Il Gusto... della Vita - Dicembre 2012

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...Editoriale del

Ci vuole vento e sangue nelle vene. E una Ragione per vivere di Adolfo Leoni

Vorrei tornare bambino. Solo per un po’. Giusto per questo Natale.

Mio padre, socialista, preparava il presepe usando il muschio (“la vellutina”, come noi la chiamavamo da piccoli) del nostro orto-boscaglia sotto casa. Io portavo le piccole pietre per farvi cascate d’acqua. Avevo anche il compito di tracciare sentieri con il bianco del brecciolino. Gesù bambino veniva posto nella mangiatoia allo scoccare della “Mezzanotte santa”. L’albero era un’altra cosa. Un rito esclusivo. L’abete raggiungeva il soffitto della sala: 4/5 metri. Si trattava di un allestimento unicamente paterno. Lui saliva sulla scala, cingeva i rami con le luci (quelle ad intermittenza, controllate e riposte un anno prima, non funzionavano mai l’anno successivo), appendeva le palle colorate che noi bambini gli stendevamo, posizionava i fili d’oro e d’argento. L’albero di Natale prendeva forma. Quando, ultimato, veniva acceso, qualcosa mi palpitava in cuore. La luce. Un anno, il sig. Fabio, emigrato da giovane a Lugano, ci regalò dei babbi natale in cioccolato. Erano da appendere. Mio padre, goloso, se li fece fuori nel corso delle notti festive iniziando dalla parte dell’albero meno in vista. Il sig. Peppe, invece, ci portava i cacciatorini, piccoli salami della Vismara. Sparivano in fretta. Mia madre preparava cappelletti: 700, per il pranzo del 25. Ne ho già raccontato un’altra volta. Il fuoco andava orgoglioso e superbo nel camino. La neve sfiocchettava lenta. Il ghiaccio faceva crosta sul vetro esile delle vecchie finestre sul viale. Buon Natale, buon Natale. I bambini recitavano le poesie imparate a scuola sulla Grande festa. La vigilia arrivava Gesù bambino con i suoi doni, in concomitanza con la mezzanotte e la deposizione della statuina tra la Madonna e san Giuseppe. Chi ha superato, come me, i cinquanta, ricorda benissimo questo mondo e questa cultura. Vorrei tornare bambino per riassaporare quei momenti. Il mondo è cambiato. Negli ultimi dieci anni sembra aver stravolto ogni cosa. Capovolto ogni criterio.

Quotidianamente sfoglio Adesso, il libro della famiglia scritto dal mio amico Paolo Massobrio e dai suoi collaboratori. è molto più di un’agenda e di un’elencazione di bontà gastronomiche. Il mese di dicembre è stato aperto da una vignetta di Clericetti. Cerco di raccontarvela: una strada innevata, tanta gente in fila e una biforcazione. A destra, si sale ad un cucuzzolo, a sinistra si va in piano, verso un agglomerato di edifici. A destra, sulla sommità, c’è un’umile capanna, quella di Betlemme, con i personaggi che sappiamo (li conosciamo ancora?). Sopra, la stella cometa, che indica il luogo del Prodigio.

Forse, invece di tante teorie economiche fallite, di tante ideologie crollate, dovremmo svoltare, dovremmo salire su quel cucuzzolo e guardare quel Bambino. Lui sì che è rimasto tale e quale da due Millenni. Con le stesse parole, la stessa forza, la stessa convinzione. Non è il guadagno, non è l’usura, non è la voglia di arrivare, non è il potere a farci felici. è altro, ben altro, e a portata di mano. La parola è grossa, si pronuncia Amore. Sembra astratta eppure sperimentandola diventa condivisione, rispetto, apertura, creatività, aiuto, solidarietà, “avere gli altri dentro di sé”, come ricordava Giorgio Gaber.

A sinistra, c’è un cartello. Dice: svendita natalizia. Tutto accorrono là. Alla svendita…

Nuova civiltà. Nuovo modo di vivere, di gestire i rapporti, di fare economia, di tirare avanti le aziende. Lo fece Benedetto da Norcia ricostruendo dalla rovine dell’Impero romano.

