Inchiostro n°148 – Giugno 2016

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Giugno/Luglio 2016 N.148

Il giornale degli studenti dell’Università di Pavia

INTERVISTA A MANFREDI RIZZA Olimpiadi 2016

SABATO TI TENGO IL TAVOLO... IN BIBLIOTECA Regole fondamentali

ER IST WIEDER DA Non si parla di moralismo. Il moralismo non esiste.

Leggere “Inchiostro” può creare dipendenza. Se ne consiglia pertanto la lettura a tutti, studenti universitari compresi. Seguici anche su Facebook, Twitter e Instagram.


INCHIOSTRO -SINCE 1995-

IN QUESTO

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Inchiostro, anno XXI, # 148, giugno/luglio 2016 è un’iniziativa realizzata con il contributo concesso dalla Commissione Permanente Studenti dell’Università di Pavia nell’ambito del programma per la promozione delle attività culturali e ricreative degli studenti.

di S. Lo Giudice e L. Tantillo

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Un pò di qua e un pò di là

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10 Fondi ACERSAT 2016: 6916€ Registrazione n. 481 del Registro della Stampa Periodica Autorizzazione del Tribunale di Pavia del 13 febbraio 1998 Sede legale: via Mentana, 4 - 27100 Pavia

Direttore responsabile: Simone Lo Giudice Direttore editoriale: Matteo Camenzind Direttore web: Giorgio Di Misa Caporedattori: Lorenzo Giardina, Barbara Palla Redazione: Claudia Agrestino, Antonio Elio Caroli, Tony Emmanuello, Riccardo Foti, Valentina Fraire, Sofia Frigerio, Federico Mario Galli, Sandra Innamorato, Lisa Martini, Federica Mastroforti, Ludovica Petracca, Eleonora Puma, Roberta Rocca, Andrea Zefferini, Edoardo Depaoli, Ettore Pasquinucci, Gabriele Citro Grafica e impaginazione: Valerio Marco Ciampi, Marina Girgis, Danny Raimondi

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Correttori di bozze: Silvia Bernuzzi, Lorenzo Giardina, Barbara Palla, Ludovica Petracca, Andrea Zefferini

Info? Chiama il 392 78 01 603 oppure scrivi a inchiostropavia@gmail.com

I sogni nella valigia 2 di Eliodoro

Sabato ti tengo il tavolo... di Lady V

Sfogati sfigato

di Rossella Cosciabella

Titanic 2K16 di @writingchloe

Lessico dalla prima repubblica Er ist wieder da

di Claus Schenk von Stauffenberg

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Nel mezzo del cammin di un bicchiere mezzo

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Invito in paradiso

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Cazzo ho detto “C@&!*”

18 Mandato in stampa il 6 Luglio 2016 presso l’Industria Grafica Pavese s.a.s. - 27100 Pavia

di Barbara Palla

di un anonimo ed alacre funzionario

Collaboratori di redazione: Ignazio Borgonovo, Elisa Enrile, Niki Figus, Giorgia Ghersi, Oriana Grasso, Elisabetta Gri, Sara Valdati Gestione social network: Lionella Danque, Marina Girgis

Intervista a M. Rizza

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di CM Cuahtèmoc di Panamaribo di OneGi

LSD - Etgar Keret di Sofia Frigerio


INTERVISTA

L’intervista a Manfredi Rizza, un universitario alle Olimpiadi di Rio di Simone Lo Giudice e Luca Tantillo Universitario pavese venticinquenne e rappresentante del Kayak italiano, nonché primo ad andare alle Olimpiadi con i colori della “Canottieri Ticino”, è una vecchia conoscenza per noi di «Inchiostro» La vita, si dice, è la somma di tanti tasselli, come tante tessere di un puzzle che, una dopo l’altra, costruiscono l’intero percorso. La vita di «Inchiostro» è composta anch’essa di tanti tasselli, tanti numeri uno dopo l’altro, con le difficoltà e le emozioni di ogni uscita: e parte di questa vita l’abbiamo passata insieme. In quest’ultimo anno, «Inchiostro» ha vissuto una serie di esperienze che lasceranno il segno nella Redazione e, penso, nei lettori. La Redazione è l’esempio della ricchezza delle pluralità che s’incontrano, si confrontano, si rispettano. E, grazie alla giovane Redazione che sta credendo sempre e ancora di più nell’associazione e grazie al team coordinativo di cui sono orgoglioso di aver fatto parte, «Inchiostro» in quest’ultimo anno accademico ha offerto una serie di certezze e di novità, a partire dal Concorso letterario di ottobre sino ad arrivare al rilancio del Concorso fotografico di maggio, senza dimenticare i numeri cartacei mensili e bimestrali e all’attività (intensificatasi più che notevolmente) giornaliera sul web. Non voglio dimenticare la nascita di «Birdmen», l’allegato straordinario di cinema, tv e teatro, che si è rivelato essere una delle migliori iniziative dell’anno (preparatevi per il numero-bomba di quest’autunno!). E che dire del nuovo, fantastico logo, e della veste grafica snellita e ringiovanita? Dopo quasi due anni di dirigenza sento che è il momento di congedarmi, penso sia anche corretto, e so che posso lasciare «Inchiostro» in ottime mani: quelle dei caporedattori in primis e dei redattori, dei grafici, degli addetti web, dei responsabili social network, degli stagisti, e chi più ne ha più ne metta. A settembre ricomincerà la realtà universitaria, e «Inchiostro» sarà nuovamente con voi, nell’etere e sulla carta, con tanti progetti (come il Concorso letterario in quarta di copertina) e novità, tra cui alcune attività ancora più coinvolgenti per gli studenti dell’Università di Pavia. Buona fine sessione e buon’estate a tutti! M. C.

Lo intervistammo nel novembre del 2012, dopo la mancata qualificazione alle Olimpiadi per 9 decimi di secondo («Non ero ancora pronto», ammette lo stesso Manfredi). Oggi la rivincita, con la qualificazione a Rio e un cambio anche nel look... Beh, cominciamo da questo taglio di capelli: ha a che fare con una scommessa? Sì, è stata una scommessa fatta tra me e il K2 200, dovevo rasarmi in caso di qualificazione olimpica. Mi è toccato farlo, ma non è né vinta né persa, perché se da un lato ho “perso”, sono comunque decisamente contento di aver pagato questa scommessa. Poco ma sicuro! Questo è certamente il punto più alto della tua carriera: quando e come è cominciata? La prima volta che sono salito su una canoa avevo 9 anni. Fu mio padre a trasmettermi la passione, lui faceva canoa e canottaggio al CUS Palermo: una volta che ci siamo trasferiti a Pavia (prima abitavano a San Genesio, n.d.r.) ha riscoperto questo amore e mi ha “trascinato” con lui. Mi affezionai subito all’ambiente, anche grazie all’allenatore di allora, Antonio Mortara, che era sempre molto presente e dinamico nonostante la sua età.

tanta voglia di lavorare... Infatti anni fa ci raccontavi dei tuoi “casini” in allenamento per divertirti, lo fai ancora? Naturalmente negli anni la serietà è aumentata, quindi è un po’ che non faccio più certe cose («si diletta a fare gare di velocità in palestra tenendosi in equilibrio su dei bilancieri, oppure gioca a calcio con la palla medica», «Inchiostro» del Novembre 2012) anche se l’idea di atleta “serio” non è mai stata cosa mia. Mi piace ancora andare in palestra a fare casino o saltare gli allenamenti. Una sorta di genio e sregolatezza... In realtà di genio c’è ben poco, la mia fortuna è stata avere un allenatore e dei compagni di squadra validissimi, ovvero i membri della Nazionale dei 200 metri, con cui mi alleno da tre anni. In più grazie a mia madre che fa il medico ho conosciuto fisioterapisti di alto livello, quindi io ho “solo” dovuto impegnarmi un minimo. Sembra che io mi prenda poco sul serio, ma il fatto è che vedo una distanza incolmabile tra gli sportivi attuali e i vecchi atleti che avevano anche peso politico e sociale, come Dennis Rodman o Muhammad Alì. I grandi campioni di oggi,

E come ha reagito alla notizia della tua qualificazione? Lui è sempre uno molto “freddo”, diciamo così, però era comunque contentissimo ed era anche visibilmente emozionato, visto che comunque mi conosce da quando sono un bambino. Mi ha sempre spronato tantissimo, perché a dirla tutta io non sono mai stato uno che aveva

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I FATTI INTERVISTA DEL 2016

Intervista a Manfredi Rizza di Lo Giudice e Tantillo

come Bolt o Phelps, fuori dallo sport cosa rappresentano? È per questo che io in giro dico semplicemente che sono uno studente: fatico ancora oggi a capire tutto questo interesse per me, continuo a vedermi come un ragazzo comune. In effetti c’è stato un po’ un cambio di mentalità, oggi con gli addetti stampa gli sportivi sono stati allontanati da altri ambiti. Sì, secondo me c’è anche la volontà degli atleti stessi: già è una “classe” particolare, se iniziassero a schierarsi anche politicamente sarebbe la fine. Io stesso mi sentirei a disagio a esprimere i miei pareri sulla politica, perché so di non avere quel tipo di preparazione. Ora tu sei una delle speranze italiane nel kayak, ma la tua prima passione fu il basket. Sì, lo seguo ancora oggi ed è sempre una mia piccola passione, anche perché anche questo è un sport “familiare”, poiché i miei due fratelli lo praticano. Sono cresciuto con i miti della NBA, però mi sembrava un mondo molto lontano. E quindi hai optato per il kayak: quali sono state le differenze nel passare dalla classe junior a senior? Beh, il livello junior era molto meno pesante ovviamente, io banalmente finita la scuola andavo ad allenarmi. A livello senior si parla di un impegno praticamente lavorativo, io alla “Canottieri” passo anche sei o sette ore al giorno, ma non c’è solo l’allenamento ad occuparmi la giornata: ho una scansione ben precisa della giornata. Magari mi alleno in modo intensivo per tre o quattro ore, poi però ci sono lo stretching e le attività di recupero.

