Il Tascapane - 13

Page 1

TASCAPANE


EDITORIALE

INDICE

Buongiorno lettore, io e tutta la redazione in questi mesi abbiamo scritto e disegnato per te, ma prima di lasciarti gustare e perché no criticare quello che ti offriamo, teniamo a presentarti questo frutto bianco e nero che é nelle tue mani. Giá perché qualcosa é cambiato, ha vari volti in realtá questo “qualcosa”. Una nuova impaginatrice, che dopo il passaggio di testimone dal grande ex grafico Zenna (che ringraziamo per tutte le notti trascorse nella struttura Tp) ha prodotto un lavoro ottimale, l’entrata in redazione di tante nuove penne e la voglia di mettersi in gioco di tutti, dai veterani alle new entry. E per non farci mancare nulla è nato perfino un nuovo capitolo radiofonico che ha già raggiunto un successo strepitoso. Concludo con uno speciale grazie a Davide Zagni, per la sua essenziale disponibilitá a farsi carico, per questi mesi, del lavoro “sul posto” che causa la pausa erasmus della sottoscritta, gli é stato affidato con la consapevolezza di una vittoria già scritta. A costo di peccar di ripetizioni e pesantezza voglio ribadire che sono felice, emozionata e or-

gogliosa nel poter constatare che ce l’abbiamo fatta anche questa volta. Ricordo il momento a riunione in cui si é pensato di dedicare l’inchiesta di questo numero a un argomento che tutti avevamo a cuore: il terremoto, un anno dopo, e cosí é stato. A presto e grazie caro lettore. Questo numero 13 é per te. Fiorella Shane Arveda

inchiesta . natura storta/nicola tolloi . le pulci sul cane addormentato/tommaso vable . da lampadine a laser/michele cuccu . terremoto: un anno dopo/lucia chierici . un terremoto salverà l’architettura?/fabiola mele casati attualità . altra marea/giacomo menegus . italians/francesco de carlo . ferrara/pietro marino . to shake or not to shake/andrea pirazzini . la coerenza della cipolla/pietro marino . io parlo come mangio/martina pirani . intervista/fiorella shane arveda+edoardo rosso spettacolo . il western di peckinpah/davide zagni . flags of our fathers/giacomo gianoccaro . con le tasche piene di sassi/lia simonatto . some nights/andrea biolcatti . mirandola: a canestro contro il terremoto/gabriele gatto . vince il city,passa lo sporting,trionfa lo sport/luca mezzogori . il calcio italiano in tempo di crisi/raffaele campo rovigo . i veri master chef d’italia/filippo marangoni . viagem para lisboa/laura canto . altro giro, altra corsa/matteo a. zennaro cultura . guardie svizzere/antonio mondin . funzionari divini e perfidi automi/nicola tolloi . il terremoto cristiano in giappone/davide zagni . noi siamo infinito/giulia guidi . lettura del bhagavadgita/anonimo . grandi scosse per i tocchi di teatro/lia simonatto . la nuova bayreuth di wolfgang windgassen/nicola tolloi . tocco sismico/gabriele gatto . nel buio/lia simonatto la sezione orfana . la scossa ferrarese della liquidità/alessandro ciccola . trucchi quotidiani/francesca ammadeo . una paideia per due/gloria dalla vecchia . la sua arte apparteneva solo a lei/hanna maroz


COLOPHON IL TASCAPANE Il giornale che ti porti dietro NUMERO 13 Gennaio-maggio 2013 DIRETTORE RESPONSABILE Luca Iacovone VICEDIRETTORI Edoardo Rosso CAPOREDATTORE Fiorella Shane Arveda

CONTATTI www.tascapane.blogspot.com www.tascapane.it noss@live.it EDITORE Ass.NOSS_ Non solo studio Sede legale via montebello 111 Ferrara STAMPA GeniusPrint P.IVA 03781861210

REDAZIONE Francesca Amaddeo, Fiorella Shane Arveda, Andrea Biolcatti, Laura Canto, Raffaele Campo, Lucia Chierici, Alessandro Ciccola, Michele Cuccu, Gloria Della Vecchia, Francesco de Carlo, Gabriele Gatto, Giacomo Gianoccaro, Giulia Guidi, Filippo Marangoni, Pietro Marino, Hanna Maroz, Antonio Tranquillo Mondin, Martina Pirani, Andrea Pirazzini, Edoardo Rosso, Lia Simonatto, Nicola Tolloi, Tommaso Vable, Davide Zagni, Matteo Zennaro. PROGETTO GRAFICO Laura Abbruzzese CHI HA COLLABORATO progetto grafico: Hanna Maroz intervista: Josefina Costa Juan, Lucia Lunardi

Un anno dopo



NATURA STORTA Nulla può essere ritenuto più meschino che la taccia di assurdità dove lo spirito vuol mantenere la sua dignità contro la natura e rifiuta di abdicare davanti ad essa. Così Settembrini— personaggio chiave de La montagna incantata — intende dare un punto fermo nell’infinita diatriba sul dualismo corpo-spirito. Il corpo, inteso come materialità, è in questo caso rappresentato dalla natura tout-court, la quale — prosegue Settembrini — nel 1755 fu responsabile a Lisbona di un catastrofico terremoto. Colmo di ammirazione, Settembrini descrive al giovane protagonista del romanzo il gesto apparentemente insensato di Voltaire e il suo significato: ebbene, Voltaire si ribellò. Sì, ebbe un moto di rivolta. Non accettò il fatto e fato brutale, rifiutò di abdicare. Protestò in nome dello spirito della ragione contro quello scandaloso eccesso della natura, del quale caddero vittime tre quarti di una città fiorente e migliaia di vite umane… Si meraviglia? Sorride? Si meravigli finché vuole, ma in quanto al sorriso mi prendo l’arbitrio di vietarglielo! La ragione della nobiltà del gesto sta nella tensione spirito-corpo in generale e in quella uomo-natura in particolare: è l’ostilità dello spirito contro la natura, la sua super-

LE PULCI SUL CANE ADDORMENTATO

ba diffidenza contro di essa, la sua magnanima insistenza sul diritto di criticarla insieme con la sua maligna e irragionevole potenza. Poiché essa è la potenza, ed è da schiavi accettare la potenza, venire con essa ad accomodamenti… Beninteso “interiori”. In altri termini il corpo/ natura va onorato e difeso solo quando si tratta della sua emancipazione e bellezza, della libertà dei sensi, della felicità e del piacere, mentre va disprezzato quando si oppone al moto verso la luce e va addirittura aborrito quando rappresenta il principio della malattia e della morte, quando il suo spirito specifico è lo spirito della stortura, della putrefazione, della voluttà e della vergogna. Terremoti e catastrofi sono manifestazioni della natura storta e malata di cui parla Mann, lontana da quella ideale e idealizzata spesso dominante nell’immaginario comune. Verso la natura della malattia e della morte — almeno interiormente — non si deve scendere a compromessi, e forse la nostra condizione sarà un po’ più tollerabile e quanto meno più dignitosa.

Nicola Tolloi

Tommaso Vable Occhi aperti, quasi. E’ buio. Un vortice impetuoso di vetri infranti e urla. Il boato di qualcosa che deflagra, sbriciola, spacca, si spalanca fuori e dentro le quattro mura che paiono convergere, collassando su se stesse. Mitragliata di rumori! Cascata di oggetti! Mille aghi di brividi che sollevano la pelle. Sudo adrenalina. Il bianco di occhi senza palpebre di chi mi sta accanto è il solo colore, vivido, che illumina la stanza. Le finestre tremano, “adesso si spacca tutto!”, penso (o forse lo sto gridando?). Il lampadario è il vertice di un gorgo che rotea come una spirale nauseante, mi sento trascinato e sbattuto contro il muro, il letto è un cavallo indomabile, imbizzarrito che scalpita come volesse disarcionarci dalla groppa. Ecco si è fermato. Tregua. Afferro la mia ragazza per il polso, ci precipitiamo giù per le scale divorando gradino dopo gradino, non c’è nulla che valga la pena di prendere con sé, niente ha valore. 20 secondi cuciti sulla pelle, a vita. Siamo in strada. Finalmente. Appoggiati allo stipite della porta osservo l’ombra che appare e scompare della luce che proviene dal lampione sospeso sulla strada. Anche lui oscilla. E’ il mondo che sta attorno che

sciaborda come l’acqua in un bicchiere. Luce ombra, luce di nuovo, poi si cheta. Piano. Illumina e adombra, a tratti, quelle piccole figure smarrite che non si capacitano, che non credevano, che non sapevano che, adesso, farfugliano chiedono piangono tremano! Da dentro, questa volta. Ma voi vi ricordate le prove antipanico al liceo? Non so da dove le abbia ripescate ma sta di fatto che in quel frangente ho recuperato quell’immagine in qualche cassetto della memoria, sorrido. Il giorno prima: “ avviso, domani dalle ore 10:00 alle ore 10:30 le lezioni saranno interrotte per la simulazione...” e qui di solito il discorso scemava perché la news importante era già nell’immaginario comune (mezz’ora di cazzeggio regalato, evviva!). Ma questa volta non c’è nessuna campanella che squilla, nessuno ti dice che il “pericolo” sta iniziando o è passato, “ritornare in classe, grazie!”, no! Qui non sa niente nessuno, non c’è nessun preavviso! Questa è paura liquida. La senti scivolare addosso, è densa, pesante, fredda. Siamo sul dorso di un cane che dorme. Pulci inconsapevoli che prendono coscienza di essere tali solo quando Lui si desta e

dopo una scrollatina per sistemarsi il pelo e un giro di valzer, ritorna si riacciambella a sonnecchiare per secoli.


tendiamo a guardarci troppo intorno a spargere le nostre energie per illuminare, per farci strada nel buio. dovremmo imparare ad indirizzare le nostre energie in un’unica direzione per poter essere efficaci per essere incisivi. dovremmo imparare a trasformarci da lampadine a laser. MK

TERREMOTO: Il terremoto del 20 maggio è stato come un fulmine a cielo sereno. Ci si cullava nell’idea che le nostre zone fossero totalmente antisismiche. Lo sgomento e la paura si mescolavano nei visi di chi si è trovato in pigiama per strada alle quattro della mattina, senza capire ancora la portata di quello che fosse successo. L’angoscia non se ne è andata per mesi e tutt’oggi è ben radicata, risultato di settimane e settimane di scosse di assestamento( che sono ancora in atto). A quasi un anno dal terremoto siamo ripartiti, con fatica e sudore, tentando di mantenere i

Un Anno Dopo

nervi saldi e con la speranza che sia finalmente finita. I comuni in cui si sono verificati i danni più ingenti sono quelli di Bondeno, Cento, Mirabello, Poggio Renatico e Sant’Agostino. Seri danni ci sono anche stati nella stessa città di Ferrara, dove sono gravemente danneggiati o inagibili numerosi edifici pubblici, patrimoni artistici e religiosi, edifici scolastici, università e ospedali. Le abitazioni private danneggiate sono circa 8000, di cui 4000 parzialmente o completamente inagibili, tanto che gli sfollati sono qualche centinaia. I due eventi sismici prin-

Lucia Chierici

cipali hanno causato un totale di 27 vittime(22 nei crolli, 3 per infarto o malore, 2 per le ferite riportate), in maggioranza dipendenti di aziende distrutte. La forza d’animo e la volontà di ripartire sono vere e potenti, testimoniate in particolar modo dai giovani, impegnati nei campi di accoglienza e nelle attività di assistenza alla popolazione fin da subito. Una parte importante di questi giovani sono anche studenti Unife come Laura, studentessa di informatica, Edoardo, che frequenta geologia e Marcello, studente al primo anno di medicina,


tutti residenti nel comune di Bondeno e che durante il terremoto sono entrati a far parte della Protezione Civile Nazionale. Ancora oggi a Bondeno gli sfollati sono 1460. Laura si è resa disponibile attivamente nella gestione dei campi e nell’accoglienza agli sfollati, assistendo gli anziani. Ci dice Laura:”ho un ricordo bellissimo dei mesi passati nei campi d’accoglienza, dove eravamo diventati una vera e propria comunità”. Le fa eco Edoardo “Ho capito subito che si trattava di qualcosa di grosso. Abbiamo aiutato la popolazione a uscire di casa, facendola allontanare dagli edifici che rischiavano di crollare.”. “In quei momenti ho capito che non ero io la priorità e che anche dovevo contribuire in qualche modo” ci racconta Marcello. Anche la stessa Unife ha subito ingenti danni in seguito al terremoto, in particolare per quanto riguarda le sedi di via Savonarola, utilizzate per lo più dagli studenti del Dipartimento di Studi Umanistici, oggi costretti a frequentare la maggior parte delle lezioni presso la sede di economia in via degli Adelardi. Il professor Matteo Galli, direttore del Dipartimento di Studi Umanistici, ci racconta che gli edifici che han-

no subito danni più ingenti sono Palazzo Tassoni , dove c’è inagibilità totale in diversi piani; palazzo Gulinelli, la Biblioteca di Lettere, che dopo un periodo di chiusura oggi ha ripreso regolarmente la sua attività e palazzo Renata di Francia, che in quanto sede del rettorato ha la priorità assoluta nella messa in agibilità.”Nonostante l’evento sismico” ci racconta il professor Galli”le iscrizioni all’Unife non sono diminuite ma anzi sono aumentate di qualche unità rispetto all’anno accademico passato. Questo anche grazie alle agevolazioni messe a disposizione degli studenti dall’università di Ferarra, come l’esenzione totale dalle tasse per gli studenti la cui abitazione è inagibile e la riduzione della seconda tassa universitaria per gli studenti residenti dei comuni terremotati”. Gli aiuti sono arrivati, ma i problemi sono tanti. Non dimenticateci.