Eccolo, il punto. Il 2012 è stato un anno orribilis. La crisi ha investito in pieno la nostra Terra di Marca, diverse aziende hanno tirato giù la saracinesca, tanti lavoratori hanno perso il posto, nella mensa de Il Ponte a Fermo crescono gli “utenti”, il pacco di cibo del Banco alimentare è sempre più richiesto. La nostra gente ha vissuto tante crisi, anche peggiori (la “peste delle viti e dell’olivo a fine Ottocento, che spinse all’emigrazione milioni di italiani, la febbre Spagnola dei primi del Novecento, due guerre mondiali, la distruzione conseguente, lo choc del petrolio degli anni ’70). Ma stavolta è peggio. Come se qualcosa si fosse rotto interiormente, nel nostro cuore prima che nel nostro cervello. Un “vuoto tra lo stomaco e la gola”. Si tratta di un vuoto, che inibisce, che ghiaccia, che ci rende passivi.

Possiamo farcela anche noi. Cambiando strada. Tornando a farci toccare il cuore. Ognuno di noi. Persone. In azione. “Per sollevare le palpebre - canta ancora Jovanotti - e non restare a compiangermi”. E alla fine, “innamorarmi ogni giorno ogni ora, ogni giorno ogni ora di più”. Di più. Buon Natale.

Adolfo Leoni

E se fosse una richiesta di senso, di significato che torni a spingere la vita? Un vuoto che attende d’essere colmato? Di questo parla l’ultima canzone di Jovanotti (Tensione evolutiva), dice: «… nessuno si disseta ingoiando la saliva, ci vuole pioggia vento e sangue nelle vene… e una ragione per vivere». Una ragione per vivere, per sperare, per costruire, per metter su famiglia, per aprire fabbriche e coltivare campi, insegnare e lavare piatti.

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della vita


...Sommario

Sommario

Direttore Responsabile Adolfo Leoni Direttore Editoriale Nunzia Eleuteri Progetto grafico e coordinamento Studium Design info@studiumdesign.it Fotografo Angelo Cecchetti Hanno collaborato Ugo Bellesi Cesare Catà Liana Cognigni Paola Eleuteri Serafino Fioravanti Stefano Isidori Mauro Michetti Chiara Morini Mauro Nucci Alessandro Pazzaglia Eleonora Quintavalle Guglielmina Rogante Francesco Seghetti Leonardo Seghetti Edito da

Ass. "Il Gusto... della vita"

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n.

19 Dicembre 2012

inserito nel Registro dei Giornali e dei Periodici del Tribunale di Fermo il 21/10/2008

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il Gusto...

1...Ci vuole vento e sangue nelle vene. E una ragione per vivere 3...Qualità professionalità innovazione 4...Erba cipollina 5...Anice 6...Leggende del fermano 8...Il cenone diNatale 9...Le marche a Mantova 9...Aspettare il Natale sognando... Il 2013 10...I doni di Natale - Le piante di Natale - Colori a tavola 10...Un poeta e un gigante 11...I vini spumanti 14...La mela rosa 15...La pianta di stagione 16...Il tartufo. Sublime profumo. Istruzioni per l’uso 18...Le ricette di Mauro Michetti 20...Ricette della tradizione 21...Monastero di Monte San Martino 21...La bellezza di Monte San martino 22...Il gusto degli altri … La Franciacorta, l’eleganza delle bollicine italiane! 24...Arance di Natale 25...Dall' antipasto al gelato. Da lapedona, la riscossa del vino cotto. 27...Un negozio di cose buone. 28...Una forneria? Di più: un centro culturale 29...La sapienza è figlia dell’esperienza 30...La cenere dei fornelli e la brace del camino 31...Dalla vongola al brodetto: viaggio alla ri-scoperta delle tradizioni marinare. 32...Le Fermanelle sono europee


...Professione Cuoco

Q u a l i t à Professionalità I n nov a z ione di Alessandro Pazzaglia

“I pilastri per avere futuro”

Nell'affascinante mondo dell'ospitalità parlare dei concetti di qualità, professionalità e innovazione spesso viene dato per scontato. Sono conoscenze e requisiti ovvi ma purtroppo nei fatti questa ovvietà di frequente non c'è. Il nostro amato e splendido territorio ci offre la qualità in molti prodotti, apprezzati (direi invidiati) da intenditori di terre lontane. Proprio questi prodotti invece qui in loco vengono o snobbati o usati con ampi margini di superficialità. Questo atteggiamento si riflette negativamente anche nella percezione del prodotto da parte dei nostri ospiti, ma il concetto di qualità che volevo esprimere è molto più ampio e si collega immediatamente alla professionalità, coinvolgendo una serie di figure e mansioni che messe insieme formano il prodotto globale. In molti sanno quanto l'Assocuochi s i sia battuta, in collaborazione del compianto ed illuminante preside Filippo Buscemi dirigente dell'Alberghiero di San Benedetto del Tronto, in tanti modi tentando di coinvolgere le attività che operano nel settore dell'ospitalità dell'allora unita provincia picena. Cercando di far capire loro quanto importante fosse la sinergia tra il mondo della formazione e quello delle imprese. Siamo soliti ascoltare affermazioni del tipo: “Ma che vi hanno insegnato a scuola?”. Non che tutte le parti in causa non debbano assumersi le proprie responsabilità ma se l'azienda che poi diverrà fruitore di deteminate risorse umane, partecipasse attivamente alla formazione, le cose andrebbero sicuramente meglio. Infatti se i primi due pilastri facessero da padroni il ter-

