INCHIOSTRO 138 - Febbraio/Marzo 2015

Page 1

Il giornale degli studenti dell’Università di Pavia

Sono incredibilmente emozionata nello scrivere il mio primo editoriale da direttrice per un numero così importante e mi sembra quasi superfluo aggiungere quanto io sia orgogliosa di fare parte di questo progetto!

Inchiostro compie 20 anni. Io ne ho 21. 20 anni fa, quando avevo giusto qualche mese, una manciata di studenti ha dato vita a questo giornale e anno dopo anno altri studenti si sono passati il testimone non solo per farlo sopravvivere, ma per migliorarlo e lasciare una traccia indelebile del loro passaggio.

I tempi passano e cambiano. Sembra banale? Eppure pensateci: nuovi computer e strumenti di impaginazione, nuovi mezzi di comunicazione rapida e social network. Eppure resta quella passione che indissolubilmente lega noi alle generazioni passate, resta l’impegno e l’eccitazione di vederne il risultato.

È confortante l’idea che il blocco dello scrittore che sto cercando di abbattere, parola dopo parola, in questo editoriale sia lo stesso che ha attanagliato altri redattori. È curioso immaginare come la mia insonnia della notte precedente alla stampa definitiva del numero non sia una mia versione privata della “notte di Natale” ma qualcosa che altri hanno vissuto quanto me. È meravigliosa la consapevolezza di far parte di qualcosa di così grande! Siamo tasselli, siamo rilegature, siamo pagine della vita di Inchiostro e siamo inchiostro indelebile su quella carta che resterà, se non nel tempo, nel cuore di tutti noi redattori.

Ovunque siate, redattori, in alto i bicchieri: questo numero è per noi! Auguri! di Elisa Zamboni Febbraio/Marzo 2015 - Anno XX - Numero 138


Il giornale degli studenti dell’Università degli Studi di Pavia.

DIRETTORE RESPONSABILE: Simone Lo Giudice DIRETTORI EDITORIALI: Matteo Camenzind, Eleonora Salaroli, Elisa Zamboni DIRETTORE SITO: Giorgio Di Misa TESORIERE: Elisa Zamboni IMPAGINAZIONE: Elsa Bortolotti, Eleonora Salaroli, Elisa Zamboni IMMAGINE DI COPERTINA: Elisa Zamboni ILLUSTRAZIONI: Matteo Camenzind CORRETTORI DI BOZZE: Airina Paccalini, Giulia Marini, Cristina Motta, Ludovica Petracca, Gloria Romano REDAZIONE: Ignazio Borgonovo, Elsa Bortolotti, Matteo Camenzind, Francesca Carral, Giorgio Di Misa, Irene Doda, Matteo Croce, Elisa Enrile, Cristina Ferrulli, Niki Figus, Giorgia Ghersi, Elisabetta Gri, Giorgio Intropido, Alessio Labanca, Simone Lo Giudice, Giulia Marini, Cristina Motta, Airina Paccalini, Ludovica Petracca, Gloria Romano, Camilla Rossini, Angelo Ruggieri, Eleonora Salaroli, Valeria Sforzini, Elisa Zamboni COLLABORATORI ESTERNI: Beppe Battaglia, Irene Brusa, Claudio Cesarano Anno XX - Numero 138 - Febbraio/Marzo 2015 Sede Legale: via Mentana, 4 - Pavia Simone 3467053520 Eleonora 3384208867 Elisa 3463951170 Iniziativa realizzata con il contributo concesso dalla Commissione Permanente Studenti dell’università di Pavia nell’ambito del programma per la promozione delle attività culturali e ricreative degli studenti. Fondi 2015: 6162,76 euro Mandato in stampa il 26 Marzo 2015 presso l’Industria Grafica Pavese s.a.s. - Pavia Registrazione n.481 del Registro della Stampa Periodica Autorizzazione del Tribunale di Pavia del 23 Febbraio 1998. Tiratura: 900 copie.

inchiostropavia@gmail.com inchiostro.unipv.it

2


O I R A M SOM PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SERGIO MATTARELLA Giorgio Intropido

pag.4

HABEMUS MATTARELLA Niki Figus

pag.5

CENT’ANNI PER RICORDARE Eleonora Salaroli SPECIALE: INK 20+ Irene Brusa, Matteo Camenzind, Elisa Zamboni #OSCAR2015 Ludovica Petracca, Eleonora Salaroli LSD: LETTORI SI DIVENTA Ignazio Borgonovo, Ludovica Petracca

pag.6-7

pag.8-12

pag.13

pag.14-15

NB - SANREMO: MUCH ADO ABOUT NOTHING Matteo Croce

pag.16

NB - UN BLUESMAN TUTTO ITALIANO Elisa Enrile

pag.17

LA NEMESI DI ANDY LUOTTO Alessio Labanca

pag.18

SUPER BOWL XLIX Gloria Romano

pag.19

3


SERGIO MATTARELLA PREsIDENTE DELLA REpUBBLICA DI GIORGIO INTROpIDO

sediamento. E nulla c’è da dire se non che Renzi ha vinto nelle grandi manovre parlamentari, riuscendo da una parte a ricompattare i Dem, dall’altra a farsi appoggiare la candidatura dalla sinistra vendoliana e da Scelta Civica, facendo esplodere nel frattempo (insieme, pare, col Patto del Nazareno) anche la testa di Forza Italia, quindi di tutto il centrodestra.

Sergio Mattarella: siciliano di Palermo, classe 1941, vedovo con tre figli. Figlio di Bernardo (politico democristiano più volte ministro tra gli anni ’50 e ’60) e fratello di Piersanti, assassinato dalla mafia nel 1980 quando era presidente della regione Sicilia. Cattolico e moroteo, inizia la carriera parlamentare nel 1983 con la prima elezione alla Camera dei Deputati. Rieletto nel 1987, nell’89 è nominato ministro della Pubblica Istruzione nel governo Andreotti VI; a lui va attribuita la riforma che cancellò il maestro unico durante quello che fu un incarico pressoché fulmineo: a luglio del ’90 è, insieme ad altri esponenti della sinistra DC, nel gruppo di coloro che si dimettono per protesta contro la fiducia posta sul disegno di legge Mammì, per intenderci la famosa legge Polaroid che di fatto definì il duopolio RAI/Fininvest, legittimando la situazione preesistente. Nella parentesi senza incarichi è posto alla direzione del giornale di partito Il Popolo. Rieletto alla Camera nel 1992, è però l’anno successivo quello in cui forgia il mattarellum, forse l’ultima legge elettorale che

