), la sua popolarità, la sua vicinanza o meno al pubblico più prettamente femminile. La giornata del 23 novembre incomincia con i doverosi saluti a chi ha celebrato questo splendido importante traguardo ottenuto dalla sezione Spettacolo e un risultato del polo umanistico, come ricordato dai presenti tra cui Gianni Francioni (pro-Rettore per la didattica), Silvana Borutti (Direttore Dipartimento Studi Umanistici), Elisa Romano (Preside della facoltà di Lettere e Filosofia) e Clelia Martignoni (Presidente Corso didattico della laurea di Lettere). E’ poi spettato ad Antonio Sacchi dal settore alla Cultura della Provincia di Pavia e al docente Nuccio Lodato andare a fare un po’ più di luce sulla complessa personalità che era Davide Turconi: emozionante il loro ricordo della sua casa vista quasi come il celebre bar del protagonista di Casablanca, un luogo imprescindibile di passaggio di persone.. Questo può far capire che tipo di “istituzione” fosse e che grande esperto e estimatore di cinema fosse. Ma la vera protagonista della giornata è lei, Marilyn, in mille pose, con uno smagliante sorriso oppure più sfuggevole agli scatti dei fotografi. Il titolo dell’evento è “Scrivere Marilyn”, e senza dubbio è stato un tema che di inchiostro ne ha fatto scrivere a fiumi, dalla sua carriera brillante alla sua tragica e improvvisa fine. Uno dei compiti che si prefiggeva la giornata era proprio quello di analizzare la diva sotto diverse forme e grazie al materiale del fondo Turconi, con vari workshop di studio che spaziavano dalla pubblicistica alle sue performances come cantante. Sono seguiti poi tre dialoghi tra docenti con gli occhi sempre puntati su di lei, la donna con il corpo che tutti desideravano. Per tutto il giorno si sono alternati gli interventi di svariati docenti, ognuno su una sfaccettatura diversa e il progetto, fortemente voluto e sostenuto dalla docente Federica Villa, che tiene il corso di Storia e Critica del Cinema, si è svolto con grande entusiasmo tra chi l’ha visto nascere e realizzarsi concretamente. L’anno è significativo, ricorre il 50° anniversario dalla tragica morte dell’attrice bionda più serigrafata del mondo. Sebbene si sia sempre detto molto su Marilyn, non manca mai di incantare gli spettatori un evento su di lei, vedere spezzoni dei suoi film, copertine in cui è ritratta, persino l’omaggio di Andy Warhol l’ha consacrata come un volto “di consumo” ovvero un simbolo della società di quegli anni, destinata a restare come un’icona e una leggenda americana. Senza dubbio l’evento si è dimostrato un ottimo risultato per la sezione Spettacolo e per l‘Università di Pavia. Dimenticare chi è diventato un “cult” della nostra storia è impossibile e ci piace ricordare così Marilyn, come la diva che è stata mentre scende la celebre scalinata con l’altrettanto celebre vestito fasciato fucsia mentre intona ancora il celebre motivo “Diamonds are a girl’s best friend”. E, quando si tratta di lei, come non usare l’aggettivo “celebre”?

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SPECIALE MOSCA, 7 OTTOBRE 2006 di Carlotta Vacchelli

I° classificata

Ci sono al mondo i vuoti, i presi a spintoni, quelli che restano muti: letame, chiodo per il vostro orlo di seta! (Marina Ivanovna Cvetaeva, I poeti) Il passo leggero e sicuro, pesanti sporte ondeggiano ai lati, scricchiola sull’asfalto del marciapiede. In strada bambini scalpitano, nel tentativo di divincolarsi dalla stretta presa di madri nervose. Nonne risolute sbadigliano e spingono passeggini, ancheggiando lente nel terso sabato pomeriggio di un ottobre moscovita. I turisti sostano davanti all’eterna maestosità dei monumenti, nei viali affollati del centro città. I palazzi si stagliano imponenti e sontuosi sulla piazza e il vento profuma dei colorati dolciumi esposti nelle bancarelle. Di fiabe davanti a camini accesi, di festa. Quarantotto anni è un’età dolce quando si hanno nipotini, riflette Anna lungo tragitto verso casa. È un’età dolce quando la tempesta, ormai, è lontana. Proibito dimenticare il candore di quelle iridi perdute nello sgomento, in balia del terrore. Ogni dettaglio dei loro volti la perseguita. La fissano sperduti, mentre imbocca pappe in scatola ai figli di Vera, la seguono muti dalla finestra mentre esce di casa, scrutano i movimenti delle sue dita mentre batte a computer articoli, inchieste sulle loro urla, sul loro sangue e sugli aridi silenzi di chi, da sempre, se ne sciacqua le mani. L’orrore è un fiele torbido che ti scava nel midollo, è il gelo che ti ottura i polmoni, che ti inchioda il cuore: tremi, ma in realtà il caldo è insopportabile perché tu e altre mille paia di occhi uguali ai tuoi siete stipati nella palestra di una scuola pubblica. O immersi nel gas nervino dentro il salone di un teatro alla periferia di Mosca. Basta. È un tranquillo sabato pomeriggio e Anna non ha il potere di cancellare quello che è stato. A casa i bambini l’aspettano, pulcini in un nido ovattato che lei vizia e ama dell’antico, congenito amore di nonna. Mentalmente, ripassa le voci della spesa: sapone neutro; pannolini; omogeneizzati; latte. Latte... Da quel primo di settembre, Anna suda freddo all’idea del latte. È il seno di una giovane donna, quello che prende forme morbide nelle sue pupille, quando legge ‘latte’ sulle confezioni nei supermercati. Ed è una donna bellissima, la sua pelle riluce d’avorio, come quella di tutte le mamme russe quando