zo cioè l'innovazione sarebbe “quasi” consequenziale. La tecnologia nell'ultimo mezzo secolo ha fatto passi da gigante a tutto vantaggio della qualità e della professionalità, permettendoci di offrire ai nostri ospiti un prodotto finito eccezionale e per di più una qualità della vita sempre migliore. Alle difficoltà descritte vanno aggiunte le complicazioni di normative di legge emanate da una classe politica sempre più distante dalla vita di tutti i giorni. Ad esempio sul capitolo delle liberalizzazioni che interessano la nostra categoria basterebbe vedere il DLGS n. 147/2012 del 14 settembre che per problemi di spazio non posso approfondire. Dietro al fatto dell'adeguamento ad una normativa europea si nascondono insidie pericolosissime. Come per alcune normative del 1991 poi ribadite con il DLGS n.59/2010 dove venivano definiti i requisiti minimi per dimostrare la professionalità indispensabile per poter aprire una propria attività. Da oggi non sarà più così e a tutto ciò aggiungiamoci la crisi che da alcuni anni è sotto gli occhi di tutti. Noi delle berrette bianche, fermamente convinti (insieme a quanti vorranno essere al nostro fianco) assertori che “un rinunciatario non vince mai” e che i tre pilastri siano incrollabili, continueremo a costruirvi sopra con il coraggio di andare avanti in una posizione difficile ed un impeccabile senso dell'equilibrio.

LA CITAZIONE

Dalle riunioni di famiglia agli incontri tra amici, dai pranzi d'affari ai momenti romantici la tavola svolge un ruolo unico nell'abbattere le barriere , facilitare il dialogo, stimolare l'apertura, Gustare la Vita.

Alessandro Pazzaglia

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della vita


...Erbe Aromatiche

ERBA CIPOLLINA

di Ugo Bellesi

Troviamo l’erba cipollina citata sempre più nelle ricette di cucina delle grandi riviste e anche nelle trasmissioni televisive ma nella gastronomia della Marche non se ne fa un grande uso. Oltre che nelle serre dove viene coltivata, si può trovare anche come erba spontanea sulle rive dei torrenti, ai confini di zone coltivate, come in prati umidi e persino su muretti a secco. Ha foglie filiformi e tubolari lunghe fino a 25 centimetri e si presenta sotto forma di cespi molto folti con fiori rosa porpora.

FRITTATA

INGREDIENTI - 4 uova - 1 spicchio d’aglio - 1 cipollina - 4 cucchiai di olio extravergine di oliva - 1 cucchiaio di bardana - 1 cucchiaio di foglie di altea - 1 patata - 1 cucchiaio di foglie di barbarea - 10 foglie di erba cipollina - sale, pepe e parmigiano q.b. ESECUZIONE Far imbiondire la cipollina tritata in olio insieme all’aglio pestato. Nel frattempo tagliare la patata a piccoli quadratini e sminuzzare le erbe aggiungendo il tutto (tranne l’erba cipollina) alla cipolla. Far rosolare e aggiungere mezzo bicchiere di acqua tiepida dopo aver eliminato l’aglio. Aggiustare di sale e pepe e mandare avanti la cottura per un quarto d’ora circa con tegame coperto e fuoco leggero. A questo punto aggiungere l’erba cipollina tritata e dopo alcuni istanti versare nel tegame le uova sbattute insieme al parmigiano grattugiato e far rapprendere la frittata.