4

possa essere definita tale. Nel 1994 è tra gli oppositori alla candidatura di Rocco Buttiglione come segretario del neonato Partito Popolare Italiano, il quale cercava l’avvicinamento al Polo delle Libertà di Berlusconi: Mattarella stesso definì come «un incubo irrazionale» l’idea di una Forza Italia tutt’uno con il Partito Popolare Europeo. Tra il 1996, anno in cui viene rieletto deputato, e il 2001 è vicepresidente del Consiglio durante il governo D’Alema I e ministro della Difesa nei successivi governi D’Alema II e Amato II. Quando il PPI confluisce ne La Margherita, Mattarella è rieletto nuovamente alla Camera. La settima elezione a deputato arriva nel 2006 tra le fila de L’Ulivo, ma con la caduta del governo Prodi II esce dal Parlamento nel 2008. Nel 2011 viene eletto infine giudice della Corte Costituzionale. All’elezione per il Presidente della Repubblica del 2013 il suo nome risultava tra i papabili proposti da Bersani, poi scartato. L’elezione al Colle del 31 gennaio di quest’anno è storia nota a tutti. La doverosa panoramica biografica sul neoeletto Presidente della Repubblica Italiana è una sintesi di ciò che si è detto e “stradetto” nel mese e mezzo circa che ha visto prima il nome di Mattarella affiorare tra i tanti, poi l’elezione e l’in-

È indiscutibile l’alto profilo istituzionale di Sergio Mattarella. Ma c’è qualcosa di distorto e forzato – per usare un eufemismo – nel ritratto che ne hanno fatto i media nelle ultime settimane. La foresteria della Corte Costituzionale, la Panda grigia, il tram tra Firenze e Scandicci, e ancora la figlia che racconta di «un uomo allegro che ama i cannoli»… È comprensibile la morbosità giornalistica di aggrapparsi al gossip quando (ed è vero) manca materiale su cui lavorare, anche perché è un po’ quello che fa chi scrive questo articolo. Ma questa volontà di voler a tutti i costi dipingere su Mattarella la figura di una specie di campione di austerità e rigore assoluto è oltremodo noioso. E in un Paese come l’Italia - dove le gradazioni di grigio non esistono e gli estremismi giocano un ruolo di punta anche nei costumi - la novità vera sarà quando si parlerà di un Paese normale, dove un’alta carica dello Stato abbia i giusti onori, senza la necessità di ricadere da una parte nei soliti sperperi della casta o, dall’altra, nella pura demagogia di un Presidente francescano che viaggia in tram e rinuncia all’auto blu, come lo vorrebbe un certo “renzismo” tutto fumo e poco arrosto. Sperando e confidando ovviamente che Mattarella non sia nulla di tutto questo, bensì proprio quell’«arbitro imparziale» del suo discorso di insediamento.


HABEMUS MATTARELLA di Niki figus Avete notato che è arrivata la primavera? Il sole si fa più caldo, le giornate più lunghe, gli uccellini tornano a cantare e gli unicorni si risvegliano dal letargo. Il cielo s’adorna d’azzurro e arcobaleni, mentre il fruscio del vento tiepido è una canzone dei Beach Boys che accarezzano i Bee Gees. Arriva la primavera: abbiamo eletto Mattarella.

T

ANGENTOPOLI, Mattarella finì sotto processo per un finanziamento illecito (da parte di un costruttore legato alla mafia), ma non fu condannato. La legge, infatti, puniva dai 5 milioni, lui ne prese 3, in buoni benzina. Sobrio.

OLA, Un saluto da questa PENIS anti 3D. i cambi la Costituzione. po ta, e, che oggi scopre le stamp ret lla de e dove prima giri la ruo a, ric me l’A prì bo, che par tì e sco to dalla scor ta. Patria di Cristoforo Colom i servizi sociali accompagna nta sco e ni sio evi tel de possie Il paese in cui chi governa edia e di Padania Libera. mm Co Il paese della Divina E Alfano, già. Mare calmo, benvenuto Presidente. Un abbraccio.

Presidente della

Repubblica

IL COMPROMESSO... Ci nutre e ci uccide. Ci for tifica e ci distrugge. È la sottile linea tra libertà e dienza, mentre di fronte incondizionata obbealle proprie responsabil ità i più rimangono immo bili. Dunque, tu mi chiedi, se ho forse paura? In realtà, no. Qualcuno disse: «La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’im portante è che sia accom «È bello morire per ciò pagnata dal coraggio». in cui si crede; chi ha pa ura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola». Paolo Borsellino

5


Cent’anni per ricordare Un secolo dopo, la memoria di ciò che fu la Grande Guerra a Pavia di Eleonora Salaroli

Apriamo un qualunque libro di Storia. Sfogliamolo e leggiamo i primi paragrafi relativi al ‘900. Prima Guerra Mondiale, 1914-1918. Sotto il titolo, un bilancio sommario di come si svolse e di ciò che rappresentò per il mondo: la “prima guerra moderna”, combattuta con le nuove armi messe a disposizione dalla tecnologia (carri armati, sottomarini, aerei, mitragliatrici e gas); la “guerra di logoramento o usura”, in cui si rischia la pelle per la conquista di una manciata di metri, in cui l’attesa in trincea sfianca l’anima prima del corpo; una contesa locale trasformatasi in scontro fra due blocchi di potenze per l’egemonia europea e mondiale. Ma cosa fu la Guerra per chi la visse in prima persona? E cosa significò per Pavia? Il centenario dell’entrata in guerra dell’Italia è un’occasione che riporta a interrogarci sul suo significato e su

come abbia influito sulle vite di tutti. Anche Pavia porta i segni indelebili di un lutto forse oscurato dal successivo conflitto mondiale, ma che non per questo deve essere sminuito. Le testimonianze che incontriamo per la città gridano al cielo rivendicando il loro diritto a non finire nell’oblio; primo tra tutti, il Monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale, sito nel Cortile dei Caduti dell’Università, realizzato da Alfonso Marabelli e inaugurato nel 1922. Sulla facciata principale dell’Ateneo e in corrispondenza del Cortile dei Caduti, trionfa una gigantesca targa commemorativa, con nomi e cognomi di chi partì e non fece ritorno. Centotrentaquattro i nomi degli studenti universitari che partirono al fronte, centotrentaquattro giovani speranze che si spensero con la loro vita. Ma non tutto è perduto. Perché, come diceva Foscolo:

Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de’ suoi? [...]

6


TRAME DI GUERRA Immagini da ricordare e per ricordare. La piccola mostra, allestita dai Musei Civici al Castello Visconteo e ormai giunta al termine, punta a coinvolgere lo spettatore per dargli una percezione di ciò che effettivamente fu la Grande Guerra: la vita in trincea, le lettere piene di angoscia e allo stesso tempo d’amore, le armi che trasudano sangue e terrore, fotografie e nomi in un turbinio di rumori e silenzi confusamente alternati. I reperti storici si fondono con l’opera d’arte dando esiti imprevedibili. Ecco qualche esempio. DAVIDE FERRARI War bottles, 2014 Realizzata in collaborazione con Alessia Bottaccio. Ogni bottiglia diventa uno scrigno che custodisce “antichità private”. Lo spazio è un luogo della memoria, immobile e desolato: come la risacca deposita oggetti eterogenei a riva, non ordinati ma ognuno con la propria traccia di memoria, che attende di essere decodificata.

