Il Tascapane - 14

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IL TASCAPANE

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Il giornale che ti porti dietro


COLOPHON

INDICE INCHIESTA

IL TASCAPANE Il giornale che ti porti dietro

IMMOBILITÀ INTERNAZIONALE P.06 INTERVISTA P.10 MOBILITÀ IN E OUT P.12 ERASMUS...HOW TO P.13

NUMERO 14 Dicembre 2013 FONDATORI Cono Giardullo, Luca Iacovone, Luca Pianese, Edoardo Rosso DIRETTORE RESPONSABILE Luca Iacovone VICEDIRETTORE Edoardo Rosso

REPORTAGE LENZUOLI DI GUERRA P.16 INDEBITO IN ANTEPRIMA P.18 DAVIDE VS GOLIA P.19 EUROPA SÌ P.20 DATELE L’ERGASTOLO P.21 I RICORDI SON L’ESSENZA DI CIÒ CHE SIAMO P.22

TASCAPANE ROMA

CAPOREDATTORE Fiorella Shane Arveda

CROAZIA REDENTA P.24 LE LACRIME DEGLI EROI P.25

REDAZIONE Fiorella Shane Arveda, Andrea Biolcatti, Gloria Della Vecchia, Irene Ferraro, Gabriele Gatto, Adriana Giunta, Pietro Marino, Andrea Pirazzini, Edoardo Rosso, Lia Simonatto, Tommaso Vable.

RUBRICHE FOTOGRAFIA P.26 FILOSOFIA P.28 POESIA P.29 TENDENZE P.30 CINEMA P.31

PROGETTO GRAFICO Laura Abbruzzese, Lia Simonatto

RACCONTI QUEL FOULARD DI SETA GIALLO P.32 THE BIG-BANG THEORY P.33

CHI HA COLLABORATO Francesco Gagliano, Federico Maiozzi CONTATTI www.tascapane.it noss@live.it tpfiore@gmail.com EDITORE Ass.NOSS_ Non solo studio Sede legale via Montebello 111 Ferrara STAMPA Tipografia Litografia San Giorgio Via Donizetti 42, 44121 Ferrara (FE) P.Iva 00041560384

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EDITORIALE Caro lettore, è arrivato il momento di un nuovo numero de Il Tascapane, ma prima, un breve riassunto. Riassunto di quel che sarà ed è stato questo insieme di pagine universitarie fino ad oggi. “Ma l’idea del Tascapane com’è nata?” domandano in tanti a caccia di un ricordo. Si rivolgono a me, ma io non c’ero. Sono diventata parte di questo gruppo di giovani scrittori dopo un anno dall’ inizio del suo percorso. Da quel giorno ho cercato di conquistarmi la fiducia di chi aveva posto le fondamenta del progetto e pian piano l’ ho ottenuta. Avendo però la possibilità (e il piacere) di vivere con chi davvero creò questo giornale, conosco la storia e posso introdurvi al “C’era una volta...” Era un giorno come tanti altri a Ferrara e quattro amici erano sotto al solito arco di quel porticato. Si trovavano sempre a quel bar, in quei pomeriggi, di fronte a quella grande piazza verde. Quella volta però, mentre fissavano l’Ariosto eretto là in centro, qualcosa cambiò. Un pensiero comune li assillava. Erano stufi del solito tram tram. Lezione, studio, aperitivo e poi ancora lezione, studio, aperitivo... “Basta, inventiamoci qualcosa.” sbottò il primo, “E se facessimo un giornale?” es-

camò il secondo. Fu così, che di lì a poco, tutto il resto ebbe inizio. Sono passati ormai cinque anni e mezzo e studenti, professori, commercianti e tanti altri lo conoscono. Il Tascapane ha lasciato un segno forte un po’ in tutti i luoghi, ma è arrivato un momento di pausa, svolta o semplice “cambio”. Si sono succedute tante generazioni e tante fasi, l’auspicio è quello di continuare a dargli vita anche il prossimo anno, ma le garanzie, ad oggi, non possiamo darle. Siamo cresciuti insieme, noi e questo giornale, e ora che siamo un po’ più grandi aspettiamo che si propongano altri alla sua scuola. La novità più vicina che possiamo anticiparvi è la collaborazione con Orfeo, che inizierà dai prossimi mesi. Il sito invece rimarrà sempre attivo. Non volevamo però far spegnere del tutto quell’idea, nata quel giorno, di inizio autunno. E da Roma è giunto il rimedio. L’impulso che cercavamo. Parte cosi il progetto che arriverà alla Sapienza: “TpRoma”, collaborazione che dopo Trieste e Rovigo è la terza esperienza che integra nuove penne universitarie da diverse città. In questo numero ne inseriamo una piccola esordiente sezione, seguirà su Orfeo e la speranza più forte è che un giorno diventi il giornale studentesco della capitale. Ma torniamo al nostro numero, il giornale di questo mese si apre all’insegna di un tema

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d’attualità studentesca: l’”immobilita’ unife” che lega i progetti Erasmus a un sistema burocratico tortuoso. Il filo rosso “Internazionale” prosegue portandoci dritti all’omonimo Festival che si è tenuto a Ferrara di cui siamo stati entusiasti partecipi. Partire o restare? Questo il dilemma. Noi nel frattempo vi lasciamo iniziare a sfogliare, grazie lettore, grazie fondatori. Il Tascapane 14 intanto, parte.

numero

Fiorella Shane Arveda


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Partire o restare

Restare a cambiare il lato conosciuto del mondo o partire per scoprirne di nuovi?

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IMMOBILITA’ INTERNAZIONALE

“Non mi dire quanto sei educato e colto, dimmi quanto hai viaggiato.”

(‫ – دمحم‬Maometto, dall’arabo “il Lodato”) IL TOTEM - All’ufficio mobilità internazionale di Via Savonarola poche cose non rispettano un protocollo. Il tagliando di prenotazione, distribuito da un totem elettronico all’ingresso dell’edificio, è necessario anche se nessun altro è in coda. Non ce l’hai? Ripassa. Sorprende, dunque, sentire uno degli impiegati dire allo studente di turno, confuso ed un pò preoccupato che il suo Erasmus gli faccia perdere un semestre, “ chiedi un pò in giro che esami hanno convalidato ai tuoi compagni negli anni passati e regolati di conseguenza”. “Pensano siamo degli incompetenti, che non abbiamo idea di quello di cui parliamo, ma non è cosi” – racconta la responsabile, Giuseppina Antonioli - “In quanto conforme alla norma UNI EN ISO 9001, in questo ufficio abbiamo l’obbligo di proporre dei questionari di valutazione. E di leggerli. “ – continua decisa – “ All’inizio non capivamo la ragione dei commenti negativi. Approfondendo, ci siamo resi conto che i ragazzi ci rimproverano per servizi che non è nostro compito fornire”. Quello delle competenze è un campo minato in qualunque sistema amministrativo, ma per lo studente – sopratutto se alle prime armi – rischia di diventare un kraken, viscido e forte abbastanza da far naufragare sogni e progetti. “Se mi si chiede come com-

pilare dei moduli, - continua Antonioli - quali sono le scadenze, gli accordi vigenti e con che istituzioni, allora questo è il posto giusto. Se volete pianificare la vostra esperienza all’estero, conoscere le probabilità di riconoscimento dell’attività svolta una volta rientrati, sono altre le figure che sapranno guidarvi (ed hanno il dovere di farlo, ndr)”. Ma quali? A CHI RIVOLGERSI – La “macchina” della mobilità internazionale ha due meccanismi: una “carrozzeria” amministrativa (che alcuni sono tentati di “rigare” per la frustrazione) ed un “motore”, la didattica, che molti non sanno neppure esistere. Ma se la vettura non parte, vale forse la pena dare uno sguardo sotto al cofano. Troveremo i dipartimenti, con coordinatori per la mobilità di ciascun corso di studi (per un elenco completo: http:// www.unife.it/mobilita-internazionale/studiare-allestero/ coordinatori-erasmus-di-dipartimento), sotto la supervisione del delegato del rettore per la mobilità internazionale studenti, attualmente il Prof. Franco Mantovani. I progetti di mobilità dovrebbero tutti nascere sotto la loro guida. Contattateli per discutere dell’opportunità di partire, della meta da raggiungere in base alle tematiche che si vorrebbero approfondire, per chiedere lettere di presentazione, contatti esteri affidabili o anche solo per

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cercare dati nei labirintici siti di atenei stranieri – non sempre di facile accesso. Nessuno dei coordinatori dipartimentali viene pagato un centesimo in più per questo lavoro extra, tengono tutti a precisare. Vero, e si tratta di una ingiustizia. Non di meno, questa non può e non deve essere una scusa per fare le cose in maniera approssimativa ed al di sotto delle proprie capacità. Esempi positivi, che dimostrano che si può fare tanto con poco, secondo i responsabili intervistati, ci sono. Il problema è che gli studenti non la pensano allo stesso modo. Chiedono dei “pacchetti” di esami il cui riconoscimento sia “standardizzato”. Vorrebbero “accettare” una proposta didattica, senza dover chiedere favori a nessuno. Regolamentare con norme certe la funzione di tali organi, al fine di rendere quella che fino ad oggi pare una questione di “volontà” (per tanto individuale) un fatto di “doveri”, non è cosa semplice. Mettetevi nei panni dei coordinatori di dipartimento, a volte semplici ricercatori. Immaginate di dover fare braccio di ferro con professori ordinari che insegnano da un quarto di secolo, di dire a qualcuno di loro, convinto che l’erasmus sia da perdigiorno, che il suo esame andrebbe riconosciuto anche se i programmi sono poco sovrapponibili ( ovvio, visto che accade tra università diverse del nostro paese, figu-


rarsi in nazioni con tradizioni differenti). Senza un adeguato potere contrattuale dato dall’anzianità e dal ruolo ed in assenza di norme condivise che regolino il processo di riconoscimento, si tratta di una battaglia persa in partenza. IL NODO - Quella del riconoscimento degli esami sostenuti all’estero ed i relativi crediti è quindi la questione più spinosa. Gli studenti temono di perdere un anno. Gli insegnanti non vogliono rinunciare alla loro autonomia, che è potere. Verrebbe da chiedersi perchè certe destinazioni siano proposte se poi alcuni docenti diffidano tanto di metodi e/o conte-

nuti da non firmare il learning agreement (documento indispensabile durante la preparazione del viaggio, del quale costituisce “l’itinerario didattico”) o come mai, a parità di meta ed anno, ad alcuni studenti venga posto il veto e ad altri no. La discrezionalità assoluta è figlia della necessità di lasciare autonomia didattica ai docenti, ma questo porta al paradosso che gli studenti che incontrano più difficoltà nel far combaciare i piani di studio e nel farsi convalidare gli esami sono quelli che dovrebbero avere vita più facile, cioè quelli delle facoltà scientifiche. Potrebbro essere così spiegati i dati relativi alla