allattano i loro pupi biondi e paffuti. La sua storia, però, è diversa, e il suo cuore è ancora più grande e più puro dei suoi seni gonfi. Nella palestra i suoi alunni non sanno cosa accade nel buio, quelle chiazze grumose sulle casacche rosa e azzurre sono marmellata di lamponi, l’ha detto lei, la maestra. Un bambino non dovrebbe mai scoprire che aspetto ha la carne maciullata del suo compagno di scuola, ‘nitroglicerina’ è una parola difficile, meglio lasciarla in bocca ad attori corpulenti e femmes fatales, sul maxi-schermo. Ma questa nitroglicerina a un certo punto esplode: la decisione l’ha presa un signore alto, con un fucile, un copricapo strano e la barba lunga. Tuona contro tutti ordini furiosi e agita una specie di telecomando: questo sembra spaventare un poco i suoi ‘fratelli’, bambini anche loro, ma cresciuti tra rovi e bombe artigianali. Il pretesto è l’estremo atto di coraggio di una maestra generosa, che ha cercato di sedare, con il proprio latte, un millesimo della sete di mille angeli scaraventati in un abisso raccapricciante. Quella sete, per loro, è merce di scambio. Il contraente è il corpo di militari. Uomini di valore, impavidi, energici. Nessuno scrupolo a sparare, l’importante non è il bersaglio, ma l’impressione sul nemico. Fare fuoco sui civili, ragazzini di dieci anni e giovani maestrine, non è poi un gran problema, quel che conta è obbedire agli ordini. Anna da tempo non ha più i seni gonfi di latte, ma ha un cuore ugualmente grande, una tempra d’acciaio e la prudenza di raccontare tutto. Ascolta, come ha sempre fatto, il lamento del sopravvissuto: non si scompone. Ma dentro muore, perché quel settembre, in volo verso Beslan, un tè dal sapore anomalo le ha negato la possibilità di intervenire per mediare con i terroristi. All’ospedale, qualcuno ha detto veleno, ma il referto si è accidentalmente perduto tra varie carte. Nessun testimone: caso chiuso. Pazienza. Anna ignora il dolore e non si dà pace, ma è stanca. Non impaurita, non scoraggiata. Stanca. È una giornalista, non un giudice, né un magistrato: racconta i fatti, così come sono. Ma i fatti, in Russia, sono parole pericolose, perciò i giornali ora puntano il dito: Politkowskaja pazza, schizofrenica, paranoica. Le minacce sono routine, scomoda ogni sua pubblicazione: “perché hai detto cose false?” “come hai avuto queste informazioni?”. O sei per le verità preconfezionate, per il silenzio ben retribuito, o sei contro la Russia. E se sei contro la Russia, la carriera di giornalista non è adatta a te: vattene altrove. L’integrità è una virtù importuna, il disgusto per la crudeltà è un’occasione per scatenar-

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SPECIALE la. Anna lo sa, e rischia, incurante delle diffamazioni, delle losche ombre che avverte a ogni passo: da venti anni arriva dove gli altri si bloccano, apre porte che qualcuno ha blindato, in nome di un Paese che le volta le spalle. Questo sabato sera, però, Anna vuole adeguarsi: seguirà i consigli di Vera, che desidera che i suoi figli conoscano le premure di una nonna attenta. Per qualche ora non vuole pensare se non alle fiabe, al camino, alla festa. L’ultima inchiesta sulla Cecenia è pronta, i fascicoli ben impilati sulla scrivania, il dovere, come sempre, svolto con la dedizione di chi, le mani, se le sporca. Cerca le chiavi dietro le grandi lenti tonde, i passi echeggiano nell’atrio silenzioso. Un giocattolo di gomma trilla buffo, quando appoggia per terra i sacchi della spesa. Aspetta l’ascensore, pregustando l’inattesa fortuna di questo pomeriggio di tenerezza, e la sua bocca si apre in un sorriso luminoso. La porta scorre. Una sagoma nera, un volto senza occhi. Il soffitto precipita. Sapore di sangue, schizzi rossi sullo specchio. Una canna fumante e l’odore penetrante della polvere da sparo.

NONÒ di Marta Arnaldi Nota. Questa storia parla Quello che non ho differenza, a causa sogna e ciò che si

“Là su salendo ritrovar potrai” Ludovico Ariosto di desideri falsi e di desideri veri. è la molla che scatta per questa dello scarto, cioè, tra ciò che si pensa di aver perso.

Quello, quasi lo suggerisce il nome, era un tipo tranquillo, si sarebbe detto insipido e finanche un po’ flemmatico, anche se, occorrerebbe precisarlo, di una lentezza affannata e irrequieta, una specie di calma fredda e come di ghiaccio, facile al dissolvimento e al passaggio di stato: dalla placidità alla premura e viceversa, senza zuffe particolari. In generale, Quello amava sognare la vita, ma purtroppo, la vita, se la vedeva passare davanti agli occhi - come la giostra dei cavalli, o le urla dei bambini, o le giornate di sole - perché nel frattempo gli succedevano sempre altre cose, di sicuro più pratiche e più stringenti. Ad esempio, la mattina, appena sveglio, se serviva sbrinava i vetri dell’automobile, prima ancora di fare colazione, per godersela di più; poi, dopo essersi vagamente pettinato, si infilava la camicia e usciva di casa, pronto a sferzare nuovi attacchi (o a resistervi); di sera, infine, si cucinava la pastasciutta davanti al computer, o il risotto allo zafferano. Insomma, vivendo in quel modo, da ragazzo a posto e da persona per bene, trovava sempre qualcosa da sapere o qualcos’altro da fare. Ad un certo punto, addirittura, si accorse di intendersene davvero parecchio di diritti e di doveri (degli uomini): i doveri, in particolare, li aveva imparati tutti, essendoglisi presentati uno ad uno, dal primo

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Carlotta Vacchelli - Prima classificata

all’ultimo, in processione e a capo chino. Scherzi a parte, Quello era uno che le cose le sapeva veramente, se non altro perché le aveva vagliate tutte con cura (l’università, il lavoro, l’amore), le aveva immaginate qualche volta (specie quando era andato in vacanza e aveva potuto leggere i libri), e, in ogni caso, se mai non fosse riuscito a figurarsele tutte, gliele aveva mostrate il televisore. C’erano tempi, però, di silenzio, in cui si acquietava anche la brina, durante i quali Quello smetteva di pensare ai mesi in cui era stato felice, e ai sorrisi perduti. In quelle pause, sia che fosse chiaro sia che fosse notte, accadeva persino che la pioggia cessasse (sempre che facesse brutto) e che la vita gli apparisse in sogno, sui suoi cavalli. Ovviamente, quella vita sognata era cosa ben diversa dalla vita vissuta e dalla vita che aveva, o che non aveva, o che non aveva avuto, sicché altrimenti Quello si sarebbe trovato a sognare la realtà, il che, stando almeno all’ultimo post-it appiccicato sopra la scrivania, era logicamente impossibile. «Sogno elide realtà. Realtà scaccia sogno», rimuginava un giorno, tra la salvia del giardino, sotto la luce grigia. Quella volta, guardandosi intorno, mentre vedeva gli uccelli di novembre volare più bassi e perdere quota - uccelli più gonfi e più grevi rispetto agli estivi, con teste piene e ali un po’ tristi - mentre quegli uccelli si fermavano sulla terra rossa - chissà da quale freddo si erano staccati, da quale gerbido, da quale brina - Quello puntava i costoni di roccia sbucciati dall’ombra, ginocchia d’anziano, giù lungo il fiume, vicino al canneto ondoso, dove la pietra pregava e dove, senza spiegazione, nasceva e cresceva l’odore del mare (e più il mare amava il suo delta, più l’odore saliva). Quella volta, intanto che sciabordava l’acqua fresca della vita, libera e immune, lui capiva che la salvia non aveva luce grigia, né poteva averla: la salvia grigia, piuttosto, era già luce di mare, luce non più terrestre, luce di un tempo speso in cielo.