Le foglie si raccolgono tutto l’anno essendo sempre molto profumate come la cipolla ma ovviamente con un aroma molto più delicato. Il profumo è dato appunto dalla presenza di un olio essenziale che ha la caratteristica di aiutare la digestione, è cardiotonico e antisettico. Oltre che di oli volatili le foglie di erba cipollina sono ricche di ferro. Inoltre ha la proprietà di ridurre la pressione del sangue. L’erba cipollina viene chiamata più correttamente “Aglio cipollino” mente il nome scientifico e “Allium schoenoprasum” e riassume in sé le caratteristiche dell’aglio e del porro. In cucina le foglie sono ottime da usare, in sostituzione della cipolla, nelle minestre, nella besciamella, nei piatti a base di uova, nei formaggi molli e come contorno nelle insalate. Quando l’erba cipollina deve essere tagliuzzata è preferibile utilizzare le mani anche se nei ristoranti si accelera l’operazione usando le forbici. Un modo elegante di presentare l’erba cipollina a tavola, specialmente quando si intende utilizzarla per piatti di pesce o di carne alla griglia, è quello di pestare le foglioline in un mortaio di pietra aggiungendo di tanto in tanto dei fiocchi di burro e qualche pizzico di sale. Quando si è raggiunto un buon impasto morbido depositarlo in varie ciotole da far riposare in frigo per poi presentarle a tavola dinanzi agli ospiti.

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il Gusto...

LE RICETTE

SPAGHETTI ALL’ ERBA CIPOLLINA

INGREDIENTI - 4 cucchiai di erba cipollina - 2 rametti di maggiorana fresca - 1 cucchiaio di cerfoglio - 50 gr di burro - sale q.b. ESECUZIONE In un tegame far riscaldare il burro e aggiungere tutte le erbe tritate e quando sono appassite rovesciarvi sopra gli spaghetti lessati al dente e quindi far amalgamare. Servire guarnendo i piatti con fili di erba cipollina. Per chi piace aggiungere formaggio parmigiano.

SALSA ALL’ ERBA CIPOLLINA

INGREDIENTI - 4 uova - 2 spicchi d’aglio - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - 1 cetriolo - 1 cucchiaino di senape - 2 cucchiai di erba cipollina - sale e pepe q.b. ESECUZIONE Lessare le uova e sgusciarle; quando sono fredde mettere in una ciotola gli albumi e in un’altra ciotola i tuorli schiacciandoli per farli diventare un impasto al quale si aggiungeranno le foglie di erba cipollina tritate, la senape e il succo degli spicchi d’aglio schiacciati. Ammorbidire il composto con l’olio aggiustando di sale e pepe. Frantumare gli albumi e, dopo aver tolto la buccia al cetriolo, ridurlo a dadini. Aggiungere albumi e cetriolo alla salsa amalgamandoli e servire come accompagnamento di arrosti e carni bollite.


...Erbe Aromatiche

ANICE

di Ugo Bellesi

L’anice è una pianta erbacea caratterizzata da fusti verdi coperti da peluria che possono arrivare fino a 65 centimetri di altezza con foglie cuoriformi e frastagliate e grandi infiorescenze con fiorellini bianchi e piccoli frutti ovali.

FOCACCIA ALL’ANICE

è rigoglioso in zone esposte al sole e la sua regione di elezione è la Sicilia, dove cresce spontaneamente, ma è una pianta che può essere coltivata anche in zone temperate come le Marche e in particolare Ascoli e Macerata. I semi si pongono a dimora tra marzo e aprile e la raccolta dei frutti avviene tra agosto e settembre. I frutti vengono raccolti per essere essiccati e quindi conservati in recipienti ermeticamente chiusi (ma anche nel congelatore). Possono essere impiegati sia macinati che interi ma la ristorazione preferisce usare l’olio aromatico dell’anice, cioè l’anetolo.

INGREDIENTI - 450 gr di farina di grano - 25 gr di lievito di birra - 2 bicchieri di latte - 1 uovo - 50 gr di burro - 3 cucchiai di olio extravergine di oliva - 1 cucchiaio di semi di anice - 2 cucchiai di zucchero - sale e olio extravergine di oliva q.b.

L’anice era noto nell’antichità ed anche i greci lo utilizzavano in cucina nei piatti di pollo, di maiale e nelle verdure ma anche nei dolcetti mangiati a fine pasto come digestivo. Anche gli inglesi in epoca elisabettiana lo usavano soprattutto nelle torte e nel pane (famoso era il pan di zenzero). L’anice, anche se viene ritenuto afrodisiaco (l’infuso si prepara facendo bollire un cucchiaino di anice in acqua bollente per 30 secondi e poi lasciarlo in infusione per 10’), in medicina è preferibile utilizzarlo sotto forma di infuso per curare tosse e pertosse ma anche bronchiti e asma. Comunque l’anice è soprattutto noto per essere un coadiuvante della digestione. I frutti di anice combattono anche l’alitosi. L’olio essenziale di anice viene utilizzato per aromatizzare le paste dentifricie o per preparare bagni aromatici. L’anice viene usato in pasticceria per aromatizzare vari dolci ma si impiega anche quando si confeziona la frutta cotta come le pere, prugne e mele, oltre ai fichi secchi e alle castagne (bollite).