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Qual è stata la tua prima vittoria? È stata col mio caro amico Luigi Vescovi nei Campionati italiani del 2006, quando eravamo nell’Under 16: nulla di eclatante, arrivammo secondi, ma lì capii che quella sarebbe stata la mia strada. Luigi mi ha fatto diventare più competitivo, mi ha fatto capire quanto è bello vincere. In realtà però sono state le sconfitte ad aver avuto più peso, hanno forgiato la mia voglia di vittoria.

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Quindi se dovessi fare un confronto tra il Manfredi dell’ultima intervista con noi ad oggi... C’è un abisso. Se penso che sono passati solo quattro anni, mi viene la pelle d’oca: se qualcuno mi avesse detto allora dove sarei arrivato oggi, avrei risposto che mentiva sapendo di mentire. Con dedica alla nonna. Ero molto legato a mia nonna materna, che era stata per un periodo a Rio, perciò mi disse scherzosamente

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che in caso di qualificazione sarebbe venuta lì con me. Purtroppo è venuta a mancare prima delle qualifiche. Mi è venuta spontanea quella dedica. Ti seguiva molto nello sport? Beh, quanto può seguirti una signora di ottant’anni (ride). Per esempio, io ho sempre avuto difficoltà nella partenza, dovendo poi fare ogni volta delle gare di rincorsa, e lei mi diceva «Ma perché non parti più forte?» (ride). Poco dopo hai anche vinto la prima gara in Coppa del Mondo con tanto di record italiano. Sì, la qualificazione alle Olimpiadi mi ha in qualche modo sbloccato, mi ha fatto capire di poter un giorno raggiungere i grandi campioni. Come ti aspetti il volo verso Rio, il villaggio olimpico e tutto il resto? Io non sono particolarmente sentimentale in queste cose, ma l’arrivo lì sarà sicuramente un’emozione: ho già vissuto il villaggio olimpico in altre occasioni ed è una sensazione unica. Ma sappiamo che oltre alle gare ti occupi anche di una web serie... Sì, K.A.Y.A.K., si può vedere su YouTube e sulla pagina Facebook Wild Duck entertainment. L’abbiamo creta con Giovanni Vescovi e Jacopo Albertoni, parla di una caricatura del canoista medio, Mike Masoni, che affronta per la prima volta le stesse difficoltà di tutti coloro che iniziano a praticare questo sport.

Beh, che altro dire se non in bocca al lupo, Manfredi!

BRENNERO

Un po' di qua e un po' di la’ i l B re n n e ro, S c h e n g e n e l e te r re i r re d e n te di Barbara Palla L’Europa assiste oggi attonita, e più o meno passiva, ad un fenomeno di progressiva crescita e attecchimento delle retoriche di destra, estrema destra. Un tuffo nel passato che nessun governo vorrebbe fare, e a giudicare da come è andata la scorsa volta, in tanti se lo risparmierebbero volentieri. Ciononostante ogni paese europeo sta facendo, oggi, i conti con le proprie frange estreme che credeva aver definitivamente allontanato dal potere, ma che sono invece rinvigorite dalle conseguenze sociali della crisi economico-finanziaria e dal recente flusso migratorio. Quest’ultimo si è rivelato essere la scusa perfetta per strumentalizzare l’altro, il diverso, per chiudersi e ritirarsi da un’Unione fiscalmente troppo pesante. Ma la questione dei migranti non porta solo alla chiusura dei confini, riapre anche vecchie ferite, vecchie contraddizioni tipiche delle zone di frontiera. Vienna era una delle tappe finali della rotta balcanica, che dalla Grecia risalivano al cuore dell’Europa, e infatti a inizio anno, il confine della Slovenia era stato definitivamente chiuso, scatenando poi una reazione a catena in senso contrario fino alla situazione che vive oggi a Idomeni. Di recente poi il Cancelliere Faymann, ha annunciato di voler chiudere anche il confine con l’Italia. Una mossa politica molto cara visto che gli è costata il posto, ma che aveva un senso se contestualizzata nella corsa alle presidenziali, il passaggio verso il secondo turno del candidato di estrema destra ha portato tutti a correre ai ripari e ad adottare anche delle misure in favore dell’elettorato di destra (Faymann è socialdemocratico) pur di arginare la presa mediatica e sociale del leader del FPÖ, Norbert Hofer. La chiusura del Brennero non è servita poi a molto dato che al ballottaggio il paese si è spaccato a metà, letteralmente a metà (quell’incubo statistico per cui anche gli exit-polls più coraggiosi si sono dovuti fermare per una mancanza di previsioni adeguate) tra il candidato Hofer e Van der Bellen, del partito ecologista. Una decisione dunque che in Austria ha avuto poca o nessuna eco, ma che in Italia è stata un fulmine a ciel sereno, una scintilla in un braciere sopito ma mai realmente spento, un colpo doppio al cuore di Schengen e dell’Alto Adige, o meglio del Sudtirolo. Normalmente, del Brennero ci si interessa al momento del-

la pianificazione del viaggio a Innsbruck nel periodo natalizio, per i più romantici, o per Monaco e la sua Oktoberfest, per i più coraggiosi. In Germania, il Allegemeine Zeitung alla possibile chiusura del confine ha reagito titolando “Addio Lago di Garda”. Insomma, di norma, chi dice Brennero dice vacanza, ma in realtà il valico è di un’importanza sbalorditiva sia per la questione un po’ retrò delle terre irredente sul confine orientale che quella europea del Trattato di Schengen. Il Brennero è uno dei tanti valichi dell’arco alpino, è il più importante perché il più basso ed è attraversato da una linea ferroviaria e da un’autostrada, la A22. È diventato a tutti gli effetti un confine con la Conferenza di Pace di Parigi del 1919, ma i negoziatori fecero i conti senza l’oste: a sud del valico, insieme a italiani e ladini, viveva una larga comunità germanofona che non si sentiva italiana (nemmeno per scherzo), che veniva così divisa dalla propria Heimat, “patria” in senso stretto, ma in realtà ha un senso molto più ampio. Con l’avvento del Fascismo e della sua retorica di grande nazione italica, alla comunità tedesca del Sudtirolo fu rivolta di una campagna di de-nazionalizzazione, volta alla cancellazione del carattere tedesco in favore di quello italiano. Un progetto annunciato da Mussolini già prima di ascendere al potere, quando disse di voler italianizzare tutte quelle minoranze acquisite dopo la Grande Guerra. Prese avvio dunque un processo di ricostruzione dell’identità italiana, la toponomastica venne rivista, tanto che il nome del Sudtirolo fu cambiato in Alto Adige. Nelle pubbliche amministrazioni venne imposto l’italiano come lingue unica e ufficiale e dall’insegnamento scolastico furono eliminare tutte le lingue straniere. A livello culturale la presenza di nuovi monumenti alla gloria della patria doveva ricordare a tutti che erano dal lato giusto del confine, e che comunque non avevano altra scelta. La fascistizzazione del Sudtirolo/ Alto Adige fu accelerata dall’apertura degli stabilimenti industriali che impiegavano manodopera immigrata, sì, ma dal resto d’Italia. Nel frattempo oltre il confine, si stava realizzando il progetto pangermanico di Hitler. Nel marzo del 1938, con l’Anschluss, l’Austria venne annessa alla Germania. I sudti-

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I FATTI BRENNERO DEL 2016

Un pò di qua e un pò di là di Barbara Palla

rolesi tedeschi erano salvi, Hitler li avrebbe acchiappati con il retino e tirati oltre il confine, ricongiungendoli finalmente al loro (vero?) popolo. Ma quando nel mese di maggio Hitler entrò in Italia, un po’ per rinforzare l’Asse Roma Berlino firmato nel 1936, un po’ per farsi dire da Mussolini di non scendere più in giù del confine austriaco, il caro Adolfo nel passaggio sul Brennero, non degnò la comunità tedesca dell’Alto Adige nemmeno di un comizio, ma neanche un saluto. Il Tirolo austriaco, insieme con il Vorarlberg (zona di confine tra Austria e Svizzera), fu annesso al Terzo Reich, ma non il Sudtirolo, in quanto vincolato dall’immutabilità delle

frontiere italiane sottoscritte nell’Asse. Fu allora che le attività del partito (illegale) nazista sudtirolese aumentarono in modo da ottenere lo stesso privilegio delle regioni oltre le Alpi. Appoggiandosi alla rete del partito, la propaganda nazista si fece martellante, chiamava a preferire il Reich in cambio della promessa di ricostruire allo stesso identico modo il Sudtirolo ma in territorio germanico. Numerosi giovani partirono, ma in realtà furono ricollocati in Polonia o in Repubblica Ceca. I pochi che riuscirono a rimanere in Germania, in virtù della netta somiglianza con i tedeschi di Baviera, sia per lingua che per religione, furono discriminati e identificati come dei “terroni”. Nel 1945, alla fine della Guerra, quando ormai l’Austria era un Repubblica Federale e l’Italia sceglieva la sua forma repubblicana, i giovani tornarono (perché in fin dei conti era la loro terra) e trovarono le proprie valli occupate dai contadini che il Fascismo vi aveva impiantato. La questione rimaneva aperta, ma la situazione internazionale era cambiata. Il principio di autodeterminazione dei popoli di Wilson era stato finalmente applicato nel resto d’Europa e i sudtirolesi tedeschi, per intercessione del Südtiroler Volkspartei (SVP) fondato nel 1946, chiesero di essere annessi all’Austria una volta per tutte. Nel frattempo però a livello nazionale tra i due Stati si stava definendo un Accordo, quello tra i due Ministri degli Esteri Karl Gruber e Alcide De Gasperi, che avrebbe dovuto chiudere la questione sudtirolese/altoatesina. Il testo però era a metà tra un accordo vincolante e un accordo quadro, nel senso che alcune cose erano spiegate in modo definitivo, mentre altre erano solo delineate, in attesa di un ulteriore studio. Le due province principali, rispettivamente, Trento, a maggioranza italiana, e Bolzano, a maggioranza tedesca, si trovavano unite ma divise da un’antipatia reciproca, rinfocolata dal periodo fascista.