SPECIALE Con le nuvole. Quel giorno capiva che le cose potevano essere guardate (oddio: dovevano essere guardate) da un’altra parte, anzi, da tutt’altra parte, come da un altro mattino: bastava soltanto che la paura, galeotta eterna, megera infernale, finalmente esaurisse le sue gocce maledette, gocce peste, gocce di tenebra, nebbiose pozioni. In un certo senso, bastava che smettesse di piovere. Bastava che quel dannato rubinetto morisse di sete, una buona volta, nelle arsure e nel bruciore, sotto il sole di Liguria, il sole steso. In breve, senza quell’inutile incantamento e fuori dai pericoli di quella moralista sconcia, di certo Quello sarebbe parso meno tranquillo, meno sconnesso e meno piccoso - nonostante gli occhi presi dagli scogli e dal dirupo leggero...il vento. Sì, perché senza paura, senza mani di tenaglia appiccicose e ingiallite, Quello avrebbe sganciato il suo altèro attacco alla vita: abbrancato il sogno - perché un unico, grande sogno aveva - dopo aver ingranato anche il più offuscato e il più spigoloso dei sillogismi, avrebbe attaccato le danze, avrebbe orecchiato le sinfonie della vita, avrebbe detto a Nonò «amore mio, vieni con me», ché «quello che mi manca non ce l’ho ancora», ché «quello che mi manca sei tu». Nonò, occhi d’ambra, era perfetta, e per di più era anche gentile. La sua gentilezza, tuttavia, similmente alla lentezza di Quello, era strana e bifronte: infatti, se da un lato la faceva raggiare e splendere come il mattino, un mattino senza doveri, dall’altro lato la metteva in gabbia e in guardia, nella prigione dell’approvazione e delle apprensioni, dentro celle sudicie e malsane, senza perdono. Così, per un assurdo meccanismo di potere, per un inghippo sciocco della macchina, mentre il mondo godeva della sua mitezza, lei non arrivava al suo buon cuore; mentre la gente cercava il suo sorriso, lei non spiegava la sua infelicità; mentre tutti riconoscevano la sua cortesia, lei si convinceva di non essere umana, di non saper abbracciare la sofferenza, di non aver dato i suoi frutti. Vanamente, passava il tempo ad ascoltare quella sua balbuzie impietosa e cruda - esasperato mormorio delle guardie che parlottavano tra denti e sigarette, o inesprimibile fraseggio del bosco oltre le feritoie? - mentre tra le mani le scoppiavano bombe di verità, bombe in prigione: se tutti la volevano, se era ciò che non avevano, e se lei non era lei, allora era lei che si mancava, era lei che non si aveva. Nonò non aveva se stessa. Come un fiore esposto a tutti e senza riparo. Fiore, che doveva toccarsi. Fu così che iniziò la sua avventura (l’avventura di sé), la ricerca di ciò che non aveva (la ricerca dell’altro da sé), la caccia all’amore che creava e all’amore che aveva creato le sue mani, meraviglia infinita, mani di fiore. Nonò, tramortita dal ritmo della pioggia e del sole, della luce e dell’ombra, continuamente si seguiva e si cercava, ma ogni giorno e ogni notte, anziché ritrovarsi, si perdeva di nuovo, nelle punte di luce, negli scarti di cielo, nel buio e nel fuoco, nella pelle, negli occhi, dove venivano il pianto e l’amore, e dove, se scendeva la grazia, non si poteva che piangere o amare. Davanti al cielo, Nonò non aveva più nulla. Quello Non mi aspettavo di prendere questo caffè con te oggi. Nonò Neanch’io. C’era un bel blu intorno a loro, nel bar e sotto i tavolini, un blu che si perdeva in sabbia e vento. Quello Scusa, ci porteresti dell’acqua per favore? Il cameriere, che era rimasto a guardarli da un pezzo,

prese la bottiglia senza allontanarsi dal dehors, tirandola fuori dal mobile esterno, dai ripiani più bassi. Era davvero troppo tempo che a Riva non si vedeva una ragazza così bella. Il sorriso le partiva dagli occhi. Sorseggiarono di gusto e nel sole, da due bicchieri sbeccati e densissimi che sembravano legno di botte. Nonò Quest’acqua sa di vino. La sua voce veniva dal silenzio, dal pietrisco che scricchiolava, dai passi del gambero, dalle conchiglie tartassate, dai piedi. Calava a picco, di novembre, scoscesa, nell’ora tiepida e più chiara del mare.

Marta Arnaldi - Seconda classificata

A PIEDI NUDI di Marco Oliverio La sveglia era suonata alle sette come tutte le mattine, Ivan doveva alzarsi; era il giorno dell'esame. Si svegliò ancora intorpidito che tremava per il freddo, si lavò e si vestì macchinalmente, dopodiché prese il caffè e scambiò due parole da automa con la madre. Salì la rampa di scale che portava in camera sua e si diresse verso l'angolo in cui teneva le scarpe, dietro il letto. Quando vide che queste non erano al solito posto, rimase fermo come intontito; dopo un minuto d'orologio, resosi conto che effettivamente le scarpe non c'erano, si riprese dal torpore e incominciò a cercarle per tutta la stanza rabbiosamente, spostando il letto, la sedia e il mobilio. Le scarpe non c'erano e la stanza era stata messa a soqquadro. Ivan scese le scale imprecando per l'inattesa perdita di tempo; quello destinato a prepararsi era contato al minuto e non c'era il minimo margine d'errore perché aveva ottimizzato il tutto per dormire più a lungo possibile. La madre era uscita di casa per andare al lavoro e aveva appiccicato un post-it giallo sul frigorifero: "Ti ho lasciato la pasta da scaldare per pranzo", Ivan lo lesse dopodiché ebbe un gesto di stizza per aver perso altro prezioso tempo inutilmente. Si mise a cercare nella scarpiera, aprì i cassettoni in fretta e furia, ma rimase di stucco quando vide