(da sinistra) Fabio

Dondi, Edoardo Lazzari, Francesco Grechi, Marcello Parmeggiani


UN TERREMOTO SALVERA’ L’ARCHITETTURA? Fabiola Mele Casati Sembra inverosimile che nel 2012 un terremoto possa coglierci tanto impreparati nei confronti delle sue capacità distruttive quanto dell’incapacità di prevenirle con le innovazioni tecnologiche di cui siamo più che dotati. Ancor più inverosimile sembra il pressoché totale silenzio che ha coinvolto i principali luoghi di dibattito sull’ architettura a seguito del terremoto in Emilia e non di meno quello dell’ Aquila, l’ultimo che non abbia coinvolto e praticamente distrutto un capoluogo di provincia in Italia dai tempi di Messina e Reggio Calabria nel 1908. E’ con il precipuo intento di sbloccare questa situazione imbarazzante che si è aperta la conferenza tenutasi a Palazzo Medici Riccardi a Firenze lo scorso 6 maggio, promossa dalla rivista di settore “Opere”, la quale aveva appunto preceduto tale evento con la pubblicazione di un numero interamente dedicato al tema (il nr.33, intitolato “Un terremoto di salverà, ndr.). Per il resto silenzio sulle principali testate nazionali (Domus, Casabella, Abitare ecc.), silenzio al Fest’Arch di Perugia del 2012, ad appena poche settimane dal sisma; pers-

ino all’ultima edizione della Biennale di Venezia il problema non è stato affrontato, nel Padiglione Italiano curato da Luca Zevi, che con un’unica, poco significativa installazione in omaggio al mondo dell’imprenditoria su dei piccoli monitor laterali rispetto alle esposizioni centrali: troppo poco rispetto all’incidenza pratica in materia di “costruzione” - o meglio “ri-costruzione” - , una reticenza “ingenua”, volendo, se si considera che alla stessa Biennale il leone d’oro è stato assegnato al progetto di sperimentazione su abitazioni temporanee ma attente agli spazi di aggregazione sociale “Home-for-All” curato da Toyo Ito per il Giappone, il quale già nel 1996 aveva proposto ricerche simili sotto l’egida di Arata Isozaki, senza dimenticare il contributo anche di paesi meno all’avanguardia sotto il profilo di avanzamento tecnologico antisismico, come il padiglione del Cile all’edizione precedente con il progetto “CHILE 8.8”, presentato a fronte del terremoto di magnitudo 8.8 che aveva sconvolto il paese solo pochi mesi prima della rassegna. Ciò che ci resta in Italia è invece la retori-

ca dell’archistar, con progetti pur buoni, sebbene di dubbia urgenza, come l’Auditorium dell’Aquila di Renzo Piano, un colorato cubo di legno ruotato in diagonale e conficcato nel terreno, realizzato con struttura di legno prefabbricato e tutti gli accorgimenti anti-sismici del caso - peccato solo che, ultimati i lavori di restauro all’auditorium cinquecentesco nel Forte Spagnolo, il cubetto verrà smantellato - laddove invece quanto di meglio si è fatto per la popolazione locale è stata la realizzazione, con il decreto legge 28 aprile 2009, di 4500 alloggi per 15000 persone su 70000 sfollati secondo il cosiddetto progetto CASE (acronimo per complessi antisismici sostenibili ecocompatibili): le famose “casette di legno” su mega-piloni di fondazione anti-sismici - per quanto strano possa sembrare agli estranei in materia, il legno è in realtà uno materiali più ecologici, economici, veloci, tecnologicamente avanzati e soprattutto resistenti a sollecitazioni tettoniche esistenti in commercio - destinate a diventare l’ennesimo quartiere-dormitorio sprovvisto di quel 30% di servizi (istruzione lavoro sanità tempo

libero, giusto per citarne alcuni) minimo per legge e per garantire la fruibilità più basilare di uno spazio urbano che andrà invece soltanto ad aumentare il valore fondiario e quindi l’”appetibilità” del territorio circostante, il quale verrà probabilmente saturato in un futuro forse molto prossimo da altri interventi simili ed ugualmente inutili. Ed il centro storico, cuore pulsante della vita e dell’identità del luogo, continua a rimanere il regno delle rovine. “Zona rossa” sottratta non solo da un momento all’altro alle sue routine quotidiane, ma anche ad una tempestiva ricostruzione, vuoi “dov’era com’era”, come se banalmente non fosse successo nulla e tutti i cocci venissero riattaccati più o meno dov’erano prima, vuoi “approfittando” della catastrofe ai fini di un effettivo adeguamento e ammodernamento delle tecniche costruttive e di un assetto urbano più funzionale, risolvendo così l’”elaborazione del lutto” per qualcosa che c’era e che adesso non c’ è più e che è giusto ricordare nella misura della sua scomparsa. Da questo punto di vista si può dire che, nella medesima sventura, l’Emilia sia stata per certi

versi più “fortunata”, avendo subito certamente meno perdite in termini di patrimonio storicoarchitettonico e soprattutto di vite umane. Ma se l’Università dovrebbe essere il vero territorio di sperimentazione in termini di architettura e recupero, qual’ è stato, fino ad ora, il ruolo delle Facoltà di Architettura in Italia ed in particolar modo nel nostro caso, l’Emilia Romagna, nel fornire un contributo scientifico disciplinare alla ricostruzione? Sebbene la città di Ferrara veda la presenza di organi quali l’Urban Center, che promuove la prevenzione al sisma come laboratorio partecipativo aperto a tutti i cittadini, nel Dipartimento di Architettura dell’ Università, rinomato ormai da anni come eccellenza su scala nazionale, il tema del sisma non è stato toccato che come tema di qualche esame volto a riprogettare in termini per così dire “onanistici” aree e strutture rese infruibili dal sisma o rilevare edifici e monumenti inagibili che probabilmente necessitavano di un restauro già prima del sisma. Nessun approfondimento esauriente sulle metodologie costruttive che permettano di prevenire danni sis-

mici, aldilà delle istruzioni sul “come rappresentare graficamente le crepe riportate sul capitello danneggiato”. Ancora una volta si pensa più al dopo, a danno fatto, che al prima. Curare invece che prevenire. Verrebbe da domandarsi quali sensibilità al tema dimostreranno i professionisti di domani, ai quali attualmente non viene neanche accennata la promulgazione, in alcune regioni, di nuovi strumenti urbanistici quali il CLE, schede di redazione di piani di emergenza che affrontano l’eventualità di sisma sotto un profilo quindi non solo puramente strutturale ma anche in termini di capacità di gestire una catastrofe evitando al meglio il disordine ed il disorientamento in un centro urbano in momento di esodo. L’Architettura salverà (da) un terremoto?


ALTRA MAREA

Giacomo Menegus

attualità

Tra pochi anni Venezia potrebbe sparire definitivamente, sommersa non dall’acqua alta o dall’innalzamento del livello del mare, ma dalle torme di turisti che la visitano al ritmo di 25-30 milioni l’anno. L’ultima domenica di Carnevale i visitatori, secondo le stime de La Nuova Venezia, sono stati ben 140mila. Numeri decisamente eccessivi per la città, considerato che, secondo uno studio del prof. Jan van der Borg (docente a Ca’ Foscari di Economia del Turismo), la “capacità di carico” del centro storico veneziano è al massimo di 12 milioni annui di visitatori. Muoversi in città è diventato una sofferenza con calli intasate e vaporetti sovraccarichi; i piccoli negozi di quartiere e le attività non ricollegate al circuito turistico chiudono uno dopo l’altro, incapaci di far fronte alla crescita degli affitti, mentre spuntano come funghi fast-food, negozi di maschere di plastica, vetrini made in China e paccottiglia; rifiuti e sporcizia ricoprono campi e canali, i monumenti vengono imbrattati, gli ingressi delle abitazioni diventano zona pic-nic. Questa situazione porta ogni anno molti residenti ad abbandonare il centro storico: nel 2012 sono andati persi

altri 722 abitanti e in città ora vivono 58mila persone contro le circa 120mila del 1300. Le soluzioni adottate risultano ad oggi insufficienti o contraddittorie: ad esempio è stato avviato un sistema di gestione dei flussi turistici volto ad incentivare le prenotazioni nei periodi meno critici (Venice Connected), ma di contro è stata introdotta una tassa di soggiorno che va a colpire chi alloggia in città, quando invece il problema maggiore è rappresentato dai “pendolari” (i turisti giornalieri che non soggiornano in città, l’80% del totale). Alcune associazioni, come Italia Nostra, denunciando l’inefficacia degli interventi di amministrazione e politica, propongono l’istituzione di una quota massima o “numero chiuso” per i pendolari; altri ancora l’imposizione di un ticket d’accesso. Per ora entrambe le soluzioni rimangono irrealizzate. Recentemente invece il Comune ha promosso la redazione di un decalogo di regole, spesso di semplice buon senso, quali ad esempio tenere la destra nelle calli, non nutrire i piccioni, togliere lo zaino al bordo dei vaporetti, non passeggiare in costume da bagno, non gettare i rifiuti per terra o nei can-

ali che, se non venissero puntualmente disattese, potrebbero rendere la vita dei veneziani e la visita dei turisti più confortevole. Nell’attesa che qualcuno, dopo decenni di politiche turistiche poco lungimiranti, intervenga con un piano d’ampio respiro, sta proprio a noi cittadini, residenti, lavoratori, studenti e visitatori, fare in modo che Venezia si conservi integra e viva, una città vera, un centro culturale e artistico unico al mondo da consegnare alle generazioni future e che non divenga invece un chiassoso e sporco luna-park, pallido e sbiadito ricordo di quella che fu una grande capitale europea.


FERRARA

ITALIANS

“LA VITA E’ TROPPO BREVE PER ESSERE ITALIANI”. CIT. Francesco De Carlo Erano le 21.30 quando era uscito dalla casa dello studente per raggiungere gli altri ragazzi erasmus. In ritardo come al solito, si precipitava di corsa verso il tram che l’avrebbe portato dall’altra parte della città. Essendo arrivato da poco più di una settimana, il nostro giovane italiano era in piena fase di adattamento alla nuova vita, alla nuova gente, alla nuova lingua, alla nuova città: Strasburgo. Il primo impatto è sicuramente emozionante. La capitale politica dell’Europa si presenta come una metropoli a misura d’uomo, un parco giochi per gli studenti erasmus vista la sua peculiare internazionalità, ma anche come una città molto pulita e ordinata. Purtroppo, dietro a ogni luce, per quanto questa possa abbagliarci, c’è sempre anche una zona d’ombra, un lato oscuro. Esiste infatti un’altra parte della città che è esattamente opposta a quella sovra descritta: un ghetto per gli emarginati, per le persone socialmente ed economicamente in difficolta, un nido in cui si covano invidia e rancore, dove gli “ultimi” sono abbandonati a loro stessi. Questo era il luogo in cui risiedeva il nostro protagonista. Quella sera Stras-

burgo stava per mostrare l’altra faccia della medaglia, la sua oscurità. Mentre raggiungeva il tram, sentì delle grida. Si voltò e vide 5 uomini che si stavano picchiando con violenza disumana. Urlavano, gemevano, ma non si insultavano, sembravano degli animali che lottavano per la vita e che avevano perso la loro umanità, compresa la capacità di parlare. Per terra c’era sangue e la vetrata del supermercato davanti al quale si svolgeva la rissa era stata sfondata con la testa di uno dei “lottatori”. Il ragazzo non sapeva come reagire, era semplicemente paralizzato. Se si fosse messo in mezzo sarebbe probabilmente morto, ma non poteva andarsene come se niente fosse. Ad un certo punto però si accorse che non c’è mai fine al peggio: le persone che uscivano dal supermercato, che camminavano nello stesso marciapiede o in quello di fronte, facevano finta che tutto ciò non stesse accadendo. Continuavano imperturbate la loro marcia e la loro vita come se nulla fosse. I corrissanti erano per loro invisibili. Colmo di rabbia, il giovane fermò una delle tante persone indifferenti, gli chiese il numero della polizia e telefonò. Una volta rac-

contato tutto, la donna all’altro capo del telefono gli chiese: “ sei italiano?”, il ragazzo rispose: “si, perché?”. E lei: “l’avevo intuito dal tuo accento, è una vergogna per me che sia stato tu a chiamarci, ma ti ringrazio tanto. Voi italiani non siete solo bunga bunga…grazie.”

Pietro Marino

Abbiamo sempre una gran fretta. O una gran noia, così non la notiamo. Le corriamo intorno quando si avvicina l’estate; la calpestiamo di giorno e di notte, finché non la chiudiamo fuori dalle nostre finestre. Le rimproveriamo di non essere più grande; di non avere più curve, di non essere più aperta, più volgare. Ce l’abbiamo con lei perché non è Bologna. La pensiamo grigia e fredda, altéra ed inquinata. Ma è simpatica perché non sa fingere e quando fa troppo la sofisticata la si smaschera subito, come certe sue signore in pelliccia. E’ più bella quando dice maiàl e si asciuga la bocca sulla manica. I suoi abitanti non sempre sono onesti (come ovunque), ma non sanno neppure fingere. L’acqua del castello con i suoi pesci-siluro-coccodrillo-balena agita i nostri sogni. Il negozio di libri usati davanti la biblioteca li contiene tutti e ce ne regala di nuovi, da sognare al tramonto in piazza Ariostea. La odoriamo e non sa di niente, altre volte è densa di gelsomino. Mai una via di mezzo, mai un odore di cucinato portato dal vento per la strada. Mai un filo di vento tra gomitoli di vie. La assaggiamo ed è dolce

di zucca salata. E’ burrosa e neppure l’eleganza della Sala borsa sa nascondere i campi e le pianure di nebbia che la circondano. E il pane merita rispetto perchè lo si odia o ci si innamora. Costringe a prendere una posizione, ma tutti hanno ragione. Non è emiliana, ma neppure veneta. Chiedetelo al suono dell’erba tra le lapidi del cimitero ebraico, al colore delle dita che vendono le rose la sera al bar, ai ragazzi che fanno l’amore a luglio in parco urbano. Chiedetelo al listone, al

Duomo o a Santa Maria in Vado. Domandatelo ai bambini che si rincorrono attorno all’acquedotto e non sapranno dirvelo neppure loro che cos’è. Lo si capisce solo il pomeriggio dopo un esame e per qualche giorno dopo. Lo si sente quando bisogna salutarla prima di partire per l’ Erasmus o per tornare a casa o trasferirsi in posti lontani con la pergamena in mano ed anche allora non sapremo dirlo bene. Chissà poi, Ferrara che cos’è.


LESSON#3

TO SHAKE OR NOT TO SHAKE

ANDREA PIRAZZINI

Perchè le foto vengono mosse? Una fotografia si ottiene esponendo per un determinato lasso di tempo il sensore della fotocamera alla luce. La durata si misura solitamente in frazioni di secondo: 1/250sec significa che il sensore rimane accessibile alla luce solo per la 250° parte di un secondo. Tuttavia può durare anche secondi interi o persino minuti ed ore. In base a cosa scegliamo il tempo di esposizione? Il più importante fattore è la luce ambientale. Meno è luminoso l’ambiente, come di notte, più deve durare l’esposizione del sensore perchè la foto non risulti troppo scura. Perchè la foto risulti nitida è necessario che la fotocamera rimanga immobile per tutta la durata del tempo di esposizione. Se stiamo scattando a mano libera (con la fotocamera in mano e non su un treppiedi) è inevitabile che per tempi di esposizioni lunghi, anche solo 1 secondo, le facciamo compiere dei piccoli movimenti. Risultato = foto mossa. To shake or not to shake? È un bene o un male la foto mossa? Dipende. State facendo una foto di gruppo o documentando un evento? Male, chiaramente. State facendo una

foto artistica o un reportage più articolato? Può anche essere utile. Il vantaggio delle foto mosse è, paradossalmente, il loro difetto: la mancanza di dettagli. Lasciare delle incompletezze apre alla nostra immaginazione e tutti sappiamo quanto può essere decisiva nell’indirizzare l’interpretazione della realtà. Volete un esempio? I finali in sospeso, in cui si lasciano aperte più possibilità per lo sviluppo della trama. L’utilizzo mediatico e artistico del mosso è teso alla stimolazione di una serie di sentimenti e sensazioni variamente sfumati e rappresentati entro i loro due estremi: l’angoscia e l’eros. L’angoscia viene evocata da un sentimento di paura verso l’ignoto. Nei film horror è l’elemento dominante: una stanza chiusa da cui provengono rumori sospetti vi lascia decidere cosa può essere celato al suo interno. L’eros viene indotto con meccanismo del tutto analogo ma incastonato in un diverso contesto. La stessa frase “una stanza chiusa da cui provengono rumori sospetti vi lascia decidere cosa può essere celato al suo interno” può essere letta in una chiave

del tutto differente. Ora queste piccole nozioni le potete usare a vostro favore in due modi. Primo, esplorando voi stessi le potenzialità espressive della foto mossa. Provate con una silhouette in controluce, è facile da eseguire e richiede pochi elementi da controllare. Secondo, analizzando in modo critico i messaggi che ci vengono inviati dai media.