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mobilità in uscita. Il comparto architettura-lettere-giurisprudenza fa la parte del leone con il 57% degli studenti in partenza provenienti dai loro corsi di studio, lasciando a dipartimenti “di peso” come quello di Scienze Mediche ed Ingegneria, un misero 10 ed 8% rispettivamente. Forse 1+1 non fa 2 o non ovunque? E se a dirlo è un Professore Ordinario? Questa può apparire una sciocca e provocatoria semplificazione di una questione molto complessa, ma esempi da alcune università straniere dimostrano che tanto potrebbe essere fatto qualora si trovasse la volontà di affrontare la questione. Una grande colpa in questo


senso sembra averla la politica studentesca che ai consigli di facoltà pare svegliarsi solo quando si parla di tasse e diritto allo studio. Interpellati al riguardo loro dicono di non essere mai stati messi al corrente della situazione. E “se nessuno ci informa, come facciamo a sapere che qualcosa non va?” è –ironia della sorte – la stessa risposta ricevuta dai vertici dell’area internazionale. Quando poi abbiamo chiesto loro come mai i risultati delle statistiche (consultabili all’interno del Bilancio sociale d’Ateneo e più nel dettaglio presso l’ufficio mobilità) non avessero messo loro la pulce nell’orecchio, le risposte fornite riportavano a quanto detto prima: le decisioni devono essere condivise, non imposte. Tradotto: si fa quel che si può con le leve a disposizione e gli studenti potrebbero fare di più per influenzare gli equilibri delle varie commissioni.

Sono le regole della politica. LA LEVA GIUSTA – basterebbe tener conto che uno degli indicatori in base ai quali una università viene valutata e dunque finanziata (dallo stato, ma anche dall’incremento della popolazione studentesca) è l’indice di internazionalizzazione. E se l’università sta bene, anche la città ne trae beneficio, “come si intende fare con “UniTown” rete che – spiega il delegato del rettore per l’internazionalizzazione – mira ad unire a livello internazionale quei centri universitari medio-piccoli che, grazie alla loro vocazione all’eccellenza ed integrazione con la città che li ospita possono offrire servizi impensabili per centri di dimensioni maggiori ed incrementare il loro prestigio”. E così i fondi. COSA FARE ALLORA? – Le proposte sono tante, alcune verranno trattate nelle

prossime pagine, insieme all’opinione di studenti che hanno vissuto in prima persona l’odissea della mobilità. Anche la volontà da parte delle istituzioni sembra esserci. Fingendo di non sapere che avrebbero già da sole potuto fare di più, aiutiamole a migliorare, facciamoci sentire per mezzo dei nostri rappresentanti e direttamente presso gli organi competenti. Verificato chi ha il dovere di fornirci risposte chiare, se continuiamo a non riceverne , proviamo a riformulare il quesito. Ricontattiamoli, questa volta aggiungendo in oggetto alla email i responsabili della mobilità o il rettore. Magari sarà più facile comunicare. I progetti di mobilità attivi presso il nostro ateneo. ALTRA MOBILITA’ - Mobilità non è solo Erasmus, ma anche Atlante. E non è solo per gli

gerarchia della mobilità internazionale

Rettore Delegato del Rettore per l’area internazionale Delegato del Rettore per la mobilità internazionale studenti Ufficio Mobilità Internazionale Coordinatore dipartimentale per la mobilità Manager didattico

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LE NOSTRE

5 PROPOSTE 1. Pacchetti prestabiliti per corso

studenti. Anche i docenti, i ricercatori e gli amministrativi possono usufruire di periodi di mobilità all’estero, per venire a contatto con realtà differenti, conoscerle e farsi conoscere. Sarebbe bene quello del viaggio fosse un elemento costante per tutte le figure all’interno dell’Università perchè “il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma.” Forse un docente che ha viaggiato di più smetterà di pensare che gli studenti partano solo per far baldoria e cuccare. Magari per allora noi avremo capito che un pò di ragione l’avevano anche loro, e, come diceva Shakespeare, i viaggi finiscono laddove s’incontrano gli amanti...

di studio in base alla destinazione e all’anno di corso;

2. Riunioni informative semestrali con i coordinatori dipartimentali della mobilità;

3. Trasparenza nell’attribuzione del voto all’interno della fascia di conversione europea; 4. Definire e pubblicare (su unife.it) competenze e responsabilità di ciascuna figura

coinvolta nei progetti di mobilità;

5. Agli studenti e ai loro rappresentanti: fatevi sentire!

Per info relative alle offerte d’ateneo: http://www. unife.it/mobilita-internazionale/studiare-allestero

Pietro Marino

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MOBILITÀIN Quim 23 anni, studente di giurisprudenza all’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona, studente Erasmus a Ferrara.

di Fiorella Shane Arveda e Gabriele Gatto

Che cosa ti ha portato nel nostro ateneo? Volevo andare a Bruxelles ma non conoscendo il francese ho optato per l’Italia. Il mio coordinatore di mobilità mi ha poi indicato Ferrara come luogo in cui avrei potuto sviluppare alcune aree del diritto che mi interessavano. Come è stato l’arrivo a Ferrara e come ti trovi? L’arrivo è stato ottimo, ho da subito conosciuto persone con le quali ancora adesso siamo in contatto. Gli italiani mi piacciono, parlano molto e mi trovo bene ad uscire con loro, altrimenti non avrei imparato l’italiano così’ bene. Vivere a Ferrara poi è bellissimo, si può passeggiare per spostarsi da un posto all’altro senza dover prendere mezzi pubblici ed è facile incontrare persone che si conoscono per la strada, questo non succede a Barcellona. Tra Barcellona e Ferrara quali differenze nella didattica? Beh a Barcellona devo sempre fare delle consegne, ci danno lavori pratici da fare quotidianamente, l’anno scorso non sono potuto uscire per un mese per questa ragione. Qui invece mi sembra di essere in vacanza, devo decidermi ad aprire il libro un giorno di questi. La mobilità internazionale com’è gestita nel tuo ateneo? All’ufficio di Ferrara che voto daresti? Beh da noi il coordinatore è fantastico, prende a cuore ogni nostra esigenza e ci accompagna verso la scelta. E’ sempre disponibile e in base ai nostri interessi ci indirizza verso le varie mete. Abbiamo dei crediti di mobilità, che possiamo automaticamente utilizzare e di conseguenza convalidare una volta al rientro. Si tratta di crediti che si cumuleranno facendo esami che non hanno un corrispettivo spagnolo. A Ferrara darei un 8 per la mobilità ma un 7 per l’offerta formativa perché credo si impari di più alla Pompeu Fabra. Ora ti stai per laureare ma poi, Barcellona o estero? Ho sempre pensato di rimanere dove vivo ma dopo questa esperienza non ne sono più così sicuro.

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Cosa ti ha portato a Ferrara ? Ho scelto l’Italia perché io studio francese , spagnolo e italiano. L’Italia è uno dei miei paesi preferiti amo la cultura e la storia e, naturalmente, il cibo! Ho scelto Ferrara perché avevo conosciuto una ragazza che ha studiato qui due anni fa e aveva così tante cose positive da dire su questa città che mi ha convinta! Sono state difficili le procedure Erasmus per arrivare fin qui? La tua opinione sull’ufficio addetto di Ferrara? Non particolarmente difficile. In Inghilterra era molto semplice e facile . Arrivata qui è stato un po’ più complicato, soprattutto a causa di una mancanza di comunicazione. L’ufficio internazionale è stato molto utile ma il problema principale che ho trovato sono stati gli orari di apertura al pubblico. Sono molto strani e complessi, siamo dovuti tornare più volte per parlare con persone diverse quando avremmo potuto far tutto in un solo appuntamento. La didattica tra Exeter e qui? La differenza principale è che un sacco di esami qui sono orali mentre in Inghilterra quasi tutti scritti. Gli esami che facciamo qui contano per la nostra laurea in Inghilterra, ma solo in piccola parte. Qui ci sono più periodi per gli esami e si finisce a luglio, a Exeter miei esami normalmente terminano entro la fine di maggio, al massimo! E’ strano inoltre poter scegliere le lezioni da seguire, in Inghilterra abbiamo un calendario costruito in modo da poter frequentare tutte le lezioni senza sovrapposizioni. Sei felice qui? Qual è la cosa migliore che hai scoperto qui? Sì, sono molto felice qui . Io adoro Ferrara e sono fortunata perché ho un grande gruppo di amici inglesi e quando usciamo conosciamo solo italiani. La cosa migliore qui è il cibo e la gente che abbiamo avuto la fortuna di incontrare, tante persone veramente accoglienti e disponibili. Nel futuro Regno Unito o estero? Spero di lavorare in un altro Paese. Comunque anche quando finirò il mio anno di Erasmus sono certa che tornerò a Ferrara varie volte.

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Kate, 21 anni, studente di lingue ad Exeter nel Regno Unito, studente Erasmus a Ferrara


MOBILITÀOUT Benvenuta tra la pagine del tascapane. Quale è stata la tua meta? Perchè partire?

Fatto questo e ricevuti tutti i consensi ho compilato il learning agreement.

Studio Giurisprudenza e dopo quattro anni e mezzo di vita universitaria a Ferrara mi ero stufata. Qui ho cercato fin dal primo anno di spremere una città addormentata, alla ricerca di qualcosa che probabilmente non ci sarà mai. Mi riferisco di interesse verso i giovani, di iniziative che li coinvolgano e che li stimolino a pensare alle proprie attitudini anche quando non coincidono con le lezioni in facoltà. Così la partenza per l’ Universitat Pompeu Fabra di Barcellona. Volevo una prova d’indipendenza, partire soli senza conoscere nessuno; cimentarmi con corsi e esami della mia facoltà tramite una didattica completamente diversa e nuova.