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Ciononostante, il testo prevedeva la totale parità tra le due comunità sia per i diritti e i doveri, che per l’uso degli idiomi. Così si spiegano i cartelli stradali infinitamente lunghi e il colore diverso della carta d’identità dei sudtirolesi/altoatesini.

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La regione autonoma del Trentino-Alto Adige fu creata ufficialmente nel 1948, con la Costituzione, ma la reale portata dell’autonomia era ancora da definire. Senza entrare in eccessivi dettagli, basta considerare che esisteva alla base del rapporto con l’Italia una relativa superiorità da parte della stessa, un po’ per il retaggio fascista (non del tutto espunto), un po’ per l’idea, al tempo ancora pregnante, del fatto che gli italiani la guerra l’avevano “vinta”, mentre i tedeschi no. Col tempo questa retorica

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Un pò di qua e un pò di là di Barbara Palla

si trasformò in un atteggiamento sempre più restio all’allargamento dell’autonomia da parte del governo centrale. Con la costruzione dell’autostrada A22 per il Brennero e le potenzialità commerciali che questo apriva, Roma non voleva perdere la presa o il controllo su una regione che diventava sempre più cruciale. All’insoddisfazione della comunità tedesca nei confronti dell’applicazione dell’Accordo Gruber-De Gasperi, l’Austria rispose con un memorandum nel quale affermava che l’Italia non stava facendo nessun torto alle decisioni prese, distaccandosi così dalla polemica. Per tutta risposta i sudtirolesi tedeschi si ritirarono dal governo regionale al grido “Los von Trient”, via da Trento, simbolo per estensione della presenza del governo centrale nella regione, chiedendo la secessione della Provincia di Bolzano. Negli anni ‘70, iniziarono a farsi sentire anche le associazioni irredentiste come la Berg Isel Bund, di Innsbruck, che militava per il ritorno di Bolzano all’Austria, così come la Kulturwerk für Südtirol, di Monaco e alcuni fuoriusciti della SVP, il BAS (Befreiungsausschuss Südtirol) e i Die Freiheitlichen (i Libertari) a Bolzano. Tuttavia, esse non avevano un appoggio diretto da parte dei sudtirolesi tedeschi, e nemmeno politico da parte del SVP, ma erano apprezzati dal punto di vista morale. La organizzazioni iniziarono a prendere di mira i simboli italiani dell’Alto Adige con attacchi dinamitardi, ma quando il terrorismo iniziò a rivolgersi alle persone, come gli ufficiali della Guardia di Finanza italiana, sia il SVP che l’Austria se ne dichiararono estranee.

BRENNERO

il caso in altre situazioni europee. In secondo luogo, anche se preventiva, è stata una scelta presa per arginare un movimento di destra estrema interno all’Austria, da cui nasce il sentimento di tradimento, di essere stati tagliati fuori dal sogno della Heimat proprio dalla Patria stessa. Di fronte a questa drammatica situazione, il leader della minoranza tedesca, nonché presidente della SVP, Arno Kompatscher, ha reagito in un modo impensabile: ha chiesto l’intervento del governo centrale, di Roma, per dirimere la questione. La reintroduzione del confine, che si crede un filtro ma agisce da blocco, fa fare mille passi indietro al processo di integrazione europea. Da un lato perché quest’ultimo prevede che le decisioni si prendano insieme. Dall’altro perché è possibile che al confine italo-austriaco, l’Accordo di Schengen trovi la sua fine. Se in altri casi, l’erezione delle barriere poteva, in qualche modo, alla lontana, forse, essere giustificata dalla presenza di un elevato numero di richiedenti asilo, al Brennero no. Al Brennero è una questione politica ed economica. Con il controllo dei documenti, le persone, merci e capitali non sono più liberi di circolare. Con il controllo dei documenti, si ricreano quelle interminabili code alla frontiera, nelle quali rimangono intrappolati i TIR pieni di merci in attesa di distribuzione. Un costo elevato per l’economia europea, soprattutto se non è che il primo di tanti casi che verranno replicati altrove.

La vera svolta politica avvenne nell’aprile 1998, quando, dopo la firma del Trattato di Schengen, il confine fu rimosso alla presenza dei Ministri degli Interni Giorgio Napolitano e Karl Shloegl. Al Brennero, mentre cadeva il confine, fiorivano nuove possibilità economiche con il libero flusso degli autotrasportatori verso l’Austria e la Germania. Su quel confine, l’assenza delle barriere interne, dei dazi e delle dogane si dimostravano un successo. Le tre regioni, Trentino, Sudtirolo e Tirolo (all’inizio era presente anche il Vorarlberg, ma poi si è ritirato), nel quadro della “Euregio” hanno iniziato una collaborazione transfrontaliera attiva che andava oltre il confine verso la condivisione delle risorse. Quando dunque il Cancelliere Faymann ha annunciato unilateralmente la chiusura del Brennero, ha riaperto tutta questa questione. Intanto perché la decisione e è stata presa in modo preventivo, cioè in previsione dell’arrivo di una grande flusso di migranti e non in presenza di una pressione demografica effettiva e reale sul confine, come era ed è

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I FATTI I SOGNI DEL 2016

Italia e Unioni Civili di Niki Figus

I SOGNI

I SOGNI NELLA VALIGIA 2

inchiostropavia@gmail.com

di Eliodoro

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Se per voi leggere un giornale è un’attività noiosa, che deve per forza avere un fine pratico, vi consiglio di leggere questo articolo, scoprirete che una pagina di giornale può essere spensierata tanto quanto una discussione al bar. Infatti, se uno studente fuori sede pugliese ed uno nato e cresciuto a Pavia s’incontrano ciò che verrà fuori dalla discussione tra i due merita interesse. Un articolo “cazzaro” non può essere nulla di serio, quindi mettetevi l’anima in pace perché quello che leggerete non influirà positivamente sulla vostra cultura e conoscenza del mondo. Sono sicuro che vi starete chiedendo il significato del titolo, perché letto la prima volta non ha senso, quindi è mio dovere informarvi sul perché l’ho scelto. I sogni nella valigia non sono altro che le speranze degli studenti fuori sede, speranze riposte con cura nella valigia insieme ai vestiti, la biancheria intima, scorte di cibo fornite dalla nonna e un sacco di cose inutili che non servono mai. Oltre a tutto ciò, sarà necessario portarsi con se i propri sogni, quelli che ci hanno spinto ad iscriverci all’università, gli stessi che ci permettono di non abbandonare il percorso che abbiamo scelto quando ci sembra difficile, frustrante; quando abbiamo paura. Il primo articolo che scrissi s’intitolava appunto “I sogni nella valigia”, in quell’articolo trattavo l’argomento della crisi universitaria come un momento che prima o poi colpisce tutti, ora sono costretto a ricredermi. La piccola voce interiore, che suggerisce di mollare tutto, si ripresenta puntualmente ad ogni appello, tutte le volte che proviamo ribrezzo per un corso. Le lezioni

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sono noiose a tal punto che anche i ragazzi che di tanto in tanto, all’inizio dell’ora, presentano i programmi in vista delle elezioni studentesche, risultano essere più interessanti. La “crisi universitaria”, c’è sempre, la cosa più bella è che serve, perché se non avessimo timore, paura, per quello che facciamo, significherebbe che non c’importa riuscirci o no. Se qualcosa ci spaventa, è ciò che fa per noi: anche la fifa è utile. Oltre a tutta questa filosofia, vorrei aggiungere che nel momento fantastico in cui finirà la sessione estiva, ogni studente fuori sede disporrà di un patrimonio di modi di dire dialettali appresi in serate (poco serie), di scambi culturali avvenuti con i ragazzi originari del posto. Anche se questo è un articolo “poco serio”, credo sia il caso di proporvi alcuni detti popolari appresi in queste serate, contestualizzati nella vita universitaria. - A laurà a s màngia, à laurà no sa dzuna. - A lavorare si mangia, a non lavorare si digiuna. Studenti universitari tenetelo bene a mente: se non volete trascorrere l’esistenza nutrendovi alla mensa, oppure mangiando pasta e tonno per cena, laureatevi il prima possibile. - Bisògna vegh’ mar in buca e spuda duls. - Anche se hai amaro in bocca sputa dolce.