Cellulare • Sfruttate le app in grado di scattare quando percepiscono che il movimento è minore. • Usate la modalità video ed estraete il fotogramma che vi sembra più nitido.

Remember How we feel it affects what we see. How to: not to shake Reflex e compatte • Usate un treppiedi o appoggiate la macchina fotografica su un supporto (anche un muretto va bene!) • Alzate gli ISO e aprite il diaframma, così potete ridurre i tempi di esposizione • Se state scattando con tempi lunghi tenete le braccia lungo i fianchi, piegate gli avambracci per portare la macchina vicino al viso, tenete le gambe ben divaricate e scattate mentre espirate (respiri lunghi e lenti aiutano) • P r o v a t e l’AutoBracketing Mode

Pro Tip Perchè la foto sia nitida il tempo di apertura deve essere circa ≤ lunghezza focale (esempio: 1/50s con 50mm)


LA COERENZA DELLA CIPOLLA

IO PARLO COME MANGIO

Pietro Marino Della cipolla si possono dire tante cose, ma anche il più fiero degli oppositori sarà costretto ad ammetterne la coerenza. Perché la cipolla è “completamente cipolla/ fino alla cipollità/Cipolluta fuori, cipollosa fino al cuore/ potrebbe guardarsi dentro/senza provare timore”. In questo modo veniva descritta da Wislawa Szymborska, che ne esaltava la sferica ripetitività di uno strato che accoglie il precedente e si lascia abbracciare dal successivo. Divise in cipolle a bulbo dorato, bianco e rosso, le varie famiglie hanno “radici” asiatiche, in un’ area che dalla Turchia arriva fino all’india. I primi ad innamorarsene furono gli egizi che ne fecero oggetto di culto, associando la sua forma sferica e i suoi anelli concentrici alla vita eterna. Gli archeologi ritengono che facessero parte della dieta degli operai che costruirono le piramidi; inoltre l’uso delle cipolle nelle sepolture è dimostrato dai resti di bulbi rinvenuti nelle orbite di alcune mummie. Gli egizi credevano che il loro forte odore potesse ridonare il respiro ai morti. Oggi ci concentriamo su un’altra proprietà, quella di toglierlo ai vivi. Stranezze del tempo. Che sia uno degli aromi

Martina Pirani più usati in cucina è cosa nota. Non tutti però sanno che le loro proprietà lacrimogene sono intrinsecamente legate al sapore e dovute al combinarsi, in seguito al taglio, di sostanze idrosolubili presenti nel citoplasma con enzimi stoccati nei vacuoli che determinano il rilascio di composti irritanti altamente volatili. Efficace precauzione è quindi quella di affettarle sotto un filo di acqua corrente o dopo averle tenuta per un po’ nel congelatore. Se la mamma di Bubba, invece che di gamberi, fosse stata esperta nella preparazione di piatti a base di cipolla, probabilmente Forrest Gump non avrebbe terminato il suo elenco di manicaretti in soli cinque minuti e non ci sarebbero piatti come la piada porchetta peperoni e cipolle (da provare quella del “patatina point” in via Bologna), salsa di cipolle, cipolle al forno ed arrosto, marmellata di cipolle, cipolline sott’aceto, cipolle fritte in pastella, zuppa di cipolle e finocchi (con spolverata di mandorle tritate si può avere un’esperienza molto vicina all’illuminazione), tortillas di patate e cipolle, insalata di cipolle (ideali quelle di tropea), soffritti e battuti, oltre che praticamente ogni genere di

condimento per primi e secondi. Che desolazione. Lo so, lo so, viene da piangere solo a pensarci. O è la cipolla?

Cucinare, anche se poco originale, è una delle mie passioni, tuttavia sono perplessa dalle mode discutibili che di recente pervadono questa attività che è anche un piacevole svago. Sarà solo una sensazione, ma mi sembra che oggi anche nel mondo della gastronomia conti più l’apparenza che la sostanza. Lo noto nella miriade di programmi televisivi di cucina che ci vengono proposti, sebbene la stessa TV e web ne siano saturi. Per esempio, mi chiedo perché in queste trasmissioni, da alcuni anni, si debba sempre raccomandare di usare i Pistacchi di Bronte, l’anice stellato, le olive taggiasche o la cipolla di Tropea… quando con dei comunissimi pistacchi – olive - semi di anice - cipolle rosse la ricetta riuscirebbe allo stesso modo: non fa poi molta differenza se gli ingredienti non sono “griffati”. Certo, usare quelli, con quelle speciali caratteristiche, fa molto “tendenza”, fa molto “intenditore”, ma la normale casalinga chi mai deve incantare? Per non parlare di quando una semplice insalata mista viene chiamata carpaccio di zucchine. Se lo vedessi nel menù di

un ristorante capirei subito che stanno usando un nome pomposo per un po’ di verdurine, per poi farmele pagare un occhio della testa. La stessa cosa vale per i modi innovativi e minimalisti di presentare i piatti, per esempio con il cibo messo a strati: tanto vanno distrutti e complicano solo le cose. O che dire di quando sento usare certi termini al posto di altri, solo perché è “innovativo”? Rimango sempre confusa dalle Millefoglie di salmone/branzino/melanzane: ma la millefoglie non era un dolce alla crema? E mi chiedo anche come possa esistere un ragù di verdure, quando, se c’è una cosa che caratterizza il ragù, è il fatto di essere di carne. Se si usano solo verdure si otterrà certamente un buon sugo, ma di sicuro non un ragù. Non voglio fare la predica a quelle che sono solo mode che probabilmente passeranno presto, ma se nutrirsi è un atto naturale e primitivo, perché renderlo più complicato di quel che è? Una cucina presuntuosa non fa per me: io parlo come mangio.


DUE PAESI A CONFRONTO IN UNA LOTTA TRA VALORI, PERDITE E VITTORIE a cura di Fiorella Shane Arveda e Edoardo Rosso Tempo di cambiamenti in Italia, dove tra religione e politica le pagine della storia nazionale si stanno scrivendo. E a noi ventenni che sfogliamo e viviamo questi giorni, cosa rimane? Che valori ci giungono da chi sta ai vertici? E nel frattempo, al di là dei Pirenei que pasa in Espana dove per “pasar” intendiamo accadere? Gli economisti europei ci parlano di due realtà uguali, in attesa di un crollo comune ma questo non ci basta per analizzare due popoli diversi. Vogliamo conoscere il cuore dei cittadini che condividono il mare ma che conservano sentimenti differenti, chiedendo un po’ del loro tempo per qualche domanda su loro stessi, adulti di oggi e di domani. Josefina, sei una studentessa di vent’anni, recentemente c’e’ stato lo sciopero nella tua università, sai per quali ragioni? ti senti di condividerle? Lo sciopero iniziò proprio nella mia facoltà, al Mundet dell’università di Barcellona ndr. gia’ lo scorso anno con un’occupazione incredibile. Decidemmo di non seguire più le lezioni, di non presentare i compiti che ci chiedevano i professori e soprattutto non sostenere gli esami finali. La direzione decise che

pur di far tacere la cosa, non sprecare soldi e far entrare nuove matricole di promuoverci “politicamente”, ovvero senza fare un bel niente. Avevamo ingolfato il sistema. Era diretta a ciò la vostra rivolta? No, non era indirizzata a questo sconto di esami, bensì ai tagli del governo al settore scolastico in primo luogo, che anno fatto venir meno corsi, professori e ore di tirocinio. Le tasse scolastiche dal primo anno si sono raddoppiate, io sono all’ultimo anno quindi terminerò il mio corso di laurea ma se questo aumento si fosse presentato prima sarei stata costretta a lasciare gli studi come molti altri coetanei demotivati. Ecco parliamo di questa demotivazione dei tuoi coetanei, a cosa la legheresti? Si vorrebbe eliminare il piano di studi che si sta usando in questi anni qua, chiamato plan Bolonya, ovvero un sistema di valutazione continua, teoria e seminari. La ragione è che non ha portato i frutti che doveva produrre. Comunque non è solo un problema di noi studenti, anche i professori hanno manifestato al nostro fian-

co, sono tutti associati che guadagnano 450 euro al mese, il minimo sindacale qui in Spagna credo sia il più basso d’Europa! Secondo te quali sarebbero i valori imprescindibili perché una società funzionasse? Il rispetto per le culture differenti, un’integrazione forte, il rispetto dei diritti della persona. Quali intendi? Quelli che stanno soffocando ora coi tagli. La dignita’, l’istruzione, la salute. A causa delle ultime scelte politiche molte persone senza lavoro e senza speranza si sono suicidate. Una società non può portare a questo. Questi ultimi governi hanno portato il Paese in una crisi profonda. Parlando di Zapatero e di uguaglianza, cosa pensi della scelta che fece circa il matrimonio gay? Credo sia la scelta migliore che un governo degli ultimi anni abbia mai preso. Sia io che la maggior parte di miei coetanei la pensa cosi, direi tutti. Ora a lezione non ci parlano solo della famiglia nucleare patriarcale ma anche di quella che prevede due uomini o due donne.

Hai scelto questa facolta’ in cui si aiuta il prossimo, perchè? Il fatto di aiutare gli altri,di vederli volver a nacer, rinascere, è una sensazione indescrivibile. Non è per niente facile molte volte io e i miei colleghi di studi abbiamo pensato “come faccio a convivere con situazioni che non migliorano?” mz siamo andati avanti comunque stringendo i denti, perché noi, ci hanno detto insegnato, siamo i cerotti del mondo, e quando c’è una ferita solo noi possiamo e dobbiamo correre. Cosa significa per te essere un cittadino? Non rimanere fermo di fronte le ingiustizie che vede. Aiutando le persone che ne hanno bisogno, rispettando in prima persona le norme sociali. Senza dimenticare le credenze e i valori di ogni persona. E lottando per cambiare quando la società va male. E tu cosa fai per esserlo? Guardo oltre me stessa, è giusto essere ambiziosi e voler il meglio per se stessi, ma bisogna fare attenzione anche a che ciò non pregiudichi gli altri.

Guardando il futuro sai che la necessità nel tuo ambito lavorativo crescerà con l’aumentare delle problematiche sociali…. Sì, è cosi ed è per questo che per noi educatori sociali, sapere che c’è molto lavoro è allo stesso tempo una brutta notizia.

Facendo una piccola traversata del Mediterraneo torniamo in Italia dove incontriamo Lucia, una ragazza di 23 anni che studia Giurisprudenza a Ferrara. Scambiamo due chiacchiere anche con lei… Ciao Lucia, cominciamo dal cuore della conversazione: cosa significa per te “cittadinanza”? Credo che la cittadinanza sia un valore fondamentale. Per me cittadinanza significa essere parte di una tradizione culturale nella quale ci si immedesima, essere parte di un gruppo,un gruppo di cittadini pari ed uguali, aventi gli stessi diritti e doveri. Essere cittadini significa essere piccoli rappresentanti della comunità a cui si appartiene, farsi portatori dei valori contenuti in essa. E a tal proposito, quali sono i valori che ritieni imprescindibili per il buon

funzionamento di una società? Sicuramente la libertà in tutti i suoi aspetti, la presenza di regole giuste e valide per tutti, la certezza della pena in caso di violazione delle regole, la legalità, la democrazia, il rispetto per il prossimo e per le istituzioni, la solidarietà. La tua collega spagnola si è espressa favorevolmente riguardo ai matrimoni fra persone dello stesso sesso, tu che ne pensi? Lo credi possibile in Italia? Sono sicuramente a favore di una regolamentazione delle unioni gay, le coppie gay sono sempre più numerose e al di là del dato numerico credo abbiano diritto ad avere una regolamentazione anche giuridica del loro rapporto. Non ho quindi personali motivi per oppormi ai matrimoni gay, tuttavia se parlassimo del diritto di avere figli, il tema diventerebbe più delicato...credo che nonostante in Italia ci siano delle linee di pensiero contrarie ai matrimoni gay,queste dovranno essere vinte: è un istituto regolamentato in tutto il mondo, dovrebbe esserlo quindi anche in Italia. Parliamo di studi: come hai scelto il tuo percorso


universitario? Studio giurisprudenza, questa scelta è maturata dal mio interesse per la politica e dall’interesse ad intraprendere le professioni legali oltre a quello di capire meglio la realtà di tutti i giorni (da come si stipula un contratto a come lo stato prende le proprie decisioni). Scelta comunque presa anche dalla circostanza che in Italia questo corso di studi è considerato un corso “jolly” che apre potenzialmente (solo potenzialmente?!) le porte a diversi sbocchi lavorativi.

di studio/ tirocinio all’ estero, principalmente per il maggior numero di master proposti e quindi maggiori possibilità di specializzarsi, sebbene non aspiri a trasferirmi all’ estero e quindi a lavorare lì una volta concluso definitivamente il mio ciclo di studi.