Ma la firma del learning agreement da parte del singolo docente prima della partenza – per quanto arbitraria – è garanzia di riconoscimento al ritorno. A medicina ad esempio funziona così... Non da noi. L’unica firma sul nostro documento è del coordinatore dipartimentale che però non garantisce per le successive scelte di ogni insegnante. (NdR abbiamo scoperto che da quest’anno, a Giurisprudenza, il coordinatore è a tutti gli effetti garante, eliminando la discrezionalità dei singoli docenti).

Quale è stato l’iter preparatorio a questa esperienza? Ho studiato nel minimo dettaglio il bando e i siti delle mete disponibili. Li ho valutati scegliendo la destinazione più consona al mio percorso accademico. A giurisprudenza non abbiamo più la possibilita’ delle “integrazioni” quindi gli esami il cui numero di crediti non coincida col nostro, a volte richiede il superamento di più corsi inerenti nell’ateneo ospitante. Una specie di caccia al tesoro. Programmi alla mano ho quindi parlato con i vari docenti italiani sperando in una convalida al mio ritorno.

Ti senti cambiata dopo questa esperienza? Ho capito che non mi appartiene il classico discorso dell’erasmus, quello che mi avevano propinato prima che partissi. Il “tornerai un’altra” non lo concepisco. Vivere l’erasmus come una totale perdizione di quello che si era prima. Ma perché? Che senso avrebbe avuto indossare una maschera diversa solo perche “là tanto non ti conosce nessuno”?. Il vero cambiamento lo vedo nella consapevolezza che mi ha regalato la possibilità di parlare del mondo con il mondo. E’ stato ogni volta un giro della terra virtuale e mentale. Lo rifaresti? Tornando indietro lo rifarei

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di Pietro Marino sicuramente. Andando avanti vorrei riportare un po’ di Barcellona qui in Italia perchè è qui che vedo il mio futuro. Molti professori pensano si parta solo per far festa... E’ la banalizzazione più comoda. Quella che non porta ad alzarsi dalla poltrona per lavorare per chi vuole partire. L’erasmus è fatto per cuccare, quindi non è argomento di nostra competenza quindi non perdiamo tempo a occuparcene. Non venite a cercare il nostro aiuto. Non serve partire per avere la possibilità di fare conoscenze. Certo l’erasmus offre piu’ possibilità di incontro con i coetanei ma fosse solo per quello non credo che il gioco varrebbe la candela. Mi parlavano di festa spagnola, che mi sarei fatta prendere da quella e avrei dimenticato tutto e tutti. Ho dimostrato loro che il mio obiettivo era ben diverso, l’ho raggiunto e mi basta come prova del loro errore.


ERASMUS... HOW TO Tommaso Vable

Il progetto Erasmus (European Region Action Scheme for the Mobility of University Students) è nato nel 1987 con l’obbiettivo di dare la possibilità agli studenti di tutta Eruopa di soggiornare per un perido e frequentare corsi di studio o svolgere un tirocinio, presso uno degli stati membri dell’Unione Europea o ad essi associati (Liechtenstein, Islanda, Norvegia, Svizzera o Turchia). Nel 2012, 25 anni dall’inizio del progetto, 3 milioni sono gli Erasmus che lo hanno scelto. Bene ciascuno di loro (e chiunque abbia in animo di partire), è sicuramente incappato nel dedalo burocratico che bisogna affrontare necessariamente prima-durante-dopo la partenza e semmai lo vorrete tocchera pure a voi. Learning agreement, iscrizioni, moduli, certificati, relazioni, c’è n’è per tutti i gusti. Dunque eccovi un modesto “How to” nel tentativo di semplificarvi (spero) l’iter. Una volta inviata la richiesta di partecipazione al bando Erasmus (placement, per chi fosse interessato ad un tirocinio) dopo aver selezionato tre delle mete proposte dovreste...

a) attendere l’esito della selezione e in caso vi abbiano preso confermare di accettare la propria meta inviando una e mail all’ufficio di mobilità del vostro ateneo b) dovrete poi iscrivervi all’univeristà ospitante accedendo al loro sito web, qui potete verificare la lista degli insegnamenti; c) andare dal Delegato Erasmus di Dipartimento per discutere con lui della compatibilità degli esami e del loro riconoscimento e con lui compilare il Learning Agreement e l’impegno al riconoscimento. Questo è un punto cruciale, in quanto a volte potreste trovare professori un po’ restii, per utilizzare un eufemismo, nell’accordare o meno lòa compatibilità del programma. Ricordate che i professori interessati non possono entrare nel merito del riconoscimento, possono solo indirizzare lo studente sul tipo di studio o su cosa approfondire; d) per gli studenti di Ingegneria, Economia e Management, Studi Umanistici e per i tre dipartimenti MedicoSanitari è obbligatorio presentare al professore titolare dell’insegnamento un certificato che ne garantisca,

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al

rientro,

l’approvazione;

e) andare in ufficio mobilità per svolgere le pratiche burocratiche riguardanti la consegna del Learning Agreement e del modulo per le coordinate bancarie. A questo punto non vi resta altro che comprare Quel biglitto aereo e partire per un’esperienza che, comunque vada, sarà indimenticabile! f) al rientro devono essere riconosciuti tutti i corsi inseriti nel Learning Agreement regolarmente firmato dal Delegato Erasmus di Dipartimento e dal Coordinatore Istituzionale Erasmus prima della partenza; g) accettare la conversione dei voti proposta dalla commissione.


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Festival di Internazionale 2013

Mappa alla mano e pass intorno al collo, vogliamo esser preda del mondo, ospite a Ferrara, per qualche giorno.

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LENZUOLI DI GUERRA

Ai limiti di un’informazione ormai sgualcita Fiorella Shane Arveda Jonathan Whittal è un medico.

cosa sono certo: il silenzio uccide.”

E’ il rappresentante di medici senza frontiere invitato da Internazionale per “Quando il silenzio uccide Se una notizia può salvare delle vite” ore sedici, ultimo giorno del Festival a Ferrara. E’ un piovoso pomeriggio d’autunno quando arriva accompagnato da Filipppo Gaudenzi, giornalista del tg1.

Gaudenzi dice di essere dalla sua parte, di “lavorare sullo stesso fronte”, ma che ciò non cambia nulla, arrivare allo spettatore è arduo, perchè lo spettatore “si sa com’è. E’ stanco, oppresso dalla quotidianità, con la testa da un’altra parte, e quando ascolta il tg deve essere catturato nei primi venti secondi altrimenti, molto semplicemente, cambia canale. Siamo nelle mani dell’italiano medio e del suo telecomando. Per questo da voi medici vorremmo comunicati più brevi, rapidi, coinvolgenti.“ – pronti per il pubblico delle 13, insomma.

Sembra assurdo, ma uno ha l’atteggiamento che si addice alla vita dell’altro. Johnatan è sorridente, entusiasta. Di lì a poco racconterà storie di fumo e macerie. Gaudenzi è frettoloso, scocciato. Sembra il dialogo non gli interessi, sa già cosa dirà al suo pubblico, come nei salotti televisivi. Non è facile parlare di guerra, fame, malattia e morte e pare scontato dirlo, ma è proprio questo l’argomento dell’incontro. Come avvicinare il pubblico alla notizia “da campo”. Il giornalista dà avvio alla discussione iniziando a parlare del sentimento più comune dell’italiano medio, l’indifferenza. “All’italiano non interessa cosa accade al vicino, figurarsi parlare d’Africa” esordisce così nel silenzio della Sala dei comuni. E’ vero, il giovane medico ne è ben cosciente, ma non si lascia turbare. Risponde pacato - “si, forse le parole non possono salvare, ma di una

Whittal non lo accetta, non concepisce come un giornalista e lui possano scambiarsi i compiti. “Io faccio il mio lavoro, vivo l’esperienza che voi giornalisti avete il compito di raccontare”. Riferire non significa saper raccontare. Lui fornisce l’informazione, il giornalista fa la notizia. Gaudenzi sembra non ascoltarlo neppure, continua imperterrito - “se mi invii un lenzuolo di comunicato stampa, non lo leggo, ho altro da fare…”. Il tempo. Questo mi dà il pretesto di scrivere questo articolo, per riflettere su quello che è e potrebbe essere l’informazione oggi. IL PUNTO Il punto della questione è chiaro. Si sta parlando di valori che la popolazione non

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sente propri e che quindi non cerca, tanto meno nel momento di relax di fronte allo schermo. I media dal canto loro mostrano un gelido disinteresse verso tutto ciò che è difficile da raccontare, verso quello che richiede la rielaborazione per essere reso appetibile e quindi fare “ascolti”. LA GEOGRAFIA E’ una questione geografica in primis, ci dicono, è “troppo lontano” perché susciti attenzione. “Gli italiani già fanno fatica ad interessarsi di una regione che non è la loro, figurarsi di un’altra nazione o continente”. Troppo lontano? Cos’ è troppo lontano quando di tutto ciò che accade a migliaia di chilometri ce ne serviamo come se fosse al nostro fianco? Smartphone, Pc e quant’altro ci collegano a tutto costantemente e con una rapidità superiore al pensiero di spostarsi. E allora quand’è che una situazione è troppo distante per essere denunciata? Quale il limite di confine del nostro interesse? Esiste un limite? Un numero di chilometri di distanza dal giardino di casa al di la’ del quale il nostro interesse svanisce? Contandoli a sinistra o a destra, o in alto? Ci interessa se l’ozono si buca o se esiste un altro pianeta? Ci interessa se sparano dove le orecchie non possono ascoltare? O abbiamo bisogno di sentirne l’eco per allarmarci? Cosa riteniamo degno di importanza?


