Walter Cerfeda, Allegoria, Il Raggio Verde 2016

FUTURO ANTERIORE Collana diretta da Nello Wrona

Un doveroso ringraziamento, per la preziosa collaborazione, a Tonino Caputo, Maria Mafalda Ciardo, Pierdomenico Fornasiero, Pasquale Santoro.

IL RAGGIO VERDE EDIZIONI s.r.l. 2016 © Via del Luppolo, 6 - 73100 Lecce www.ilraggioverdesrl.it Tutti i diritti sono riservati

ISBN 978-88-99679-00-2

In copertina: Tonino Caputo, “Assalto ad Otranto 1480” (olio su tela, 2014, coll. privata, ph. Mario Patriarca)

WALTER CERFEDA

ALLEGORIA romanzo

IL RAGGIO VERDE

PREFAZIONE

Nella gran biblioteca senza luci di Borges, a calle Maipú 994, c’è un paradosso che meglio degli altri rappresenta l’elogio della memoria: il tiranno di Tsin che ridusse in suo potere i Sei Regni e fece costruire la poderosa Muraglia contro i barbari della steppa, dispose anche che venissero mandati al rogo tutti i libri scritti prima di lui, sepolti vivi i filosofi e gli scrittori e cancellati tutti i ritratti, le immagini, i segni, i pensieri, le emozioni, le ombre e ogni traccia del passato. Abolita la storia, impose un nome nuovo alle cose e vietò che si nominasse, in sua presenza, la parola morte.

Nel suo presente dilatato e perfetto, destinato ad essere infinito, l’uomo scelse per sé un nome senza precedenti: Shih Huang-Ti, Primo Imperatore.

Il paradosso è splendido e attuale, metafora inquietante del nostro tempo, travolto da una slavina di informazioni e sempre connesso, ma incapace di indugiare sugli avvenimenti (il “secolo breve” dice nulla?) e avvitato su se stesso; una modernità declinata al presente, che ha cancellato dal suo orizzonte temporale la storia e l’unica possibilità di una redenzione, che è quella della memoria.

Una civiltà che non sta qui né altrove, la “civiltà delle parentesi” l’ha definita Naisbitt, perché quando non si riesce a stabilire un nesso tra il prima e il dopo, tra i segni e il significato, il continuum delle cose si spezza, si frantuma in mille coriandoli e tutto diventa effimero, fuggevole, accessorio, opinabile.

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Tra queste parentesi, sono finite schiacciate la famiglia, la scuola, la parrocchia e il partito, le voci della strada e le opinioni della gente, il senso di un destino comune, le speranze condivise, i progetti, le eresie e le utopie. Parcheggiate su un binario morto le storie corali e demolita l’idea stessa di cultura, assediata in uno di quei pomposi ma fragili castelli di sabbia che si disfano al primo colpo di vento, il tempo presente, per far posto a se stesso, si serve della dimenticanza, della rimozione, dello smemoramento: se tutto è dimenticato, se nulla è successo, allora tutto può ricominciare.

Lo spaesamento che ne deriva è disarmante: basta cambiare canale, e saltare con leggerezza da uno sbarco di migranti a un attentato, da un concorso di bellezza a un massacro, da un talent show a un’epidemia di colera, per rendere attuale, contiguo e riciclabile tutto e indurci a pensare che tutto si possa vedere e consumare impunemente, come in un inferno senza testimoni.

L’inferno è questa età nuova della dimenticanza, un presente indifendibile, orfano della storia e di quel passato remoto che, dice Bloch, «ci fa bene» e consente il recupero della memoria collettiva: nomi, vicende, cronache, luoghi, briganti, eroi e fantasmi che sono parte della nostra quotidianità, dei nostri recinti di filo spinato, della nostra pelle, di quello insomma che rappresenta (da qui il titolo di questa Collana) il nostro “futuro anteriore”.

Cominciando da Otranto, perché Otranto anticipò secoli fa il nostro feroce presente, e perché dopo Otranto, e nonostante Otranto, la Storia si è ripresentata e ora fatalmente e per oscena ignoranza la dobbiamo ripetere: un inferno domestico e planetario, dove ci conduce con ironia e pietà Walter Cerfeda, che indaga le mezze verità e le bugie levantine, tra eserciti, papi, re, sultani e cancellerie, cioè il lato oscuro e meno esplorato di quella mattanza del 1480, che sembra accaduta invano.