JACOPO MILANESI Frammenti di guerra, 2014 I tre organi simbolo dell’umano sentire: il cuore, sede dei sentimenti, il cervello, sede della ragione, e l’intestino, sede dell’istinto e dell’inconscio. MARTA VEZZOLI Inside, 2014 Traccia audio a cura di Martino e Marcello Mocchi. Voce recitante: Marcello Mocchi. Garze macchiate di (finto) sangue, terra e ferro a ricordare le trincee e le armi, lettere che raccontano una guerra vista di volta in volta con orgoglio ed entusiasmo, con orrore e spavento, impotenza per la morte dei compagni, speranza, impossibilità di comprendere. ROSSELLA ROLI Mother’s Gas Mask, 2009 In queste particolari valigie non c’è spazio per i souvenir: sono kit di sopravvivenza, necessaire da viaggio da portare sempre con sé per non farsi mai cogliere impreparati, come a suggerire che nella nostra apparentemente serena e pacifica quotidianità nulla è come sembra.


INCHIOSTRO XX

Inchiostro compie vent’anni. Per l’occasione abbiamo riesumato i vecchi numeri e iniziato a cercare chi ha letteralmente scritto la storia del nostro giornale. In questo numero, dopo affannose ricerche siamo riusciti a recuperare i contatti di Cristina e Armando, che ci hanno concesso due interviste direttamente dal 1995 e 1998. Ma non finisce qui!!! Per spegnere al meglio queste venti candeline, inaugureremo una rubrica fissa sia per il cartaceo che per il sito dal nome #INK20+. ATTENZIONE: A tutti coloro che non sono ancora stati tediati dalle Nostre Persone e vorrebbero lasciare un loro contributo sotto forma di intervista o articolo revival, ci contatti: inchiostropavia@gmail.com

Una chiacchierata con Cristina Sivieri Tagliabue di Irene Brusa e Matteo Camenzind Entriamo nel bar in cui Cristina ci ha dato appuntamento. Non la vediamo, Irene scherza: «Però c’è Luca De Biase, se vuoi intervistiamo lui.» Ed ecco che la ragazza in faccia a Luca (fino a quel momento rimasta nascosta) ci scorge e sventola la mano: abbiamo trovato Cristina Sivieri Tagliabue. Ci accomodiamo e l’intervista nasce da sola, una lunga chiacchierata, con Cristina orgogliosa di una delle sue prime creature, che dopo venti anni ancora avanza. E i ricordi nascono da soli, senza domande: Eravamo cinque ragazzi, tra cui c’era questa ragazza (Maura Mammola) che era molto molto più grande di noi, e a 32 anni aveva ripreso a studiare: è stata la prima direttrice perché era l’unica ad essere pubblicista. Diciamo che il gruppo era fatto da queste persone [indica il colophon del #2 di Inchiostro], alla fine non c’era una direzione, era una specie di collettivo, diciamo, un collettivo letterario, artistico. Noi eravamo innamorati del Gruppo 63, di Barilli e gli altri, avevamo fatto lezione tutti con la Martignoni, e volevamo un posto in realtà per raccontare a modo nostro quello che accadeva ma anche fare un po’ di letteratura. Era un po’ questa l’idea. Nell’editoriale del numero 0, Maura Mammola si domanda «un nuovo giornale: perché?». Sentivate il bisogno di creare qualcosa di nuovo o ce n’era l’effettiva necessità? Onestamente non mi ricordo. Io organizzavo, ai tempi, dei convegni per l’Università di Pavia con scrittori, persone del mondo della letteratura. Ne organizzammo uno, ad esempio, che ebbe un successo enorme, che era sui Cannibali, quindi invitai Tiziano Scarpa, Niccolò Ammanniti , cioè tutta la scena che uscì in quegli anni. La Provincia Pavese pubblicava questi articoli, che pure ci incensavano, che però non era un modo di raccontare attuale che sentivamo nostro. Prendere in mano la cosa senza mediazione diventa uno strumento… Secondo me Inchiostro è diventato un po’ uno strumento didattico, impari a scrivere: fai l’università, continui a studiare studiare studiare, però alla fine non c’è mai nessuno che ti faccia una prova scritta. Noi facevamo Lettere e avevamo voglia, fondamentalmente, di provare a scrivere. Quindi giornale di Lettere e Filosofia perché eravate voi? Eravamo noi, tutto un gruppo che studiava Lettere e avevamo detto: «Vediamo se si riesce a fare questa cosa». Credo che tutti avessimo voglia di creare qualcosa assieme, di scrivere l’Università in un’altra maniera. E poi sono quei momenti magici che accadono, confluiscono delle energie che poi si disperdono; se fossimo nati negli anni ‘40 o ‘50 veramente avremmo


fatto un collettivo artistico. Come siete arrivati al nome Inchiostro? Io avevo proposto come titolo della testata Nuvola in calzoni, che è il titolo di una poesia di Majakovskij. Poi c’era Inchiostro ed un terzo nome che non ricordo. Alla fine votammo Inchiostro. Com’è nato in pratica Inchiostro? La prima riunione la facemmo a casa di Maura Mammola e poi io, che ero rappresentante degli studenti e avevo contatto con il rettore e tutte le persone importanti, andai a chiedere al professor Piero Milani i soldi per realizzare il primo numero. Gli chiedemmo un milione di lire, mi ricordo, e ho ancora l’at-

testato della mia richiesta, che fu approvato e poi ovviamente dovevo spiegare tutto il progetto editoriale e quello che sarebbe stato il giornale. Accordato questo primo finanziamento, noi dovevamo presentargli le fatture. Quindi vai a chiedere i preventivi agli stampatori, non c’era Internet, ovviamente… Chi era, la prima redazione? Il primo gruppo eravamo Daria [Pandolfi], Alberto [Santini], io, Barnaba [Ponchielli], Maura [Mammola] e Filippo Ughi, che però qui manca [indica ancora il colophon del #2 di Inchiostro]. La prima riunione, hai detto, la faceste a casa di Maura Mammola. E poi?