Questa è la domanda che dobbiamo porci. Perché se continuiamo a lasciare la risposta ai mass media, è chiaro che risponderanno ciò che a loro conviene. Perché non ricaverebbero nulla dal contrario. E cosa ne risulta? Una piramide invertita di valori, quelli che ci predicavano fin da piccoli giaceranno ai piedi dei pilastri del consumo e dell’apparenza che al contrario regneranno sovrani. Ciò che rimarrà là, in alto, saranno quelle pulsioni che è facile soddisfare rapidamente e per un tempo altrettanto limitato. Il gusto del macabro, della curiosità più bassa, dell’istinto più immediato. E’ questo veramente che vogliamo come risultato di informazione? Come escogitare un modo per vendere una notizia che apparentemente non sembra toccare la vita del singolo? IL TERZO INTERESSE Si tratta di far nascere un terzo interesse. Al di là di quello per i soldi e gli affetti parentali serve suscitare una voglia di conoscenza più ampia di ciò che risponde ai bisogni contingenti. Il lavoro del giornalista dovrebbe proprio constare in questo, non si può pretendere che il medico x nella situazione y di un ospedale da campo passi le notti a trovare le parole giuste per arrivare dritto al cuore e alla testa di un ipotetico lettore. Questo è il ruolo del giornalista. Vivere due volte l’accaduto, tramite gli occhi del testimone, tramite i propri in un immaginario

ipotetico e calato nei dettagli ascoltati e rievocarlo in frasi brevi concise e chiare per chi non conosce. Questo nell’ipotesi più ottimale del reportage, ma nel caso in cui il giornalista si trovi a dover compiere tutto il lavoro dal suo studio personale a maggior ragione è inconcepibile permettersi di selezionare a priori ciò di cui non ha subito l’esperienza. Prima ancora di una lettura, dettato da un ragionamento di audience. Al contrario se una volta scorto lo riterrà di valore dovrà confezionarlo in modo da trasmetterne la pregnanza. Non scartarlo a causa del lavoro che richiede a differenza di un banale ed immediato scoop.

gini sono abituati allo stesso flusso. La nascita di una consapevolezza nuova invece fa sorgere un accorgimento mai considerato. Nel mondo ci viviamo giornalmente, ma non ce ne ricordiamo, pensiamo al nostro piccolo ruolo e ne siamo talmente travolti da non voler dedicar tempo a guardare più in là.

IL PUBBLICO Se parliamo di pubblico non possiamo riferirci a grandi numeri per forza.

La guerra, la carestia, sono situazioni che abbiamo il dovere civico di non trascurare. E non dobbiamo aspettare che la televisione se ne renda conto, siamo noi a doverla spegnere se non ci offre tutto quel che vorremo o a pretenderne una diversa.

E’ sufficiente l’ascolto di pochi, di quelli davvero potenzialmente raggiungibili, di coloro che si pongono in una posizione di ricezione. Questo è fondamentale. Il rimbombare quotidiano di quello che accade in tv tutti lo conoscono e lo ascoltano, è quasi confortante perche non cambia. La famiglia è seduta al tavolo, i discorsi si ripetono e di quel cronista rimane solo impressa la cravatta e il vento che gli muove i capelli dalla zona in cui si trova. COME USCIRNE Serve sorprendere senza gridare, scavare un tunnel parallelo dentro le coscienze. Pian piano muovere un rigagnolo di informazione nuova. Il solito canale è percorso e ripercorso mille volte, gli ar-

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Una mattina di un tempo prossimo ci si paleserà di fronte quell’orizzonte che vediamo oggi lontano. Allontaniamo questo pensiero fastidioso, “ne abbiamo già abbastanza, di problemi” pensiamo, ma purtroppo non siamo noi a sceglierlo, il futuro.

Non può farci paura un “lenzuolo di guerra” perché troppo lungo, ma deve intimorirci un venturo telegramma. C’è la guerra stop. È meglio non far più nascere bambini stop. Le risorse sono finite stop. Siamo tutti stati responsabili stop. E’ troppo tardi stop.


INDEBITO Lia Simonatto

IN ANTEPRIMA

Vinicio Caposela è lì a pochi metri di distanza che potresti quasi toccarlo. Ti verrebbe voglia di salire sul palco e abbracciarlo talmente è una persona semplice e affabile mentre racconta il film che ha girato andando in Grecia: “Indebito”. Lo racconta alla platea del Teatro Comunale, gremita, in occasione dell’anteprima al Festival di Internazionale, seduto su una poltrona rossa, un po’ in disparte rispetto agli altri protagonisti della scena: il regista Andrea Segre e il giornalista Goffredo Foffi. Ci spiega, citando Celine, che questo film è nato dalla sua volontà di viaggiare per ricongiungersi con le origini. Le origini sono dunque quelle della cultura greca, mentre la ricongiunzione è vissuta attraverso la musica del Rebetiko. Una musica a cui è legato dal ’98, anno di uscita della suo libro “Musiche dell’Assenza” in cui scrive “Molte canzoni possono accompagnare la nostra vita, ma solo poche obbligano ad accendersi una sigaretta, e tirarla a lungo, come a lenire il taglio di una lama con un’altra. Soffocare il petto, avvelenarlo per riempire il vuoto.” Il Rebetiko come il flamenco, il fado, la morna, il gusle, fa parte della musica dell’assenza che, nella sua bellezza, non fa stare tranquilli. La parola “Rebetiko” in greco significa “dal caos” ed esprime un sentimento fatto dal desiderio di qualcosa che non puoi avere, è simile al duende del fla-

menco, ovvero alla ribellione interiore. “Ma è simile anche al blues, come si sente nei brani cantati da Kety Deli” ricorda il cantante con una strana luce negli occhi. Rebetiko va oltre il sentimento di desiderio, diventa un sentimento di appartenenza a qualcosa che nessuno ci può togliere. È il senso di fierezza, per ribelli senza ribellione; sta alla base della domanda di verità. In cui lo spettatore viene guidato attraverso le parole delle canzoni, le riflessioni di Vinicio, e la musica che stempera l’atmosfera. Musiche che parlano di povertà, di situazioni di vita vissuta ma anche di onestà e di onore, che fanno capire che l’uomo non è povero finchè non perde la dignità e suonare uno strumento è un modo dignitoso per vivere perché allevia le pene, rende l’uomo umano, ”atropo” in greco, ovvero colui che guarda in alto. La crisi infatti traspare dal film e il cantante ringrazia ed invita a seguire il blog di Moretti perché monitora la situazione e fornisce un punto di vista obbiettivo sulla situazione in Grecia. Se dopo il suo parlare Vinicio se ne sta defilato e sornione nel suo angolo, di tutt’altra pasta è il regista che in maniera più distaccata e professionale parla delle riprese: “Spesso andavamo direttamente nel luogo in cui stavano già suonando e giravano le scene senza essere troppo invadenti. A volte invece andavamo nei locali in cui si beve e si fuma ancora

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e chiedevamo ai musicisti di suonare mentre li riprendevamo. Chiedevano però di suonare non per il film ma per il pubblico che c’era nel bar. Approfittavamo poi di intervistare i cantanti subito dopo, quando la stanchezza del concerto spinge ad aprirsi di più e così ci siam fatti raccontare il valore della musica specialmente in tempo di crisi.” La camera si sofferma sui dettagli, che si traducono in splendide inquadrature fatte di contrasti ed in un montaggio impeccabile, in cui Caposela appare come un flaneur, come un testimone che accompagna lo spettatore guidando il suo sguardo e rendendolo partecipe di ciò che prova attraverso i pensieri estrapolati dal diario di bordo personale il “Tefteri”. Il film uscirà a dicembre e va visto perché è un film non tanto sulla Grecia e sulla crisi, ma come la musica sia la chiave per superare la crisi, economica ma soprattutto morale. Si supera mettendo in gioco anche noi stessi, donando una parte di noi stessi alle giuste cause, ad esempio per la promozione di un nuovo film di Andrea Segre “ La prima neve” che girerà l’Italia con un autobus e verrà proiettato nelle scuole e nelle piccole realtà di provincia. Così, mentre si spengono le luci e vengono proiettati i titoli di testa un salvadanaio in cartoncino a forma di pulmino viene fatto passare tra gli spetatori. Il suono delle monete che cadono si mischia a quello delle prime note del rebetiko e io mi chiedo se sia “In debito”.


DAVIDE vs GOLIA:

Il Neocolonialismo targato Land-Grabbing Gabriele Gatto

Immaginate che le vostre vite siano ancorate al terreno, non in senso metaforico ma realmente legate indissolubilmente alla terra su cui camminate e poi immaginate di precipitare nel vuoto improvvisamente, senza alcun appiglio, senza alcun motivo valido, perché quella terra che fino a ieri calpestavate scompare oggi inspiegabilmente. Magari è questa la sensazione che si prova, o magari è solo rabbia e disgusto, voglia di lottare e vincere anche quando ci si batte con i giganti. Il fenomeno è semplice, un retaggio storico per nulla inedito, è il land-grabbing (letteralmente “accaparramento della terra”) con cui insospettabili investitori esteri comprano per 45 pence ad ettaro interi villaggi in Tanzania. Secondo l’Oakland Institute nel 2009 furono 59 milioni gli ettari di terra comprati in Africa da acquirenti esteri, ma il dato non deve fuorviare: l’accaparramento non riguarda solo l’Africa ma anche America latina e Asia, un fenomeno multiforme che assume connotati diversi e sempre più inquietanti. È il caso dell’Etiopia, il cui governo pensa di trasferire un milione e mezzo di persone per vendere le terre che questi attualmente occupano, o del Camerun dove è possibile acquistare un ettaro di terra per 50 pence per la coltivazione di risorse per la produzione di biocarburanti, o ancora degli investimenti distruttivi dell’Università di Harvard in Argentina.

Speculazione fondiaria, produzione di biocarburanti o più semplicemente accaparramento per assicurarsi terreni coltivabili per fronteggiare la crisi alimentare (come accade per gli accaparramenti libici in Africa), questi i retroscena degli innumerevoli investimenti prodotti da multinazionali private ma soprattutto da paesi esteri come il Qatar, la Cina, la Russia, la Corea del Sud e

stati africani come la Libia, solo per citarne alcuni. Investimenti ricolmi di promesse e impegni solenni puntualmente disattesi, investimenti che portano a 227 milioni (di cui il 70% in Africa) gli ettari di terra in tutto il mondo ad essere stati strappati via alle popolazioni locali. Un crimine, non solo per la distruzione sistematica dell’agricoltura familiare (che Ibrahima Coulibaly, sindacalista maliano di CNOP intervenuto durante il Festival Internazionale qui a

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Ferrara, ha definito “l’unica attività moderna in Africa”), ma anche per le modalità in cui esso si presenta: complicità dei governi locali, corruzione, violenze sui contadini per impedirne la protesta, sciacallaggio di investitori sudamericani nelle loro stesse terre, tutto questo di fronte ad una comunità internazionale arenatasi sulla sterile riproposizione delle teorie del libero mercato. Come può esserci libertà d’investimento quando i contadini a cui vengono rubate le terre non conoscono i contratti fino al momento in cui le autorità locali non li costringono ad abbandonare le loro case? Come può conciliarsi la parola stessa, libertà, con la sistematica violazione dei diritti degli abitanti di queste terre, costretti da governi assetati di denaro (che purtroppo in molti stati africani detengono la proprietà delle terre concesse in possesso solo consuetudinario ai contadini) a sperare nelle promesse di quegli stessi investitori che magari danno lezioni di diritto ed etica nelle loro aule? Tutto ciò aggravato dalla difficoltà di contrastare il fenomeno, sia in via giudiziaria (per le stesse legislazioni in vigore nei paesi oggetto di landgrabbing) sia con proteste attive (come accade per la CNOP e l’Oakland Institute). “Land Grab significa Life Grab” questo l’urlo di chi combatte per la propria terra e il proprio futuro, un grido che non chiede altro che giustizia.