Anche se gli esami sembrano insuperabili e avete la sensazione che il tempo è insufficiente, perseverate e non lasciate che la preoccupazione per gli esami vi domini. Tuttavia se proprio dovete sputare non fatelo in pubblico. Ora in esclusiva solo per i lettori di «Inchiostro», i modi di dire tipici del mio paese Martina Franca, in Puglia, adattati come consigli per gli studenti. - Timb e frasch vol a crep ver che u lat la fà bun. - Tempo e verdura vuole la capra e sicuramente farà il latte buono . Tutti gli studenti sono un po’ delle capre, hanno bisogno di pazienza ed impegno per dare un buon esame, così come le capre hanno bisogno di mangiare verdura per fare del buon latte. - Ross de ser bell timb se sper. - Rosso di sera bel tempo si spera. Un invito a tutti gli studenti ad osservare se di sera c’è il tramonto, se esso è presente vorrà dire che il giorno a seguire sarà una bella giornata, ciò è un male perché il tempo buono invoglierà ad uscire e non a studiare. - Vù o na vù le cos accus an sc. - Vuoi o non vuoi le cose andranno così. Questo vale per tutti gli studenti che si tormentano per

un risultato andato male, anche fallire fa parte della carriera universitaria, quindi accettate le sconfitte per imparare dagli errori. Giunti alla fine di questo articolo, spero vi sia servito per riflettere sulla vostra carriera universitaria, mi scuso per le troppe cazzate dette, ma non sarebbe stato un articolo simpatico altrimenti. Prima di augurarvi le buone vacanze estive, per coloro che non avranno da studiare in vista di appelli a settembre ovviamente, ecco l’ultima perla in dialetto pavese. -I ndè la ghnè, ag na va. - Dove la roba c’è, altra roba arriva. Siete riusciti ad ottenere risultati soddisfacenti, non demoralizzatevi se a volte sembra più difficile riconfermarli, siate fedeli al vostro modo di fare e non sbaglierete. La cosa più bella dell’università, soprattutto se frequentata fuori sede e proprio l’opportunità che si ha di conoscere il diverso. Quindi come morale dell’articolo, sappiate che dietro ogni studente c’è una storia che non conoscete e aspetta solo di essere raccontata, magari davanti un bicchiere di birra scambiandovi modi di dire in una lingua che non comprenderete e scoprirete che in realtà anche l’università può andar giù come una birra.

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I FATTI BIBLIOTECA DEL 2016

SFIGATO

Sabato ti tengoin ilbibli tavolo. . . ot e ca! di Lady V

bibliotèca [bi-blio-te-ca] n.f definita anche aula studio, luogo di ritrovo, centro stalking, sala musica, sala da pranzo, stanza in cui ripararsi dalla pioggia tra una sigaretta e l’altra e via dicendo… è uno di quei luoghi in cui si fa un po’ di tutto, tranne studiare, e in cui si trovano le più disparate categorie di persone impegnate a impersonare la più varia quantità di ruoli.

Innanzitutto bisogna scegliere la biblioteca più adatta: pensa ai tuoi obiettivi e alle tue necessità, informati sui vari social, controlla il numero e la qualità delle presenze giornaliere, scegli un paio di libri a caso che non facciano di te un intellettuale ma nemmeno un tipo troppo rozzo, ed esci di casa.

Regole fondamentali: prima di varcare la soglia della

biblioteca devi lavarti, spruzzarti deodorante e profumo (soprattutto nella sessione estiva), evitare cibi puzzolenti nello zaino (no, il panino con il gorgonzola lo mangerai una volta tornato a casa!), togliere la suoneria dal telefono e prenderti gli eventuali fazzoletti, penne, matite e tutti quegli oggetti che sei solito chiedere in prestito per attaccare bottone con gli altri (troppo scontato ormai).

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Una volta entrato, dopo aver trattenuto il respiro il

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tempo necessario affinché diminuisca il trauma causato dal tanfo della stalla, ehm no, volevo dire aula, l’operazione più importante è quella di scegliere il posto più adatto alla sessione di (non-)studio che ti aspetta. Dopo aver dato una rapida occhiata ai pochi posti disponibili, in seguito all’illusione di sedie all’apparenza libere ma tenute occupate dall’amico delle ragazza del cugino che aveva chiamato il collega mattiniero che tenesse i posti per tutti, dopo aver evitato di esprimere, con grande forza di volontà, le proteste e gli insulti dovuti, finalmente, trovi un posto libero. È quello con la sedia che traballa, con il banco così stretto che devi scegliere se posare il computer o il quaderno, con il vicino sovrappeso e la coppia di matricolepresebene che non smette un attimo di parlare, ma sei felice, ti senti realizzato perché tu ce l’hai fatta a conquistare il posto libero e, per tutta la giornata, il tuo pensiero andrà felicemente alla vecchietta in auto che alle strisce ti aveva lasciato attraversare la strada, facendoti risparmiare secondi preziosi.

Dopo la conquista del posto, passati i primi dieci mi-

nuti da studente modello, l’universitario che c’è in te comincia ad alzare il capo e, come un naufrago che scorge

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un’isola a cui approdare, inizi a cercare le tue prede. Vedi così il compagno del liceo con cui andare a prendere un caffè al bar; il collega che elogia la sua stessa ricchezza da cui farti offrire qualcosa alle macchinette; la ragazza che si sente con l’amico, la quale sta uscendo a fumare una sigaretta con un ragazzo che non conosci e… aspetta che scrivo a Giò, altrimenti qua finisce male.

Poi c’è ei.

L Ti si illuminano sempre gli occhi: no, non arrossisci perché «non fa uomo», ma una volta nota la Sua presenza, la tua sessione di studio giornaliera diventa sempre più inutile e improduttiva, tutti i pensieri hanno una sola direzione e l’attività di stalking comincia. È stata proprio la tua coinquilina a insegnarti tutto: subito non sembrava un’attività mascolina e allora hai passato settimane a prenderla in giro fino a farla pentire di averti confessato il suo segreto, ma in realtà lei già sapeva che saresti caduto nella tentazione. La tecnica è semplice, partendo dal presupposto che il mondo è piccolo, una volta acquistata una certa abilità nell’utilizzo dei social, quel che conta è solo avere del tempo da perdere, ma quello si trova facilmente. La vedi, la osservi, capisci i giri che frequenta, guardi i partecipanti alle feste, i mi piace su Spotted, i post su Jodel, vai qualche volta a fare un giro in centro, spulci tra le foto dei locali il mercoledì sera e, se proprio la ragazza non vuole farsi trovare, spargi anche la voce tra i tuoi amici: tempo due settimane e saprai tutto di Lei. E poi? Sta a te, alle tue tecniche di corteggiamento, certo i risultati non sono garantiti, ma cosa c’è di meglio per staccare la testa dai libri universitari?

Buona sessione estiva, people!

O T A G I F S ATI

G O F S

di Rossella Cosciabella Da questa esperienza ho capito che… essere l’amico “sapientone” non avrebbe migliorato la mia condizione sociale.

portato alla ribalta l’aggettivo “petaloso”, ma lui non può scassarsi a merda il mercoledì sera e quindi non avrei risolto uno dei miei più grandi problemi).

C’è stato un periodo in questi (quasi) quattro anni di vita da studente universitario in cui ho deciso di selezionare gli amici in base al numero di volte in cui pronunciavano la parola “lapalissiano” nell’arco di un mese. Poi mi sono reso conto che era un metodo estremamente complesso e che, soprattutto, era la password di Facebook (e altri servizi digitali) di uno dei miei pochi conoscenti che si ostinava a tollerarmi: avrei potuto conoscere i suoi traffici più loschi in tempo record ma non avrei potuto raccontarli a nessuno se non alla Guardia di Finanza. C’ho rinunciato (l’alternativa a “lapalissiano” erano “aspersorio” e “prosopagnosia” ma credo che non vengano utilizzate nemmeno nei relativi contesti; sarei diventato amico di quel bambino che ha

Da questa esperienza ho capito che… la vendetta è un piatto di merda riscaldata male e che devi mangiarla, sennò il cuoco si offende. Questo è successo poco dopo aver scoperto che una mia compagna di corso al primo anno era convinta che “eclettico” significasse “schizofrenico/esagitato/ colto da un incipiente attacco di esaurimento nervoso a causa degli innumerevoli impegni che lo stile di vita occidentale ci frappone tra il ‘dovere’ e il ‘piacere’”. Ho evitato del tutto di spiegarle cosa c’era che non andava nella sua ignoranza, piuttosto ho utilizzato quelle energie per imprimere nella mente questa perla: sapevo che prima o poi avrei avuto modo di raccontarla ad un

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I FATTI SFIGATO DEL 2016

Sfogati sfigato di Rossella Cosciabella

grande pubblico. Prendi questo, vita reale! Da questa esperienza ho capito che… il volontariato e la cura dei bisognosi è il mio futuro. Più o meno contemporaneamente cercavo di farmi amica la numero uno del corso, smettendo il più velocemente possibile quando mi disse che non sapeva che Stephen King fosse anche un astrofisico paraplegico dedito alla ricerca sui buchi neri. Per giorni mi sono chiesto se si sia trattato di un lapsus o di quale strano fenomeno paranormale, poi i miei dubbi sono scomparsi quando provai a leggere/decifrare alcuni suoi sms - ve li risparmio perché si tratta di materiale che potrebbe ledere la vostra retina. E io ci tengo ai lettori di Inchiostro, quant’è vero che non vi ho mai propinato una sbobba peggiore di questa che state leggendo, che - fidatevi - è un pezzo di metafiction riuscitissimo. Ad ogni modo, lei resta sempre la numero uno del corso e io ogni anno, per il suo compleanno, le regalo un libro (della collana economica Feltrinelli - la carità è fatta di piccole cifre, tutto sommato): sia mai che un giorno dovessero chiederle di Ballard...

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Da questa esperienza ho imparato che… nessun farmaco o sostanza può curare la timidezza e che la terapia chirurgica dello strabismo ha fatto passi da gigante negli ultimi anni.