9


Spesso ancora a casa di Maura, oppure in Università, in biblioteca [Petrarca, ndr] e nei bar, ovviamente. Un sacco nei bar. E per scrivere e scambiarvi gli articoli come facevate? Io nel ‘95 avevo il computer, e anche Daria. Gli articoli venivano scritti individualmente, anche a mano, li fotocopiavamo e poi c’era una persona che li ricopiava tutti (Daria è quella che s’è prestata di più a questa cosa, io ero più pigra). Avere il computer era… per lei uno svantaggio. Quali erano i ruoli all’interno della redazione? Facevamo tutto in maniera molto incasinata. Io ero quella che portava un po’ a casa i soldi e gestiva i preventivi. E poi scrivevo, ma non organizzavo all’interno del giornale. Tutti in realtà dicevano la loro ed eravamo tutti pari e avevamo voce su tutto. Non c’era assolutamente nessun tipo di gerarchia. Per quello dico che eravamo più un collettivo artistico che una redazione. Sfoglia il numero di dicembre, e lo riscopre piacevolmente molto letterario rispetto a una volta, «che era diventato più politico». Ritornando ad Inchiostro, cos’è stato per te? È Inchiostro che ti ha fatto appassionare al giornalismo o viceversa? No, io lo volevo fare da prima. A dodici anni lavoravo con il giornale provinciale di Monza (perché io sono di Monza), scrivevo le cronache locali, facevo le interviste ai giovani ai giardinetti, … Di tutto. Ho fatto veramente la gavetta. Quand’ero al liceo collaboravo appunto con questo giornale cittadino. Poi collaboravo anche con giornali immobiliari. Poi ho fondato Inchiostro, poi ho lavorato in una redazione a Milano. Poi ho fondato un giornale che si chiama Bar Business, che era un allegato. Poi Il mio computer. Poi ho fondato un inserto della rivista Millionaire. Poi sono stata assunta da Altavista come Content Director per la sede italiana. E poi mi offrirono alla Telecom il posto di direttore creativo a Roma. Dopo cinque anni, ho conosciuto Luca [De Biase, ndr], mi sono dimessa e siamo venuti qua a Milano. Lui ha preso il posto al Sole24ore, io mi sono presa un anno sabbatico e poi ho aperto la mia casa di produzione, la cosa più importante della mia vita. Ho deciso di imparare un mestiere. Non chiederci la parola, una no-profit, e l’idea era quella di promuovere l’immagine delle donne all’interno dei media, di migliorarla. E poi ho fondato la video factory L ​ alà. Ti è ancora capitato di leggere Inchiostro? Ovviamente sì, mi hanno anche coinvolto per un corso di scrittura creativa che avevano organizzato al Ghislieri nel 2006, poi ogni tanto vado sul sito. Però sono fiera di Inchiostro, ce l’ho ancora sul curriculum.

Cristina Sivieri Tagliabue scrive su Nòva24 nel Sole24ore, sul Fatto Quotidiano e sul Giovedì del Corriere della Sera. Ha fondato la casa di produzione video​Non Chiederci La Parola e poi la v​ ideo factory Lalà. Ha pubblicato Appena ho 18 anni mi rifaccio (Bompiani, 2009), Alfabeto Bonino (Bompiani 2010), Non è un paese per donne (Mondadori, 2011).

10


Intervista a Armando Barone: com’era Inchiostro quando ero una quattrenne? di Elisa Zamboni

Perché sei entrato a Inchiostro? È stato Inchiostro che ti ha aperto al giornalismo o il giornalismo che ti ha portato a Inchiostro? Cos’è stato per te lavorare per questo giornale? C’è qualche legame con il tuo lavoro attuale? Di cosa ti occupavi o preferivi occuparti? Quando ero al secondo anno di Lettere, Inchiostro era la rivista di Facoltà, era editata in quattro pagine e non aveva più alcun redattore. La ragazza che se ne era occupata con passione, Cristina Tagliabue, non aveva potuto continuare. Non c’era nessuno che se ne volesse occupare. Cinzia Quadrati e Lorenza Pozzi, mie compagne di corso, me ne parlarono perché lavoravo come giornalista per il settimanale locale ed ero in possesso del tesserino da pubblicista – requisito fondamentale per fare il Direttore di un giornale. Di lì in poi le necessità di organizzare una redazione e di presentare il progetto per ACERSAT hanno fatto il resto: ci siamo appassionati e ho finito per fare davvero il direttore, anche se era poco più che un ruolo formale. Le decisioni, insomma, si prendevano tutte insieme. Lavorare per Inchiostro? Non mi pareva vero. Passare dalle mirabolanti avventure dei politici locali, dai pezzi sul riscaldamento a pannelli per lo Speciale Edilizia, dalle partite di Terza Categoria Girone A ai testi degli studenti, a scrivere di cultura e di Università e di cinema, a pubblicare racconti e poesie... una meraviglia. E ho anche imparato a fare l’editing dei pezzi. Tutte cose che mi sono servite: il mio lavoro oggi è il copy writer (che pensa e poi scrive per vendere le cose) e l’addetto stampa (che vende le notizie). Lavorare amatorialmente in una rivista ti fa capire cos’è l’auto-organizzazione, la programmazione, l’editing, la foliazione, i fondi che servono per fare tutto questo... E le inenarrabili scocciature che tutto questo porta, perché quando le cose le vuoi fare bene è inevitabile che ci sia anche il lato meno nobile, più faticoso e irritante.

11


Ti è capitato in questi anni di leggere Inchiostro? C’è qualche rubrica che ricordi con particolare affetto e vorresti rispolverare? Un po’, per mestiere... Ogni tanto le notizie che tratto finiscono anche a Inchiostro. Ma le rubriche, beh, non ne avevamo molte. Avevamo bellissime pagine di cinema, quello sì! (Ma non le scrivevo io). Oppure, i pezzi dell’esimio professor Puglisi: oh sì, il noto economista (mio amico di infanzia) scriveva pezzi come quello su “Spendi Spandi Effendi” di Rino Gaetano e, vi assicuro, che erano fantastici. Nel ‘98 io avevo solo 4 anni e trovo molto curioso provare a immaginare come fosse organizzata la redazione e se fosse tanto diversa da quella che oggi, a 21 anni, dirigo. Come si gestiva un giornale senza potersi confrontare in gruppo via mezzi rapidi come WhatsApp o social network? Come avveniva l’impaginazione senza Adobe InDesign a portata di mano? Che metodi richiedeva la promozione di Inchiostro? E come avveniva il “retaggio” delle nuove leve? No, dai, non fatemi fare il Vecchio... Ho quarant’anni, dai. Epperò avete ragione: no, non esisteva nulla. Si impaginava con Quark X-Press mettendoci una vita. Si stampava in tipografia su carta e andavamo fino a Magenta a ritirare 2.000 copie di una rivista formato Repubblica a 24 pagine, con la mia Peugeot 924cc che non aveva la quinta e consegnavamo a mano, ovunque, con le mani nere per il contatto con la carta. I redattori si reclutavano chiedendo in giro... Poi ogni tanto qualcuno ti mandava una mail o ti lasciava tre cartelle di testo in Biblioteca di Lettere. Però abbiamo anche organizzato da zero eventi molto belli, come il recital di Stefano Benni con Umberto Petrin (erano i primi, allora...). Serata indimenticabile anche perché Lorenza e io siamo ammiratori da sempre del “Lupo”. E da allora ho anche una stima altissima di Petrin... Direi che siamo amici, ma forse è troppo. Sai, di quelle confidenze che nascono per caso, anche se uno non sa niente dell’altro?