EUROPA SÌ Lia Simonatto

Quando sullo schermo di Internazionale, nella piazzetta municipale di Ferrara, è partita l’intervista doppia alle due ragazze che erano state in Erasmus, una in Spagna e l’altra in Irlanda, ormai era palese che mi sarei schierata dalla parte a favore dell’Unione Europea. Sì, perché se c’è stata una cosa che gli studenti del Liceo hanno saputo mettere in luce è l’opportunità offerta dallo scambio reciproco delle esperienze, che si ottiene attraverso il dibattito fra le parti. Dibattito che è possibile quando ci sono diversi punti di vista che ci mettono in gioco e che ci consentono di aprire i nostri orizzonti.

dollaro, sia perché facilita gli scambi commerciali. La crisi economica nella quale ci troviamo non è solo europea ma mondiale e non è imputabile all’ euro, ma alla corruzione che serpeggia anche ad alti livelli. La corruzione non è dell’ Unione Europa ma delle scelte delle singole persone, mentre le istituzioni europee servono proprio a limare le discrepanze esistenti fra gli stati dell’Unione. Istituzioni che sono formate da un Consiglio che propone le leggi e da un Parlamento che le approva, come sancisce il trattato di Lisbona.

Così attraverso il dialogo inscenato tra un Europa vecchia e una Nuova Europa si è riscoperto il valore di due documenti che, guarda caso nel mio portafoglio viaggiano sempre attaccati: la tessera sanitaria e la patente. Entrambi sono validi anche oltre il confine italiano e simboleggiano l’Europa delle possibilità. Sapere che ci è garantita la possibilità di curarci in qualsiasi ospedale quando siamo all’estero e che possiamo muoverci senza avere troppi documenti e che fino a qualche anno fa questo non esisteva, ci fa dire che l’Europa è il territorio delle opportunità. Così come anche l’euro, la moneta unica, dalla quale alcuni vorrebbero sottrarsi a causa della crisi, invece non fa altro che ampliare il nostro portafoglio: sia perché è una moneta forte quanto il

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I membri della Commissione europea sono comunque eletti dai rappresentanti politici di ogni singolo Stato, ed è per questo che se vogliamo essere influenti è importante andare a votare per il Parlamento e conoscere chi sono le persone che si candidano, quali sono le loro esperienze e le loro ambizioni. C’è bisogno di Unità perché l’unità fa la forza, ma anche perché solamente se restiamo uniti possiamo scoprire quanto siamo diversi, e la diversità ci arricchisce!


DATELE L’ERGASTOLO!

Gabriele Gatto

Il weekend “internazionale” di Ferrara apre polemicamente, mettendo alla sbarra una delle più grandi incognite geopolitiche della storia: l’Unione europea, vera e propria contumace per molti degli intervenuti durante il dibattito tenutosi la mattina del primo giorno della rassegna. Un’assenza difficilmente scusabile quella del sogno europeo, sempre più lontano dalla quotidianità del suo popolo se non addirittura oggetto di aspre critiche destabilizzanti. I motivi per ignorare il fenomeno unionista, il suo inno e le sue istituzioni, per riservare ad esso un’importanza infinitesimale e circoscritta ai soli aspetti negativi del complicato rapporto tra il nostro stato e il progetto paneuropeo sembrano essere in maggioranza rispetto ai pochi vantaggi correlati allo status di cittadino europeo. A ben vedere infatti l’elenco delle criticità appare davvero smisurato: i cortocircuiti democratici dovuti alla limitata consultazione popolare, la perdurante assenza di una costituzione europea, la disarmonica condotta degli stati membri, per arrivare a problemi più concreti e attuali quali le imposizioni in materia fiscale e l’inerzia riguardo fenomeni come l’immigrazione. Elenco persuasivo, incentrato su questioni sostanziali e sfortunatamente annose, ma che tralascia il vero nocciolo del dilemma europeo: è l’idea stessa di un’unione a dimostrarsi fallimentare, quell’idea di una possibile amalgama in un crogiolo caleidoscopico di stati, popoli e culture, arri-

vato oggi ad assumersi le velleità di dettare praticamente tutte linee politiche a stati deboli come la nostra viziosa Italia.

vincersi dell’assurdità di un tale pensiero basterà tornare a leggere un libro di storia e dare uno sguardo all’infinita querele italo-tedesca.

Ciò che davvero sfugge a chi continua a perorare la causa europea è la natura stessa dell’Unione, ormai sempre più lontana da quella originaria e candida esperienza di organizzazione internazionale rappresentata dalle sue antesignane, le comunità europee. Oggi l’Unione, ben lungi dal coordinare ed armonizzare l’azione dei suoi membri, ambisce a sostituire quelle che erano state le sue anime fondative, quegli stessi stati che oggi subiscono lo svuotamento totale delle loro competenze e delle loro intime identità. Il sogno europeo ha fallito e non perché non sia riuscito a dotarsi ancora di una costituzione, ma proprio perché ha pensato di necessitarne, ha fallito nel momento stesso in cui si è illuso di poter creare dal nulla un’identità di popolo e di nazione del tutto inesistenti, imponendo una politica federativa nonostante l’incontrovertibile assenza di un unico stato. La carenza democratica, la totale discrasia tra le istituzioni europee e i cittadini sono solo gli inevitabili frutti delle errate premesse poste a fondamento del percorso paneuropeo. Come si è potuto cadere nell’utopico convincimento che 28 stati, provenienti da percorsi storici e culturali differenti, se non a volte antitetici e confliggenti, potessero costituire con un percorso a tappe forzate un soggetto unitario? Per con-

Quest’Europa è riuscita dove molti hanno tentato e fallito, dandoci la possibilità di viaggiare liberamente, di acquistare e vendere prodotti su un mercato europeo, di arricchire le nostre esperienze lavorative e di studio attraverso progetti come l’Erasmus, tutte pietre miliari ma ben raggiungibili senza imporre un’illusoria unione dei popoli europei (e ci sarà poi un perché ci si riferisce ad essi al plurale). Finché l’Europa continuerà a forzare un processo rigettato nei fatti e nelle volontà da gran parte dei suoi cittadini, come testimonia il diffondersi di espressioni come PIGS (derisorio acronimo che individua i popoli dell’Europa mediterranea) o il crescente consenso elettorale raccolto in molti stati dai movimenti antieuropeisti, essa sarà destinata a rimanere una realtà avulsa e invadente, una matrigna arcigna e inflessibile piuttosto che la madre amorevole e comprensiva che i suoi fondatori avevano sognato di realizzare.

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“I RICORDI SON L’ESSENZA DI CIÒ CHE SIAMO” “Bisogna incominciare a perdere la memoria, anche solo a pezzi e bocconi, per rendersi conto che è proprio questa memoria a fare la nostra vita. Una vita senza memoria non sarebbe una vita, così come un’intelligenza senza possibilità di esprimersi non sarebbe un’intelligenza. La nostra memoria è la nostra coerenza, la ragione, l’azione, il sentimento. Senza di lei, siamo niente”.

(Luis Buñel)

Tommaso Vable E’ un sabato mattina tipicamente autunnale e tipicamente ferrarese. Uggioso, piovoso e umido. Tuttavia non è un sabato qualunque, è il 5 di ottobre e siamo nel vivo del festival dell’ ”Internazionale”. Joshua Foer, giornalista scientifico e scrittore (“L’arte di ricordare tutto”- Longanesi editore) è lì sul palco pronto a stupire tutti quanti. Di fronte a lui una platea lì per ascoltarlo, conduce Marino Sinibaldi. “Una memoria da elefante. Come imparare una lingua in un mese”, questo l’ accattivante titolo che ha suscitato la curiosità di molti. Esordisce raccontando la sua prima esperienza con i prodigi della memoria. Ne rimane colpito, affascinato. Non sono dei “freacks of nature”, degli scherzi della natura, oppure dei Rain Man come si era già prefigurato. Sono persone normali, con un “IQ e igiene personale nella norma”, che si cimentano a memorizzare mazzi di carte da 52 in 30 secondi, centinaia di volti stampati in 1 minuto e mezzo,ecc.. che volete che sia? Li osserva, ne conosce persino un paio e prende una decisione. Studia. Dal Fedro di Platone passando a Cicerone e la sua ars oratoria, affonda, poi,

il naso nelle carte di Giordano Bruno e dei grandi pensatori che della memoria hanno fatto un loro “credo”. Ha appreso la teknè, I tricks della memoria, come un giocoliere che si destreggia con le sue palline. accosta numeri, parole e interi concetti a immagini assurde, ridicole! E’ il 2006, J. Foer partecipa al campionato del mondo. Il titolo è suo. “Considerate un discorso”, dice, “immaginatelo comese fosse un palazzo del quale attraversate ogni stanza. Esse rappresentano i singoli argomenti, focalizzatevi sui particolari di ciò che vi trovate all’interno, infilateci situazioni paradossali, personaggi reali o stravaganti e associateli a ciò che dovete enunciare, ricorderete tutto all perfezione”, follie? No, davvero, nient’altro che tecniche vecchie di 2000 anni fa. Come si fa a non credergli dopo tutto? Soffermatevi un momento e vi renderete perfettamente conto che ciò che è rimasto indelebile nel nostro cervello sono per lo più gli eventi e i ricordi legati alle sensazioni più entusiasmanti e coinvolgenti della vostra vita. Ciò che vi fa sorridere da soli qundo camminate per strada o che vi fa rabbrividire

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sono le tracce lasciate da esse esono intimamenti connesse alle radici più primitive, più emozionali del nostro cervello, è proprio qui che Foer vuol far leva. Sulla creatività. Siamo immersi in una società dove, se si volesse si potrebbe far a meno di ricordare. Quante volte punzecchiamo uno schermo per ricordarci il nome di una canzone o un titolo di un film, quante volte deleghiamo alla rete, che tutto può, sa e vede, i nostri minimi sforzi? La memoria è un utile mezzo per ricordarci il nostro numero di telefono e I nomi dei nostri amici più cari, certo, ma è molto di più, è il collage dei nostri ricordi, il filo che entra ed esce da ognuno di essi per tenerli tutti uniti e per dare loro un senso, che non è altro che la nostra vita. Conclude Foer: “ Se volete vivere una vita memorabile dovete essere quel genere di persona che si ricorda di ricordare”. Se siete interessati all’argomento sul sito www.ted.com, digitando Joshua Foer, potrete vedere una sua ted talk, inerente a ciò che è stato detto sabato 5 ottobre.