Nello Wrona

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Per Anna, mia moglie.

Tutto di questo racconto: persone, luoghi, fatti e situazioni, non è frutto della mia immaginazione, ma solo quanto è realmente accaduto e nell’ordine in cui è avvenuto. Da parte mia, mi sono limitato soltanto a restituire le ragioni, la voce e i sentimenti. Ogni riferimento a personaggi e avvenimenti è, pertanto, puramente intenzionale.

“Quanti anni sono passati da allora?

Solo i vivi contano gli anni.

Ed è mutato qualcosa?”

Maria Corti, L’ora di tutti

L’allegoria è il racconto di un’azione che dev’essere interpretata diversamente dal suo significato apparente.

Treccani.it

INTRODUZIONE

In fondo ero contento che non fosse capitato a me. Cosa mai avrei potuto domandargli? Con una persona così si rischiava sempre una brutta figura. Delle due l’una. Se gli avessi chiesto una cosa impegnata, non so... dal punto di vista politico, filosofico o anche teologico, quasi certamente avrei ricevuto, non da lui così apparentemente alla mano, ma di sicuro dai miei colleghi, uno sguardo di commiserazione, se non di tacito rimprovero.

Se, al contrario, l’avessi buttata sul colore, per esempio: «Senta: ma come si sta a Santa Marta?», oppure «È felice che il San Lorenzo abbia vinto la Coppa Libertadores?» me ne sarei vergognato per primo, come se fossi l’inviato di un settimanale di gossip e non parte della delegazione ufficiale che lo aveva accompagnato in quella prima e lunga missione in Asia.

Questo avevo pensato, anche se, di lì a poco, davvero gli avevano chiesto proprio della mensa di Santa Marta e del San Lorenzo de Almagro.

Sì, mi era andata bene. Erano stati sorteggiati tre giornalisti per ciascun gruppo linguistico. Padre Federico Lombardi era stato chiaro: «Non vuol dire che tutti potranno parlare. Avete visto voi stessi come questo viaggio non ci abbia fatto respirare. Quindi, per favore, non dobbiamo stancarlo. Mi raccomando, chiedete quel che volete, ma andate al dunque, in maniera diretta e senza troppi giri di parole.»

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Poi era uscito lui. Impeccabile, come sempre. Rasato, la veste bianca immacolata che contrastava con il grigio perla della cabina dell’aereo. La grande croce che gli scendeva sul petto accentuava il viso lungo e tirato, mentre due occhiaie profonde, colorate di un nerastro striato, si gonfiavano sotto l’incavo degli occhi. E con una zoppia accentuata della gamba destra che, stando di fronte al piccolo corridoio che divideva la sua dalla nostra zona, mi era apparsa evidente.

Si era messo proprio di spalle a quel breve corridoio, con Padre Lombardi alla sua sinistra, e ci aveva subito sorriso, ammiccando con quel suo sguardo acuto, ma benevolo e amichevole.

Padre Lombardi era invece sempre lo stesso. Preciso ed efficiente. Alla mano, ma rigoroso. Attento affinché tutto procedesse nel modo giusto, senza inciampi o sbavature. Anche lui doveva essere sfinito, ma non lo dava a vedere, con il volto apparentemente rilassato e lo sguardo penetrante. Il primo a prendere la parola era stato un giornalista del gruppo asiatico, un collega sudcoreano, per rendere omaggio alla visita del Papa nel suo Paese. Il ronzio delle telecamere si era fatto intenso, con in sottofondo il rumore sordo e ovattato dei motori dell’aereo che si erano ormai stabilizzati in quota, alla velocità di crociera.

Sung Jin Park gli aveva chiesto cosa avesse provato quando aveva incontrato i parenti delle vittime del disastro del traghetto Sewol e se non si fosse preoccupato che la scelta di avviare proprio in quel modo la sua visita avrebbe potuto dar luogo a qualche fraintendimento politico.

Dalla prima risposta, avevo capito che non sarebbe stata una conferenza di routine.