Oppure quando ho riaccompagnato a Milano (sempre con la mia Peugeot 205 rossa) la poetessa Alda Merini. Fumava come una ciminiera e, dato che fumavo anche io, fu un viaggio perennemente e pesantemente avvolto dalla nebbia di tabacco. Non ricordo di cosa parlammo, so che la portai fino alla porta di casa, sui Navigli, e forse per tutta quella nebbia che mi era entrata dentro, non ho avuto il coraggio di chiederle nulla, di provare a conoscerla meglio, di capire qualcosa. Mi è passata accanto, e non ho saputo cogliere nulla. Visto che mi fate fare il vecchio, accettate il consiglio: respirate queste occasioni fino all’ultima molecola. Altro che sigarette.

Entrando più nello specifico negli anni della tua direzione del giornale, nel 1998: perché il 13 febbraio 1998 Inchiostro si reiscrive al Registro della Stampa Periodica del Tribunale di Pavia? È per questo che avete ricominciato la numerazione? E, una curiosità, perché le illustrazioni/copertine mistiche? Mistiche! Addirittura! Erano fantasy, dai... Oh, ma voi nati digitali non disegnate più a mano? La registrazione era obbligatoria, allora, per fare una rivista. E sì, la numerazione pure era di prassi per poter pubblicare. E per concludere... C’è qualche aneddoto di redazione a cui sei particolarmente legato? Beh, direi quando ho preso il microfono per presentare Benni. L’ho chiamato “Giovane scrittore” e aveva già 50 anni. L’ho annunciato come “il piatto forte” della serata, suscitando parecchie risate. Mi vergogno tuttora di tutti quei cliché, mi sarei seppellito all’istante. Ma la serata è stata fantastica e alla fine dello spettacolo siamo andati a berci una birra insieme: una sensazione di leggerezza che non ho più dimenticato.

12

Lavora come senior copywriter, addetto stampa e social media manager per Echo, società cooperativa per la comunicazione culturale e d'impresa di Pavia. Collabora come free lance con agenzie, studi grafici, case di produzione e registi a Milano e Genova. Per Blonk, casa editrice digitale, ha ideato e cura il blog La Settimana Corta, una collana di racconti brevi di autori diversi, e pubblicato in ebook il racconto Il fiume senza, vincitore del Premio Affini 2014.


#OSCAR2015

ovvero Breve resoconto di una patinata nottata in bianco Di Ludovica Petracca e Eleonora Salaroli

E

ra una notte buia e tempestosa. Gli esami imperversano e il freddo pavese incita a nascondersi sotto le coperte con tè e libri. Ma non è una domenica qualsiasi la sera del 22 febbraio: è la serata degli Oscar 2015. A mezzanotte, quattro coraggiosi redattori si riuniscono nella sede di Piazza Botta, in rappresentanza di Inchiostro, per seguire la cerimonia trasmessa in differita su Cielo. Nonostante le premesse, l’idea di fare after nel luogo in cui di solito teniamo riunione ci galvanizzava al punto che quasi il caffè non ci sembrava così indispensabile. Ma avevamo fatto male i conti. Sistemiamo la connessione con l’ansia di rito; accendiamo la stufetta, l’unica fonte di gioia insieme alla fantastica macchina per i pop-corn le cui fattezze ricordano quel tenero robottino femminile della Disney. Scongelati e sfamati, siamo pronti a relegare nell’oblio l’illusione delle forme perfette delle star che vediamo sfilare sul Red Carpet: Reese Witherspoon, Emma Stone, Jennifer Aniston, Dakota Johnson... Abiti

stupendi, eleganti, scollati. Noi invece siamo accampati con plaid nonna-style, forse solo leggermente più secsi di Lady Gaga, stranamente sobria ma con dei dubbi guanti per lavare i piatti che fanno molto Desperate Housewife. La cerimonia ha inizio solo verso le 2.30: un elegantissimo Neil Patrick Harris fa il suo ingresso in scena con la classica ouverture musicale. Ed è subito How I Met Your Mother! Rompe il ghiaccio con una battuta che getta benzina sulle polemiche dei giorni precedenti: «Tonight we honour Hollywood’s best and whitest ... sorry brightest (Stasera onoriamo i migliori e i più bianchi... Scusate, i più brillanti)», in riferimento al fatto che per le nomination non sono stati presi in considerazione attori di colore. L’ironia suscita qualche risata, ma per il resto dello show la comicità rimane piuttosto piatta. Neil ci riprova più tardi scimmiottando Michael Keaton, nella ormai scena cult di Birdman in cui esce dal camerino in mutande. Insomma non esattamente una conduzione da Oscar come ci si aspettava, soprattutto dopo la performance dell’anno scorso di Ellen De Generes. Niente pizza, niente selfie, niente uscite alla Barney. Le premiazioni scorrono veloci mentre noi, svanito l’effetto palliativo del mais scoppiato e attanagliati dalla fame, cerchiamo ristoro nell’ultima provvista a disposizione: i cioccolatini. Numerosi i premi tecnici a Gran Budapest Hotel, tra cui una vittoria anche per l’Italia: Milena Canonero che vince il suo quarto Oscar per i costumi. “Miglior attore protagonista” risulta Eddie Redmayne per La teoria del Tutto, “Miglior attrice” la protagonista di Still Alice Julienne Moore. Il clima di tepore creatosi in redazione ci avvolge e alcuni di noi non resistono: in uno stato di dormiveglia solo gli improvvisi applausi del pubblico riescono a scuotere: «Ma chi ha vinto?». C’è però chi deve rimane sveglio per assolvere a

un compito importante: il live tweetting. Patricia Arquette, “Miglior attrice non protagonista” per Boyhood, pronuncia un appassionato discorso sul femminismo che accalora e fa esultare Maryl Streep e Jennifer Lopez. Whiplash invece consacra il talento di J.K. Simmons come “Miglior attore non protagonista”. Inarritu fa scorta di Oscar e il suo Birdman si rivela il trionfatore dell’87esima edizione degli Accademy, aggiudicandosi “Miglior fotografia”, “Miglior sceneggiatura originale”, “Miglior regia” e “Miglior film”. Ridendo e scherzando, dormendo e tweettando, con lo stomaco che brontola e l’alba che colora i tetti del centro città, portiamo a termine la missione alle 6.30. Come attirati dal profumo di brioches appena sfornate, ci precipitiamo fuori per la colazione. Siamo gli unici a solcare le strade deserte insieme ai pendolari che vanno al lavoro; l’aria è frizzante e nonostante la stanchezza, nonostante le occhiaie che arrivano a terra, ci sentiamo vivi. Pronti per andare a studiare. Evviva.


199

Lo ammetto è stato il Caso a farmi leggere questo libro, insieme a un titolo assolutamente folle che non ha potuto non catturare la mia attenzione. Mambo? Orsi? Come già si può intuire non siamo davanti a niente di convenzionale, però il titolo incuriosisce e si finisce per aprire il libro, lo si sfoglia svogliatamente, poi si legge qualche frase ed ecco accadere l’impensabile: si rimane conquistati. Cercare di descrivere quest’opera è invero piuttosto difficile: si potrebbe definirla singolare, o eccessiva, o proprio senza senso. Tutti e nessuno questi aggettivi sono i più calzanti. Ed è proprio questa capacità di incuriosire il lettore, di portarlo a proseguire ancora e ancora, la promessa di trovare infine una chiave di lettura a tutto questo apparente “nonsense”, ad essere il segreto del romanzo.