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Il passo successivo è stato pensare che annichilendo le mie barriere mentali con l’ausilio dell’alcol e di altre sostanze psicotrope più o meno legali (è solo una questione spazio-temporale: mentre le usavo erano certamente legali in altri momenti e luoghi sulla Terra) avrei finalmente avuto successo con le persone, l’avevo letto da qualche parte, sarei diventato uno “giusto”, “un tipo a posto”, uno “normale”. Ho cominciato persino ad andare in discoteca e far finta di divertirmi su ritmi troppo bassi per poter anche solo pensare di tentare di ballare (cioè, parliamoci chiaro: l’unica cosa che ballo è l’hakken, tutto il resto è roba per i sessualmente repressi e/o deboli di cuore). Ho frequentato gran parte dei locali che mette a disposizione Pavia, locali che, se frequentati per un tempo sufficiente, ti permettono di diventare persone “giuste” agli occhi degli altri: peccato non sia stato in grado di capire se gli occhi convergevano su di me o divergevano su più punti del locale. Da questa esperienza ho imparato che… una sola cosa ti sarà sempre fedele: Federica la mano amica. Soprattutto quando devi puntare il dito accusatorio contro gli altri. E quindi ho pensato che potesse essere anche colpa mia, del mio modo di pormi. Per mesi

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ho preferito dare esami di coscienza piuttosto che quelli universitari (no scusate, questa freddura fa pena anche a me): riconosco di essere stato scontroso, spesso altezzoso e presuntuoso nei confronti della gente che mi circondava, forse perché per qualche motivo mi sentivo inferiore, inadeguato e non all’altezza della situazione (di sicuro sono bravo coi sinonimi, però) e tendevo ad attaccare gli altri. Ho realizzato che avere successo con le persone non è il mio forte né tantomeno l’unico modo per sentirsi realizzato nella vita. Che vadano a farsi fottere tutti gli altri, mi basta lei, Federica. Da questa esperienza ho imparato che… l’hip-hop sperimentale dei Death Grips è un ottimo modo per evitare di parlare di interessi in comune con le persone. Per non ascoltare il requiem interiore che suona in me dall’estate scorsa, mi sono abbonato a Spotify Premium: ho ascoltato nuovi gruppi e generi, ampliando le mie ristrette conoscenze in ambito musicale. Non mi era mai capitato di attendere con ansia l’uscita di un nuovo album né andare a Torino da solo per sentire suonare un dj francese misconosciuto in un luogo loschissimo che se-lo-vengono-a-sapere-i-miei-mi-chiedono-unrisarcimento-danni. Spotify mi ha inoltre aiutato a far finta di ascoltare i problemi delle persone mentre in testa mi suonava quel motivetto così orecchiabile sentito giusto 35 volte da quando sono sveglio. Ma più di tutto, mi ha reso curioso verso il gossip del mondo della musica: nemmeno la mia analista credeva alle dichiarazioni di Ethan Kath sul ruolo di Alice Glass nei Crystal Castles. Per dire. Da questa esperienza ho imparato che… la mia vita è triste ma gli altri non se la passano mica meglio quando leggono i miei pezzi pubblicati. Questo breve racconto della mia vita non segue una scala temporale estremamente logica e rigorosa, presenta punti molto tristi e battute più o meno divertenti inserite circa ogni tre righe (questo sforzo verrà immediatamente vanificato durante l’impaginazione, purtroppo, ma è bene che lo sappiate) per aumentare l’empatia nei miei confronti. Oppure il senso di pena e sconforto. Se lo leggete al contrario può essere che si invertano i ruoli.

TITANIC 2K16

TITANIC 2K16

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L’altra sera, mentre guardavo per la ventesima volta in vent’anni il “Titanic”, cercando di prosciugare invano un fiume di lacrime in piena e sognando ancora una volta con una delle storie d’amore più belle e struggenti di tutti i tempi, mi sono chiesta: «e se James Cameron lo avesse ambientato ai giorni nostri? Come sarebbero andare le cose? Sarebbe stato poi tanto diverso?» Beh, immaginiamocelo insieme. Partiamo innanzitutto dai casting per gli attori: Di Caprio e la Winslet non verranno selezionati, troppe rughe lei e troppi pochi capelli lui. Il regista troverà comunque dei validi sostituti che vanteranno la partecipazione in pellicole del calibro di High School Musical, I Cesaroni e altri masterpiece del panorama cinematografico internazionale. Per gli altri personaggi e le comparse Cameron sceglierà probabilmente i reduci di qualche talent show di poco conto e senza chissà quali doti recitative particolari, l’importante è definire i protagonisti. Jack è un ambizioso ed esuberante ragazzo siciliano che vende arancini al mercato, ma il suo grande sogno fin da bambino è partire per l’America e ottenere un contratto a tempo indeterminato da McDonald’s; Rose, invece, è un’ereditiera americana, BFF di Paris Hilton, rimasta in Italia qualche settimana per festeggiare il compleanno del suo chihuahua. Entrambi giovani, vivono di aspirazioni e sogni che sperano di poter realizzare nella Grande Mela. Il loro incontro è del tutto fortuito: Jack, durante una partita a Monopoli, vince un biglietto per viaggiare a bordo di un leggendario transatlantico (il cui ruolo verrà interpretato magistralmente dalla discendente del Titanic, Costa Concordia) e incontrerà Rose la quale è vittima della madre vedova e arrampicatrice sociale che vuole costringerla a sposare un uomo d’affari, Cal, manager degli One Direction (anch’essi a bordo), brutto ma ricco, tanto da potersi permettere The Rock come personal trainer. Motivo dell’incontro tra i due? Il tentativo di lei di togliersi la vita a causa delle urla di un gruppo di directioner impazzite in poppa alla nave. Jack la salva promettendole, in cambio della rinuncia al suicidio, un Mc Menu gratis al loro arrivo a NY.

Tra i due è subito amore, sono complementari come cacio e pepe, burro e marmellata, Di Caprio e l’Oscar. Purtroppo però, i ricconi di prima classe non approvano la relazione tra i due; solo una parrucchiera pettegola, arricchitasi dopo aver portato a buon fine il trapianto di capelli di Elton John, li appoggia coprendo le loro fughe amorose. I due innamorati devono vivere in segreto il loro amore, ma sanno che una volta giunti in America scapperanno insieme. Tutto sembra andare per il meglio e Jack, che oltretutto è anche un abile disegnatore di manga, realizza un ritratto di Rose in versione Sailor Moon mentre lei indossa un preziosissimo diamante regalatole dal fidanzato. Una cosuccia da quattro soldi, insomma. Cal cerca di sabotarli nascondendo qualche grammo di polvere bianca nella tasca dei jeans di Jack per incastrarlo, ma senza riuscirci: in cucina per sbaglio ha preso lo zucchero a velo. Una notte, però, succede l’evitabile: mentre i due marinai in vedetta guardano l’ultimo video di Willwoosh su YouTube e il capitano Schettino beve tranquillamente una Red Bull in cabina, viene colpito un Iceberg che riesce a squarciare la fiancata destra della nave, la quale inizia ad imbarcare acqua. A questo punto la storia si ripete uguale a quella del film originale: tutti cercano di salire sulle scialuppe di salvataggio (che tra l’altro potrebbero bastare per tutti se non fosse per obesità grave della maggior parte dei passeggeri a bordo che diminuisce sensibilmente lo spazio totale a disposizione). Qualcuno si butta “a mare”, qualcun altro dice addio ai propri cari, gli 1D cantano per l’ultima volta le loro hit di successo sul pontile della nave. I due innamorati finiscono in acqua e trovano una tavola da surf alla quale aggrapparsi per sopravvivere. Purtroppo Jack non ce la fa e muore ibernato (ma verrà ritrovato e scongelato nel 2056 come Captain America) mentre Rose viene protetta dalla costosa pelliccia di marmotta e si salva chiamando i soccorsi con il nuovo Samsung Galaxy S7 resistente all’acqua e riuscendo così a realizzare un nuovo sogno, suo e di Jack: raggiungere l’America e aprire una rosticceria siciliana a Times Square. Beh non male! Che dite, lo proponiamo un remake a Cameron?

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ER IST WIEDER DA

I FATTI LESSICO DEL 2016

LESSICO

dalla Prima Repubblica di un anonimo ed alacre funzionario Stanchi del cicaleccio politico da talkshow, della politica fatta di tweet e annunci in maiuscolo su Facebook, delle slides e delle semplificazioni da campagna elettorale perpetua, era forse prevedibile ricadere nell’antico adagio “si stava meglio quando si stava peggio”: eccoci qui a rimpiangere i tempi che furono, eccoci a decantare la sepolta Prima Repubblica! Complice il fiorire di alcune fantastiche pagine su FB quali Una foto diversa della Prima Repubblica. Ogni giorno e Occhiali da Pentapartito, per citare due delle più note, vogliamo qui presentare un lessico elementare (e sentimentale), e senza pretese di completezza, per cantare quel periodo di storia dell’Italia repubblicana che va dall’entrata in vigore della Costituzione nel 1948 al 1992, anno di Tangentopoli e termine della cosiddetta Prima Repubblica.

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Avellino marittima: espressione attribuita all’onorevole Ciriaco de Mita (che l’avvocato Agnelli definiva “intellettuale della Magna Grecia”, costringendo Montanelli a chiosare “io non capisco cosa c’entri la Grecia…”) in riferimento alla città di Napoli. Giusto per ribadire l’influenza del politico avellinese DC in quegli anni. Qualcuno scrisse che «Il mare non bagna Napoli», ma nemmeno l’Irpinia.