TascapaneROMA 23


CROAZIA REDENTA Federico Maiozzi

Alla mezzanotte del primo di luglio, la Croazia è diventata il ventottesimo stato dell’Unione Europea. L’evento è passato piuttosto sotto silenzio nei media maggiori nazionali, il che potrebbe non sorprendere. Quel giovanissimo paese conta poco più di quattro milioni di abitanti (ben poca cosa contro il mezzo miliardo totale dell’Unione), non ha risorse minerarie e la presenza della NATO nella confinante Slovenia parrebbe renderlo anche geopoliticamente irrilevante. Eppure. Eppure se provassimo a soffermarci per qualche istante in più sul significato dell’ingresso croato capiremmo quanto cruciale sia stato questo passo. Per noi italiani, poi, questo è quanto mai vero. L’Istria e la Dalmazia, regioni ora croate ma perse nell’ultima guerra mondiale dal nostro paese con immense perdite sia in prestigio che in vite umane, saranno in qualche modo di nuovo nostre. Potremo visitare o, nel caso degli ultimi esuli sopravvissuti, tornare in quei luoghi senza mostrare alcun documento, liberi in una terra libera e desiderosa d’integrarsi nel pur lento ma grandioso cammino europeo verso l’unificazione del continente. A tale proposito, considerando che il popolo croato ha combattuto per la propria indipendenza meno di due decenni fa, non è un passo da poco quello di cedere parte della propria sovranità per una causa più grande. Fin qui, dunque, tante ottime cause per sessanta milioni di

Italiani d’esser contenti per il recente allargamento europeo nei Balcani. Possiamo però ampliare ulteriormente gli orizzonti, chiedendoci perché l’Europa intera, e non solo l’Italia, dovrebbe gioire di avere al suo interno la nuova compagine. Anche in questo caso, si presentano un gran numero di risposte più che positive. In primo luogo, se lo sono geograficamente, culturalmente non è scontato che i Balcani si sentano parte del continente europeo e il recente incremento dell’influenza turca nella regione ne è la prova. Il fatto che la Croazia abbia scelto l’ingresso in Europa rappresenta quindi una vittoria culturale non da poco della cultura europea su quella del vicino oriente, segno tangibile che il vecchio continente unito avrebbe ragion d’esistere in primo luogo per ragioni proprio culturali oltre che politico-economico-militari. Che pure esistono e non sono trascurabili e la Croazia europea ha grandi possibilità di sviluppo anche in quel vasto campo. Quel piccolo paese non possiede certo forze militari o economiche di primo livello, eppure basterebbe pensare solo a pochi dati per capire quanto in realtà sia importante quella sponda dell’Adriatico. In primo luogo, sul territorio croato vi è un’elevata possibilità di installare centrali idroelettriche (come già si sta facendo) sfruttando i suoi numerosi corsi d’acqua e, fatto per nulla secondario, le baie e i porti croati sono tra i pochi in Europa ad essere

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abbastanza profondi per accogliere grandi cantieri navali, e quelli sì implementerebbero la forza industriale e militare di noi europei. Al contrario dello sfruttamento energetico, la cantieristica croata, e in generale la sua modernizzazione tecnologica nell’industria pesante, vive di molte belle speranze ma di poche realtà concrete. La volontà governativa di imprimere al paese un rapido sviluppo, tuttavia, pare esserci e in questo senso non vi sono per il momento motivi di dubitare delle buone intenzioni dei politici di Zagabria. Un sistema industriale, però, non si improvvisa e non si crea dal nulla, servono invece nazioni guida che insegnino e accompagnino nei primi passi. E qui torna in gioco l’Italia. Come il presidente Napolitano stesso ha da poco ricordato, il nostro paese ha legami d’ogni genere strettissimi in Adriatico che ora, coniugando interessi nazionali con spirito comunitario, è il momento di sfruttare non per vocazione imperialista ma per riprendere il ruolo di alfiere dei “piccoli” che ha permesso alla penisola, pur con tutti i suoi difetti, di ritornare e restare grande nel mondo.


LE LACRIME DEGLI EROI Francesco Gagliano

Presentazione dell’ultimo libro di Matteo Nucci “Le lacrime degli eroi”. “Solo chi è capace di piangere può sondare i limiti della propria umanità”, così riporta la quarta di copertina del libro da poco edito da Matteo Nucci per i tipi di Einaudi e proprio sul concetto di umanità è ruotata la presentazione che si è tenuta il 30 Ottobre presso il punto Einaudi in via Bisagno a Roma. “Eroe è colui che sopporta il peso del proprio destino e delle proprie scelte, al punto da risultare inimitabile dagli altri, è colui che non teme il fallimento perché lo accetta come possibile conseguenza ma soprattutto è colui che versa lacrime non in caso d’insucesso ma di trionfo”. Così Nucci sintetizza la sua idea di eroe, quella che emerge dal suo studio di Omero (l’Iliade e l’Odissea sono per lui letture fondamentali, imprescindibili per chiunque voglia scrivere) e dalla sua passione per il mondo antico; questo è capace di parlare a noi uomini moderni con una forza straordinaria che invita a rivalutare molte delle nostre concezioni considerate quasi degli automatismi. Oggigiorno il pianto è assimilabile ad una manifestazione di debolezza, un cedimento imperdonabile che ridicolizza l’archetipo di uomo di successo, dal manager al calciatore milionario, ma Nucci - approfondendo il tema nella seconda delle tre parti in cui suddivide il librodice: “eppure le lacrime sono un liquido vitale ed assieme al sangue ed al sudore sono in-

dice della vitalità di un essere umano, un cadavere infatti è secco, freddo, privo di quegli umori che lo rendono vivo, far sgorgare calde lacrime dagli occhi equivale a manifestare la propria forza vitale, sono la traduzione fisica di un turbine d’emozioni che erompe dall’animo.” Ecco quindi che immergendoci nella lettura scopriamo che esistono tanti tipi di pianto: quello che nasce dalla nostalgia, il dolore del ritorno, che fa sospirare Odisseo sull’isola di Ogigia tanto da rendergli insignificante la promessa d’immortalità che Calipso continua ad offrirgli, o ancora le lacrime di rabbia di Crise, il sacerdote d’Apollo che, rapito della figlia ed offeso nonostante la sacra vita dedicata al dio, invoca la giustizia vendicatrice dell’Arco d’Argento affinché il suo pianto diventi una pioggia di frecce mortali, lutto per gli Achei. Anche gli eroi piangono, si anche Achille, l’implacabile per eccellenza, versa lacrime, non solo quelle scaturite dall’ira e dal desiderio di vendetta per la morte di Patroclo ma anche quelle di un figlio che sa che non sarà più rivisto dall’anziano padre che lo aspetta a casa; così Priamo, il re di Troia che in quel momento gli è davanti nell’umile veste di genitore a cui è stato ucciso il figlio più amato, si trasfigura e diventa Peleo, il padre di Achille: Disse così, e in lui stimolò il desiderio di piangere il padre: allora afferrò la sua mano e scansò dolcemente il vecchio. Immersi entrambi nel ricordo,

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l’uno per Ettore massacratore piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille, mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa. Ma quando il divino Achille fu sazio di pianto, gli svanì quella voglia dal corpo e dal cuore, s’alzò di scatto dal seggio, sollevò per mano il vecchio, mosso a pietà dalla sua testa bianca, dal suo mento bianco, e, articolando la voce, gli diceva parole che volano. (Omero, Iliade XXIV). Le parole che volano sono quelle che, come frecce, si conficcano dritte nell’animo di chi ascolta “per infiggere un pensiero rilevante, decisivo”, questo è esattamente quello che succederà al lettore dell’ultimo libro di Matteo Nucci, e sarà del tutto naturale se poi anche lui vorrà versare calde lacrime.


LESSON #4

FOTOGRAFIA

ANDREA PIRAZZINI

Impostare un fotoracconto 1. Raccontare visivamente un viaggio non è dissimile dal farlo a parole: si introduce la scena con un panorama, si descrivono le persone con i ritratti, si cattura l’attenzione con i dettagli. Ricorda di scattare tutti e tre i tipi di fotografie!

Pianificare ed ispirarsi 2. Cerca ispirazione con immagini da flickr.com, Google Earth o StuckOnEarth. Quando hai trovato qualcosa che ti piace cerca di pianificare lo scatto nel dettaglio: quando fotografare, come arrivare sulla location (attenzione alle manifestazioni ed ai lavori di ristrutturazione!), cosa ti serve (un treppiede ad esempio). 3. Informati su eventi/manifestazioni/fiere locali: posso-

no essere interessante meta per una piccola deviazione o trasformarsi in un incubo che ti impedisce di seguire l’itinerario scelto. Se sei già sul posto e non hai più ispirazione, cerca un negozio di souvenir e sfoglia le cartoline. 4. L’alba ed il tramonto sono i momenti migliori per fotografare un paesaggio: perchè non includere una sveglia di buon mattino? Puoi scattare con una eccellente luce d’atmosfera e goderti la città con una tranquillità sovrannaturale.

cerca di scaricare sul pc le foto fatte. Evita di cancellarle dalla macchina fotografica (aumenta il rischio di “fail” della memory card), fallo a pc in un secondo momento. 7. Attenzione agli sbalzi termici e all’umidità: tenere la macchina sempre nello zaino può non ottenere l’effetto protettivo desiderato, infatti tirandola fuori si forma condensa sulla lente a causa della importante differenza di temperatura/umidità. Porta con te un panno in microfibra per queste evenienze.