Ma andiamo con ordine. La storia narra le vicende di una mal assortita quanto assurda coppia di individui: uno gay, ricco e nero, l’altro bianco, rozzo ma sveglio. Immagino già la vostra espressione incredula. Ecco mettete questa strana coppia in Texas, in una cittadina piccola e incattivita, governata dai più tipici esponenti del caro, vecchio Ku Klux Klan. Metteteli alla ricerca di un’amica giornalista (nera anch’essa) “scomparsa” per aver fatto qualche domanda di troppo, e pensate al tutto come ad un climax di situazioni degno di Pulp Fiction, della sua assurda quanto violenta serie di eventi. Devo davvero trovarvi altre motivazioni? Ebbene in questo caso non si posso non citare lo stato dell’arte raggiunto dai dialoghi. Si citava Tarantino quanto agli eventi, sappiate che per i dialoghi vale lo stesso identico paragone. Gli scambi di battute tra i due protagonisti sono qualcosa di incredibile: sboccati, politicamente scorretti, spesso come senza senso ma sempre ironici e cupi al medesimo tempo, mai banali, mai soporiferi. Questo non è un giallo, non è un thriller, sappiamo solo quello che non è ma, in qualsiasi genere lo vogliate incasellare, merita la lettura. Andate ed acquistate.

IL MAMBO DEGLI ORSI di Ignazio Borgonovo

14


201

Il 7 gennaio 2015 doveva essere una giornata come un’altra in Francia, magari appena tinta da qualche polemica politico-letteraria sul libro appena uscito, Sottomissione, e sulle visioni distopiche e lievemente islamofobe del suo autore Michael Houellebecq; visioni che quel giorno gli avevano conquistato la copertina del settimanale Charlie Hebdo. Poi è andata diversamente, e quel Charlie Hebdo è diventato il non voluto simbolo di una giornata nera per la Francia, l’Occidente e la convivenza interreligiosa. Tutti temi di Sottomissione. L’immaginazione/timore dell’autore ridisegna gli equilibri politici dei partiti francesi da qui a sette anni, nel 2022: il Fronte Nazionale diventa il primo partito, colmando lo scarto, irreparabile, tra cittadini e classe dirigente tradizionale; esautorate destra e sinistra, ad emergere come unico contrappeso a Marine Le Pen è Ben Abbes, abilissimo leader della Fratellanza Musulmana. La tensione sociale comincia a montare ed episodicamente sfocia in tumulti, attentati. La situazione si scioglie quando le forze di destra e sinistra convergono verso il leader musulmano, che vince le presidenziali. La Francia scivola allora verso un regime musulmano, mentre la popolazione sembra a metà tra smarrimento e afasia. Un professore di letteratura alla Sorbona, “un uomo di una assoluta normalità”, si guarda intorno mentre le donne, in abiti che si fanno più coprenti, sono allontanate dal lavoro e gli insegnanti dalla scuola, che diventa islamica. Anche lui perde, quindi, il suo lavoro all’università, ma accorgersene è difficile e preoccuparsi lo è anche di più, perché la pensione che riceve è pari allo stipendio precedente. È una Sharia dolce. La società si riappacifica, è ipnotizzata dalla fine della disoccupazione, per l’esodo delle donne dal mercato, dalla fine dei disordini, dal ritorno di un modello di famiglia forte, restaurata dal patriarcato. Nell’Occidente Houellebechiano non potrebbe essere altrimenti. È una civiltà già vinta, e non dall’Islam, ma dal nichilismo, da un umanesimo estremo che nega la possibilità di un qualsiasi valore, che sia anche solo consolatorio. François, il docente universitario, è testimone e prodotto di questo fallimento. Scappando da un consapevole senso di straniamento, si ritrova in chiese, santuari, monasteri. A muoverlo, però, non è un elitario desiderio di trascendenza, ma il più banale bisogno di appartenere a qualcosa. Che troverà altrove, quando le “atmosfere d’incenso” non faranno il miracolo: in uno stipendio triplicato, tante mogli, l’Islam. Au revoir integrità.

IL SUNSET BOULEVARD DI UNA CIVILTÀ di Ludovica Petracca


Comprendo bene che parlare ancora di Sanremo dopo la Notte degli Oscar è un po’ come preferire la Sagra della lumaca comunista alla celebrazione inaugurale dei Giochi Olimpici. Detto questo: per chi l ’avesse perso per motivi di studio o per i fantomatici “motivi personali” (scuse antiche per le assenze scolastiche) o volutamente; per chi non fosse a conoscenza del consueto evento o per chi avesse seguito una o due serate o tutte, ecco sei punti scelti da me insindacabilmente per siglare in modo definitivo l’ennesima (sessantacinquesima, presentata da Carlo Conti), irriducibile, puntuale, eterna manifestazione canora italiana. Comici scadenti Siani, Pintus, Cirilli, Panariello, gli scarti di Zelig: i relitti della comicità italiana che quest’anno non hanno accontentato nemmeno il pubblico più depravato. Non mi è dispiaciuta l’esibizione di Luca e Paolo sul saluto cantato, sul “ciao” ai defunti artisti italiani citati sotto forma di lista della spesa (devo ammettere di averla riascoltata per notare chi

ampiamente espressi i due massimi esperti: Enzo Miccio (se non sbaglio ha presentato un programma incentrato sulle varie mise e sugli umori fashion del Festival); Mario Luzzato Fegiz (se non sbaglio ha commentato, come ogni anno, ciascuna delle canzoni in gara). I “superflop” dei “superospiti” Saint Motel: il microfono del frontman non vuole proprio funzionare durante la hit My tipe e all’esibizione si unisce un traumatizzato tecnico Rai. Riuscirà a risolvere il guaio soltanto a canzone ultimata; il problema è il tecnico. Gianna Nannini: su qualsiasi motore di ricerca digitate Gianna Nannini Sanremo 2015; cercate il video della performance incriminata; godetevi lo spettacolo. Il problema è Gianna Nannini. L’errore della classifica Filippo Neviani (Nek) appare sul fondo della classifica finale, ma è un errore tecnico. Panico e risate isteriche risuonano nell’Ariston, mentre Conti sbianca e cerca di inventare un modo per far passare il tempo (riuscendo a mantenere sempre il suo proverbiale