E con che occhi guardi al mondo del lavoro? Guardo al mondo del lavoro con paura, poca certezza e poca fiducia: temo di non sapere applicare in ambito lavorativo la conoscenza acquisita finora, temo la disoccupazione e la non realizzazione professionale. Da un punto di vista professionale non so a cosa aspiro esattamente, spero comunque di svolgere un lavoro con capacità e passione e che possa ripagare i sacrifici fatti. Domani: pensi lavorerai in Italia o valuti di andare all’estero? Dopo la laurea mi piacerebbe fare delle esperienze

http://www.spreaker.com/user/5504861 https://www.facebook.com/pages/Radiotape/49185312 7517747?fref=ts


IL WESTERN DI PECKINPAH Davide Zagni

spettacolo

“Let’s go?” Chiede Pike. “ Why not?,” gli rispondono. Sono un gruppo di fuorilegge senza scrupoli nè onore, ma tra poco andranno a testa alta incontro alla morte, in un’impresa suicida, nel disperato tentativo di salvare il loro amico Angel, dalla prigionia e dalle sevizie della masnada cammuffata da esercito del sedicende generale messicano Mapache, capo di un accozzaglia di peones spacciati per militari. E’ il dialogo finale del celebre “Il Mucchio Selvaggio”(1969) il film più famoso di Peckinpah, la cui battaglia conclusiva tra la banda di Pike e i messicani resta un capolavoro del cinema d’azione con sequenze di combattimento tra le più paricolareggiate della storia del cinema, con migliaia di inquadrature e ralenti (tecnica importata dal cinema di Kurosawa). La tensione e la fatica nel girare poche manciate di minuti costarono a Peckinpah lunghi giorni di assidua lavorzione, tanto che alla fine delle riprese, esausto, si allontanò dal set per sedersi al limitare del deserto, e contemplando il tramonto si abbandonò ad un lungo sfogo di pianto. Il regista incontrollabile dalle Majors (oggi una

nota casa di produzione indipendente si chiama non per niente Wild Bunch), il ribelle, il cantore degli anti-eroi, piangeva alla fine del suo più grande capolavoro. Perchè il western di Peckimpah è una rappresentazione della sua anima, audace ma estremanente sensibile; nei suoi film si fondono l’amicizia virile e la tenerezza tipica dei bimbi, la celebrazione dei grandi miti del west e il tramonto dei grandi valori della frontiera, la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova fase della storia americana. In “Il mio nome è nessuno“ di Tonino Valeri (1973), in cui si celebra la fine dell’epica dei grandi eroi e l’inizio della modernità, il sorriso e l’ironia di un antieroe come Terence Hill si rileva essere molto più efficace della gravità e solennità delle pistole di Henry Fonda, perchè la bassezza e la mediocrità del mondo moderno ed industriale che ha travolto il vecchio West, superato e stanco proprio come Henry Fonda, ha ormai preso il sopravvento. In questo film c’è una scena emblematica in cui Terence Hill legge sulla lapide di un cimitero proprio il nome di Sam Peckimpah, ultimo vero pioniere del genere western. Il messag-

gio è chiaro: il western finisce con lui. Il cinema spaghetti-western, il western all’italiana per intenderci, infatti deve moltissimo a Peckinpah pur non essendo mai riuscito a toccare le sue vette liriche, il suo talento visionario e i mutamenti repentini del ritmo capaci di passare magistralmente dal cinema d’azione violento e puro all’elegia romantica e decadente tipica delle ballate country. Assai trattato è in Peckinpah il tema della vecchiaia: il decadimento fisico e morale dell’uomo in una società trasformatasi più rapidamente di lui,che deve scegliere tra l’adeguamento o la resistenza al cambiamento, è una questione anch’essa cara al suo cinema. L’amicizia da difendere col sangue del Mucchio selvaggio cederà il posto però all’amicizia soffocata nel sangue del più maturo, ma non meno toccante, “Pat Garret e Bily the Kid”(1973) film testimonianza di una visione del mondo più negativa e malinconica. Fu uno dei registi più controversi, considerato tra i cosiddetti artisti maledetti di Hollywood, uno spirito libero come libero e indomito descrisse il personaggio da lui celebrato sul viale del tramonto, Billy the


Kid, il celebre fuorilegge realmente esistitito e visto un po’ come un alter ego di Peckinpah, che, tradito dal suo migliore amico Pat Garret, muore incredulo e incapace di concepire la propria stessa fine. L’amicizia e l’intesa virile in Pat Garret and Billy the Kid si sfaldano passando come un valore usurato e superato, dove uno sceriffo (Pat Garret, interpretato da James Coburn) schiacciato dai compromessi e dal progresso, con gli anni che passano decide di vendersi ai grandi proprietari terrieri del New Mexico ricevendo l’incarico di reprimere la banda di Billy the Kid, cause di scorrib-

ande e razzie a danno dei vari ranch della zona. Solo che per obbedire alle istanze di questi nuovi padroni dovrà combattere il suo amico d’un tempo, Blly the Kid appunto. Billy è ancora libero , vive una vita selvaggia e sregolata, e rappresenta tutto ciò che si oppone al capitalismo, al capitale. E’ un individuo da eliminare. Alla fine del film per ucciderlo Pat Garret dovrà sacrificare la propria dignità, vivrà ed invecchierà da uomo rispettato e temuto, ma il momento della sua fine come uomo libero coincide col fragore tonante del tamburo del suo revolver, con cui fredda Billy.

I toni di questo western crepuscolare e le musiche di Bob Dylan, rendono questa parabola sul tradimento uno dei film più lirici e poetici del genere. E come Billy the Kid, ingenuo ma non puro, morirà Sam Peckinpah nel 1984, distrutto dalla droga e dall’alcolismo, demone che l’ha tormentato tutta la vita.

FLAGS OF OUR FATHERS

La battaglia che cambiò il corso della guerra nel Pacifico Giacomo Gianoccaro

“La nostra meta è un puzzolente spuntone di roccia che si chiama Iwo Jima: significa isola solforosa, il che spiega la puzza”. Siamo nel 1945 ed è proprio lì, nel bel mezzo dell’oceano Pacifico, in territorio giapponese, che inizia la storia (vera) di sei ragazzi americani. E’ anche la storia di una fotografia, quella ricostruita nel film Flags of Our Fathers, diretto da Clint Eastwood e basato sul racconto “Iwo Jima” di

James Bradley. Una fotografia che valse al suo autore il Premio Pulitzer e che in quattro secondi cambiò la vita di chi, da quell’isola, riuscì a tornare sano e salvo. Non erano eroi, i protagonisti di quella foto, ma ragazzi come tanti altri, cresciuti in luoghi diversi degli Stati Uniti durante la Grande Depressione e, nonostante tutto, pieni di speranze. Almeno fino a quando non arrivò il terremoto della guerra a scuo-

tere le loro vite. Quello al centro dell’immagine era l’aiutante di sanità Jack Bradley, per gli amici Doc: appena ventunenne, si era arruolato in Marina per non combattere in prima linea, ma non riuscirà a sfuggire alla peggiore battaglia della guerra del Pacifico. Anche l’uomo alla sua sinistra riuscirà a tornare a casa: è Rene Gagnon, il più giovane del gruppo. Figlio di due operai francocanadesi, nella foto è ap-


pena visibile: anche nella vita fino a quel momento era rimasto sullo sfondo e per questo cercherà di cavalcare la fama che la foto gli procurerà. Il ragazzo all’estrema destra, di spalle, è Harlon Block, il campione di football texano che si era arruolato nei Marines con tutta la sua squadra, i Weslaco Panthers. Per anni fu scambiato per un suo commilitone, fino a quando un indiano non decise di dire la verità: del resto sua madre l’aveva sempre saputo che quello era il sedere di suo figlio. Dietro Doc c’è Franklin Sousley, il simpatico ragazzo del Kentucky dai capelli rossi e, alla sua sinistra, quello che per tutti era un fratello maggiore: il sergente Mike Strank, immigrato cecoslovacco, ci teneva alla vita dei suoi ragazzi. L’ultimo, quello che cerca di afferrare l’asta con le mani, è Ira Hayes, il taciturno indiano Pima orgoglioso di appartenere a quella tribù, come di essere un Marine. Sopravvissuto alla guerra, cercherà di aggrapparsi alla vita proprio come fece con quella bandiera. Il 23 febbraio, il quinto di 36 giorni di battaglia, i Marines ricevettero l’ordine di salire sul Monte Suribachi, per stanare i nemici rimasti dopo il bombardamento. Ma il monte sembrava ancora respirare: al suo interno, in una fitta rete di gallerie, erano nascosti ancora molti dei 22.000 giapponesi che occupavano l’isola. Il colonnello

Johnson decise di mandare su il 3° plotone, quello di Doc: se fossero riusciti ad arrivare in cima, avrebbero dovuto piantare la bandiera. Ma lassù serviva un collegamento telefonico e poi il Segretario della Marina, appena sbarcato sull’isola, voleva quella bandiera per ricordo. Ricevuta la notizia, il colonnello rispose: «col cazzo, quella bandiera appartiene al battaglione» e ordinò agli altri cinque ragazzi di portargliela; già che c’erano, avrebbero dovuto issare una seconda bandiera, più grande... tanto nessuno se ne sarebbe accorto. Con loro salì sul monte un fotografo miope e baffuto, Joe Rosenthal, che per puro caso riuscì a immortalare quell’istante passato alla storia. Acclamati in patria come eroi, i tre superstiti viaggiarono in lungo e in largo negli States per la campagna di sottoscrizione dei Buoni del Tesoro, che cambiò il corso della guerra. Ma i veri eroi non erano loro: gli eroi sono quelli che hanno dato la vita per i loro compagni, quelli che da Iwo Jima non sono più tornati.

CON LE TASCHE PIENE DI SASSI recensione del CD Backup di Jovanotti

Lia Simonatto

Confessate! L’avrete fatto pure voi qualche volta?!? No, non parlo di cantare sotto la doccia “Ciao mamma, guarda come mi divertooo” con tanto di saluto ad una videocamera invisibile. Parlo di comprare un CD che vorreste ascoltare con la scusa di regalarlo a qualche malcapitato della vostra famiglia che quando aprirà la confezione avrà giusto il tempo di fare un espressione di sorpresa, perché intanto voi vi sarete già incamminati verso l’hi-fi, alzato il volume a palla, e con la mano tesa pronta a far suonare della musica… “BUONA!” Questa volta il malcapitato di turno è stato mio padre, su istigazione di mia sorella che per telefono mi fa: “cosa regaliamo al Papy per compleanno?” Ho pensato subito a Jovanotti perché è un cantante che ci lega praticamente da quando siamo nate, se non altro perché la sua carriera è cominciata esattamente 25 anni fa: proprio quando iniziavo a sgambettare, mettere insieme qualche verso sconnesso, e fare i dispetti a mia sorella appunto! Quale regalo migliore allora di “Backup Lorenzo 1987-2012” la raccolta uscita prima di Natale?

Non ci sono dubbi su quale delle 3 versioni scegliere (standard con 2cd, deluxe con 4, o megabox con 7 cd+2dvd+libro+chiavetta USB+ 102,87 euro). Tuttavia è il mio portafoglio da studente fuorisede a decidere: vada per la standard! Di standard però ha solo il nome perché invece la musica che contiene è a dir poco fuori dagli schemi o come dice lo stesso autore è “frenetica come la vita che viviamo tutti i giorni”. Si passa dalla dance-pop di “Tensione evolutiva” all’elettronica di “Ti porto via con me” e fino a ricoprire la dolcezza di “Stella cometa” e le melodie anni 90’ di “Serenata rap” e “Chissà se stai dormendo” passando per lo swing di “Tu mi porti su” e dondolando con il folk di “Estate” (che secondo me sarà la colonna sonora delle nostre prossime vacanze, preparatevi!). Insomma un vero e proprio tornado! ma che dico! Terremoto! Uno sciame di onde sonore che ti travolge e ti ritrovi a saltare indisturbato al centro della stanza mentre canti “Il più grande spettacolo dopo il Big Bang”, ma anche a commuoverti ascoltando un piccolo Lorenzo rimasto Solo stasera, con le tasche

piene di sassi e la faccia piena di schiaffi, per poi innamorarti con “Baciami ancora”. Un vero e proprio sisma sentimentale sia perché almeno una delle tante sue canzoni è stata la colonna sonora di una nostra vacanza, di una nostra storia d’amore, di un esame, di un viaggio; sia perché almeno una frase dei suoi testi si presta a descrivere un momento di vita vissuta. Come adesso, mentre ascolto “La notte dei desideri” e la mia attenzione si focalizza su questi versi: “Le montagne che dividono i destini Si frantumano diventano di sabbia Al passaggio di un momento di splendore E spalanca la porta della gabbia” I quali sembrano un’allegoria di ciò che è successo con il terremoto e al tempo stesso mi riportano alla notte di due anni fa quando l’ ho sentita per la prima volta in una piazza Castello gremita di gente che aveva solo voglia di stare insieme.


SOME NIGHTS I Fun cantano a Ferrara “Some Nights, when i see STARS…” “Ferrara sotto le STELLE” con il programma 2013 dimostra la volontà di scalare la classifica tra i festival estivi italiani. Due anni fa è stato il turno degli Skunk Anansie e nel 2012, con ancora vivido lo spavento del terremoto, i Kasabian hanno portato il loro ultimo album Velociraptor! al motovelodromo. Quest’anno si ritorna nella suggestiva Piazza castello con tre grandi nomi della musica internazionale: Fun., Arctic monkeys e Sigur ros. Pop americano, rock british e post rock islandese (senza dimenticare la musica nostrana ben rappresentata dai Baustelle) porteranno una ventata di musica nell’afosa estate ferrarese. Se Sigur ros e Arctic monkeys hanno già inciso molti dischi e sono ormai citati come modelli cui ispirarsi per le band di nuova generazione, un discorso opposto va affrontato per i Fun.. Il gruppo formato da Nate Ruess (voce), Andrew Dost (tastiere e altri strumenti) e Jack Antonoff (chitarra e tromba) si è formato nel 2008 e ha alle spalle solamente due dischi. L’ultimo cd Some Nights, contenente l’omonimo successo dell’estate 2012,

ha fatto registrare ottime vendite in tutto il mondo e le date di aprile a Roma e Bologna sono andate sold out con largo anticipo. Nonostante il timore di imbattermi in una schiera di ragazzine urlanti, e ancora ignaro della loro

partecipazione al festival estense, avevo comprato a inizio anno il biglietto per la data bolognese. Il 26 aprile il trio, accompagnato da vari musicisti di supporto, ha portato sul palco dell’Estragon non solo un genuino entusiasmo, che

alcune star della musica tendono a mostrare con parsimonia, ma anche un talento live che conferma quanto di buono si può ascoltare negli album. Per quanto sconosciuto a molti, considerata la pubblicazione precedente all’esplosione dei Fun. segnata da We are young, il cd del 2008 Aim and ignite non ha nulla da invidiare al lavoro successivo. Battiti di mani alternati a note suonate da violini, tastiere e tamburi vanno a comporre un mix sonoro capace di coinvolgere il pubblico. Ma la vera particolarità dei Fun. è indubbiamente rappresentata dalla voce di Nate Ruess. Chiamato di recente da P!nk per Just give me a reason, il cantante si distingue per la capacità di raggiungere note altissime, non unicamente in studio di registrazione, ricordando gli acuti di Mika (tra l’altro futuro giudice nell’edizione italiana di X-factor). Se non li avete mai ascoltati, partite dal primo cd con canzoni come Be calm, un tripudio di suoni particolarmente evocativo, e All the pretty girls. Durante l’esibizione di aprile, durata circa un’ora e mezza con poche interruzioni, i Fun. sono stati capaci di far cantare la platea ren-

dendola quasi uno strumento aggiunto ai molti già presenti sul palco. I cori tanto entusiasti quanto stonati hanno accompagnato gli assoli vocali di Ruess, applaudito con convinzione anche dai molti genitori presenti e inizialmente spaesati. Se i vostri ascolti si sono limitati ai passaggi in radio e tv, approfittate di quel divino strumento sbarcato da poco in Italia, quale è Spotify. Avrete conferme sulla dichiarazione d’intenti riassunta nel nome della band. Fun. cioè divertimento e basta. E se a giugno siete liberi da esami e preoccupazioni, oppure proprio per concedervi una serata di svago, andate in piazza castello e non rimarrete delusi dall’allegria diffusa che potrete vedere negli occhi della gente attorno a voi. Ah, se dovessero finire i biglietti, tenete d’occhio la pagina Facebook della band. Per le precedenti date italiane, alcuni tickets erano stati disseminati in alcuni luoghi caratteristici della città. Tornando da un esame, potreste trovarne uno proprio vicino alla vostra bici.