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SPECIALE che tutti e tre gli scompartimenti erano vuoti. Ora, non solo non aveva trovato il paio di scarpe che cercava, ma erano sparite anche le altre paia, almeno quattro, di cui due estive. Era Dicembre inoltrato, ma Ivan avrebbe senz'altro messo su le scarpe estive se solo le avesse trovate. Si girò di scatto e guardò l'orologio appeso alla parete: non c'era più tempo, se voleva arrivare in tempo per l'esame, avrebbe dovuto uscire così scalzo com'era. L'alternativa era di starsene a casa e non dare l'esame, ma Ivan, che aveva studiato diligentemente, non volle nemmeno pensarci. Guardò le calze bianche di spugna ai suoi piedi, si fece forza e uscì di casa: "E' possibile che non si accorgano di uno scalzo? In fondo le scarpe sono l'ultima cosa a cui uno fa caso" pensò, mentre camminava sulla ghiaia del cortile. I sassolini erano pungenti e si attaccavano alle calze, Ivan saltellò sulle punte finché arrivò alla strada. L'asfalto era freddo e ruvido al tatto, dalla casa alla fermata del bus c'era circa mezzo chilometro di distanza. Svoltato l'angolo, vide la vicina di casa, un'anziana signora con la pelliccia, che camminava in direzione opposta alla sua: "Ecco, ci sono, adesso vedremo se si accorge..." pensava mentre si accingeva a salutare. - Salve Pina - disse Ivan nervosamente. - Ciao Ivan rispose la vecchia senza neanche sforzarsi di sorridere. "Non se ne è accorta, non ha guardato in basso, non ha fatto facce strane..." pensò sorridendo. Aveva appena cominciato a prendere fiducia, quando ad un tratto sentì di aver schiacciato qualcosa di caldo e molliccio con la pianta del piede destro; s'arrestò di colpo, guardò sotto e vi trovò una grossa cacca di cane fumante. Stranamente non si scompose più di tanto: lanciò un'occhiata intorno, vide che non c'era nessuno, si sfilò la calza sporca e la gettò via. Appoggiò il piede nudo al suolo: l'asfalto era gelido e lercio. Finalmente arrivò alla fermata del bus, gremita di gente, e non dovette attendere molto prima che passasse il pullman. Ivan cercava di starsene appiccicato alla folla il più possibile, affinché non si vedesse che era scalzo. Durante i quindici minuti di tragitto del bus aveva esaminato più lucidamente la situazione: avrebbe potuto acquistare un paio di scarpe, ma non c'erano negozi di calzature lungo la strada, e deviando avrebbe senz'altro fatto tardi all'esame. A dire il vero, si insinuò in lui anche un'altra idea: avrebbe potuto rubare le scarpe a qualcuno con il suo stesso numero, avvicinando e aggredendo un passante con un pretesto qualsiasi. Scartò anche quest'ultima idea: non aveva voglia di finire nei guai per un paio di scarpe. Quando scese dal bus, Ivan, si tolse anche l'altra calza perché non gli andava di tenere un piede scalzo e l'altro no; ora camminava a piedi nudi per la città verso l'Ateneo. Lungo la strada incrociò molte persone, ma erano tutte di fretta, troppo indaffarate per notare un uomo scalzo, e anche se lo avessero visto, probabilmente non gli avrebbero dato importanza; in città la gente è abituata alle stravaganze e alle stramberie dei suoi abitanti, erano indifferenti a tutto, si poteva dire che erano morti. Ivan camminava a testa bassa, speditamente, sopra il suolo sporco della città e i suoi piedi erano già neri. Entrò in Ateneo più morto che vivo, salì le scale ed entrò nell'aula dell'esame: questa conteneva circa un

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centinaio di posti, disposti in due blocchi, con al centro un lungo corridoio che arrivava fino alla cattedra del professore. Ivan cercò posto in una delle ultime file, ma non lo trovò poiché l'aula era già quasi occupata per intero; erano rimaste libere solo le prime due file. Fece un grosso respiro e, con il cuore che gli batteva all'impazzata, s'incamminò lungo quel corridoio che sembrava infinito. Era arrivato circa a metà del corridoio quando sentì una voce potente: - Lei, si fermi - disse il professore, un uomo grande e grosso con una lunga barba bianca. - Le sembra questo il modo di presentarsi a un esame universitario, a piedi scalzi? E' intollerabile una simile condotta in ambiente accademico, non siamo mica in una Moschea, sa? Aveva pronunciato queste parole scandendole per bene e facendole riecheggiare per tutta l'aula. Ivan si sentì immediatamente soffocare, le palpitazioni erano incontrollabili e si mischiavano con un irrefrenabile impulso a fuggire. Tutta l'aula osservava Ivan e i suoi piedi nudi, bianchi cadaverici. In cuor suo, il ragazzo, voleva rispondere al professore dicendogli che quel giorno non aveva trovato le scarpe, che aveva diritto a fare l'esame come tutti gli altri, che si era preparato molto per questo, e che dopotutto si trattava di un semplice paio di scarpe. Tuttavia per qualche lunghissimo secondo non riuscì a parlare, dopodiché disse finalmente qualcosa, ma strozzò la voce e questa uscì troppo bassa. Il professore ascoltò accigliato e sentenziò: - Comunque, non mi interessa. Lei oggi non può sostenere l'esame, se ne vada per favore. Ivan lo aveva ascoltato immobile, come pietrificato, si era sentito prima schiacciare e poi sprofondare. Con quel poco di lucidità rimasugli si decise ad andarsene, guadagnando metri verso l'uscita; il corridoio, se possibile, gli sembrava ancora più lungo di prima. Ad ogni passo veniva trafitto dagli sguardi dei suoi compagni, alcuni di questi li riconosceva: c'era chi lo scherniva, chi lo insultava, chi lo indicava, chi lo derideva, e infine vide una ragazza molto bella che lo guardava con gli occhi pieni di compassione. Quest'ultimo sguardo gli fece più male di tutti gli altri, il dolore era ormai insopportabile e si era trasformato in rabbia. - Perché mi offendete a tal punto? Tenetevele le vostre maledette scarpe, tenetevele pure! Io ci sputo sulle vostre belle scarpe! Se questo vi fa sentire migliori di me, allora umiliatemi avanti! Anzi, per farvi felici, mi tolgo anche i calzoni!- Nel togliersi i pantaloni, Ivan, inciampò e cadde all'indietro scatenando l'ilarità generale. Ivan si svegliò di soprassalto, turbato e con le lacrime agli occhi. Per prima cosa guardò il timer luminoso della radiosveglia; erano appena le 4 di mattina. Accese la luce e vide che le scarpe erano al loro posto, che le aveva ancora, e non gli erano mai sembrate così belle.