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Convergenze parallele: Aldo Moro, che nella vita faceva anche il professore universitario, si esprimeva spesso in maniera sibillina ed ebbe modo di coniare espressioni mitiche per i nostalgici della Prima Repubblica. Qui si riferiva alle convergenze su alcuni punti dell’agenda politica tra partiti di opposta matrice politica. Ma, a parte tutto, stava forse pensando a geometrie non euclidee? Il mondo allora era scritto in caratteri matematici (e democristiani). Governo balneare: locuzione con cui si designavano i governi costituiti - a seguito di una crisi del precedente esecutivo - nel periodo estivo per portare avanti l’amministrazione corrente, in attesa che il parlamento

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indicasse un nuovo esecutivo. In pratica di balneare avevano ben poco: i big - loro sì - si godevano la canicola a Capalbio o Forte dei Marmi, i “bagnanti” a sudarsela tra gli scranni di Palazzo Chigi senza nemmeno il conforto del calciomercato. Pentapartito: Flat tax, Jobs act, spending review: la comunicazione politica odierna si nutre di anglicismi. Ma volete mettere l’austera eleganza della Prima Repubblica, che ricorreva a suffissi di origine greca antica per nomare quella grande ammucchiata (e abbuffata?) composta da DC, PSI, PRI, PSDI e PLI che per una dozzina di anni governo il bel paese. Oggi al massimo avremmo il Movimento Pentastelle. Portaborse: molto più che un – onorevole - incarico politico. Una vera e propria condizione umana che ricorda il mito di Sisifo. Solo che, al posto dell’enorme masso, il povero portaborse si occupava di ventiquattrore di cuoio e di faldoni di ciclostilati da stipare negli armadi (facendo attenzione a non disturbare i molti scheletri quivi riposti). Il Divo: Giulio Andreotti, per chi non lo sapesse. Emblema stesso della Prima Repubblica (che percorse interamente e da protagonista: 7 volte presidente del Consiglio, per gradire), accusato più o meno di tutte le bene/malefatte tramate a Roma, si salvò in extremis dall’accusa di aver dato alle fiamme la città nel 64 d.c. perché, all’epoca, era soltanto il portavoce di Nerone. Le correnti: degasperiani, dorotei, morotei, iniziativa popolare, eccetera eccetera eccetera, e per restare nella sola Democrazia Cristiana. Ciascuno faceva la propria lettura del Verbo democristiano – apocrifi compresi - e lo declinava come meglio gli conveniva elettoralmente. Delicati giochi di pesi e contrappesi, altro che Risiko. Voto di scambio: mai esistito. Scherziamo?

di Claus Schenk von Stauffenberg - Prima regola del buon moralista: non si parla di moralismo; - Prima regola del buon anti-moralista: il moralismo non esiste. Due postulati portanti dell’eterno scontro manicheo, dal quale nasce il giogo che grava su ogni “buon cittadino”: c’è chi si schiera consapevolmente e chi è schierato senza nemmeno saperlo, e, come sempre, al centro, s’innalzano le voci della celebre vulgata della mezza misura, dell’aurea mediocritas, quelli assennati per davvero. Di certo, per David Wnendt e Timur Vermes “mezzi termini” non è locuzione consona al vocabolario, quando si tratta di morale. Direttamente dall’aprile 1945, in Italia, su Netflix, il 9 aprile, arriva Er ist wieder da (“Lui è tornato”), film diretto da Wnendt e basato sull’omonimo best seller di Vermes. Ebbene, l’intuizione è sulla soglia, lo sento; per chi ancora non conoscesse l’opera, andiamo per gradi. Il titolo è in tedesco: presumibilmente si parla di Germania, e perché no, ambientiamolo proprio a Berlino. Ora, chi è tornato? Un generico “lui”, come se questo pronome dovesse nascondere un qualcuno che non dev’essere nominato. Voldemort? Mah, rimaniamo coi piedi per terra e non scomodiamo il fantasy. Sicuramente i più goliardici ci sono già arrivati, perché, in fondo, non aspettavano altro. Esatto! Wnendt e Vermes rompono il tabù, portando in sala “lui”: il Cancelliere, l’artista mancato, il Führer, mr. baffo, insomma, Adolfo Hitler. Uno straordinario Oliver Masucci ha passato settimane ad esercitarsi con esperti di linguaggio, studiando gli scritti, i discorsi pubblici e lo stile del dittatore; è ingrassato di 21 kg. e si è sottoposto a due ore di makeup giornaliero, tutto per risultare quanto più simile all’amato autore del Mein Kampf (a dirla tutta, per questa crociata contro i tabù, bisogna ringraziare anche

«il Giornale»: probabilmente geloso dello slancio di liberalismo e d’apertura portato da Lui è tornato, da poco, ha partorito la sagace idea di distribuire gratuitamente il manifesto nazista in allegato al quotidiano. Dei geni, no?). Be’, immaginatevi di trovarvi a Pariser Platz, al centro di Berlino, dinanzi alla Porta di Brandeburgo, e trovarvi Hitler in carne ed ossa, con tanto di tenuta ufficiale, che si scatta un selfie con un turista. Buona parte del film, difatti, è composto da scene improvvisate, in cui Hitler (Oliver Masucci) interagisce casualmente con passanti, turisti e curiosi, ignari di essere ripresi e della realtà cinematografica che si cela dietro a questi inusuali incontri. Temo che la parola non avrebbe la stessa forza dell’immagine nel descrivere i risultati di questa operazione alla Borat, perciò: guardatevi il film, non sarebbero le ennesime due ore sprecate del vostro tempo, di certo non è Pretty little liars. Per il resto, la trama della pellicola si costruisce intorno al mistero e alla scalata mediatica di questo neo-Hitler nella Germania moderna, e evito ulteriori ignominiosi spoiler. Si parla di satira e comicità, questo è fuor di dubbio, ma un Velo di Maya da tagliare per poi guardare oltre c’è eccome. Lui è tornato denuncia, rivela e fa riflettere, a modo suo, tanto quanto il caffè alla mattina risveglia dal torpore perpetuo del “che sbatti la vita” e le cit. di Salvini aiutano la digestione. Il libro ha venduto 2 300 000 copie solo in Germania ed è stato tradotto in 41 lingue. Be’, che state aspettando? Godetevi Lui è tornato! Se un giorno, forse non lontano, il caso vorrà che qualcosa sui generis torni per davvero, almeno due risate ve le sarete fatte.

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NEL MEZZO I FATTI DEL 2016 DEL CAMMIN

Nel mezzo del cammin di un bicchiere mezzo di CM Cuauhtémoc

NEL MEZZO DEL CAMMIN DI UN BICCHIERE MEZZO -Dei delitti e di Maurizio Moscadi CM Cuauhtémoc

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Pavia. Ora.

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Cosa fare quando una mosca entra nella vostra stanza nonostante abbia le zanzariere? Bicchiere mezzo pieno: la mosca tende ad andare verso la luce della finestra, ottima cosa, visto che non volete far altro che ricacciarla dal dannato mondo esterno da cui è arrivata. Bicchiere mezzo vuoto: la mosca, anziché uscire, o invece che appoggiarsi sul vetro dove sarebbe stata amorevolmente presa (o prontamente spiaccicata - con relativo budelloso pentimento), rimarrà sulla zanzariera, fissandoti beffardamente con la propria vista multilaterale (il che, per altro, fa sì che vi stia perculando multilateralmente). La questione, in sé, non è tanto quella di uccidere la mosca, oppure no. La mosca, per quanto mi riguarda, può pure restare in vita. Il problema è che se la mosca fosse sul vetro ma voi non aveste le zanzariere, basterebbe far andare la mosca lungo l'estremità interna della finestra, aprile l'altra parte quel tanto da far uscire la mosca e problema risolto. Senza, appunto, doverla uccidere. Ma non ne vorrei, qui, fare una questione di etica (conosco persone che considerano nobile un animale che ama poggiarsi su escrementi e depositare uova all'interno di cavità umane) quanto più una questione di pratica inoltre, è altresì bene ricordare come trattenere, senza schiacciare, una mosca, e liberarla oltre le porte, le finestre e le zanzariere d'ogni dove e quando, è esercizio assai faticoso oltre che necessario d'una ferrea volontà. Lo stolto, l'ingenuo, potrebbe poi dire di chiudere la finestra. Non conoscendo l'estate pavese, ad una prima analisi - bicchiere mezzo pieno: la mosca è fuori dalla camera; bicchiere mezzo vuoto: la mosca è dentro il mio spazio vitale essendo sulla fottuta zanzariera e non avendo io risolto affatto la cosa - allo stolto, appunto, potrebbe sfuggire che l'unica cosa che rimarrebbe da fare, una volta chiusa finestra, sarebbe bere il proprio

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bicchiere, mezzo pieno o vuoto che sia, prima di morire disidratato. L'ingenuo ignora il caldo, l'afa, la disidratazione. Il deserto del Sahara diminuisce di temperatura la notte, mentre Pavia con le proprie afose tenebre porta nutrie e bagarozzi dall'odore di Naviglio. Chiudere la finestra costituirebbe un fallimento nel metodo, in quanto il problema sarebbe solo rimandato, e nel merito, ancorché la questione fosse risolta, voi morireste, sciogliendovi; il che di fatto sarebbe la più clamorosa tra le vittorie conseguibili dalla mosca (soprattutto perché se qualcuno dovesse mai aprire quella finestra, a quel punto, la mosca finirebbe per depositarsi sui vostri resti fluidi: la più beffarda tra le risoluzioni). I benpensanti, poi, chiederanno il motivo dell'ingresso d'una mosca, essendo voi muniti di zanzariera: un ronzio ancor più incessante di quello dell'animale alato. Ricordare a questi che Gesù disse "Gli ultimi saranno i primi", ma mai "Gli universitari non avranno padroni di casa della materia ciò di cui le mosche vanno bramando", non costituirebbe per voi, in ogni caso, una soluzione all'attuale problema. La tentazione di inchiodare la mosca alla zanzariera è forte quanto il colpo che vorreste sferzarle con la vostra ciabatta puzzolente; si capisce, tuttavia, a mente lucida - bicchiere mezzo pieno: ho ammazzato la mosca; bicchiere mezzo vuoto: ho rotto la zanzariera - che si starebbe solo confondendo la soluzione al problema con la relativa causa. Tuttavia, è pur vero che se una volta disarcionata la mosca con la propria ciabatta, si chiudesse la finestra e si scegliesse di morire al caldo, ciò costituirebbe una vittoria (finale, definitiva). Così come chiudere la finestra con la mosca sulla zanzariera, uscire dalla propria casa e poi rientrarvici costituirebbe una vittoria, essendo la mosca di fatto fuori dalla nostra casa per come essa è