“…I wish that my lips could build a CASTLE”

Andrea Biolcatti


MIRANDOLA:

a canestro contro il terremoto

Gabriele Gatto

“Uniti si vince: nello sport, nel business, nella vita” questo è ciò che si legge appena entrati nel sito della Pallacanestro Primavera di Mirandola, un concetto spesso sottovalutato ma che ha giocato un ruolo fondamentale per questa appassionata realtà cestistica. Un concetto evocato di frequente in questi ultimi tempi da chi dedica la propria vita al basket e che non smetterà mai di essere vero, in qualsiasi circostanza lo si voglia declinare. In campo infatti si gioca e si soffre in cinque, dietro le quinte le società cercano unite di fare fronte in tutti i modi agli interminabili problemi legati alla gestione di una squadra, sugli spalti il respiro dei tifosi si sincronizza spesso durante le partite più emozionanti. Eppure succede alle volte che non ci sia più un campo dove giocare e che una società debba fronteggiare situazioni che ben poco concernono lo sport, può accadere ed è accaduto che un’adrenalinica stagione venga messa a rischio dal capriccio di un terremoto. Questo è ciò che è capitato agli Stings di Mirandola, impegnati la scorsa stagione in una trionfale quanto meritata cavalcata verso la Divi-

sione Nazionale A (terzo campionato nazionale maschile). Terminata a fine aprile la fase regolare al quarto posto nel proprio girone, la squadra guidata in panchina da coach Tinti era pronta a tentare il colpaccio nella lotteria dei play-off, alla ricerca della seconda promozione consecutiva (dopo quella maturata nella stagione precedente che aveva portato Mirandola in DNB). Battuto il CUS Torino sia sul campo amico che in trasferta, gli Stings avrebbero dovuto affrontare Legnano nelle semifinali proprio a partire da quella fatidica domenica del 20 maggio, la domenica che seguì la forte scossa di terremoto che seminò il panico in Emilia-Romagna lo scorso anno. La partita fu rinviata al mercoledì successivo e, nonostante gli eventi e la difficoltà oggettiva della gara (Legnano aveva terminato da capolista la stagione regolare), gli emiliani portarono a casa la vittoria. Così avvenne anche in gara due e la corsa a capofitto verso la DNA ebbe inizio: Mirandola infatti perse la finale promozione contro Lucca ma uscì trionfante dal concentramento per la promozione tenutosi a Roma con Reggio Calabria e Corno di Rosazzo.

Una vittoria dal valore incommensurabile per la cittadina modenese, un trionfo che le valse la seconda promozione in due anni, che la catapultò nel terzo campionato nazionale, ma che soprattutto dimostrò ancora una volta la fondatezza di quelle parole tanto care alla squadra del Presidente Negri: uniti si vince! Al loro esordio nel nuovo campionato (giocato contro l’altra neopromossa emili-

ana, la “nostra” Ferrara), gli uomini del riconfermato coach Tinti dovettero ben presto fare i conti con una dura realtà, per larga parte di questa stagione infatti sono stati costretti a giocare le partite casalinghe in quel di Ferrara a causa dell’inagibilità del campo amico, il palazzetto di Poggio Rusco. Una nuova avventura per gli eroici tifosi degli Stings, costretti ad emigrare in massa per seguire i propri

beniamini, e per la società stessa, costretta ad affrontare le conseguenze del terremoto oltre alle consuete competenze cestistiche. Un’avventura emblematica, densa di significato per una realtà obbligata a ricostruire non solo un palazzetto ma un’intera quotidianità. Una sfida già vinta indipendentemente da quello che sarà il verdetto finale del campionato, ad oggi degnamente rappresen-

tato dall’impensabile vittoria conseguita da Mirandola nel match del 24 febbraio contro la favorita del campionato Torino, vittoria caratterizzata anche dal felice ritorno degli Sting a casa nel palazzetto di Poggio Rusco, dopo la fine dei lavori che hanno interessato la struttura. Uniti si vince, sarà senz’altro questo il segreto della Pallacanestro Primavera di Mirandola.


VINCE IL CITY, PASSA LO SPORTING, TRIONFA LO SPORT Luca Mezzogori Si sa il calcio è nato in Inghilterra ed è l’orgoglio degli inglesi. Negli ultimi anni le due squadre di Manchester hanno attirato l’attenzione del mondo intero per diversi motivi. Da un lato lo United con i risultati, due Champions; giocatori di alto livello, C.Ronaldo; e storie romantiche, come quella di Sir Alex Ferguson che siede da 26 anni su quella panchina. Dall’altro i faraonici acquisti del presidente del City, lo sceicco Mansour. Beh insomma andare a Manchester senza guardarsi una partita è come visitare Pisa e ignorare la Torre. Così armati di entusiasmo e adrenalina, sfruttando l’occasione di andare a trovare un amico in erasmus, appena scesi dall’aereo ci informiamo per il match della sera stessa: ottavi di Europa League, M.City vs S.Lisbona. Con un autobus ci rechiamo allo stadio. Per strada vediamo una trentina di portoghesi cantare e sventolare sciarpe; nessuno scontro, nessun tafferuglio. Con 20£ ottengo il mio desiderato ticket. Rampa di scale e…davanti ai nostri occhi compare il nuovissimo Etihad Stadium. In-

credibile. “Ma cosa ci sarà di così straordinario, sempre un campo è?” diranno i meno romantici. Provare per credere. Organizzazione, navette, sicurezza, ordine; perfetto stile british insomma. C’è stato chiesto addirittura “Home or away?”, altro che tessera del tifoso! Nessun controllo, né metal detector, né barriere protettive…niente separa te e il campo tranne una certezza: chi sbaglia paga e qui sbagliare vuole dire carcere. I beniamini escono per il riscaldamento. Lo stadio inizia a riempirsi: quasi sold out, 47000 posti . Due maxi schermi e un dj allietano un’attesa che sa da primo bacio. A causa della sconfitta per 1 a 0 maturata in Portogallo, il City deve vincere con due gol di scarto. La squadra di casa non ingrana; le stelle non sembrano in serata. Il gol dello Sporting ghiaccia lo stadio. Poco dopo gli ospiti raddoppiano. Fine I tempo: pioggia di fischi sul City, che ora per passare il turno deve fare 4 gol! In un crescendo di emozioni, Aguero, il genero di Maradona, trascina squadra e spalti: prima accorcia, poi si procura il rigore trasformato dal nostro Balotelli e in-

fine segna il 3 a 2. Giovani e meno giovani tutti urlano “GO CITY GO!”. All’ultimo secondo il portiere portoghese salva il risultato. Il City, una delle squadre favorite per la vittoria della Coppa, è fuori! Ma i fischi si sono ora trasformati in applausi. Applausi per la reazione, l’orgoglio, la partita e per la squadra avversaria. E applausi anche da noi italiani a questo calcio.

IL CALCIO ITALIANO IN TEMPO DI CRISI

Raffaele Campo

Le scosse della crisi economica hanno inevitabilmente fatto vacillare anche il mondo del calcio. A metà anni ‘90, quamdo iniziai a seguire il mondo del pallone, molti dei cosiddetti “top player” del campionato italiano venivano dalle’estero. Ricordo i vari Ronaldo, Weah, Zidane, Batistuta, Crespo e molti altri ancora. L’elelnco potrebbe essere lunghissimo. E a livello europeo, i risultati non mancavano: nel 1998 la Juventus arriva in finale di Champions League (persa 1-0 contro il Real Madrid) e nello stesso anno l’Inter vince la Coppa Uefa, l’attuale Europa League, nella finale di Parigi contro un’altra formazione italiana, la Lazio. E anche l’anno successivo il Parma alza la Coppa Uefa e la Lazio si aggiudica la vecchia Coppa delle Coppe. Per molto tempo le società guardarono all’estero, prestando poca attenzione ai propri vivai. I giovani godevano di poca fiducia: bastava una partita giocata male per essere etichettati come “scarso” oppure “sopravvalutato”. Spesso il talento dei ragazzi veniva impegato nei campionati minori, con il loro rammarico di aver avuto poche chances nel loro club. E in altri casi ancora,

alcuni di questi giovani già quando erano ragazzini andavano a giocare in club stranieri, i quali puntavano (e puntano tutt’ora) molto sul talento dei giovani. Si parlava infatti di “fuga di giovani talenti” dall’Italia all’estero, per citarne alcuni: Giuseppe Rossi, Lupoli, Mannone, Borini, Macheda e altri ancora. Ora, a seguitodella crisi economica, nel calcio italiano si registra una forte inversione di tendenza. Moltissime societànon possono più permettersi dii sostenere ingaggi troppo elevati o enormi spese durante le finestre di calciomercato, come è accaduto fino a non molti anni fa. Attualmente infatti, sono sempre meno i fuoriclasse dagli ingaggi milionari che giocano in Italia e sempre di più quelli che emigrano nei campionati esteri. L’ultimo è stato l’ex interista Wesley Sneijder, accasatosi con i turchi del Galatasaray. Il terremoto della crisi finanziaria sta cambiando il calcio italiano, che riscopre l’importanza di valorizzare il vivaio. Oggi le società puntano sui ragazzi del vivaio e danno loro più fiducia. Non basta sbagliare una partita per essere gettati nel dimenticatoio. La maggior parte dei giocatori della nostra nazi-

onale Under 21 è titolare nel rispettivo club. Penso a Insigne, a El Shaarawy, a Verratti, a Florenzi, a Nicola Sansone e ad altri ancora. Non si era mai vista una nazionale Under 21 così forte. Probabilmente - ma qui esprimo una mia opinione personale - se a luglio questi ragazzi avessero partecipato alle Olimpiadi di Londra, sul podio ci sarebbero arrivati. Scossone dei mercati finanziaricrisi del mondi del calcio, che impara una nuova regola: non è necessario importare dall’estero per essere competitivi.


I VERI MASTER CHEF D’ITALIA

Filippo Marangoni

rovigo

Capita spesso, soprattutto dopo un sabato sera con gli amici, di rincasare tardi e svegliarsi il mattino seguente assaporando l’aroma intenso, che ha ormai pervaso tutta la casa: quel profumo di lasagne al forno, patate arrostite, pollo, tortellini, cotechino, purè, castagne, coniglio, tiramisù, torta al cioccolato… tutto preparato rigorosamente dalla mamma o, meglio ancora, dalla nonna. Quando mi accade, inevitabilmente sorrido e penso quanto sia piacevole ed apprezzata la cucina italiana. Ma esiste davvero la cucina italiana? Mi spiego

meglio, i piatti che vengono definiti “italiani” appartengono davvero ad una cucina nazionale? Di fatto, non esiste un piatto che identifichi tutto lo stivale, ma bensì esiste il Prosciutto di Parma, le trofie al pesto genovese, il cacciucco alla livornese, il baccalà alla vicentina, la pizza napoletana, i cannoli siciliani, gli gnocchi alla romana e tante altre specialità che non elenco, prima che mi venga l’acquolina in bocca. Pellegrino Artusi, famoso critico letterario del 1800, ebbe la geniale idea di viaggiare per tutta l’Italia, per farsi raccontare dalle

massaie le usanze, le ricette e i segreti culinari da esse custoditi: ne uscì un libro, “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, manuale di cucina steso con sapienza ed ironia dal gastronomo romagnolo, che testimonia proprio l’inesistenza di una cucina nazionale, ma al contrario la presenza di una cucina regionale, provinciale, comunale. Ecco perché un emiliano preferisce i tortelli, suo fratello romagnolo le tagliatelle, a Napoli si accontentano di un piatto di spaghetti col pomodoro, in Lazio il pomodoro è arricchito con guanciale, cipolla e peperoncino, e


così via; si potrebbe raccontare il nostro bel Paese citando gli innumerevoli piatti della nostra cucina, toccando le piazze, i campanili delle città ma prima di tutto passando per le cucine delle casalinghe, che ogni giorno, passando ore ai fornelli, preparavano tali leccornie da servire ai familiari. Si, perché è proprio grazie a loro che oggi l’Italia può vantare, anche all’estero, la fama che possiede legata alla sua tavola. Oggi vengono proposti altri guru della cucina italiana, tutti vogliono diventare (Master) Chef, pieni di sé, un po’ insolenti e un po’ arroganti, perdendo di vista ciò che ha reso unico il nostro Paese in cucina. Pellegrino Artusi è riuscito

ad unificare l’Italia, una seconda volta, a fine ‘800, con un libro che racconta la quotidianità, la semplicità delle case di una volta: analogamente, a me piace pensare la nostra Italia come l’insieme di tutte le nostre madri, nonne, zie che preparano il loro miglior piatto la domenica mattina per condividerlo con tutte le famiglie italiane, in una lunga tavola che parte dalla Sicilia ed arriva alle Alpi. La ricetta che vi propongo questa volta vuole richiamare la semplicità e la tradizione gastronomica legata all’Italia, condita con la vostra originalità e personalità. Provatelo tornati a casa dopo lezione, se avete poco tempo ma

molta fame! Si tratta de “I vostri spaghetti cacio e pepe”, in assoluto il primissimo modo con cui nel medioevo si iniziò a condire la pasta; ossia con formaggi e spezie. In realtà potete eseguirla col formaggio che più vi piace e usando pepe verde, rosa, bianco potete divertirvi giocando coi colori; io consiglio di stemperare della ricotta in padella con un po’ di olio, sale e abbondante pepe. Un paio di cucchiai a persona bastano. Nel frattempo, attendete che l’acqua salata raggiunga il bollore e buttate gli spaghi. A cottura ultimata scolateli, saltateli in padella con la ricotta e serviteli. Se vi piace aggiungete un’altra spolverata di pepe.

ALTRO GIRO ALTRA CORSA Matteo Zennaro

Siamo partiti (intendo io e il Georgie) con le idee un po’ confuse, senza un itinerario ben preciso, ma convinti che a Trieste avremmo trovato l’ispirazione. Infatti alle 21.00 di quel venerdì di marzo, dopo un fugace panino al rognone da Pepi (che darà inizio ad un viaggio culinario senza precedenti) prendiamo l’autobus per Belgrado. Arriviamo alle 6.00 del mattino, in una città che si sta svegliando tra i profumi dei burek appena sfornati. Le due notti passate nella

capitale serba bastano a ricordarci che, ancora una volta, quella è la città della notte, con le sue fumose luci che graffiano il buio e le note della sua domestic music che rimbombano nei kafana. Da qui, ancora un po’ intontiti dai fumi della rakjia, partiamo per Nis, seconda città amministrativa della Serbia, considerata la città più antica dello stato. Sarebbe stata una città qualsiasi, anche un po’ noiosa, se non avessimo incontrato Milena e Andrijana, due studentesse che

ci hanno cucinato un fantastico gibanica e ci hanno ospitato per la notte. L’indomani partiamo per Sofìa, la capitale bulgara, in cui ci fermiamo un giorno e una notte: una toccata e fuga di cui mi ricordo soltanto un mercato, palazzi e cattedrali enormi nella loro eleganza, l’esterno di una moschea (in cui cerchiamo per un paio d’ore di entrare, senza successo) e un piccolo pub in cui abbiamo passato la notte in compagnia di Clementine, a suon

di rakija e di coloratissimi cocktail, di cui solo Dio sa il nome. Da qui prendiamo il treno per la Macedonia, nel cui vagone facciamo la singolare conoscenza di un pastore serbo, che a gesti ci offre un formaggio fatto con le sue mani, e un docente universitario di Barcellona, che sta facendo un “viaggio di ricerca” e che per quella notte sarà nostro maestro di vita. Arrivati a Skopje, la capitale macedone, rimaniamo sbalorditi: superata la città vecchia, tra antiche moschee e caratteristici bazar all’aperto, raggiungiamo il city center, quasi assordati dallo stridere di quei palazzi neo-neoclassici, dallo stonare di quelle architetture pacchiane e gigantesche circondate di fontane e luci al neon. Da qui, dopo una serata matta rimbalzando da un club all’altro -cercando invano della musica quantomeno orecchiabile- an-

diamo alla vicina Ohrid, piccolo borgo sulle rive dell’omonimo lago, dove cominciano a sventolare bandiere della vicina Albania. Anche se il tempo non è amico, ci arrampichiamo sulla collina che domina il lago e passiamo qualche ora ad ammirare, senza fiato, il panorama su cui si affaccia il magico monastero bizantino di Sveti Pantelejmon: wow! Tornati alla capitale macedone e da li verso la capitale Serba, prendiamo il treno che taglia a metà il Montenegro, fino alla costa. Questa tratta, famosa tra i backpackers girovaghi, regala uno dei panorami più impressionanti dei Balcani, passando letteralmente in mezzo ad uno dei canyon più profondi d’Europa e tenendo incollati ai finestrini i nasi dei passeggeri, increduli. Arrivati a Bar, città portuale da dove poi prenderemo il ferry-boat per l’Italia,

andiamo verso nord, dove le aspre verdi montagne montenegrine si immergono nel mare più bello della costa, regalando uno spettacolo unico che ricorda lo smeraldo. Entrando a Kotor, cittadina arrampicata sulla montagna di fronte alla famosa baia, sembra di camminare per Venezia, con le sue calle e le stradine acciottolate, dove i bambini giocano a pallone tra i panni bianchi stesi al sole. Ed eccoci là, ad assaporare l’ultima pivo del viaggio seduti sulla sabbia di Sveti Stefan, piccola isoletta distante qualche centinaio di metri dalla costa, dall’aria fiabesca, quasi surreale. E poi di nuovo a Bar, a camminare tra le sue fredde vie costellate di hotel e ristoranti, in attesa di un traghetto che, durante la notte, ci riporterà “coi piedi per terra”, non solo letteralmente.