Papa Francesco aveva detto: «Quando tu ti trovi davanti al dolore umano, devi fare quello che il tuo cuore ti porta a fare. Poi diranno: “Ha fatto questo perché ha questa intenzione politica o quell’altra...”»

E subito dopo aveva aggiunto, mostrandoci un piccolo distintivo: 12

Allegoria

«Io ho preso questo. Dopo averlo portato per mezza giornata... qualcuno si è avvicinato e mi ha detto: “È meglio toglierlo... lei deve essere neutrale”. “Ma, senti, con il dolore umano non si può essere neutrali”. Così ho risposto. È quello che io sento.»

Ma la domanda decisiva – quella che, se avessi avuto coraggio, gli avrei voluto formulare io – l’aveva fatta un giornalista americano, Alan Holdren, inviato speciale di molte agenzie. Un autentico giramondo che, tuttavia, non era ancora riuscito a correggere quel suo accento strascicato, inconfondibile degli americani di Chicago.

Come sempre era inappuntabile. Anche ora indossava un abito scuro, perfettamente stirato, a differenza dei nostri che risentivano dei troppi giorni e dei troppi trolley, con una candida camicia bianca e una stretta cravatta nera.

Si trovava alla sinistra del Papa, vicino a un finestrino, con un riverbero di luce che gli rimbalzava sulle lenti, facendole brillare.

Era alto e magro, con una stempiatura che doveva aver cessato di combattere, visto che era di molto risalita sul cranio, isolandogli solo un rado ciuffo di capelli.

Si era rivolto al Papa con un tono di voce tranquillo, lo sguardo fisso nei suoi occhi.

«Santità, mi chiamo Alan Holdren. Lavoro per la Catholic News Agency, per l’Aci Prensa di Lima e anche per l’Ewtn. Come Lei sa, le forze militari degli Stati Uniti da poco hanno incominciato a bombardare dei terroristi in Iraq per prevenire un genocidio e per proteggere il futuro delle minoranze, penso anche ai cattolici sotto la Sua guida. Lei approva questo bombardamento americano?»

I miei occhi erano continuamente andati da lui al Papa. Non volevo perdermi nemmeno una sfumatura e volevo capire, anche da un minimo movimento, quali potessero essere le emozioni o le angosce che quel tema avrebbe potuto provocare nell’animo del Papa. E man mano che Alan parlava, avevo notato come il viso di Padre Lombardi, di solito sempre sorridente, si fosse corrucciato, mentre tutta la figura del Papa si era inclinata in avanti come per andare incontro alle parole del giornalista. I suoi occhi si erano 13

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socchiusi in due fessure piccolissime e il suo volto si era rabbuiato.

Poi, mentre rispondeva, avevo seguito il movimento delle mani che avevano preso ad accompagnare le sue parole, come fossero la bacchetta di un direttore di orchestra. Ora con le dita larghe, ora racchiuse a formare una cupola, come se quello che stava dicendo se lo fosse ripetuto mille volte e per mille volte avesse provato lo stesso tormento.

«Grazie della domanda così chiara. In questi casi, dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si può fermare, dovranno essere valutati. Fermare l’aggressore ingiusto è lecito. Ma dobbiamo anche avere memoria! Quante volte, con questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista! Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata l’idea delle Nazioni Unite: là si deve discutere, e dire: “È un aggressore ingiusto? Sembra di sì. Come lo fermiamo?” Soltanto questo, niente di più.»

Subito dopo però aveva proseguito, spalancando gli occhi quasi a voler trasmettere ciò che stava dicendo, mentre lo sguardo di Padre Rotondi si era fatto grave, sicuramente allarmato dalle reazioni che avrebbero suscitato quelle parole.

«Secondo, le minoranze. Grazie della parola. Perché a me dicono: “I cristiani, poveri cristiani...” Ed è vero, soffrono. I martiri, sì, ci sono tanti martiri... Ma qui ci sono uomini e donne, minoranze religiose, non tutte cristiane, e tutti sono uguali davanti a Dio. Fermare l’aggressore ingiusto è un diritto dell’umanità, ma è anche un diritto dell’aggressore, di essere fermato per non fare del male.»

Quelle parole, come una trivella, erano penetrate nel mio cervello e non mi avrebbero più abbandonato, unite a quelle che aveva pronunciato poco dopo, rispondendo a un’altra domanda.

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