CON SCHIUMA? SIʼ GRAZIE

PAVIA

Un reportage al doppio malto dal “Mastro Birraio in Fiera” di Claudio Cesarano Inchiostro con indomito spirito giornalistico vi propone in questa pagina un reportage direttamente dal Mastro Birraio, la sagra pavese della birra artigianale. Ora, lo so lettore che ti starai chiedendo: “ma che razza di servizio ci fate a parlare della vostra serata di sbevazzo?”. Ma d'altronde se le case farmaceutiche organizzano le conferenze alle Bahamas e gli avvocati svuotano i minibar degli hotel di lusso fingendo aggiornamenti professionali, Inchiostro, da autentico crogiuolo di universitari squattrinati, potrà pure permettersi di far passare una bevogia per lavoro, no? E quindi tutti noi ad affrontare la sfida estrema (ciao, corrispondenti dalla Siria, ciao): scrivere un pezzo mentre svuotiamo boccali di birra. Certo, all'inizio sento un po' il dovere di tornare a scrivere un pezzo che possa chiamarsi giornalistico e quindi comincio con: “Dal 29 Novembre al 2 Dicembre, nella splendida cornice della Sala Esposizioni...” Un momento. Precisiamo. Se siete stati all'Autunno Pavese sappiate che le cose sono diverse. Niente pretenziosi movimenti ondulatori di calici o golfini annodati sulle spalle: tutti i pub di Pavia - dal Brigantino al San Tommaso, dal Pirata al Black Bull- e provincia si sono uniti per creare un unico grande e chiassoso locale. Videogiochi retrò e strappone (a.k.a. Discinte Ragazze Immagine) si susseguono senza soluzione di continuità mentre il cibo/spugna-per-l-alcool si ritaglia con onore il suo quartiere. Fortuna che, come in ogni impresa, abbiamo il nostro “Virgilio” - che di birre ne sa parecchio - a guidarci. Regola numero uno: “solo per oggi tollererò che prendiate le birre piccole perché almeno se ne provano di più”. Per prima cosa, infatti, bisogna sondare il terreno. Al momento della scelta, però, i principi del politically correct saltano: la birra si sceglie per provenienza ma non è nazionalismo. La birra si sceglie per il colore ma non è razzismo.“Beppe, che mi consigli?”, “Beppe ma se volessi una birra gustosa ma non pesante?”. Sono stato iniziato tardi (ma non troppo) al culto della birra: mi rammarico ad ammetterlo ma sono il tipo che la ama perché alcolica e fresca. Però ci provo a capire quali tipi possano piacermi in particolare. Immagino la birra sia cibo: per ora distinguo più gli odori che i sapori. La sorpresa è stata tempo fa, una blanche che odorava di fiori del camposanto: non un'esperienza allegra ma certo curiosa. Non sono l'unico, però. Anzi tra di noi c'è anche chi è astemio ma partecipa con piacere alla serata pur non avendo un bicchiere in mano: “non bevo birra, ma le assaggio sempre”. In fondo, vien da pensare, “Una Birra” è più una dichiarazione di intenti amichevoli che una bevanda. Si continua il giro. Faccio giusto in tempo ad apprezzare lo spirito imprenditoriale dei birrifici artigianali di questa parte del Ticino che la nostra attenzione è subito catturata dallo stand che ad ogni birra promette gadget (o gadjet per chi ci segue ed ha apprezzato il calendarietto dell'anno scorso): perché siamo comunque studenti e come tali di Giuseppe Enrico Battaglia veneriamo la parola “Gratis”. Ecco, parliamo di questo, di come la birra per un fuorisede che campa con le spese in comitiva sia l'emblema dello sfizio e di quel raro piacere che provi ogni tanto Approfitto del breve spazio concessomi quando sai che quella settimana hai in tasca abbastanza soldi per fare qualche precisazione. per ordinare un secondo bicchiere e continuare la serata (che In primis, è importante che la birra tanto casa è vicina e si va a piedi). Fioccano tra noi i racconti di sia ignorante: “La birra si beve, non si bevute esagerate e figuracce. Ognuno si classifica per il numero degusta”. Ci vogliono golate secche e di birre che regge. Alla fine il carnet della mia serata si compone decise. Per togliere la sete e spaccare di una rossa, una doppia malto ed una Weizen. Di quali siano boccali con brindisi che consolidano i migliori metodi di fermentazione mi/vi informerò un'altra volta amicizie. per stasera mi limito a complimentarmi col Comune di Pavia per Perché la birra cementi amicizie è prel'iniziativa ed informarvi che ogni serata è accompagnata dall'esto detto: [...] Continua sul nostro blog: sibizione di una band locale. Bene, pari e patta caro ordine dei http://inchiostro.unipv.it/ giornalisti: ora posso finire questo bicchiere?

MA LA BLANCHE NON E' COME LA WEISS

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SALUTE

FARMAGEDDON Vendere malattie per curare aziende di Camilla Rossini “Il mio sogno è fare farmaci per le persone sane” Henry Gadsden, direttore della Merck, alla rivista Fortune, 1976 Ci sono persone -medici- che curano la gente. Ci sono persone che producono farmaci con cui i medici curano la gente. E poi, ci sono delle aziende. Con bilanci, entrate, uscite, capillari sistemi pubblicitari, strategie di marketing. Problema: come può l’interesse economico coesistere con la disinteressata missione di debellare malattie e trovare cure? Come si può essere certi di chiudere l’anno in attivo, di lanciare sul mercato prodotti che l’utenza acquisti e che ripaghino i costosi studi di elaborazione? La soluzione c’è: si chiama mongering disease, espressione traducibile in italiano con “vendita di malattie”. Badate: di malattie, non di farmaci. Per chi pensa che certe operazioni diaboliche delle case farmaceutiche vadano annoverate tra le “dietrologie”, in mezzo alle scie chimiche e al mancato allunaggio, premetto che tutti i dati che riporterò sono tratti dal materiale di due corsi, entrambi tenuti dall’università di Milano-Bicocca. Negli anni ‘70 la soglia di normalità della pressione arteriosa era di 160/90. Negli anni ‘80-’90 il livello scendeva a 140/90, per poi attestarsi alla soglia attuale, di 120/80. Bene, si dirà, avranno avuto i loro motivi clinici. Ora, lo stesso fenomeno si registra in molti altri indici: dalla glicemia all’osteoporosi. Detto in poche parole, l’abbassamento della soglia equivale a una comunissima operazione di marketing: l’aumento del bacino d’utenza. Come le aziende di cosmetici che vendono creme anti-rughe prima alle donne anziane, poi alle adulte, poi alle ragazzine (per prevenire), infine -negli ultimi anni sempre più- agli uomini. Ma le strategie di aumento dei profitti non finiscono qui. A chiunque sarà capitato di imbattersi in giornate mondiali di questa o quella patologia, promosse da associazioni di malati, che invitano a esami preventivi e gratuiti, magari in piazza. Pare una nobile operazione, sennonché dietro moltissime giornate e associazioni è rintracciabile (ma non direttamente esplicitato) un finanziamento da parte di case farmaceutiche. Sta a noi diventare consapevoli informandoci: perché partecipare a queste giornate significa immettersi nella logica della pre-diagnosi. Qual è la differenza? La diagnosi è l’accertamento di uno stato di malattia sulla base di sintomi; la pre-diagnosi, invece, è l’individuazione di uno stato che forse potrebbe evolvere in patologia conclamata. Logicamente, in un caso del genere, si procederebbe con il monitoraggio periodico, in modo da intervenire in tempo con una cura. E invece no. Qui sta il mercato. Si interviene con terapie. Subito. E dov’è l’enorme vantaggio economico? Solo in questo: la definizione di pre-diagnosi non è limitabile. In altre parole, circa tutto ciò che viene prima di una diagnosi vi rientra. Come definire pre-burrascoso un placido mare di Sardegna in un giorno senza vento. Il secondo vantaggio, più subdolo, della pre-diagnosi, è quello che viene definito la “sindrome dell’iceberg”: considerando patologiche anche situazioni che non lo sono, da una parte si avrà un aumento di incidenza di determinate malattie, che giustifica quindi l’interesse della comunità farmacoscientifica e lo studio di altri nuovi farmaci; dall’altra, poiché tutti i “nuovi malati” sono, di fatto, sani, il farmaco prescritto risulterà avere un’efficacia senza precedenti, giustificandone l’ulteriore vendita.