LE RICETTE

DOLCE ALL’ANICE

INGREDIENTI - 300 gr di farina - 2 cucchiai di liquore di anice - 1 cucchiaio di succo limone - 150 gr di zucchero - 3 uova 2 cucchiai di olio extravergine di oliva ESECUZIONE Impastare la farina con il liquore e lo zucchero e aggiungere il succo di limone con le chiare d’uova montate a neve. Una volta amalgamato il tutto prelevare il composto a cucchiaiate e disporle su un tegame da forno con il fondo leggermente unto e spruzzato di farina. Mandare al forno per poco meno di mezz’ora a 180°C.

ESECUZIONE Impastare la farina con il lievito, un bicchiere di latte caldo, 25 gr di burro sciolto e 1 cucchiaio di zucchero; formare un panetto e lasciarlo lievitare. Riprenderlo dopo circa mezz’ora e ammorbidirlo con un altro bicchiere di latte caldo, lo zucchero rimasto, 25 gr di burro sciolto e il cucchiaio di semi di anice e un pizzico di sale. Lavorare l’impasto per renderlo morbido (se occorre aggiungere altra farina). Farlo lievitare una seconda volta e quindi stendere la pasta su un tegame da forno dopo averlo unto di olio e spolverato di farina. Cuocere per circa mezz’ora al forno a 200°C.

FRITTELLE

INGREDIENTI - 250 gr di farina - 1 tazza di acqua - 2 arance - 50 gr di strutto - 2 cucchiai di semi di anici - sale e olio extravergine di oliva q.b. - 4 cucchiai di zucchero ESECUZIONE Mescolare la farina con acqua, strutto, semi di anice e la grattatura delle bucce delle arance. Ottenuto un impasto molto morbido confezionare le frittelle che andranno fritte nell’olio extravergine di oliva e poi servirle dopo averle insaporite con lo zucchero.

BIBLIOGRAFIA Castellani Franco, Le ghiotte erbe - Cingoli 2006 Ceccantini G., Filippi F. e Prati A, Cent’erbe - Fiesole 1996 Grey-Wilson Christine, Erbe per la salute e per la tavola - Garzanati1988 Guarnaschelli Gotti Marco, Grande enciclopedia della gastronomia - Milano 2008 Rapaggi Maria Luisa, Erborare cucinare - Edagricole Bologna 1995

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della vita


...Il libro

Leggende del Fermano

Si è soliti pensare che ciò chiamiamo confine sia una linea mentale tracciata sulla terra. Qualcosa che il raziocinio umano pone, arbitrariamente, per distinguere un luogo da un altro.

Tuttavia, essere fisicamente in un luogo e non in un altro incide in modo profondo su chi vi si trova – e questo non dipende dalla linea immaginifica che la mente suppone, bensì dal luogo in sé, dal dato ontologico di quel luogo, da ciò che esso significa a prescindere dalla categorizzazione che ne facciamo. Quando chiarifichiamo questa accezione forte di luogo, il concetto di confine cambia radicalmente: esso non appare più come una linea mentale tracciata sulla terra, ma al contrario come una caratteristica terrestre riconosciuta dalla mente. Il confine, in altre parole, è ciò che scaturisce dall’essenza di una terra, e questa essenza è formata dalle molteplici e complesse coordinate antropologiche, geofisiche, storiche e linguistiche connesse con un determinato territorio. Quindi, i confini non si inventano: si riconoscono. Si fondano per peculiari motivi e – per motivi opposti – si contestano. Ma derubricarli a un mero ente di ragione significa perdere un quid importante dell’essere umano. Adolfo Leoni, nel suo testo, parte da qui: dall’ascolto interrogante nei confronti di quel prezioso quid dell’essere umano che si rivela nel riconoscimento di un confine. Perché quello che in questo libro è individuata tra i Monti Sibillini e l’Adriatico, tra il corso del fiume Chienti e quello del Tronto, non è un quadrilatero casuale o reso tale soltanto dalla morfologia geografica. È un luogo nel quale vivere significa qualcosa di particolare. È un luogo che possiamo riconoscere come tale per la ricchezza umana che al suo interno si è sviluppata. È un luogo identitario. Adolfo Leoni conduce invita il lettore in una piacevole passeggiata che potrà rivelare, a chi abbia la cura di seguirlo, gli aspetti più incantevoli di questo luogo. Quello che il primo dei testi del volume chiama “Terra di Marca” corrisponde concettualmente a ciò che Giovannino Guareschi, a suo tempo, aveva definito “Mondo Piccolo”. Quello descritto da Guareschi non era un ambiente casuale, ma un posto dove accadevano “incredibili favole vere”, come egli scrive. L’orizzonte paesano, campestre – provinciale, potremmo dire – entro il quale Peppone e Don Camillo svolgono le loro avventure, non è per Guareschi una semplice scenografia narrativa, quanto piuttosto la fondamentale coordinata ermeneutica delle vicende: Peppone e Don Camillo, cioè, non vivono semplicemente nella Bassa: più profondamente, ne sono la manifestazione.