Evitare incidenti di percorso

Migliorare l’esperienza

5. Parola d’ordine backup. Gli oggetti si rompono, è inevitabile. Se possibile cerca di avere un backup almeno di batterie e memory card. 6. Se il viaggio è molto lungo

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8. Il viaggio deve essere in primis una esperienza piacevole, non affaticarti più del dovuto portando con te zaini troppo pesanti durante la giornata! Lo spirito artistico sarà il primo a soffrire della


12 TIPS: TRAVEL PHOTOGRAPHY stanchezza. 9. Vivere qualche giorno come un vero “local”, girovagando per mete poco turistiche, è il cardine di ogni viaggiatore navigato. Uno dei migliori modi per riuscirci è il couchsurfing (www.couchsurfing.org): sarete ospitati gratuitamente e avrete l’opportunità di avere una guida del posto. 10. Chi fotografa il fotografo? Se viaggi con altre persone fatti scattare qualche foto! In gruppo è facile identificare “il fotografo”, addetto a tutte le foto, comprese quelle di gruppo. Dalle quali risulta però escluso.. 11. Metti via la fotocamera. Non essere ossessionato dallo scattare foto in ogni momento, goditi il viaggio. 12. Se il viaggio è di lunga

durata cerca di annotare quello che si è fatto/ visto durante la giornata. Quando ti troverai con migliaia di foto a pc non è sempre facile ricordare cosa rappresentano.

Pro Tips a. Gorillapod: una eccellente alternativa ai treppiedi più ingombranti. Spesso utilizzabile anche nei musei dove sono vietati i treppiedi classici b. Stanco di quei gruppi di turisti o di automobili che rovinano il paesaggio perfetto? Scatta una serie di foto a distanza di una decina di secondi l’una dall’altra, possibilmente da un treppiedi. Apri il gruppo di immagini in Photoshop ed

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esegui lo script che trovi sotto: File > Scripts > Statistics (avendo cura di tenere “Median” come stack mode).


FILOSOFIA

BON VOYAGE Gloria Della Vecchia

Il mondo che è fuori di sé. Si cerca e non si trova. Una casa. Un lavoro. Una famiglia. Viaggiare cosa comporta: quanto costa, meglio il treno o l’aereo, i treni costano troppo, gli aerei troppo poco, come mai, Bla Bla car e se poi invece non c’ho niente da dire al conducente? Il rischio di rimanere immobili c’è eccome. Restare o rimanere, questo è il problema. E’ meglio la comodità di ciò che conosciamo o il rischio di andare Altrove? Ma... cosa c’è Altrove? Neanche Shakespeare lo sa. Mondo globalizzato, uomini e donne, meglio soli che raccomandati. Dicono che nella vita ci voglia Fortuna, dicono che questa aiuti gli audaci. Dicono anche che chi osa troppo, ci lascia lo zampillo. Invocare dunque la dea bendata affinchè ci possa raggiungere col suo cieco incespicare fino alla nostra mano, e aiutarci e guidarci nell’affrontare le sfide di una nuova vita. Imparare a dire Addio. Non è una fuga, fuggire è da vigliacchi. Anche rimanere fermi ad aspettare è da vigliacchi. Chi è il più vigliacco tra i vigliacchi? Poco importa, la verità forse è tale da essere irraggiungibile, all’interno di noi stessi, inarrivabile nocciolo nascosto e in continuo mutamento. Posso restarmene chiuso in una stanza e viaggiare dentro me stesso. Osservare i colori delle emozioni che cambiano. Un nucleo molto molto

piccolo. Non tutti siamo in grado di adattarci alle nuove situazioni, ad un mondo che cambia così velocemente, con la nettissima sensazione che il treno che dovevamo prendere sia già partito, che, ormai, sia troppo tardi. Il nostro mondo crolla di fronte all’indecisione. Osare o adattarsi in una vita infelice. Mal che vada si può sempre tornare. La vita che lasciamo sarà qui ad attenderci al nostro ritorno. C’è chi è più e chi è meno consapevole della realtà che ci circonda, ad ogni modo se siamo tutti sulla medesima dimensione, dobbiamo fare i conti tra noi. Quanti altri millenni devono passare per capire che un essere umano è un essere umano, un animale è un animale, e che la Vita è la Vita? Povera filosofia per poveri filosofi. Viaggiare dunque oltre se stessi. Sant’Agostino diceva “Il

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mondo è come un libro. Se non viaggi, ne hai letto solo una pagina”. Viaggiate, gente! Conoscete! Che paura mai avrete? Cercare risposte fuori di sé può avere un senso in gioventù- poi ci si accorge amaramente che non cambia mai nulla. Si nasce e si muore in un cerchio, e tutto quello che c’è da decidere è se essere felici oppure no. Si potrà mai uscire dal Samsara? Che razza di viaggio è la vita? Sceglietevi un paio di scarpe comode. Shoul I stay or should i go? Dove posso trovare me stesso? Mi sono perso al supermercato. Triste vita del viaggiatore. Sempre nel disperato tentativo di tornare a casa. Una casa molto molto lontana.


POESIA

RICCO DI ARIA Scappare prima che sia troppo tardi, prima che le preoccupazioni, i problemi, gli scheletri, facciano strada ai ripensamenti. La strada è tua, difficile sapere se la direzione è buona, ma la bellezza sta solo e tutta nell’averla battuta con le tue mani. Corri verso chissà dove, chissà quali novità e quali delusioni, ma parti, prima che l’incantesimo si spezzi prima di infossarti nelle sabbie mobili: non c’è solo fame e freddo al si fuori del nido, ci sono luci, colori, sapori e calori nuovi. Se non hai nessun interesse a vederli, avrai, forse, un giorno il rimpianto di averli persi. Se invece, saprai apprezzare e assimilare tutte le esperienze ti stupirai di quanto ti sentirai ricco, anche se ricco di aria.

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TENDENZE

DIVERSI E RIBELLI COME GLI ANFIBI Irene Ferraro

They are back!!!!! O forse non se ne sono mai andati, di fatto sono praticamente indistruttibili. Sto parlando dei mitici Dr.Martens, pur avendo da poco superato i 50 anni dalla loro prima uscita, frutto di un mix fra la tecnologia tedesca e la manifattura inglese hanno già fatto la storia. Simbolo dell’Inghilterra che lavora, sono le preferite di operai, postini e poliziotti. Dopo pochi anni sono già segno distintivo delle culture underground di cui la Gran Bretagna è il regno indiscusso; talmente radicati nei sobborghi inglesi che indossare un modello piuttosto che un altro dichiarava l’appartenenza a fazioni di destra o di sinistra, e fa quasi sorridere pensare che la polizia che spesso sedava gli scontri tra i diversi gruppi, ne indossava un altro modello ancora. Sono ai piedi dei Mod, ispirati dagli Who, degli Skinhead, che li reclamano come espressione dell’appartenenza alla cultura proletaria, e dei Punk, e poi via al di là dell’Atlantico ed è la volta del Grunge e siamo già agli anni ’90. Gia i ’90…li abbiamo appena digeriti e già sono ispirazione degli stilisti e dello street-style. Ma nel mondo della moda dove vigono regole rigide, quanto mutevoli e dove vige tutto e il contrario di tutto, si sa che in realtà nulla sparisce per sempre e tutto prima o poi è destinato a ricomparire. Direttamente dall’ispirazione Grunge rieccoli quindi più in forma che mai nei loro modelli classici alti con 8 buchi,

neri e rosso ciliegia, ma ormai ce n’è per tutti i gusti o meglio colori anche nella versione in vernice per i più audaci, e persino ricoperti di vezzosi fiorellini! L’interpretazione del mitico modello 1460 si è spinta talmente in là che nessuna combinazione di materiali o di colori ormai sorprende più. Il vero must per questa versione 2.0? secondo me il modello a 3 buchi, quella bassa e stringata per capirci. Ok lo so qualcuno sta

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già storcendo il naso, non piacciono a tutti, ma portate con un pantalone a sigaretta arrotolato, abbinandoci le calze giuste daranno quel tocco inaspettato e indipendente tipico dei Docs. E quelli alti? Sempre con dei jeans rigorosamente con il risvolto, per le donne invece provateli con una gonna lunga di tessuto leggero, il contrasto d’effetto è assicurato!


CINEMA

“LA FAMIGLIA” SUL PODIO DI VENEZIA 70

Andrea Biolcatti

Nel 2012 alla mostra del cinema di Venezia ho potuto sfoggiare nelle soleggiate strade del lido il mio accredito stampa targato “Il Tascapane”. Quest’anno invece mi sono limitato a un più umile, ma ugualmente utile, accredito verde per i comuni studenti. Alla mia rinuncia ne è corrisposta una ben più dolorosa da parte del festival italiano. 12 years a slave, diretto da Steve McQueen e dal cast stellare, ha infatti preferito svelarsi nelle sale canadesi del Toronto Film Festival, rassegna che con la sua recente crescita sta insidiando il dominio di Venezia nel periodo conclusivo dell’estate. Nonostante questa defezione, i film proiettati hanno mantenuto un livello qualitativo molto alto e, considerata l’accessibilità che ci permette internet, ve ne consiglio tre. Miss violence è quello che forse più mi ha colpito e che ha conquistato la giuria aggiudicandosi il leone d’argento e la coppa volpi al miglior attore. Un film greco tremendo, nell’accezione positiva del termine, che racconta il lato più oscuro che può assumere il concetto di famiglia. La sta-

ticità della regia rende ancora più disturbante questa tragedia greca moderna in cui la vicenda prende il via dal suicidio di una bambina nel giorno del suo undicesimo compleanno. Da quel momento vi sentirete trascinati a bordo di una barca insieme agli altri componenti della famiglia e se la morte della piccola rappresenta una falla nella chiglia, preparatevi ad affondare con tutto l’equipaggio. La violenza famigliare è difficile da digerire ma è raccontata in maniera magistrale e permette di analizzare nella finzione quanto possa essere crudele l’animo umano. Anche in Locke, un capolavoro che fortunatamente per gli altri registi è stato presentato fuori concorso, è centrale la famiglia. L’intera vicenda è incentrata all’interno dell’abitacolo di una BMW guidata da Tom Hardy, il pompato Bane visto nell’ultimo Batman. Una caratteristica del genere potrebbe scoraggiare, della serie “Che palle un’ora e mezza di viaggio in macchina” e invece l’intreccio dei dialoghi che compongono le telefonate fatte al vivavoce è

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intrigante quanto un film di spionaggio. L’operaio e padre di famiglia Ivan Locke, mentre macina chilometri di strade inglesi, tenta di salvare il suo onore, la stabilità del suo matrimonio e il proprio lavoro. Assimilabile al tentativo di Buried nell’utilizzo di un unico attore, Locke riesce a farci accomodare sul sedile del passeggero del suv e a provare una straordinaria empatia con gli ostacoli che incontra il conducente. Ultimo gradino del podio occupato da un thriller psicologico dell’enfant prodige canadese Xavier Dolan, classe ‘89, che dirige la pellicola e da il volto al protagonista. Tom è un ragazzo omosessuale che si reca alla fattoria della famiglia del suo defunto partner per assistere al funerale. L’incontro con lo squilibrato fratello maggiore del suo ex, iperprotettivo nei confronti della madre, trascina Tom in una prigione psicologica che gli rende quasi impossibile lasciare la desolata campagna.