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SALUTE

L’evento è promosso da A.L.I.Ce. Sul sito dell’associazione, figura tra i partner la Boheringer Ingelheim, una casa farmaceutica. Provare per credere.

Disgustati? Calma. Le strategie di mercato non conoscono remore. Spesso, allora, si inventa prima il farmaco, poi la malattia corrispondente. Un esempio, scatologico forse, ma efficace: la sindrome dell’intestino irritabile. Da fine anni ‘80 a fine anni ‘90 si riunisce a Roma un gruppo di influenti “opinion leaders”, per discutere i criteri della nuova patologia. Nel 2005 viene pubblicato su una rivista specializzata un articolo riguardo un farmaco che cura proprio la malattia definita dagli opinion leaders: il Tegaserod. Il farmaco è costoso e consente un’evacuazione in più ogni due settimane. Parte poi la campagna di sensibilizzazione: “Intestino irritabile: ne soffrono 20 persone su cento!”. Nel 2005 viene lanciata la “Settimana nazionale della stitichezza” dal 14 al 18 Novembre. Ne parlano il “Corriere della Sera”, l’Adnkronos, e altri organi di informazione non di settore. Viene attivato un numero verde per prenotare una visita gratuita durante questa “settimana”. Viene perfino distribuito un libretto illustrato: il “manuale dell’intestino pigro”. Il disturbo è diventato malattia. Questa storia finisce come molte altre: il 30 marzo 2007, il farmaco viene ritirato dal commercio in tutto il mondo, poiché aumenta il rischio di patologie cardiovascolari. Il dato più inquietante, però, è che di fatto l’”intestino irritabile” non è una malattia. E la campagna di “creazione” della sindrome lo dimostra chiaramente. Purtroppo, l’elenco di pseudomalattie è copiosissimo. Vi è mai capitato un bisogno irrefrenabile di muovere le gambe, alleviato dallo stiramento? Sì? Avete la sindrome delle gambe irrequiete: c’è un farmaco, il Requip, della Glaxo. Siete tristi? Depressione: psicofarmaci. Vostro figlio tossisce dopo una corsa, sillaba

mentre legge? Rispettivamente asma e dislessia; se associata a sindrome di deficit dell’attenzione, si cura con psicofarmaci. Arrossite in pubblico? Fobia sociale, si cura con Prozac e analoghi. Ma l’elenco non finisce qui: sono in ogni caso patologie la menopausa, la calvizie, la cellulite... Ci si potrebbe chiedere: ma non sono dei team di medici a decretare i criteri clinici delle nuove patologie? Sì, certo. Problema: nella commissione per la preipertensione, 11 membri su 12 ricevevano denaro dalle case farmaceutiche, e metà di loro ha dichiarato ampi legami con più di 10 ditte a testa. Per il diabete del secondo tipo, dei 12 membri della commissione, 11 avevano pesanti conflitti di interesse. Per la commissione “disturbi salute mentale”, il 56% dei membri della commissione aveva legami economici con le industrie. Nella sottocommissione dei disturbi dell’umore, la percentuale saliva al 100%. In una tale promiscuità di interessi (la cura che si contamina con la vendita), fatalmente non si può discernere quando l’attenzione delle commissioni per una patologia sia giustificato e quando mascheri, invece, un ritorno economico per le case farmaceutiche. Per concludere, uomini. Soffrite di un’imbarazzante eiaculazione precoce? Tranquilli, fatevi prescrivere il Priligy! Aumenta la prestazione addirittura del 300%! Peccato che nel fumoso foglio illustrativo la “prestazione” in questione sia definita inferiore ai due minuti. Fate voi il calcolo.

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INTRVISTA

“Alto come un vaso di gerani” Intervista a Giacomo Poretti, attore comico e scrittore esordiente di Simone Lo Giudice