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il Gusto...

Non è infatti l’elegia il tono fondamentale di questi testi di Leoni, quanto piuttosto la meraviglia. La meraviglia per qualcosa che, per sua stessa natura, regge all’impatto del globalizzante annullamento dei confini. La meraviglia di fronte alla prova di resilienza che le storie manifestano nei confronti della forza dell’oblio. L’autore lo dichiara esplicitamente e con fierezza: “Ho una sola arma: il ricordo” (p. 188).

Adolfo Leoni, con le storie che propone in questo suo testo, fa sua la concezione di Guareschi, e la rilancia. Con una differenza decisiva, tuttavia (differenza che non dipende dalle ovvie distanze tra la Bassa e la Marca): nel primo decennio del XXI secolo, mentre Leoni scrive e racconta, “Mondi Piccoli” nell’accezione di Guareschi non ne esistono più. E un altro scrittore italiano, Pier Paolo Pasolini, ne avrebbe cantato la tragica cancellazione. La connessione telematica su scala totale, la politica-economia planetaria, gli organi informativi illimitati, il tramonto irreversibile delle attività rurali circoscritte: tutto ciò origina quell’inaudito fenomeno che ormai da parecchi anni si definisce con il neologismo di “globalizzazione”. Le leggende qui narrate da Leoni sono quelle di un aedo pasoliniano che, osservando le rovine della propria civiltà, intona le storie antiche che l’hanno resa viva. E che tale possono renderla ancora.

Con quest’arma, Leoni ferisce il tempo e ne sparge il sangue, con la penna, sulle sue pagine. E nel sangue del tempo, come in mistiche macchie di Roschach, il lettore potrà riconoscere storie in apparenza lontane ma che in realtà gli appartengono, archetipicamente depositate in un antro della memoria più antico e più profondo di ogni ricordo e percezione. Le storie dei Monaci che, “con le loro mani ma con la forza di Dio”, bonificarono, organizzarono, curarono le paludi e le rocce originando in una specie di miracolo lietamente sudato quelli che più tardi sarebbero stati i nuclei abitativi della Marca; le storie dei Cavalieri che attraversano queste terre con un giuramento nel cuore: la fedeltà a ciò che li trascende; le storie di persone ordinarie e straordinarie: pittori, vescovi, guerrieri, pastai; le storie di presenze incredibili, verissime nella loro assenza, come quella dell’Abbatacciu o del Lupo Mannaro; le storie eroiche dell’Insorgenza contro l’invasore, a Castel Clementino; la storia che celò un tesoro templare a Rapagnano; le storie incantate di Cerreto e del mandorlo di Amandola; le storie epiche del Guerrin Meschino e del Principe Pesce e quella, non meno mitica per chi la narra, del riprendere a suonare la tromba, dopo anni di silenzio musicale. Storie che hanno lo stesso sapore delle castagne dei Sibillini, come quella della muta dell’Ambro; o storie intrise di salsedine sangiorgese come quella della “tromba marina”. Storie. Anzi, leggende. Le quali non sono storie di invenzione, bensì storie più vere dei resoconti, perché indipendenti dalla inventio di chi scrive, in quanto direttamente sgorganti dalla fonte della tradizione. A tale fonte Leoni riempie le bisacce con le quali abbevera i lettori di questo libro.