Beograd

Bosnia + Herzegovina

Romania

(Београд)

Serbia

Niš

(Ниш)

Montenegro

Kotor

(Котор)

Bar

Bari

Sofia

(София)

(Бар) Italia

Bulgaria

Skopje (Скопје)

Macedonia

Ohrid

(Охрид) Albania

Grecia


VIAGEM PARA LISBOA Laura Canto

“Non ci sono per me fiori che siano pari al cromatismo di Lisbona sotto il sole”, scriveva Fernando Pessoa, scrittore originario della capitale portoghese nella quale ho trascorso qualche giorno a metà ottobre. Lisbona è profondamente diversa dalle caotiche metropoli europee, estranea alla confusione delle grandi città, il clima di ospitalità che si respira ricorda quasi l’affetto tipico del sud Italia, la sua conformazione urbana ricorda molto la nostra Napoli, con le sue vie strette e una pendenza da mandare nel panico anche il turista più navigato. La bella città portoghese non è famosa solo per il Vasco de Gama, il ponte più lungo d’Europa, o le meravigliose Praça do Commercio, Praça do Rossio o Praça Restauradores; ci sono anche angoli poco conosciuti e particolarmente belli, intriganti, romantici, che inevitabilmente sono entrati a far parte della mia lista di luoghi indimenticabili. Per arrivare al primo incantevole luogo dovete salire sul famoso Electico numero 28, quell’autobus giallo che è ormai un simbolo di Lisbona, facile da prendere a una fermata qualsiasi del più bel quartiere della città, Alfama. Non spaventatevi delle manovre poco delicate

degli autisti, arrivati in cima scenderete in uno dei tanti miradouros, splendide terrazze panoramiche che offrono una vista di Lisbona davvero mozzafiato. Se poi avete anche la fortuna di trovare una giornata di sole, questo non farà che rendere ancora più spettacolare questa esperienza. Con poco più di mezz’ora di treno potete raggiungere, invece, un altro luogo in cui ho lasciato un pezzo del mio cuore: è Cascais, antico villaggio di pescatori, oggi trasformato in una piccola cittadina turistica molto frequentata dai lisboetas, abitanti di Lisbona, durante il soggiorno estivo. Dà sull’Oceano Atlantico e le sue spiagge, insieme a quelle di Costa da Caparica, sono la meta di surfisti provenienti da tutto il mondo. Nonostante ci fosse brutto tempo quando ci sono stata, questo non mi ha impedito di togliermi le scarpe e camminare sulla sabbia fino ad arrivare in riva al mare. Trovarsi davanti a una distesa infinita di acqua fa un certo effetto, a maggior ragione quando sai che le stesse onde in cui bagni i piedi toccano le coste del grande continente americano a migliaia di chilometri di distanza; forse è stata la mancanza di confusione estiva tipica delle spiagge a rendere

quest’esperienza ancora più suggestiva. Infine, nel cuore di BaixaChiado, il quartiere giovane della città, a pochi passi dall’omonima fermata della metropolitana, si apre Praça Luis de Camoes. Questa graziosa piazzetta nel weekend è sempre animata da artisti di strada, giovani creativi provenienti da ogni angolo del mondo per condividere con i turisti le loro passioni, le loro abilità, le loro specialità: sarete allietati da giovani giocolieri, mangiafuoco, suonatori di ogni genere, in un caleidoscopio di suoni, immagini, emozioni indimenticabili. È arrivato il momento di partire, lasciatevi stupire dal calore dei lisboetas, dalle note del fado e dalla meraviglia del mondo, là fuori. Non si sa mai chi potrete incontrare dietro l’angolo, con mille storie colorate da raccontare. Boa viagem!


QUANDO LE GUARDIE SVIZZERE DIFENDEVANO IL RE DI FRANCIA Antonio Mondin

cultura

La guardia svizzera non fu sempre una prerogativa esclusivamente papale, mercenari elvetici prestarono servizio come guardie del corpo, guardie cerimoniali e guardie di palazzo presso le corti d’Europa sin dal XV secolo. Erano tenute in grande stima sia per il valore militare che per la disciplina e la fedeltà nei confronti del signore cui giuravano obbedienza. A partire dal Cinquecento, nei torbidi d’Europa dilaniata dalle guerre di religione e dai tradimenti dei Signori della Guerra mercenari, i sovrani del Vecchio Continente vollero circondarsi di fedeli guardie per difendere l’incolumità propria e della famiglia. Nel XVIII secolo quasi tutte le corti d’Europa mantenevano un contingente svizzero, fu per primo Luigi XI di Francia a selezionare dei mercenari elvetici quali proprie guardie del corpo. 10 agosto 1792: i Parigini si apprestano ad assaltare il palazzo delle Tuileries. Luigi XVIII, con la diserzione della guardia nazionale, ormai non può che contare su poche centinaia di aristocratici e sulle sue fedelissime guardi svizzere. I Cent-suisses du Roi costituivano un formi-

dabile corpo di truppe scelte, conducevano una vita piuttosto appartata nelle loro caserme, conservando la propria lingua e i propri costumi, indossavano un’ uniforme blu con i galloni d’oro e le brache rosse, robusti e devoti, questi soldati venivano identificati come uno dei simboli della monarchia. In attesa dell’attacco, le guardie svizzere alle Tuileries sono allineate come un vero muro, e il loro silenzio militaresco è in netto contrasto con l’incessante baccano che viene dalle assai meno professionali guardie nazionali, nel frattempo il re e la famiglia reale sono stati evacuati presso la Sala del Maneggio (sede dell’Assemblea Legislativa). Alle 8 del mattino gli insorti decidono di penetrare nel palazzo. I difensori, non rendendosi conto che la famiglia reale è stata messa in salvo, oppongono resistenza: allora l’intero battaglione della Guardia Svizzera apre il fuoco, centinaia di dimostranti cadono a terra e per un istante il cortile antistante il palazzo rimane vuoto. Arriva dal re l’ordine di cessare il fuoco ma è troppo tardi, i compagni dei parigini caduti, impazziti per la rabbia, si

precipitano in avanti e gli svizzeri sono costretti a ripiegare nell’interno del palazzo. Rifiutando di lasciare il loro posto di combattimento vendono cara la pelle e quasi tutti perdono la vita. Il massacro di questi soldati segnò la sconfitta della monarchia francese. ( v. Carolly Erickson: Maria Antonietta, Oscar Mondadori, Milano, 2008. V. anche: Antonia Fraser, Maria Antonietta, Oscar Mondadori, Milano, 2011).


FUNZIONARI DIVINI E PERFIDI AUTOMI

in un’allegoria – stavolta colma di significato – non solo i funzionari sembrano – dal di fuori – tutti uguali, ma lo sono a tal punto che nemmeno loro stessi, nel momento in cui ven-

Nicola Tolloi Quanto opprimente possa diventare un apparato amministrativo mastodontico lo troviamo efficacemente nelle opere – purtroppo spesso incompiute – di Kafka. Cos’è un funzionario? Un dio o un uomo? Più un dio, si direbbe. Così inarrivabili che persino i subalterni dei più umili di loro risplendono di una luce che pare l’unica per districarsi nei bui labirinti dell’apparato burocratico: un inferno dove il bisogno di speranza – spesso vana – è l’unico motore che spinge a scontrarsi contro le barriere di una costruzione che pare strutturata appositamente per disorientare, spezzare volontà e – se hai sfortuna – distruggerti. La difesa – scrive intatti – non è propriamente consentita dalla legge ma solo tollerata. Esiste uno scudo in grado di difendere dal mostro dell’amministrazione e dare senso a una vita? Non l’amore, per Kafka l’amore somiglia più a un raptus momentaneo, immotivato e ingiustificato e proprio per questo molto più vicino al comportamento di un animale che a quello di un essere umano, che forse nell’amore

perde proprio il nocciolo della sua umanità. In un frammento, il rapporto sessuale viene così descritto: lei cercava qualcosa, lui cercava qualcosa, ciascuno, furiosamente, contraendo il viso in smorfie, affondando la testa nel petto dell’altro; come i cani frugano disperatamente la terra così essi frugavano l’uno il corpo dell’altra. Forse è il riflesso delle delusioni della sua vita: Milena Jesenká spiega così il fallimento della loro relazione – Dentro di me c’è un invincibile desiderio di avere un figlio, di una vita che sia molto vicina alla terra. Questo dunque ha vinto su ogni altra cosa, sull’amore del volo, sull’ammirazione e ancora sull’amore. Purtroppo nella visione di Kafka non c’è via d’uscita: da una parte l’insormontabile amministrazione e dall’altra un amore vuoto che degrada e sgomenta. Forse tutti gli eroi di Kafka (non per caso chiamati semplicemente K.) falliscono perché osano, sperano e ambiscono troppo: i loro desideri – peraltro molto comuni – li portano alla rovina. Forse non c’è alcun motivo in

questo, il mondo è un luogo triste e privo di giustizia dominato dalla peste dell’incomunicabilità nel quale ogni uomo è solo e vive circondato da burattini senz’anima. La ragione non è data, non a caso più di un commentatore parla di allegorismo vuoto: allegorismo che non allude a nulla, che non punta a nulla e che in sostanza non significa nulla. La mancanza di significato surroga un deficit di equità e si innalza a comune denominatore della vita. Largo alle interpretazioni. Il discorso viene estremizzato – ma con più lucidità – da Dostoevskij in uno dei suoi romanzi giovanili – Il sosia. Qui, il fenomeno della burocratizzazione estrema della società russa conduce il protagonista ad avere a che fare addirittura con il suo alter ego, il clone, il doppio (tema peraltro ricorrente). Questi gli ruba il lavoro, le amicizie, tutti lo scambiano per lui. È un’allucinazione, naturalmente. E invece no, è il risultato della gerarchia in un contesto dove sei in base al titolo che hai: se stai in basso non sei che un ingranaggio e perdi la tua individualità. Il discorso è così vero che

gono sostituiti, riescono a cogliere le differenze tra sé e gli altri e – in quella che a noi pare grottesca follia – credono di avere di fronte un clone e non un’altra persona. Forse

perché davvero, in una società così, tra loro non c’è alcuna differenza.

IL TERREMOTO CRISTIANO IN GIAPPONE Davide Zagni Nel Giappone dalle mille religioni, shintoista , buddista, anche il cristianesimo non mancò di fare i suoi proseliti, anzi, la sua diffusione fu inizialmente assecondata per poi degenerare in una delle più feroci persecuzioni religiose della storia giapponese. Dall’arrivo dei portoghesi nel 1542 i gesuiti iniziarono un’ardente opera di evangelizzazione che suscitò un incredibile interesse, anche presso i monaci buddisti. La diffusione fu in gran parte dovuta al fatto che le differenze linguistiche paradossalmente eliminavano tutta quella serie di complesse divergenze che avrebbero potuto creare attrito, e anzi, l’approccio superficiale contribuì a trasmettere una visione del cristianesimo in cui Cristo finì per figurare come una specie di Buddha. Inoltre, il rigore e l’essenzialità dei gesuti risultarono estremamente vicine a a alla disciplina praticata dai monaci Zen; entrambi praticavano la

meditazione e il rigore ascetico, ad esempio. Le somiglianze si basavano ovviamente sulla mancanza di un serio confronto, la religione cristiana monoteista non poteva convivere con il pantheon degli dei giapponesi; si arrivò a degenerazioni alquanto comiche come l’invocazione da parte dei samurai prima delle battaglie di Gesù o della Madonna assieme a quelle di Buddha . Ma il motivo principale della diffusione cristiana era, come spesso accade, il movente economico. I feudatari traevano grandi vantaggi dal commercio con gli europei e credendo di incoraggiare gli affari favorivano il cristianesimo, un favoritismo che in realtà poco importava ai freddi e privi di scrupoli mercanti eurpopei, poco interessati al credo dei loro partners economici e più attenti ad altri dettagli più venali. Ma le differenze col tempo vennero a galla ed

esplosero controversie dottrinarie tra i monaci e i missionari, che inizialmente vennero appoggiati dal potere costituito a cui premeva ridimensionare le pesanti ingerenze dei monaci buddhisti. I gesuiti acquistarono ben presto un potere e un’influenza in grado di suscitare la preoccupazione e la paranoia dei leader che si succedevano. Con un editto del 1587 si dichiarò il cristianesimo bandito da tutto il Giappone. Sorsero tumulti e nuove intolleranze fino al 1617, anno in cui, temendo mire espansionistiche europee sul Giappone iniziò una vera e propria persecuzione contro i missionari e i convertiti accompagnata da una progressiva politica di isolamento verso l’Europa. Nella regione di Shimabara, nel 1637 i contadini, classe sociale particolarmente sensibile al proselitismo dei missionari , che li spingevano a miglio-


rare la loro condizione emancipandosi dal rigido dogmatismo delle caste, insorsero contro le angherie dei feudatari , e grazie all’appoggio mili-

tare e alla guida di alcuni ronin(samurai senza padrone) scatenarono una rivolta che si diffuse rapidamente in tutta il territorio. La reazione dello Shogun (il dittarore giapponese) non si fece attendere e i ribelli, dopo i primi successi , per sfuggire all’esercito dovettero asserragliarsi in una vecchia roccaforte dismessa su un promontorio a picco sul mare, che rimisero i funzione e da cui tentarono una strenua resistenza; il castello di Hara. Le forze shogunali credevano di poter avere gioco facile sulla massa di contadini impauriti e rinchiusi ad Hara e non si prepararono ad un lungo assedio ma tentarono subito di espugnarlo; non avevano fatto i conti con l’esperienza

bellica dei numerosi ronin che si erano uniti alle forze ribelli. In breve tempo addestrarono nel minor tempo possibile gli insorti. Così supportati, inflissero dure batoste ai vari generali governativi che sconfitta dopo sconfitta vennero sostituiti ( i meno fortunati furono condannati al seppuku, il suicidio tramite sventramento) dallo Shogun. Privi di scorte i ribelli, seppur valorosi, non resistettero oltre cinque mesi ma prima di essere trucidati diedero prova di grande valore e soprattutto di una grande e autentica fede. I Kirishitan (così erano chiamati) morirono come eroi. E anche come martiri.