Giacomo, all’anagrafe Giacomino. Basterebbe questo particolare per griffare una vita intera. C’è chi nasce nella città verticale (Milano) oppure nel paesino orizzontale (Villa Cortese). Il nostro intervistato è stato svezzato dal basso, per spiccare il volo verso l’alto solo in età lavorativa. La Villa Cortese degli Anni ’50 racconta la dignità operaia della realtà legnanese. Il tempo ciclico scandisce la vita del microcosmo campagnolo: le giornate passate in oratorio, la domenica iniziata con la messa, le serate spensierate nei bar. In quei momenti la città sembra un Paradiso remoto, il Luna Park delle emozioni sconosciute, un orizzonte che attrae e allo stesso tempo atterrisce. Ma se il paesino ci limita materialmente, vista da un’altra angolazione la privazione può rivelarsi una fortuna. Forse è stata proprio quella ciclicità noiosa, quella spensieratezza temporale a spingere Giacomino verso una passione performativa: il teatro. Comincia a recitare per divertimento, mentre abbandona gli studi da geometra per cominciare a lavorare in fabbrica. E con la maggiore età si cimenta pure come infermiere diventando, dieci anni più tardi, perfino caposala del reparto neurologico dell’ospedale di Legnano. Tenere a bada il cervello degli altri per non trascurare i propri sogni. Nel 1983 arriva il diploma presso la Scuola di Teatro a Busto Arsizio e con esso l’esordio sul palcoscenico: il nostro Giacomino calca le scene come Francesco Sforza, personaggio tratto dall’opera manzoniana “Il conte di Carmagnola”. Ma il lavoro spesso porta con sé anche l’amore: così, insieme alla fidanzata Marina Massironi (collaboratrice esterna del futuro trio “Aldo, Giovanni e Giacomo”), Giacomo dà vita al duo cabarettistico “Hansel e Strudel”. Ma di lì a poco arriverà l’incontro più importante: nei primi Anni ’90 Baglio-Storti-Poretti diventano Aldo-Giovanni-Giacomo, dando vita a un trio comico destinato a divertire intere generazioni. “Alto come un vaso di gerani” è il primo libro scritto da Giacomo Poretti, che da qualche tempo si sta misurando con la scrittura, una passione a lungo rimasta inespressa. In questa autobiografia ripercorre la sua storia: quella di una persona di bassa statura (con tutte le fortune che poi ne sono derivate in ambito lavorativo-comico), ma alta nel cuore. Con estrema sensibilità ripercorre le strade della sua infanzia, gremita da figure simboliche e costellate da piccoli riti. Un libro sulla famiglia che ci ha messo al mondo, ma anche su quella che ci siamo costruiti. Giacomo adesso è sposato con la regista teatrale Daniela Cristofori, dalla quale ha avuto il piccolo Emanuele: “Alto come un vaso di gerani” è dedicato a lui. Scrivere per rivivere è il leitmotiv di questo esodo personale, dalla fanciullezza paesana alla maturità cittadina. Con la constatazione che è meglio essere cresciuti nel luogo dell’incontro quotidiano (orizzontalità) prima di sbarcare nella metropoli della solitudine latente (verticalità). Giacomino è diventato Giacomo grazie al teatro, ma in cuor suo resterà sempre Giacomino: un nuovo milanese che non scorderà mai il legame con le origini legnanesi. Inchiostro lo ha intervistato mercoledì 21 novembre presso l’Aula Magna del Collegio Nuovo di Pavia, per parlare anche dell’ultimo spettacolo teatrale del Trio, andato in scena proprio al Teatro Fraschini nei primissimi giorni di questo dicembre. Il titolo “Ammutta muddica!” (che potremmo tradurre con “Spingi mollichina!” o meglio “Datti da fare!”) risuona dolcemente per chi come Giacomino è partito con poco per costruire molto. Un piccolo uomo diventato grande grazie alla sua sincera comicità.

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INTRVISTA Inchiostro – L’idea del titolo di questo libro: “Alto come un vaso di gerani”. Da dove nasce? Giacomo Poretti – Ma il titolo si rifà al passaggio di un racconto, che c’è nel libro. Quando io bambino vado in Polonia mi descrivo appunto alto come un vaso di gerani. Come battuta è piaciuta ai co-autori e così la hanno usata come titolo. Che cosa rappresenta la Madonnina? Soprattutto per una persona che è nata fuori Milano… Fino a qualche anno fa era il punto più alto della città. Adesso hanno costruito dei grattacieli che la superano. Però per secoli c’è stata addirittura una legge comunale, in base alla quale nessuna edificio poteva superarla in altezza. Rappresenta comunque il punto di riferimento di Milano. Passando al Trio: il rapporto con Aldo e Giovanni? Bello, bello… divertente soprattutto! Si lavora meglio se si è anche amici? Sì, beh sai aiuta sicuramente… E poi i rapporti sono più distesi, cordiali anche. “Ammutta muddica” è il titolo del vostro prossimo spettacolo teatrale. Andrete in scena proprio al Teatro Fraschini di Pavia tra l’altro. L’idea di base dello spettacolo? Da dove nasce?

Ma ci sono sketch, come in tutti gli altri spettacoli precedenti. Sono sei, sette situazioni molto diverse alla cui realizzazione stiamo lavorando ancora negli ultimi giorni. Vedremo uno spaccato di Italia, come si è già intravisto negli spettacoli del passato. Per rimanere in tematica teatrale, tu sei un grande tifoso interista. Andrea Stramaccioni, se fosse un registra teatrale, chi sarebbe? Sarebbe uno pieno di estro, di fantasia. Sarebbe uno Strehler del nostro teatro. Grazie Giacomo… A voi, grazie!

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SPORT

IL CALCIO SPAGNOLO IN CIMA AL MONDO Intervista a Roberto Beccantini, giornalista sportivo di Stefano Sette L’anno che sta per concludersi è stato ricco di avvenimenti calcistici, come lo Scudetto della Juventus senza sconfitte e il bis della Spagna al Campionato europeo. Inchiostro ha intervistato Roberto Beccantini, collaboratore de “La Gazzetta dello Sport”, “Il Fatto Quotidiano” e “Guerin Sportivo”, per fare una panoramica sul calcio italiano ed europeo. Inchiostro: Fiorentina e Inter si stanno rivelando le vere antagoniste della Juventus: che meriti hanno Montella e Stramaccioni? Roberto Beccantini: Non trascurerei il Napoli. Mazzarri è stato molto bravo a trasformare Cavani da seconda a prima punta, e da prima punta a centravanti micidiale e completo, totale. Montella ha 38 anni, Stramaccioni 36. I meriti sono indiscussi: non “solo”, “ma anche” (veltronianamente parlando) in rapporto all’età. Montella si era già segnalato nella Roma e, soprattutto, a Catania. Stramaccioni solo a livello giovanile. L’appoggio incondizionato delle rispettive società, e la bontà dei mercati estivi, ne hanno orientato il lavoro. Bravo Montella a inventarsi una Fiorentina nuova, votata al tocco, né arrembaggio né catenaccio. Bravo Stramaccioni a trovare equilibri che la qualità disordinata della rosa non rendeva automatici. Non a caso, pur di promuovere il tridente, ha abbandonato la difesa a quattro. Visti i risultati ottenuti finora, la Roma è stata troppo sopravvalutata in estate, oppure avrebbe potuto fare di più? La mia griglia estiva contemplava: 1) Juventus, 2) Napoli, 3) Inter, 4) Roma, 5) Milan. Sì, può essere che l’abbia sopravvalutata, o abbia sopravvalutato il contributo di Zeman, allenatore che continua a spaccare la critica. Troppo dogmatico per i miei gusti. Miglior attacco e peggior difesa, sempre: non può essere un caso. Il Manchester City, competitivo in Premier League alla pari del Manchester United, in Europa non è riuscito ad accedere agli ottavi di finale, perdendo anche contro l’Ajax. Come spiega questa difficoltà? Primo: l’Europa è tutta un’altra musica. Secondo: il calcio della Premier League sta attraversando un periodo di assestamento, di passaggio generazionale. Manchester City già fuori dalla Champions (e probabilmente persino dall’Europa League), Chelsea – campione uscente – quasi. Terzo: Roberto Mancini è stato