...Il libro Così come i confini non sono mere linee mentali sulla terra, allo stesso le leggende non sono fantasticherie create da chi scrive. Sono bensì il frutto dell’auscultazione di un battito nelle caverne delle epoche, dove pulsa la memoria collettiva che chiamiamo tradizione. È per questo preciso motivo che l’autore – il quale per lavoro, essendo giornalista, racconta gli accadimenti – ha deciso qui di far parlare la sua più profonda anima di scrittore e narratore, dando voce a storie che non hanno “riscontri”, “documentazioni”, “agenzie”. Qui vengono intervistati uomini fuori dal perimetro della vita – i morti – affinché sia possibile parlare di qualcosa di non-contingente, qualcosa che riguardi anche i non-ancora nati. Cucendo antiche leggende l’autore innalza la sua personalissima insorgenza contro un’Europa senza più confini e ridotta al lampo del cronachistico. Cucendo antiche leggende, l’autore dà forma alla propria “rivolta contro il Mondo Moderno”.

bane e campestri. Ecco dunque il perché delle leggende: perché in esse riverbera lo spirito della Terra di Marca.

Lo dice egli stesso in un testo vibrante del volume, Tu ed Io: “Quanto più tu dirai: spread; tanto più io guarderò i dipinti di Piero della Francesca. Quanto più tu dirai: loft; tanto più io avrò amore per la casa di pietra quadrata. Quanto più tu dirai: BCE; tanto più io indicherò La Madonna dell’Umiltà del Ghissi […]. Quanto più tu indicherai il saluto dei politici; tanto più io leggerò i silenzi di Pound […]” (p. 211). Alla contingenza dell’epoca, l’autore contrappone lo spirito del tempo, lo Zeitgeist, volto complementare di quel genius loci che emerge dalla corrispondenza con la Terra di Marca. Perché tornare pasolinianamente a parlare di un Mondo Piccolo significa per l’autore proporre un’alternativa antropologica fondamentale, che oppone all’economia globalizzata quella che oggi si chiama “economia della felicità” – la quale si fonda imprescindibilmente sul riconoscimento e il rispetto dei confini, dei borghi, delle piccole realtà ur-

Ecco dunque perché Leoni, smessi gli abiti del cronista, cammina, nudo scrittore, tra i sentieri della Marca in ascolto dell' eco del passo delle Fate caprine che gli giunge da Occidente, e del canto delle Sirene, che gli giunge da Oriente: perché in quei suoni sono custoditi segreti preziosi, senza tempo, che nutrono il tempo.

Il poeta-drammaturgo William Butler Yeats era convinto che l’Indipendenza politica dell’Irlanda dipendesse dalla memoria del passato celtico della sua gente; così raccolse in un volume (Fairy and Folk Tales of the Irish Peasantry, Fiabe e racconti popolari della campagna d’Irlanda) le leggende gaeliche dell’Ovest d’Irlanda, credendo con ciò di essere utile alla causa non meno di quanto lo fossero politici e combattenti. La storia gli ha dato ragione. Il Ben Bulben, la montagna magica di Sligo, custodiva nelle sue antiche storie le ragioni in virtù delle quali essere Irlandesi poté trovare un senso storico compiuto. Come l’erba del Ben Bulben, così le ombre di Querciabella parlano, in questo testo, di antiche fiabe vere che vorrebbero sfiorare un’essenza, rivelare i moti dell’animo dell’uomo.

Il filosofo Martin Heidegger, in un breve testo dal titolo emblematico (Warum bleiben wir in der Provinz?, Perché restiamo in provincia?), rendendo ragione della sua scelta di non andare a insegnare nella capitale Berlin dov'era stato chiamato, per rimanere nel più campestre ambiente dell'Università di Freiburg e della Foresta Nera, teorizzava un concetto di grande importanza: il concetto di Bodenständigkeit. Esso indica un legame ontologico dell'uomo con la terra. Questo legame si fonda sul fatto che l'uomo, in ultima analisi, è temporalità.