Sanremo: much ado about nothing di Matteo Croce mancasse, temevo non avessero salutato Tenco). Vorrei soltanto aggiungere: «Pierangelo Bertoli, ciao; quello dei Tazenda, ciao». È stato proclamato (giustamente) re della comicità sanremese il fu Sergio Conforti (Rocco Tanica). La sua pacata e paciosa irruzione si è rivelata un vero toccasana per l’ironia ammalata del Festival (peccato non sia apparso anche nel corso della serata finale). Fiori alle drag queen Quest’anno è successo un fatto strano senza alcun precedente: Conchita Wurst (Thomas Neuwirth) e Platinette (Maurizio Coruzzi) hanno ricevuto i mai appassiti fiori sanremesi come ogni donna che abbia attraversato la pista del Festival. Una trasgressione? Una provocazione lanciata dal temerario e ribelle Carlo Conti? Chi può dirlo. Look e canzoni Per questi due concetti fenomenici della kermesse musicale si sono già

16

rictus). Il problema della grafica viene risolto e il cantante vola su su fino al secondo posto. La triade vincente Primo posto per Il Volo (il tenore e mezzo annunciato vincitore del Festival prima che nascesse); secondo posto per Nek (Cavaliere della Luce); terzo posto per Malika Ayane (Apparecchio Invadente). Come posso non citare il sorridente Aldo Grasso con la sua osservazione finale sul Corriere TV nella celebre rubrica Tele Visioni: «Se 15 milioni hanno visto quel programma così modesto, significa che qualcosa in questo paese non funziona» (grazie al Grasso!). Ora lasciamo da parte (per sempre) questa edizione di Sanremo. In conclusione, ci tenevo a dirvelo, la Sagra della lumaca comunista esiste davvero.


BNEOT NEA

UN BLUESMAN TUTTO ITALIANO Una voce italiana si distingue in America Di Elisa Enrile Non penso esista nessuno indifferente alla musica, quella buona, quella che indipendentemente dal genere ti fa venire i brividi o ti fa cantare a squarciagola. Personalmente, ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia dove la musica è legge, dove io e mio fratello, a 5 anni, ci trovavamo a cantare a squarciagola canzoni degli Who, degli Yes e dei Jethro Tull, dove Finardi e Bryan Adams erano richiesti a gran voce nelle lunghe traversate in macchina per le vacanze. Ho quindi imparato ad amare generi musicali che al giorno d’oggi non tutti hanno la voglia di ascoltare o di capire, preferendo altri mondi, che comunque anche io apprezzo e condivido. Tra i generi musicali in parte inesplorati da noi giovani, rientrano anche il Jazz e il Blues. Ed è proprio un bluesman quello che ci ha gentilmente concesso un’intervista oggi. Fabrizio Poggi è un “armonicista da paura!”, come lo ha definito Dan Aykroyd, l’Elwood Blues dei Blues Brothers. Ma non è solo questo: cantante e premio Oscar Hohner Harmonicas, candidato ai Blues Music Awards 2014 (gli Oscar del blues), candidato ai JIMI Awards 2014 (gli Oscar della prestigiosa rivista Blues411) come miglior armonicista dell'anno nel mondo, Fabrizio Poggi ha suonato e registrato con tanti grandi del blues, del rock e della canzone d’autore. Juba Dance, il disco che ha preceduto Spaghetti Juke Joint, e che ha inciso con Guy Davis è stato per ben otto settimane al PRIMO posto della classifica dei dischi blues più trasmessi dalle radio americane. Un curriculum niente male! Alla richiesta di parlarci un po’ di lui, per presentarsi ad un pubblico che potrebbe non conoscerlo,

umilmente riferisce di preferire che siano gli altri a presentarlo, per paura di risultare “sbilanciato tra il troppo e il troppo poco”. Ma dalle sue risposte emerge comunque una personalità ben definita: entusiasta, e follemente innamorato del suo lavoro di musicista. Riferisce di essere “ammalato” di blues da quando è un ragazzo, da quando si è avvicinato a questa musica che lui definisce “un miracolo”. La patria di Fabrizio è l’Italia, ma una gran parte nella sua vita ha avuto l’America, grazie alla quale ha visto la maggior parte dei suoi sogni realizzarsi. Negli States ha infatti conosciuto Guy Davis, uno dei musicisti con cui ha preferito suonare in assoluto, incontrato ad un festival blues che ha dato vita ad un’amicizia e ad un legame musicalmente molto proficuo. In America ha anche vissuto una delle esperienze più emozionanti della sua carriera artistica, quando trovandosi a suonare a Greenwood, nel Mississippi, un’anziana signora afroamericana gli si è avvicinata dicendogli: «Hey man, you touched my heart»; o ancora quando

Jimmy Carter, il leader e più anziano componente dei Blind Boys of Alabama (uno dei gruppi gospel più importanti al mondo), gli ha confidato di considerarlo come “un fratello musicale”. La spinta a scrivere e a suonare musica arriva a Fabrizio direttamente dalle storie che ha avuto la possibilità di vivere e di vedere vissute, per riversare poi tutto il suo amore e la sua dedizione sul palco, dove riesce a coinvolgere il pubblico come pochi sanno fare. Altra cosa che può rendere particolarmente interessante Fabrizio Poggi ai nostri occhi, come se già tutto questo non bastasse, è una delle sue pubblicazioni, I Cantastorie: una strada lunga una vita, che tratta proprio di cantautori pavesi, dagli anni ‘50 ai ‘70, che sono stati raccontati in questo libro per riportarli alla memoria della gente. Fabrizio è deciso a continuare la sua carriera musicale sino a che “Dio gli darà la salute”, e intanto noi possiamo goderci il suo ultimo disco, il numero 18, che sarà presentato con Guy Davis da marzo, in un tour che vedrà coinvolta mezza Europa… Chi fosse interessato si armi di biglietti aerei, perché purtroppo l’Italia non fa parte di questa metà!

Non perdetevi l’intervista integrale su inchiostro.unipv.it!

17


La nemesi di Andy Luotto di Alessio Labanca

Tornati dalle vacanze natalizie, vi siete mai chiesti quale destino potrebbe attendere lo stufato del giorno prima o la scatoletta di mais che dal fondo del frigorifero urta silenziosamente la vostra coscienza da consumatori attenti agli sprechi alimentari? Io no, ma c’è chi l’ha fatto per noi e ha rimorchiato qualche pollastrella (allevata all’aperto con mangimi bio s’intende) grazie a queste conoscenze. Sto parlando di Andy Luotto.