QUEL FOULARD DI SETA GIALLO

Adriana Giunta

Era inverno, venne a casa per la prima volta. Indossava un foulard di seta giallo. Fu la prima cosa che notai di lui. Lo feci entrare e dopo i classici convenevoli gli dissi che quel foulard stonava con tutto il resto. Rispose: - è un accessorio, non va abbinato al resto - lo vidi eccentrico, sicuro di sé, quasi arrogante. Quel foulard era impregnato di un profumo che solo lui presumeva di avere. Della seta vantava la trama e la provenienza. Dopo averlo elogiato abbastanza lo tolse. Bevemmo un bianco. Era già fresco, aveva pensato anche al glacé per il trasporto. Dato l’abbigliamento, il profumo e la mania di tenere i capelli a posto non poteva che essere perfettino anche in questo, ma in realtà sapevo poco di lui. Una fila durata una mattina intera ci aveva fatti conoscere, per poi rincontrarci nello stesso posto e rivederci quella sera li. Non so bene perché mi chiese di uscire. Faceva freddo ed io non avevo voglia di andare in giro, così gli dissi di passare da casa. In fondo,

nonostante fosse solo un conoscente, quella mattina era stato gentile. Parlammo a lungo di musica, libri, cinema, lavoro, studio, amore... parlammo anche di questo, di relazioni e sentimenti. E come spesso accade chiesi : - cos’è l’amore? è bello ascoltare le varie versioni e sfaccettature e valutare come ciascuno di noi argomenta una tematica tanto trattata da poeti e scrittori. L’orologio avanzava lento. Lo ascoltai, finché ad un tratto chiesi: - la ami? Lo fissai negli occhi, e dopo una lunga pausa mentre abbassava lo sguardo ascoltai il suo “No”. Rimasi a guardarlo allibita. Perché mai un uomo si costringe a stare con qualcuno pur consapevole di non provare nulla? Perché mai privarsi di condividere qualcosa di vero? Perché mai trascinare un rapporto privo della sua essenza? Mi chiesi con quale intenzione, guardandosi allo specchio quella sera mentre metteva a posto il foulard,

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fosse uscito di casa. Cercava comprensione? Distrazione? Quella sera, quell’uomo bussò alla porta sbagliata. Non c’è comprensione verso chi inganna se stesso; non c’è spiegazione all’ascolto di un: non sono pronto; non c’è ragione nel credersi capaci di mantenere un rapporto vivo, quando dentro il sentimento è già andato perso. MANtenere, sì: vuol dire tenere per mano, con cura, con dedizione, non come fosse qualcosa che ci è stato imposto. Da chi? Per cosa poi? Continuammo a parlare, continuai a contraddirlo. Gli dissi che era impensabile. L’amore…le emozioni... ci è concesso viverle. Essere caritatevoli verso qualcuno non lo renderà felice. L’amore non si deve elemosinare, si deve condividere. Eh sì CONdividire: vuol dire possedere insieme, partecipare attivamente per un progetto di vita. Non si spreca qualcosa di così grande. Fu l’ultima volta che lo vidi. Ricordo ancora quel foulard come un attentato alla mia tolleranza.


THE BIG BANG THEORY Edoardo Rosso

Ricordo che la serata era cominciata in un bar del centro in zona Duomo, come ogni mercoledì. Anche quella sera, puntuale, era arrivato il messaggio di Dimitri: “Ciao vecchio, senti, stasera? – pausa – Fffesta???”. Scritto proprio con tre effe. Un’ora dopo eravamo al bancone del bar. Dimitri aveva ordinato un Long Island e, forte delle conoscenze acquisite al corso per barman, si era messo a discutere con il barista: “Giovane – esordì con un sorriso storto (era al suo terzo cocktail) e una confidenza che sarebbe parsa fuori luogo a chiunque tranne che a Dimitri ebbro – hai scazzato le dosi di Tequila…”. Dopo la sua diagnosi rimase a guardare il barista, con l’occhio semichiuso di quello che la sa lunga. L’altro lo guardò serissimo e chiese: “Come dici?” “La Tequila – pausa – ce n’è un po’ troppa – precisò Dimitri con il tono paterno di chi ha deciso di perdonarlo, quel barista maldestro – nel Long Island si dovrebbe sentire appena…”. “Non ce l’ho messo la Tequila – disse il barista - non c’è la Tequila nel Long Island” precisò senza smettere di pestare la menta in un bicchiere. “Ah… beh… già”. Dimitri fissò il barista, tirò un sorso dalla cannuccia sempre fissandolo, poi disse: “Sì, bravo, giusto, non c’è la Tequila” e scoppiò in una risata acuta, tutta articolata in Hi-hi-hi e Uah-hi, uah-hi-hi-hi. Una cosa im-

barazzante, almeno per me che ero ancora sobrio.

gita scolastica. Poteva essere una quinta superiore.

Poi ricordo il viaggio in auto, io guidavo, Dimitri cantava Cuccuruccucù Paloma con la testa fuori dal finestrino. Ricordo i semafori lampeggianti e le luci della centrale elettrica. Guidavamo senza meta, era il nostro modo di contribuire allo scioglimento dei ghiacciai. Poi seguendo un rettilineo delimitato da platani decapitati eravamo giunti al mare. Ricordo l’alba su quella spiaggia deturpata.

E successe che la vidi: immaginate una ragazza di diciotto anni, candida. Immaginate che incontri lo sguardo insistente di un ragazzo più grande, sveglio da più di trenta ore, con al seguito un amico pieno di LongIsland che urla ai piccioni per farli spostare. Immaginatela che, intimidita, abbassa gli occhi e ride con le amiche.

Poi Comacchio. Il sapore del caffè ancora nella bocca, affacciato dai Trepponti, mi sentii pervaso, senza alcun motivo da un senso di benessere. Credo fosse il sole delle nove di mattina. Scaldava la pelle e la faccia mentre guardavo ciò che si vede in controluce a palpebre chiuse: una superficie viola-rossa punteggiata dalle ombre dell’ultima immagine impressa sulla retina. In quel preciso momento stavo bene. Mi sentivo in armonia con l’universo. Non pensavo all’assurda serata trascorsa, non pensavo ai giorni che sarebbero venuti. Era come se improvvisamente mi fossi preso il diritto di vivere il presente. Pensai “Io sto bene”. Credetti di pensarlo, in realtà mi era uscito a mezza voce. E Dimitri mi aveva sentito: “Che cazzo sei, un’anguilla?” aveva chiosato. Era segno che si era ripreso. “Torniamo in città, ho bisogno di dormire un po’” disse. Mentre tornavamo alla macchina ci imbattemmo in una

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Ecco, no: nulla di tutto ciò. Non siamo su Ponte Milvio. Niente lucchetti, né amori mocciosi. La ragazza in questione si trovava in piedi su una panchina e incitava i compagni a spingere in acqua la professoressa. Aveva l’aria di una capo-popolo. Gridava, gesticolava, saltellava. Ricordo solo capelli lunghi, grandi occhi scuri, una gonna corta e dei collant colorati, forse blu. O verdi. Rimasi a fissarla. Immobile come una lepre abbagliata dai fari dell’auto. Quando finalmente incrociai lo sguardo di quella ragazza ebbi la sensazione che fosse successo qualcosa di straordinario. Provai un senso di vertigine, un solletico allo stomaco. Come quando guardi sott’acqua in mare aperto senza vedere il fondo. Lei mi guardò con aria incuriosita poi distolse lo sguardo, saltò giù dalla panchina, mi passò accanto e andò oltre, seguita dai compagni. Distinsi nell’aria la sua scia di profumo: menta, pompelmo e cannella. Quella fragranza penetrò le mie narici fino al cervello e provocò una piccola scossa


tellurica nella mia testa. Per la verità, alla scossa tellurica aveva contribuito Dimitri, assestandomi il più classico dei coppini: “Dammi le chiavi, mi va di guidare” aveva sentenziato. Nessuna persona ragionevole gliele avrebbe date. Ma in quel momento non mi andava di ragionare, gli allungai le chiavi e mi accomodai al lato passeggero. Il sole era alto, Dimitri guidava verso la città. Io fissavo fuori dal finestrino. Tralicci, viadotti, campi, cascine, villette, trattori, insegne pubblicitarie. Tutto scorreva nella dimensione obliqua e leggermente sfocata del fast forward dei vecchi video registratori. “E’ la teoria del Big Bang” disse a un tratto Dimitri. Ruotai il collo e lo guardai dal basso verso l’alto, lasciando la testa appoggiata al finestrino. “E’ come il Big Bang – proseguì lui – il novanta per cento accade nei primi istanti, gran parte di quello che doveva succedere è già successo. Poi tutto prosegue a velocità ridotta. Quando caschi negli occhi di una ragazza in quel modo là, il grosso è fatto. Tutto il resto segue il ritmo dell’universo in espansione”. Non so se era per via del Long Island, che aveva ormai sostituito completamente il sangue nelle vene di Dimitri, o se davvero si era accorto di quel che era capitato poco prima, sta di fatto che da quel giorno la sua teoria del Big Bang iniziò ad avverarsi con sorprendente precisione.

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www.tascapane.it

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