NEL MEZZO DEL CAMMIN

e non per come immaginavamo fosse: pur sempre una vittoria, ma nel metodo. E comunque prima o poi la finestra andrebbe riaperta. Di conseguenza, in entrambi i casi: il bicchiere mezzo pieno è la vittoria, quello mezzo vuoto la morte. Una vittoria, seppur parziale, potrebbe essere costituita dall'accettare la mosca nella propria camera, come evoluzione della stessa; oppure nell'infastidire la mosca, tormentandola, in modo tale che non sia più questa a disturbare noi, ma noi lei; oppure nel cedere la nostra stanza alla mosca, cosicché da essere poi noi un'evoluzione del suo spazio; oltre, ovviamente, al diventare noi stessi mosca. Tutte teorie interessanti, bicchiere mezzo pieno mezzo vuoto: negazione della natura umana. Arrivati a questo punto, se non s'è ancora provveduto a bruciare l'intera palazzina con un lanciafiamme, o lanciato le proprie feci oltre la frontiera delle zanzariere nel tentativo di attrarre la bestia fuori (o la neurodeliri dentro), ci sono due strade per il successo di metodo e merito: - uccidere, senza pietà alcuna, la mosca; - cacciare la mosca dalla propria camera e scaricare il problema dello smaltimento della salma (questo metodo potrebbe essere ripetuto dagli altrui proprietari di camere: giungendo quanto prima a una riunione tra coinquilini si deciderà in quale spazio comune far morire la bestia); - fare della propria casa il mondo, cosicché il sopracitato «mondo esterno» sia la vostra camera, dove avete confinato la mosca. Bicchiere mezzo pieno: problema risolto. Bicchiere mezzo vuoto: le pulizie sono sbatti. (Nel caso di Mosca, state tranquilli, «quel signore, prima, che ha lanciato un'accusa gratuita nei miei confronti è stato già arrestato, abbiamo già mandato la polizia a casa di questo signore che è già stato arrestato». In quattro minuti avrete risolto, «è già in galera»).

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I FATTI INVITO DEL 2016

SIMPATICO

Come perdersi l’invito in paradiso

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di Panamaribo

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Sveglia presto, giornata grigia. Anzi nera, con il tondo bianco che dice che non esiste dio all’infuori di Allah e che Maometto è il suo Profeta. Sì, ecco decisamente meglio. La sveglia sta ancora strillando il suo richiamo alla preghiera, un’esplosione nel silenzio dell’appartamento No, via, un’esplosione no. Non scherziamo, a quella penseranno gli altri, in un altro momento. Quando era poi? Oggi? Domani? Non ricordo, magari dopo chiedo a Rafik, a mio fratello Rafik. Lui ha sempre le idee molto chiare. Vabbè via, diamoci da fare, qual è la direzione giusta? Ah sì, ecco, ora mi ricordo, Rafik mi ha detto che devo seguire La Mecca. Che poi dove sta questa Mecca? Il capo ha detto a Rafik di farlo quindi lo faccio anche io, pare sia importante. Iniziamo, Bismillah... «Ma devi proprio cantilenare così presto? Sta sorgendo il sole proprio ora!» «Dai, non mi distrarre, che poi mi dimentico, e se continui vado in S... vado in... vabbè vado via e non mi rivedi più» «Ma cos’è che reciti?» «Tu non ti preoccupare, e adesso vattene!» Bismillah dicevo, poi? Meglio se controllo. Il capo mi ha detto che oggi è un giorno importante per me. Se sbaglio potrebbero esserci delle ripercussioni, gravi a quanto pare. Ma non mi ricordo quali. Non sono nemmeno sicuro di aver capito bene. Da quando ho fatto il contratto con Postepray la comunicazione in chat va a scatti. Il capo si era molto arrabbiato quando avevo scritto nel gruppo delle linee ferroviarie invece che in “Fratelli del Tritolo”. Rafik mi ha detto di mettere la nuova linea per farmi perdonare, dice che è più sicura per comunicare mentre si gioca a…? Come si chiamava? Forse Call of Boom. Glielo chiedo, tanto dovrebbe arrivare. «Assalam aleikum» «Mh sì, ciao Marco!» «Rafik, mamma, si chiama Rafik adesso. Se continui ci trasferiamo in S... in S... vabbè ti ho avvertita». Rafik è sempre così preciso, è sempre così serio. Sarà che con la barba così lunga e incolta non si capisce nemmeno più se sorride o no. Forse non sorride nemmeno più. Forse tutto questo lo ha cambiato. «Devi entrare nella chat e vedere cosa ti ha

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mandato il capo». Bel problema, con questa linea poi, ci vorrà una vita, quella di qualcun altro però. Qual era la password? Ah sì, ecco, “il mio Profeta è differente”. Inserisci. “Recati dal nostro fratello, cugino del fratello di nostro fratello Walid, Malik, lui avrà una cosa per te inshAllah” Mh, dov’è Shalla? Non me lo ricordo. Forse non ho capito bene. «Scusi? Cerco Walid, forse però si chiama Malik, è per caso da queste parti? Dovrebbe essere qui in Shalla, no?» «No, chiedere al fratello di Karim, dall’altro lato della strada, forse è a prendere un tè.» «Walid? Malik?» «No sono Karim, fratello di cugino di Malik. Lui con Walid, fratello di cugino di fratello di vostro fratello» Come fa Rafik a stare al passo con questa selva genealogica? È sempre così preciso Rafik. «Ho trovato Malik e Walid, abbiamo ciò che ci serve. Hanno detto che dobbiamo andare stasera davanti a casa del cugino dello zio del fratello del ragazzo con cui hai parlato prima.” «Hussein?» «No. Giuseppe, il gestore del bar» Squillo del telefono, la signora davanti salta in aria. Deve avere i nervi tesi, è da prima che si gira a guardarmi con aria terrorizzata. «Dove sei?» «Sono in autobus, con questo caldo, tra un po’; si scoppia!» Perché la signora continua a guardarmi? «Sbrigati che tra poco è l’ora della preghiera! È un giorno importante per noi» Devo fare in fretta, Rafik si agita se non può pregare. «Ma dove sei finito?» «Sono a casa dello zio del cugino del fratello di Giuseppe (forse era di Walid? O di Malik?) Non c’è nessuno qui. Tu dove sei?» «Nella metro, è l’ora di punta! Cosa ci fai lì? Raggiungici subito, il capo si arrabbierà moltissimo se non ci raggiungi subito» È sempre così serio Rafik. «Ma Rafik, sono dall’altra parte della città!» «Ci vedremo allora, inshAllah!» Ma come? Rafik ride. Boom, deflagrazione.

Cazzo ho detto “C@&!*” di OneGi

Una parolaccia è sempre una parolaccia? No, ci sono parolacce, che usate in alcune espressioni, perdono il loro senso più volgare per diventare parte di modi di dire dal colore più o meno neutrale. Per esempio, la parolaccia più usata in Italia è “cazzo”. Personalmente la uso frequentemente sia da sola, sia inserita in espressioni colloquiali, con l'unica funzione di rafforzare il mio concetto. Non mi interessa spiegare l'etimologia e l'uso corrente della parola “cazzo”, per quello basta prendere un caffè con certi aspiranti filologi che vi riempiranno la testa con i loro termini forbiti e tu sarai così confuso da colpirti da solo. A me stanno sul cazzo le persone come loro! Altre persone che mi “stanno sul cazzo” sono quelle che ti insultano perché chiami il tuo migliore amico “negro” e non “di colore”, il che è ancora più razzista della parola Nero. “mi stanno sul cazzo” gli omofobi, che poi, quando sono nel letto con la fidanzata le chiedono di mettergli un dito in culo così godono di più. “mi stanno sul cazzo” i gay... perché mi stanno sul cazzo. “mi sta sul cazzo” chi picchia le donne, loro non dovrebbero avere più il cazzo. “mi stanno sul cazzo” le donne, che prima ti chiedono di prenderle a schiaffi sul culo quando sono messe a pecorina e poi, alla prima litigata, ti rinfacciano che le hai picchiate. “mi stanno sul cazzo” i leghisti, perché mentre io faccio il “politicamente scorretto”, loro certe cose le pensano davvero. “non mi sta più sul cazzo” Buonanno... chissa perché. “mi sta sul cazzo” Laura Boldrini, femminista convinta, ma mio padre si ricorda ancora i balletti di Cocco programma tv del 1988. “mi stanno sul cazzo” gli americani, perché ogni cosa che succede negli Stati Uniti è colpa dell'ISIS. “mi stanno sul cazzo” le persone che confondono Islam con l'ISIS. “mi stanno sul cazzo” tutti coloro che hanno l'apple watch, perché alla fine lo usano solo per vedere l'ora.