Andy Luotto nasce (a New York), cresce e corre come attore e comparsa nella bellissima TV anni ‘70 sperimentale di quel Renzo Arbore che ancora oggi si finge napoletano (sono bravi tutti a fingersi napoletani per apparire più simpatici agli occhi degli altri). Sin da subito, però, pensa di riciclarsi nel mondo brillantinato e patinato dello spettacolo italiano come cuoco e, proprio da qui, nasce l’idea pitagorica: portare avanti la raffinatissima cucina del riciclo. Trova quindi spazio esclusivamente a ridosso delle vacanze di Natale/Pasqua e in quei momenti dell’anno in cui la gente impazzisce e crede che il cibo sia un bene-rifugio migliore dell’oro o del “mattone”. Lo possiamo vedere in tv con la stessa cadenza dei servizi sensazionalistici sui blitz dei NAS in esercizi commerciali fatiscenti che, sembra, decidono di alzare le saracinesche solo in questi periodi dell’anno. Possiamo dunque dedurre che, durante il resto dell’anno, sia i NAS che Andy Luotto non lavorino. Oppure che possano essere la stessa entità, con una doppia vita: di mattina sequestra roba avariata, di notte la cucina. Andy Luotto si trova, così, avanti diverse decadi rispetto ai camorristi e agli alti funzionari statali che hanno messo le mani sul riciclo dei rifiuti tossici, e rispetto a quei tizi che decidono di fare le ‘Pubbilicità Progresso’ sulla plastica e definirla “troppo preziosa per essere considerata un rifiuto”. Decide allora di prendere tutto quello che gli avanza a caso dal frigorifero, inventarsi delle ricette ancora più innovative della cucina molecolare e presentare come “originale” la frittata di pasta fatta con le uova, scadute rigorosamente il giorno prima, e la pasta col ragù di cinghiale congelato durante la stagione venatoria 1987/1988, ma che la tua coscienza proprio non vuole che si butti via nell’umido. Non ora che l’EXPO si avvicina e siamo magicamente tutti interessati alla produzione di cibo

18

sostenibile, perlomeno. La sua nemesi, Endy Cul8 (me l’hanno suggerito in redazione, “così fa molto Avril Lavigne”), nasce (sotto il Ponte di Baracca), cresce e corre come aspirante guastafeste. Incurante degli sforzi delle ONG impegnate nei Paesi in via di sviluppo e delle leggi etico-religiose che governano i sensi di colpa per gli sprechi alimentari, Endy dissipa, spende e spande per cucinare piatti orrendamente pacchiani e oltraggiosi verso le culture di almeno quattro tribù indigene dell’outback australiano. Endy è senza limiti e/o limitazioni e non ha paura ad affrontare anche le associazioni in difesa dei diritti sugli animali: produce da sé il foie gras alimentando forzatamente le oche con altre oche alimentate a loro volta con foie gras, col rischio di scatenare una pandemia di encefalopatia spongiforme tra i volatili (ribattezzata per l’occasione “sindrome dell’uccello pazzo”); strappa avidamente le conchiglie-casa dei paguri per studiare come si comportino gli animali inferiori sulla questione degli sfratti verso chi occupa abusivamente le abitazioni popolari non assegnate, per poi farci un gustoso consommé. A volte partecipa a violentissime cacce di frodo di specie vegetali in via d’estinzione come la Brighamia insignis e la Celtis asperrima (rispettivamente noti come “cavolo su un bastone” e “bagolare siciliano” - esistono davvero) per creare interessanti insalate da abbinare alle patatine San Carlo, sotto stretto consiglio di Carlo Cracco. Endy Cul8, più che la nemesi di Andy Luotto, è la summa delle fantasie erotico-culinarie represse di tutte quelle persone che hanno uno strano rapporto col cibo, con particolare riferimento a quelle persone che comprano l’affettato già confezionato: guardatevi allo specchio e chiedetevi scusa.


SUPER BOWL XLIX Vincere è la sola cosa che conta

di Gloria Romano “Vincere non è tutto. È la sola cosa che conta”, così era solito dire Vincent Lombardi, origini italiane e la fama di essere il padre del football americano moderno grazie alle sue importanti esperienze da coach. A lui è dedicato il Trofeo del Super Bowl, e la frase in questione non potrebbe trovare migliore applicazione. Il Super Bowl di quest’anno, l’edizione numero 49, è andata in onda il primo febbraio scorso in Arizona nello Stadio Glendale di Phoenix. A contendersi il titolo della NFL (National Football League) rispettivamente New England Patriots e Seattle Seahawks, questi ultimi vincitori nel 2014 e quindi favoriti indiscussi dai pronostici della vigilia. Ma il risultato finale ha decretato esattamente il contrario, con i Patriots vincitori per 28 a 24 grazie alla regia eccezionale del quarterback Tom Brady, considerato poi il miglior giocatore del match. E’ stata una partita di quelle degne di una finale nazionale: incerta fino all’ultimo, con una situazione di superiorità Seahawks ribaltata negli ultimi 2 minuti di gioco a causa di un banale errore che è costato loro la vittoria. Una sconfitta che brucia l’anima da una parte, ma una vittoria che vale un’intera carriera dall’altra, perché in un match del genere non si accettano mezze misure. Il Super Bowl è uno di quegli eventi capaci di fermare una nazione intera ed è risaputo che gli Stati Uniti in quanto a celebrazione non hanno eguali in giro per il mondo. Date un evento mediatico in esclusiva agli americani e state pur certi che riusciranno a trasmettervi il loro entusiasmo nel realizzarlo, dovunque vi troviate. E così hanno fatto, incollando qualcosa come più di 100 milioni di spettatori alla televisione in una sola serata.

Numeri da capogiro il cui merito è anche del famigerato Half Time Show, lo spettacolo che caratterizza l’intervallo di metà partita e che ogni anno regala al pubblico effetti grafici e scenici degni di una Cerimonia d’ Apertura Olimpica. Questa volta ad esibirsi è stata Katy Perry, che in appena 13 minuti ha saputo cimentarsi in una delle sue migliori performance, con un medley di 6 dei suoi più grandi successi. L’artista è entrata in scena cavalcando un enorme leone metallico (in pieno stile “esagerazioni MADE IN USA”), e dopo squali di peluches, coreografie e fuochi d’artificio, ha lasciato il palco sollevata in aria da un’imbragatura, come a voler rappresentare una stella cometa. Un’esibizione memorabile a cui si sono uniti Lenny Kravitz e Missy Elliott e caratterizzata dall’immancabile sfida tra spot pubblicitari e trailer cinematografici trasmessi in anteprima mondiale. Un vero e proprio show dentro lo show che ha dato una tregua all’agonia sportiva e ha permesso ai giocatori di riprendere fiato, ma anche un eccezionale intrattenimento per il pubblico: non è un caso se il costo medio per 30 secondi di spot si aggira intorno ai 4 MILIONI di dollari.

Anche quest’anno il Super Bowl non è stato solo un evento sportivo, ma un esempio di devozione e passione da cui molti altri Paesi dovrebbero trarre spunto. In tutto questo la vittoria dei Patriots diventa ancora più dolce, perchè capace di sorprendere e stravolgere le aspettative di tutti. Aveva ragione Vince Lombardi “vincere è l’unica cosa che conta”, soprattutto in un’occasione del genere. E l’America ha vinto ancora una volta.

19


[iŋ’kjɔstro]

1. s. m. sostanza liquida o anche in pasta, di colore e composizione chimica vari, usata per scrivere e disegnare o per stampare.

2. s. m. liquido nerastro che la seppia e altri cefalopodi secernono per difesa. 3. s. m. celebre e rinomata rivista degli studenti dell’Università degli Studi di Pavia.


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.