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un grande giocatore sottovalutato ma resta, per me, un normalissimo allenatore sopravvalutato. Il 2012 è stato l’anno del calcio spagnolo, con le vittorie dell’Atletico Madrid in Europa League – contro l’Athletic Bilbao – e in Supercoppa Europea, e della Spagna all’Europeo; alla faccia di chi dice che, tolte Barcellona e Real Madrid, è poca cosa. Non solo il 2012, direi. Il calcio spagnolo e il calcio del campionato spagnolo – da non confondere – sono, oggi, in cima al mondo. Proprio l’ex Coppa UEFA fornisce il livello medio di un movimento, più e meglio della Champions League, che ne fotografa il vertice, l’élite. Tanto per rendere l’idea: l’Italia non si aggiudica l’ex Coppa UEFA dal 1999 (Parma di Alberto Malesani) e l’ultima semifinalista risale al 2008 (Fiorentina). Gli iberici, viceversa, l’hanno vinta con il Valencia nel 2004, il Siviglia (due volte consecutive: 2006, 2007) e l’Atletico Madrid (due volte: 2010, 2012). Traduzione: non è che nella Liga siano troppo scarse le “altre”, sono troppo forti Real e Barcellona. Il quale Barça è un inno al vivaio, come confermano gli undici su undici della Masìa schierati contro il Levante domenica 25 novembre. Come vede in prospettiva il calcio tedesco? Cosa gli manca per tornare a vincere in Europa? I tedeschi del calcio, a scuola, sarebbero dei gran secchioni. Sempre o quasi sul podio, sempre piazzati, sempre promossi – penso soprattutto alla Nazionale. La Germania è la rappresentativa che, a livello mondiale, ha disputato più finali per il primo o terzo posto: segno di continuità, di tradizione, di alto profitto medio. Passando alle squadre di club, la Bundesliga si è portata avanti con il lavoro: stadi moderni, affluenze record, bilanci floridi, diciotto squadre e non venti come in Francia, Inghilterra, Italia e Spagna. L’equilibrio domestico ha portato nel tempo a un ritorno di competitività anche in Europa. I conti in ordine sono, paradossalmente, la forza e il limite della nuova Germania; limite, fino almeno all’entrata in vigore e a pieno regime, del fair play finanziario voluto da Michel Platini. Credo che ai tedeschi, i quali non possono o non vogliono permettersi un Messi o un Cristiano Ronaldo, manchi una vena di eresia tattica – vena che riscontro, per esempio, più nelle bollicine del Borussia Dortmund che nella coralità del Bayern.


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“Caro Babbo Natale” L’uomo anziano entra stanco nella stanza. Si toglie giacca e cappello, e si sdraia su un comodo divano. «Non manca molto: Natale è alle porte. Ma senza qualcuno che vada ad aprire, avrò fatto tanta strada per nulla. Sinceramente non sono sicuro di arrivare, quest’anno. Tra antiche profezie sudamericane e moderno disincanto occidentale, quasi quasi me ne sto qui. Non sono più il vecchio arzillo ritratto sulle bocce di Cola. Ormai sono depresso, a tratti paranoico. Sono arrivato a riempire la casa di specchi perché se non mi vedo non ci credo più nemmeno io. La cosa che però mi perplime maggiormente è vedere come sempre più gente abbia smesso di darmi credito – in nome di età adulta e razionalità – pur senza rinunciare all’oroscopo quotidiano. La crisi, poi… Il “caro Babbo Natale” assume tutto un altro significato. Sono dovuto arrivare a farmi pagare l’uscita. Per quelle poche notti al lustro in cui esco. Oggidì quando i bambini pensano alle letterine non hanno in mente carta e penna ma petti e cosce. Anche perché non serve più “fare i bravi” per conquistare doni sognati durante il resto dell’anno, portati da me. Basta fare le frigne senza aspettare il 25 dicembre per ottenere qualsiasi cosa da genitori sempre più etimologici e sempre meno educatori. La vecchina del 6 gennaio non sta messa meglio: dopo anni di viaggi notturni con le calzature disfatte, i malanni si sono fatti sentire. Anche lei ora viaggia su poltrona semovente badante motorizzata. E le feste? Se le porta via direttamente Equitalia, con largo anticipo. Mentre invece i suoi colleghi monarchi, nonostante la pluriennale esperienza nel campo astrologico, trovano più comodo portare oro, incenso e gommaresina aromatica in Palestina seguendo le scie di aerei e razzi, non più la cometa.» Un altro uomo prende appunti, seduto a una scrivania fuori dalla vista dell’anziano. «E non le ho ancora parlato delle cose brutte, dottore. Una volta ero praticamente l’unico ad essere “globale” e connesso a tutto il mondo, per ovvie ragioni lavorative. Ora che grazie a Steve Jobs e alla tecnologia lo sono anche i miei aiutanti elfi, non stanno tranquilli un attimo. Dicono che vogliono più sicurezza sul lavoro, più tutela, vogliono dei sindacati. Certo, non è proprio come si racconta: non lavorano solo una notte all’anno, ma li ho sempre trattati come servi, mica come schiavi. Non hanno neanche le catene – infatti quando escono dal laboratorio, sa che scivoloni sulla neve! OH-OH-OH!» L’uomo alla scrivania prende altri appunti, sospirando. «E gli animalisti. Non le dico. Pretendono che io lasci liberi le mie amatissime renne. Ma dove vuole che vadano, a Bassano del Grappa – sì, niente Lapponia o Polo Nord, abito proprio lì (e chissà, se sapessero che sto in provincia di Vicenza). Ma scusi, poi chi me la traina, la slitta? Cosa faccio, monto l’impianto GPL sotto lo chassis in legno, che al primo guasto mi prende fuoco tutto? E lì altri problemi, coi verdi. No, non “quei” verdi – ho già spiegato in una lettera al partito che non sono né la reincarnazione di Carlo Marx né un immigrato. Mi pare abbiano capito, se non altro hanno smesso di scrivermi “barbùn” nei commenti del mio blog.» Non c’è altro? La seduta di oggi è quasi terminata... «Guardi, tra tutte le peggio cose di questa epoca delle quali non abbiamo tempo oggi di parlare, solo di una cosa supplicherei l’Italia. Nessuno vi obbliga a fare il presepe, né tantomeno ad addobbare l’albero, ci mancherebbe. Ma per piacere evitate pure di appendere quella cacata di mia copia con tanto di scaletta ai vostri balconi e alle vostre finestre. Vi scongiuro.» Bene. Per oggi abbiamo finito. Ah, signor Natale: quest’anno si riposi. Scelga un posto lontano e si faccia una bella vacanza, ne ha bisogno. Accetti il consiglio. Sono 250 €. «Come ogni seduta, str*nzo...» Come dice, prego? «Ehm, volevo dire: “Auguri anche a lei e buone feste!” Sa, il classico lapsus...!» Certo, come quello della volta scorsa. Auguri anche a lei.

di Stefano Sfondrini 24 INCHIOSTRO DICEMBRE 2012


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