“mi stanno sul cazzo” i cinesi perché mi sto rendendo conto che ci stanno conquistando, sushi dopo sushi. “mi sta sul cazzo” Benigni, troppo populista e poi ha veramente stancato con la Divina Commedia. “mi stanno sul cazzo” le persone che dicono populista, cos'è populista e cosa non lo è? “mi stanno sul cazzo” quelli di CasaPound perché sono fascisti. “mi stanno sul cazzo” quelli di Radio Aut per lo stesso motivo sopra citato. “mi stanno sul cazzo” quelli che odiano e sperano nella morte di Silvio Berlusconi, vi ricordo che lui è sempre stato votato. “mi stanno sul cazzo” quelli che hanno votato Silvio Berlusconi. “mi stanno sul cazzo” i Rom, non so il motivo, ma sento che li odiano tutti allora lo faccio anche io. “mi stanno sul cazzo” i francesi... a pelle. “mi stanno sul cazzo” coloro che fanno scienze politiche e si lamentano della mole di studio con quelli di Giurisprudenza. “mi stanno sul cazzo” i Marò, dovete restare in India. “mi stanno sul cazzo” i tronisti di Uomini & Donne, perché se fossi in loro mi scoperei le corteggiatrici davanti alle telecamere. “mi stanno sul cazzo” le ragazze al Camillo, ad inizio serata ti dicono di no, al quarto cocktail ti ritrovi nei bagni con lei e una sua amica, e l'amica non tiene la porta. “mi sta sul cazzo” chi mi dice “rispetta il parere altrui” perché dovrei rispettarlo se “mi stai sul cazzo”? L'uso del mio linguaggio e dei concetti politicamente scorretti potrebbero scandalizzare molti dei lettori. Ebbene, agli stessi consiglio allora di rinunciare a gran parte dei nostri classici, a partire da Aristofane, Cicerone, Giovenale per arrivare al 1300 con Boccaccio e sopratutto al “sommo” poeta Dante Alighieri, che dire poi di Pietro Aretino o Shakespeare, de Sade, Hugo. Aveva proprio ragione Cesare Pavese quando scriveva che «nulla è volgare di per sé, ma siamo noi che facciamo volgarità secondo che parliamo o pensiamo».

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LETTORI SI I FATTI DEL 2016 DIVENTA

Etgar Keret di Sofia Frigerio

gente sola e biancheria sporca di Sofia Frigerio

inchiostropavia@gmail.com

Mi hanno chiesto di scrivere una recensione divertente; e se non divert ente almeno leggera, scanzonata, irriverente. Eccomi qui dunque; momento di pausa (com’è che siamo a maggio e scrivo con una coperta di pile sul pancino), me lo ripeto per la quarta o quinta volta: Non i pippozzi senza capo né coda che quando inizi ci prendi gusto e da pippozzi molto average diventano stratosferici pippozzi. No, nemmeno la sviolinata sullo spessore socio-psico-esistenziale del libro (che un pochino ho già in mente, maledetta me).

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Per sicurezza ho scelto una raccolta di racconti (anzi due) di cui, per la verità, la cosa più sensata da fare sarebbe non dir nulla. Proprio zero. Per scongiurare il rischio di una deriva cerebrale ho evitato riviste online, recensioni, blog letterari. Mi serviva avvicinarmi a questo autore più come se per caso ci fossimo trovati in coda dal panettiere; due parole sul tempo, per cominciare, e, se la coda è lenta, un paio anche sulla vita e sul prezzo in ascesa delle sfogliatine alle mele. Mi sono letta, questo sì, un bel numero di interviste (sul web se ne trovano in abbondanza), un numero sufficiente a far sì che ora me lo senta piuttosto vicino, tipo che potrei azzardarmi a indovinare i suoi gusti preferiti di gelato, per farvi un esempio.

Non c’è modo di abituarsi all’andamento della narrazione. Tutte le storie iniziano bruscamente. Terminano altrettanto bruscamente. Le si legge con smania, quasi trangugiandole. In un’intervista rilasciata a “The atlas review”, Keret afferma: «Penso che scrivere significhi, per me, avere a che fare con quei confusi territori della vita che mi viene così difficile digerire e articolare. Penso a un uomo alla fermata dell’autobus con in mano un caffè take-away di Starbucks e un giornale sotto il braccio. Ogni volta che prova a bere un sorso di caffè il giornale gli cade, e dopo averlo ripreso continua a provarci, così il giornale gli cade una seconda e una terza volta. Scene così possono portarmi alle lacrime.»

Le tette di una diciottenne e Pizzeria Kamikaze. Il mio amico, quello patito di sfogliatine alle mele, è Etgar Keret, israeliano di origini polacche, scrittore, regista, autore di fumetti, sceneggiatore per il cinema e la TV.

Sono vicende abbastanza comuni: storie d’amore finite male, storie di malati d’asma e malati di mente, di taxisti e bambini prodigio. O morti ordinarie (come la morte di un genitore), tradimenti coniugali, amicizie trascurate.

Facciamo finta che io sia morto. Oppure che apra una lavanderia automatica, la prima nel suo genere in Israele. Prendo in affitto un piccolo capannone, mezzo diroccato, nella zona sud della città, lo dipingo di blu. Oppure me ne sto disteso sul pavimento del mio bagno con una pallottola nella tempia. Sarà mio padre a trovarmi. All’inizio non si accorgerà del sangue.

INCHIOSTRO • numero 148

La gente che va alle lavanderie automatiche è sola. Non bisogna essere dei geni per capirlo. E io non sono un genio, e l’ho capito. Per questo cercherò di creare nella mia lavanderia un’atmosfera che attenui la sensazione di solitudine.

La narrazione è nitida, compatta: questa chiarezza di contorni è dovuta soprattutto al contrasto con il silenzio di tomba che la circonda. La natura di questo silenzio è particolare: ha lo stesso grado di realtà, la stessa consistenza della voce narrante. Così che viene percepito come una sorta di controcanto alla storia, né più né meno che una voce fuori campo. Ma, anche, come una pressione negativa sul punto di risucchiarla. Il risultato complessivo è di porre la storia in bilico, in una situazione doppia e ambigua, di presenza e assenza al tempo stesso. Questo spiega, forse, la furia vorace con cui uno si trova a leggerla: come temendo che possa, da un momento all’altro, scomparire. La prima cosa che farà mio padre, si laverà le mani. Poi chiamerà un’ambulanza. Il fatto di essersi lavato le mani gli costerà caro. Non se lo perdonerà fino al giorno della sua morte. Ho una mia teoria, sul suo modo di agire: prende una vicenda e ne sviscera la componente essenziale, diciamo il sentimento puro. Isolato il sentimento puro, si libera senza remore di tutto il resto, soprattutto dei rumori di sottofondo (per questo dicevo che la voce narrante si staglia in un vertiginoso silenzio); ma anche del contesto sociale, dei fatti accessori e morali. Questo sentimento viene poi ceduto a un narratore distaccato e apatico; che, com’è prevedibile, non sa bene cosa farsene. Si inventa allora un’altra storia che ha sì qualcosa in comune con quella iniziale, ma questo nesso è tutto sommato trascurabile. Per cui ciò che accade al lettore è una sorta di sfilacciamento emotivo: prima la percezione, all’interno di una storia raccontata nel modo più asettico possibile, di un certo e ben preciso sentimento. Poi, quasi all’istante, l’intuizione che questo stesso sentimento appartiene, più propriamente, a un’altra storia. E’ un procedimento che a spiegarlo può suonare macchinoso. In realtà è più fluido di quanto sembri; Keret

LETTORI SI DIVENTA

lo racconta bene così, in poche righe: «L’esperienza di scrivere racconti è molto personale. Tutto ciò che scrivo è una strana proiezione della mia limitata esperienza quotidiana. Può essere che un giorno un commesso mi tratti in modo scortese mentre compro della verdura; e io allora, in qualche modo, converto tutto questo nella storia di un’invasione aliena.» La mia lavanderia diventerà una catena. La logica nascosta dietro al successo sarà semplice- fintanto che ci sarà gente sola e biancheria sporca, io avrò inevitabilmente clienti. Però non vorrei darvi l’impressioni che questa nitidezza di sguardo, che annulla le proporzioni, ottenga per estremo di stritolare i singoli dettagli in una lente deformante. Tutto l’opposto: la sua non è una scrittura espressionista. È, spesso, surreale. Ma questo ha poca importanza. Saltati i nessi logici, i vincoli di verosimiglianza, l’etica dei rapporti (e le riverenze, i formalismi), la rigidità dei tempi di azione, lo sviluppo storico delle relazioni, l’approfondimento psicologico dei personaggi eccetera, saltato tutto questo non resta che fare i conti con il nocciolo duro delle vicende umane, quello che non porta da nessuna parte, che non ha rimandi e può renderci tristi senza un motivo preciso. Che manda i nostri schemi in corto circuito perché ci strappa alla fluidità dell’abitudine; ed è, questo sì, un inceppo, un errore del ragionamento, l’anello che non tiene. Un singhiozzo della coscienza in cui s’insinua l’elemento di compassione. È lo stesso che per la faccenda dell’uomo con il caffè e il giornale sotto braccio – malgrado tutto quello che ho detto, non mi sembra si pianga per le sue storie. Il punto è proprio questo: che invece potrebbero, dovrebbero farci piangere. E invece non lo fanno. Fuori splende il sole e giù, sul prato, la mia ragazza è nuda. E’ completamente assorta dal libro, persa. E io- se faccio uno sforzo per farmi un’opinione- penso che sia una bella cosa che lei prenda il sole perché quando è abbronzata i suoi occhi verdi risaltano ancora di più. (Penso di aver parlato di pianti e lacrime in questo articolo molto più che in qualsiasi altro abbia mai scritto.)

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