NOI SIAMO INFINITO Giulia Guidi Noi siamo infinito – Ragazzo da parete, di Stephen Chbosky Noi siamo infinito- Ragazzo da parete (titolo originale The Perks of being a Wallflower) è il romanzo di Stephen Chbosky, pubblicato nel 2012 da Sperling & Kupfer Editori nella sua terza ed ultima edizione. Si tratta di romanzo epistolare con un solo corrispondente, Charlie, il protagonista, che racconta la propria vita, i propri pensieri, abitudini e senti-

menti, attraverso una serie di lettere dall’ incipit “Caro amico”. Il lettore non comprende chi sia questo interlocutore, al punto che pare raccontare la sua storia direttamente a chi sta leggendo il romanzo. E così, tra le pagine che raccontano la storia di un ragazzino di sedici anni, alle prese con le prime esperienze che la sua età gli offre, l’inizio del liceo, la voglia di instaurare amicizie, la prima cotta per una ragazza che sembra irraggiungibile, si crea un

legame diretto tra il narratore ed il lettore. Ci si riconosce in quelle pagine. A chi non è mai capitato di sentirsi totalmente imbranato, inadeguato, all’interno di una società dalla quale non si brama che approvazione? A chi non è mai palpitato il cuore alla vista della persona amata, o a chi non è mai venuta la nausea al pensiero di affrontare una prova, come il primo anno in una scuola del tutto nuova, la trasgressione di determinate regole, la prima

sbronza, o il primo bacio? Noi siamo infinito diviene un riepilogo delle fasi adolescenziali di ognuno di noi. Ci si affeziona a Charlie, si arriva a sperare che il suo primo giorno di scuola vada per il meglio, così come tutto il resto. Si sorride, quando finalmente riesce a crearsi delle vere amicizie, come Patrik –tipico ragazzo ironico, emotivo, attratto un poco dal lato decadente della vita e dai ragazzi- e Sam- sorellastra di Patrik, così piena di vita, attraente e totalmente pazza. Ci si preoccupa, quando Charlie prova le prime droghe, e anche quando il suo cuore cerca di aprirsi a Sam. Tutto questo turbinio di emozioni è accompagnato da frasi tratte dai grandi classici della letteratura inglese, quali per esempio Sulla strada di Keruac o il Giovane Holden di J.D. Salinger, che ricamano il carattere e la vita di Charlie. Noi siamo infinito riesce a far sentire il lettore parte di questo infinito. Con un linguaggio sincero, riflessivo e talvolta romantico, Stephen Chbosky da vita ad un romanzo emozionante e coinvolgente, in cui è assolutamente impossibile non riconoscersi. E quando si arriva alla fine dell’ultima pagina lo si fa con un sospiro, pensando a Charlie come nientemeno che un “Caro amico”.

LETTURA DEL BHAGAVADGITA Anonimo Testo il cui inserimento nel vastissimo poema epico Mahabharata si data attorno al III secolo a.C., veicolo di quel pensiero indiano dei Veda e delle Upanishad, testi già antichi (si parla di una letteratura che ha le proprie origini nei pressi 2000 a.C.) ma la cui eleganza formale e maturità metafisica tradisce un’ascendenza probabilmente ancora più arcaica, in tempi che la consapevolezza moderna rifiuta di concepire al punto da averli circoscritti nell’umiliante definizione di Preistoria. Considerato un testo sacro al pari dei già citati Veda e Upanishad, il Bhagavadgita racconta sotto forma di dialogo – quella moda compositiva tanto cara ai metafisici della grecità – il confronto fra il principe Arjuna, l’eroe mitico schierato sul campo di battaglia di Kurukshetra, ed il suo auriga, il dio Krishna. Dapprima Arjuna si confida con il dio, cercando risposte ai suoi dubbi riguardo alla legittimità di alzare le armi contro i suoi consanguinei. 37. Dunque è un’infamia per noi mettere a morte i […] nostri parenti; infatti, come potremmo essere felici […] dopo aver ucciso la nostra parentela, 38. anche se,

col cuore ferito da cupidigia, essi non vedono che è un errore distruggere la propria famiglia, crimine mortale tradire i propri amici? Risponde lord Krishna: 11. Provando pietà per coloro che della pietà non sanno che farsene, tu parli il linguaggio della saggezza. Ma i dotti non si impietosiscono per coloro che se ne sono andati, né per coloro che se ne andranno. Non serve essere esegeti biblici perché un orecchio attento si rizzi nell’ascoltare queste parole. È con considerazioni simili che presto il dialogo assume altri toni, lanciandosi in speculazioni metafisiche nel corso delle quali ad Arjuna sarà rivelato il proprio ruolo – e con il suo quello di ogni essere – nell’intreccio dell’esistenza. L’uomo beato sarà colui che, conoscendo sé stesso, raggiungerà la totale relatività del proprio Essere rispetto all’Esistente. Una condizione che ingenuamente le moderne scienze della mente e la psicoanalisi cercano di stabilire, quando in tempi antichi era basilare obiettivo proposto da ciò che definire religione sarebbe riduttivo. Leggendo un testo come questo, si diventa partecipi – sia pur in


modo parziale e mutuato da quei significanti della cultura moderna occidentale così difficili da dimenticare – di quella che per l’uomo antico era la religione (termine abietto e moderno): non qualcosa in cui credere, ma una realtà innegabile. Chi potrebbe, infatti, opporsi alla più palese evidenza? 34. Ciascuno dei sensi prova un’attrazione o un’avversione immutabilmente determinata per questo o per quell’oggetto sensibile; nessuno deve porsi in balia di questi due [impulsi]; perché sono essi le pietre d’inciampo sulla strada di tutti. Ma sarà difficile per un moderno, un occidentale, anche dopo la lettura di qualcosa come il Bhagavadgita, smettere di porsi limiti, di seguire ciecamente i comandamenti dell’inconscio, ed accedere al divino.

GRANDI SCOSSE PER I TOCCHI DI TEATRO Lia Simonatto L’anno scorso, a Ferrara, per il mondo dello spettacolo è stata una stagione tronca. Così come le chiese, i palazzi e le case avevano perso le loro statue, i loro pennacchi, i tanti camini, anche la stagione teatrale e la scena musicale avevano subito dei crolli nella loro programazione. La scossa del 20 Maggio 2012 aveva messo in allerta tutta la città e parecchie strutture furono dichiarate inagibili o da sottoporre a verifica. Tra queste anche il Teatro Comunale e la Sala Estense. Dopo la seconda scossa era inoltre subentrata la paura di riunire molte persone in luogo chiuso, e per lo più buio, dal quale dover poi fuggire all’improvviso in caso di pericolo. Ragione per la quale sembrava ancor più di vivere in una realtà parallela assai triste in cui non ci si poteva divertire perchè era praticamente impossibile, dannoso, quasi vietato, intrattenere un pubblico. Così molti degli spettacoli furono annullati: concerti spostati, saggi di fine anno rinviati, compagnie congedate…Basta, Stop, Chiuso!

Eppure “The show must go on” si dice… Ok , ma dove? Come se lo spiega una compagnia di giovani universitari che dopo aver provato per mesi e mesi un testo, dopo essersi sacrificati tra studio e prove, dopo aver montato tutte le scene, con tanto di costumi e musiche vede vanificarsi tutti i suoi sforzi? Perchè questo fu il vero dramma vissuto dalla Compagnia Teatrale Tocchi di teatro che il 16 giugno scorso avrebbe dovuto portare sul palco del Teatro Comunale l’opera “Crociate” per la serata The Dream of Passion, rassegna delle scuole teatrali ferraresi. Caliamo ora, però, la maschera triste e mettiamo quella buffa per fare le dovute presentazioni! La Compagnia Teatrale Tocchi di teatro nasce da un’esperienza decennale di laboratori e performances, diretti della regista e attrice Roberta Pazi, prodotti dal Dipartimento di Scienze Giuridiche e dall’Università degli Studi di Ferrara. La Compagnia è formata attualmente da nove membri fissi (Flavio Caroli, Laura Gallini, Alessandra Guerra, Elena de Lorenzo, Maria Elena

Paolucci, Nicola Santolini, Vittoria Triglione, Marco Trippa e dal musicista Danilo Colloca) ma è idealmente composta da tutte le cinquanta persone che durante questi anni accademici ne han preso parte. Infatti, la collaborazione di Roberta Pazi con la Facoltà di Giurisprudenza è iniziata nel 2002 ed è legata alla creazione di uno spettacolo per la Giornata della Memoria . La struttura con cui si articolava il laboratorio era aperta e rivolta a tutti gli studenti della Facoltà di Giurisprudenza che non dovevano necessariamente aver avuto esperienze di teatro. Fin dal primo anno, con il testo”Perchè questa notte è diversa da tutte le altre”, la manifestazione ha riscosso grandi successi e negli anni seguenti è sempre stata riproposta portando in scena anche ”Cenere alle ceneri”; ”Nient’ altro che occhi”;”L’ uomo nero”;”Gabbie”;”Le decisioni degli altri”;”L (‘) oro”. Ricordando il Giorno della Memoria e ritornando invece ad un giorno che resterà nella memoria, la compagnia parla del sisma come un evento di fronte al quale è rimasta attonita ed incapace di

reagire con forza da subito. “L’inagibilità del Teatro Comunale” dice Roberta Pazi “era una cosa insormontabile, era insostituibile con altri spazi di rappresentazione per quanto riguarda fama e prestigio”. La scelta è stata quella perciò di mantenere un atteggiamento rispettoso nei confronti di ciò che era successo. Subito dopo però il gruppo ha sentito la necessità di ri-trovarsi in maniera più continua, quindi anche durante l’estate. Da settembre, inoltre, la compagnia si riunisce due volte la settimana in modo da far sentire la sua presenza come gruppo, per avere una riconoscibilità. La direzione intrapresa dalla compagnia è infatti quella del Teatro Civile, ovvero un teatro che abbia un impatto sulla gente proponendo delle riflessioni sull’uomo e sul suo agire. L’ultima opera portata in scena è stata infatti “In misura crescente” basata sull’ assemblaggio di tre testi differenti che raccontano tre episodi di soprusi, unite dalla circolarità del concetto che la memoria della violenza subita, giustifica la violenza perpetrata. In un crescendo e in un rimando continuo che

legittima la sopraffazione. Lo spettacolo si è svolto alla Casa dell’Ariosto in occasione della Giornata della Memoria 2013 ed è stato di recente riproposto anche alla Sala della Musica, e poi, in collaborazione con il collettivo artistico Non cresco più, per la mostra itinerante “Il sopruso Silente” tenutasi al CSA La Resistenza. La Compagnia dei Tocchi di teatro, infatti, sta cercando altri spazi da sperimentare. Rimane tuttavia confermato l’appuntamento con il Teatro Comunale anche per quest’anno con la seconda edizione di A Dream of Passion. La data prevista è quella del 13 giugno e i prossimi mesi saranno tutti dedicati alle prove per lo spettacolo sul quale non vogliono darmi un’anteprima…per scaramanzia.


LA NUOVA BAYREUTH DI WOLFGANG WINDGASSEN Nicola Tolloi Bayreuth: il teatro dove si suona solo Wagner la cui musica – di per sé scevra di ogni tendenza razzista e incline anzi a sentimenti di fratellanza universale – fu pesantemente travisata dal regime nazista e nel suo delirio piegata, smantellata e ricostruita per le sue funzioni. In seguito alla chiusura del teatro dopo la fine della guerra a causa delle troppe vicinanze col potere politico (Winifred Wagner e Hitler erano molto legati), la Nuova Bayreuth voleva portare redenzione e purificazione in una musica troppo profondamente contaminata da significati politici. La riapertura avvenne nel 1951 e aveva lo scopo di cancellare il recente e vergognoso passato fondando un nuovo stile di canto, grazie a nuovi direttori e soprattutto a nuovi cantanti: i nuovi eroi. Tra questi, fu soprattutto uno che per originalità espressiva, intelligenza e intrinseche doti canore si impose come simbolo del cambiamento. Parsifal, dramma lunghissimo e di lunghissima composizione (12 anni) occupò l’intera parte finale della vita di Wagner e fu

l’opera scelta per la riapertura in virtù del suo messaggio profondamente spirituale in linea con gli obiettivi della rinnovazione. Tra i cantanti, stelle nascenti dell’ultimo periodo e alcune vecchie glorie, compariva un autentico novellino: Wolfgang Windgassen, 38enne, per la prima volta sul palco di un grande teatro. Egli si cimentò direttamente con uno dei ruoli più difficili e meno gratificanti del repertorio operistico: Parsifal, l’eroe che dà il nome all’opera, il redentore, il ragazzo folle e simbolo della purezza. Per la prima volta si udì un Parsifal veramente giovane, con una voce limpida che schiudeva l’anima, un fraseggio così moderno che è rimasto quello attuale e una interpretazione così vivida che più che un attore pareva di avere di fronte – così raccontano – Parsifal stesso. La grande scommessa avvenne però due anni più tardi, nel 1953. Pochissimi cantanti professionisti sono in grado di cantare Siegfried nelle due opere che lo vedono protagonista, ancora meno osano farlo pur avendone le capacità perché c’è il rischio – con-

creto – di rovinarsi la voce: tale è lo sforzo necessario. Si diceva, inoltre, che solo le voci più pesanti, quasi baritonali nel timbro ma pur dotate di ampia estensione verso l’alto (combinazione rara) potessero approcciarsi efficacemente al ruolo e sovrastare la grandiosa orchestra. Cosa poteva fare un tenore dalla voce squillante di adolescente? Fu una domanda che si affacciò nella mente di molti, tra cui qualche nome noto. Tuttavia, se Parsifal era stato un miracolo, Siegfried si rivelò persino di più. Siegfried, da omaccione stupido che tira colpi di martello e di spada a destra e sinistra qual era sempre stato rappresentato fino ad allora, diventa, o forse torna ad essere (come lo immaginava Wagner nei suoi scritti) l’adolescente psicologicamente delicato ma fisicamente invincibile che cerca di scoprire sé stesso e il mondo. Riaffiorano la purezza e l’incanto della dolcezza in un eroe che era diventato fin troppo ruvido e terroso. Con quella voce delicata ma capace di sovrastare l’orchestra come e più di altre blasonate voci profonde, cantò Siegfried –

quel ruolo così usurante – non una ma decine di volte fino all’alba degli anni ‘70 – momento del suo ritiro – segnando il ruolo per sempre. Nessuno può più pensare all’eroe degli eroi senza collegarlo all’eroe che lo ha cantato per quasi un ventennio, qualunque cantante deve e dovrà misurarsi con lui quando tenterà il ruolo. È il risultato della forza della sua innovazione e dei direttori che l’hanno colta.

TOCCO SISMICO Gabriele Gatto Ancora uno scatolone da imballare, un ultimo stralcio di vita da comprimere in quattro fredde mura di cartone insensibili al valore del loro contenuto, noncuranti di quel limbo esistenziale pronto a divorarle. Un rapido sguardo in ogni cassetto, tanto per essere sicuri di non aver dimenticato nulla, tanto per risentirne il cigolio familiare e realizzare inconfutabilmente la desolazione del trasloco. Un leggero sussulto, il primo segnale, è il momento dell’allerta.

L’ordine immediato è evacuare, fuggire via prima che il sismografo impazzisca e il terrore avviluppi la stanza impedendo la fuga, così nell’inquietante immobilità che precede l’inevitabile catastrofe porti fuori gli scatoloni e ritorni velocemente a fissare il vuoto. Nonostante avessi sperato che la prima scossa non ti cogliesse lungo il breve tragitto, prima di varcare la soglia la avverti. Dall’istante successivo tutto trema e si sconvolge, sobbalza e

precipita in interminabili secondi di puro panico, poi tace e lascia spazio ad un respiro affannoso e ad un battito accelerato. Incapace anche solo di una parvenza di movimento lasci che gli occhi si facciano strada dove il corpo non riesce ad arrivare ed è allora che la vedi, una crepa comincia a serpeggiare poco oltre i tuoi piedi, sbarrandoti la strada, pronta a squarciarsi al prossimo tremore. Il secondo scossone non si fa attendere, con lui la paura si


trasforma in scellerato desiderio di rimanere, di non cedere all’evidenza del momento per continuare a sperare che le mura tengano e che quando tutto sarà finalmente finito la tua normalità universitaria sarà ancora lì ad aspettarti, pronta a riprendere dal momento esatto in cui quel terremoto l’ha così bruscamente interrotta. In attesa di quelle che gli esperti chiamano scosse di assestamento cerchi tu stesso di assestarti il più velocemente possibile, dopotutto è quanto meno ironico attendere nuovamente il terrore per esorcizzare una paura passata. I momenti che seguono li passi visualizzando istantanee sbiadite raccolte negli ultimi cinque anni, quasi prigioniero di uno strano amarcord che arriva al momento opportuno e sembra non voler cedere il passo all’azione. Così, quando quelle famose scosse sopraggiungono, il timore si è ormai dissolto lasciando spazio alla consapevolezza che la polaroid è ancora lì, riposta negli scatoloni in attesa di ritrarre nuovi sfuggenti attimi di quotidianità. Lasci la stanza e osservi la voragine ricomporsi e scomparire, a passi decisi ti allontani da lei e mentre scambi gli ultimi saluti realizzi che quel terremoto è solo il primo di una lunga serie. Presto o tardi quella laurea sarebbe dovuta arrivare e con lei uno sciame sismico da non sottovalutare: scelte, colloqui, delu-

sioni, cambiamenti di ogni specie. Una scossa continua capace di smuovere le certezze più profonde, un orizzonte invaso da smottamenti imprevedibili e di gran lunga più temibili di quello appena passato, al tuo fianco la sola speranza che con il tocco in testa tutti gli altri facciano meno danni.

FREMITI

Trema la terra il terrore negli occhi e poi piu’ giu’ lungo i fianchi Nulla vedi e solo senti un tutto contratto: l’aria, l’addome, il tempo di dire “cos’era?” lo spazio per dire “Io c’ero...” C’ero, con le scarpe rotte C’ero, con la giacca corta Io in pigiama, lei in vestaglia Ed era l’incertezza con un alito di timidezza L’instabilità che in un attimo precipita e cade ci scopre umani fragili Si alza una nuvola di colore viola livida, l’acqua sobbolle, nel thé la notizia Scivola e s’amplifica si confonde con altre tragedie che mandi giù Lia Simonatto


LA SCOSSA FERRARESE DELLA LIQUIDITA’

ALESSANDRO CICCOLA

la sezione orfana

L’attività di Nicola Galli rappresenta una giovane realtà sullo scenario artistico ferrarese: a partire dalla formazione al Teatro Nucleo di Pontelagoscuro, Nicola si è tuffato appieno in qualsiasi esperienza di tipo artistico – danza contemporanea, installazioni, fotografia-. Interessato a qualsiasi aspetto della comunicazione artistica e membro del CollettivO CineticO, Nicola ha proposto tra il 2010 e il 2013 l’interessante Progetto MDV (Metamorfosi Del Vuoto) che nasce dalla sua volontà di indagare il concetto di liquidità, intesa come applicazione del contesto sociale contemporaneo: “Ho voluto analizzare il dinamismo che contraddistingue la contemporaneità studiando corpi e movimenti in un contesto di intersezioni. L’ attenzione è rivolta ad uno studio bilanciato tra scala microscopica e macroscopica: il singolo si muove in questa rete interagendo con altri individui, strutture, contesti, permettendo di osservare la dinamicità del contemporaneo”. Il progetto si articola in quattro esperimenti: “MDV verte sul topic della liquidità spazio-temporale, ma ogni singola esperienza possiede un filtro specifico - l’idea di mappatura, lo

studio dell’endoscheletro, l’introspezione epiteliale. La liquidità costituisce il filo conduttore tra queste diverse realtà. Il primo lavoro è Io sono qui: ho voluto certificare il mio passaggio in posti diversi attraverso etichette puntiformi circolari, poste in luoghi di transizione creando una mappa che testimoniasse la caratteristica liquida dello spazio contemporaneo, dotata di mezzi di trasporto reali e virtuali che rendono il corpo “tascabile” e capace di raggiungere ogni luogo.” Il progetto prosegue poi con un trittico, costituito da due performance e un’installazione: “La prima, Proiezione dell’architettura ossea, consiste di una partitura coreografica nel tentativo di traslare l’ultima fase di linea temporale -la fine fisiologica e anatomica.” La liquidità in questo caso è quella, appunto, del tempo, il tentativo di documentare un processo che non si può osservare, la capacità articolatoria della struttura endoscheletrica. In Prime visioni sottocutanee due performer si muovono all’interno di due cubi in una vetrina di un negozio: qui la suggestione è quella dell’ambiente uterino, del sonno, della poesia di Juana Ines de la Cruz

Primo sogno, della liquidità spaziale che si congiunge a quella temporale: “Lo spazio è determinato dal cubo che contiene il movimento, ma il tempo -categoria inscindibile dallo spazio- vi si congiunge nella rappresentazione del dormire, dove il corpo è morto da un punto di vista interattivo ma vivo da un punto di vista fisiologico”. Il trittico si conclude con un’installazione, Osso: “Ho avvertito la necessità di passare alla capacità di astrazione dell’arte visiva perchè nell’ introspezione dell’endoscheletro ho sentito inopportuno il mio sguardo nell’osservazione di ciò che è l’inosservabile, le proprie ossa: il tentativo è proprio quello di comunicare l’incapacità di arrivare in fondo attraverso l’uso di una luce abbaiante, delle venature del legno, della capacità di adesione dell’epidermide al compensato. La liquidità, dunque, si sublima nell’astrazione stessa e nell’estrapolazione temporale di un principio”. Box informativo: http://www.progettomdv. it/ www.collettivocinetico.it www.totemartifestival.it


UNA PAIDEIA PER DUE

sfide quotidiane 7

GLORIA DALLA VECCHIA

torta al cioccolato in soli 5 minuti Francesca A mmadeo

Avete presente quando siete li©che state studiando, vi impegnate, vi impegnate e ad un certo punto vi rendete conto che vi manca qualcosa, un po© di energia, un po© di positivita©, e siete disperati, non sapendo come uscire da questa terribile sensazione di vuoto? Sovente ci si alza, ci si reca in cucina, si apre il frigorifero e sconsolati si cerca qualcosa, non si sa bene cosa, come se quell©antro misterioso potesse dare risposte a tutti i vostri dubbi.. ebbene, vi svelero© io come potrete colmare la vostra immane lacuna, espletandovi come si puo© preparare una fantastica torta al cioccolato in 5 minuti! Si, esatto, solo 5 minuti!

Vi occorrono: -4 cucchiai di farina per dolci -4 cucchiai di zucchero -2 cucchiai di cacao -1 uovo -3 cucchiai di latte -3 cucchiai di olio -1 tazza da the© e.. un forno microonde.

Mettete nella tazza farina, zucchero, cacao e mescolate. Aggiungete il latte, l©olio e mescolate nuovamente. Quando avete finito, posizionate la tazza nel forno a microonde alla massima potenza (1000 watt) per 3 minuti. Aspettate che il tortino (di ambigua forma) fermi la sua crescita e poi non vi resta che assaggiare il vostro nuovo capolavoro!

L’essere umano è l’unico animale che si auto-educa. A differenza degli altri animali, che vengono educati dal più forte, l’essere umano contamina se stesso: un lunghissimo processo storico-politico di fallimenti. Non che non valga per noi la legge del più forte! L’altra volta abbiamo parlato del terremoto, di come la Natura, ribellandosi al vano tentativo dell’uomo di dominarla, abbia l’ultima parola su di noi, indegni di essere suoi figli. Ebbene, non solo abbiamo perso in partenza la battaglia contro la Natura, ma contro la nostra stessa natura ad auto-educarci. Ogni educazione mira allo sviluppo delle capacità dell’animale umano. Pare che qualsiasi cosa diciamo e/o facciamo, sia mirata al meglio. Nel momento in cui non riusciamo a realizzare questo Bene, ecco: la sconfitta. Trascinarsi ogni giorno da un posto ad un altro, lo svolgere i propri doveri, far rispettare i propri diritti, e dormire, e mangiare, e fare l’amore. Tutto questo, tranne il fare l’amore, ci hanno detto a scuola - dopo averci insegnato l’uso delle lettere e dei numeri- sarebbe stata la nostra vita in società. Dalla culla alla tomba siamo legati ad altre persone. Non c’è niente da fare. Per

quanto possa essere passato di moda l’hermitage, molti di noi oggi accusano la nostalgia di una bella celletta isolata, magari non per pregare, o anche sì, perchè no, basta che ci sia facebook. Paradossale? Certo. Dalla propria stanza, un mondo intero che si apre e non si sa cosa cercare. Navighiamo come Colombo, chissà se esiste poi quest’America, spezie, schiavi e oro. Come fare per auto-educarci, troppi sono gli specchi, troppo ciò che pretendiamo da noi stessi, o dagli altri. C’è chi soffre di vittimismo e chi di senso di colpa. Chi è il più forte tra di noi? Quello che sembra il più forte. Per cui sia ben chiaro: se non avete idea di che posizione avete, molto probabilmente siete sul piano inferiore. Solo chi è in basso non può vedere molto lontano. Ed ecco un primo principio di auto-educazione. Abbiate cura dei vostri occhi. Delle vostre orecchie, cercate di non violentarvi con giudizi che dopo tutto, fanno invecchiare troppo presto! (Non abbassare il mondo, innalza te stesso) Il vero terremoto deve avvenire all’interno di ognuno di noi, occorre necessariamente sovvertire le proprie regole, per poi riappropriarsene di volta in volta.

Come la terra si muove, la tettonica delle placche ed il resto, occorre che anche noi ci muoviamo, eruttiamo lava, inondiamo e rinsecchiamo a seconda delle stagioni. Quando entriamo in contatto con qualcuno diverso da noi, avviene quella strana cosa, che forse si chiama amicizia. L’amicizia è un tipo di amore. E’ fedele. E’ divertente. E’. E’ anche doloroso, poiché a volte delude. In amore occorre dunque fare coppia con chi non è veramente innamorato per evitare coinvolgimenti eccessivi? Nel Fedro di Platone vengono presentate le varie manie, le varie pazzie, date dalle muse o da alcuni Dei, tra cui Eros, figlio di Afrodite. Cito una frase “Meglio la pazzia data dagli dei, che l’assennatezza data dagli uomini”. L’amicizia-amore è la nostra sola e unica via di salvezza. Unico specchio inimitabile del nostro valore, unica misura del nostro coraggio. Se non ci fosse qualcun’altro al mondo oltre a noi, noi saremmo nessuno. Una paideia per due è un invito a mangiare fuori, a prezzo modico, ecosostenibile, certificato dal ministero della salute e degli interni.


LA SUA ARTE APPARTENEVA SOLO A LEI HANNA MAROZ

Nome e Cognome: Vivian Maier Città natale: New-York Anni di vita: 1926–2009 Lavoro: babysitter Hobby: fotografia Macchina fotografica: Rolleiflex Stile delle foto: street photography Stile della vita: femminista

Più informazioni: http://vivianmaier.blogspot.it/ http://www.vivianmaier. com/

Vivian nasce a NewYork, ma cresce a Parigi. In America torna a venticinque anni e per quarant’anni lavora come babysitter, di cui quindici nella stessa famiglia. Nel 2009, all’età di ottantatre anni, muore. L’agente immobiliare John Maloof, cercando un libro

antico all’asta, compra una scatola con circa 100 mila negativi della fotografa sconosciuta a 400 dollari. Rimane stupito delle foto e decide di scoprire l’autore. Maier è già morta, ma John riesce ha trovare la famiglia dove lavorava la donna, che regala a lui la sua macchina fotografica. Con il tempo questa Rolleiflex cambia anche la vita di John. Non è servito né tanto tempo, né tanto sforzo, per attirare l’attenzione della gente. Pochi giorno dopo che Maloof pubblica qualche foto di Vivian su internet, arrivano centinaia di proposte per fare esposizioni o il film documentale. La prima esposizione di Vivian Maier è organizzata in Norvegia nel 2010, la seconda nel 2011 a Chicago. Adesso John sta lavorando sul libro delle fotografie di Vivian e le proposte per fare il film arrivano ancora molto spesso. Senza parole e costruzioni difficili Immaginate come poteva essere la street - photography negli anni ‘50-‘70… Sicuramente di tipo molto documentario. Ma Vivian Maier è riuscita a “attraversare i confini” delle dottrine pubbliche. La sua visione del mondo era diversa: riusciva a serbare sulla pellicola la vita quotidiana, nei momenti in cui pensiamo di rimanere invisibili tra il caos della città. Come le donne raffinate nei secon-

di, quando perdono il pathos sui loro volti, e i cittadini della “terza” classe nei momenti in cui i passanti fingono di non accorgersi della loro presenza, come se non esistessero, per non riempire la propria testa di altri problemi. Maier coglie questi momenti, le emozioni e le impressioni glissanti della vita, facendo capire che essa stessa è fugace. Le sue foto permettono di spiare l’atmosfera sulle strade di quei tempi, dando all’ “immagine” la fragranza europea: naturalezza delle emozioni e scorci interessanti. Si può solo intuire quanto fosse difficile realizzare questi scatti. Per i suoi tempi, Vivian aveva una visione “fresca” e la sua coscienza non era offuscata della limitatezza del pensiero pubblico. Per adesso possiamo solo immaginare, che la sua energia - legata ai bambini e al proprio senso della vita - era la passione per le foto. La stima e l’amore spontaneo per quello che faceva. Non vi sembra romantico e straordinario che questa persona non cercasse fama e notorietà? Non vi sembra un esempio d’indipendenza dall’opinione della società?



Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.