In quanto tale, esso è connesso con gli uomini, le donne, i fatti, le imprese, le tragedie e i miracoli che, nel corso dei secoli, hanno reso possibile la sua situazione esistenziale quale essa è. Dunque, lo spazio in cui si trova non è contingente, facendo al contrario parte della sua stessa essenza. Essere connesso con le profondità del tempo significa peciò per Heidegger appartenere a un determinato spazio. Reciprocamente, essere fedele a un luogo determinato – il proprio luogo – permette di fondare la propria esistenza temporale, senza che essa sia ridotta a una semplice presenza a portata di mano (Vorhandenheit), ma sia bensì aperta alla trascendenza. Per questo motivo Heidegger non andò a Berlino. E possiamo rifarci ai suoi potenti pensieri per dire che la Bodenständigkeit è altresì la cifra ermeneutica di questi testi di Adolfo Leoni. Quando infatti affresca, tramite le guareschiane fiabe vere del suo libro, i confini ontologici della Terra di Marca, l’autore, implicitamente, incontra la trascendenza: heideggerianamente, il riconoscimento dei confini dello spazio spalanca i perimetri del tempo. Infatti, questa piacevole passeggiata tra i Sibillini e l'Adriatico non si conclude sulle cime né sulla riva, bensì in una sfida, quella che lo scrittore lancia a Dio, alla trascendenza, agli abissi dell’esserci; sino all'ammissione speranzosa secondo cui "sfidare Dio è sfigurare se stessi". Il che forse significa, per contrarium, che raffigurarsi Dio è ritrovare se stessi. Tra le pagine di Adolfo il lettore capirà come e perché, a spasso per la Terra di Marca, sia possibile, tra le trame labirintiche del tempo, raffigurarsi quella bellezza in cui (come volevano i Platonici) si cela la figura invisibile della natura del divino. Buona passeggiata! Cesare Catà,

Fermo, venerdì 16 Novembre 2012, giorno di Santa Margherita di Scozia

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della vita


...Natale

il CENONE di NATALE Giuseppe, ma tutti lo chiamavano Peppe, era proprio contento. Anche stavolta il clima natalizio gli stava riscaldando l'animo. Nei campi, le poche cose da fare erano già state fatte, e in casa era quasi tutto pronto per celebrare degnamente la nascita del bambin Gesù. Il grande ceppo, dal legno consistente, scelto con particolare cura dagli uomini della famiglia, già ardeva allegramente nel grande focolare. Si sarebbe lentamente consumato sino al 6 gennaio, rischiarando il buio stanzone della cucina per tutte le notti di quella lunga festività. Anche i vitigni, conservati in magazzino dalle potature del settembre precedente, erano pronti per finire nel fuoco. Un auspicio di prosperità per il nuovo anno oramai alle porte. Anche la signora Rosa non nascondeva la sua contentezza. Da poco aveva terminato di preparare i doni che il suo Giovanni avrebbe consegnati, quella stessa sera, a Teresa, la giovane promessa che abitava giù nelle Piane. Nella grande cesta era stata coricata, sapientemente suddivisa tanto da formare un gradevole disegno, la frutta più diversa. Si andava dalle castagne più grosse alle noci più piene, dalle arance profumate ai fichi secchi, all'uva passita spiccata per l'occasione dal soffitto del magazzeno. Accanto, trovavano posto il nero Pistringo, dolce tipico di Natale, e il mistrà, un potente liquore fatto in casa qualche tempo prima centellinandolo dall'alambicco, ed uno stagionato e aromatico vino cotto. La famiglia di Teresa avrebbe certamente gradito questo ben di Dio. E la giovane avrebbe guardato con sempre più impazienza il fondo della cesta per il regalo da lei senz'altro più desiderato: quell'anellino dorato, senza grandi pretese, su cui da mesi aveva posato gli occhi. Giuseppe e Rosa caricarono il somaro e Giovanni, il primo dei loro figli, partì. Genitori e fratelli lo avrebbero raggiunto più tardi, per l'ora della ricca cena.

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il Gusto...

Il padrone di casa, prima di sprangare l'uscio, doveva assolvere all'ultimo incarico di quella giornata. Il più importante. Entrato nella stalla, provvide ad una pulizia come mai veniva fatta in altri momenti. Risistemò l'abbeveratoio, portò altro fieno, prese ancora biada, buttò la paglia sporca…e si segnò dinnanzi all'immagine appesa alla parete di fondo del vecchio e curvo Sant'Antonio abate. Uscendo, salutò l'ultimo vitello nato. Era, tutto ciò, la sua ricchezza e la sua vita. A casa, dopo essersi lavato, mise i panni della festa. Poi, quando tutti erano pronti per prendere la strada delle Piane, diede l'ultima occhiata agli animali. Nella stalla il silenzio era totale. Solo alle 24 il miracolo si sarebbe compiuto. Ancora una volta. Come tutte le altre volte. Come da sempre. E quelle povere bestie, anch’esse

in festa, dinnanzi al loro gran cenone, avrebbero iniziato a…dialogare. Sì, proprio così: a dialogare. Perché, così si narrava nella nostra campagna, allo scoccare della mezzanotte santa, in concomitanza con la memoria tangibile della nascita divina, le mucche, i vitelli, i buoi, gli asini e i cavalli iniziavano a parlare tra di loro. E forse, i più anziani narravano agli ultimi venuti come certi loro antenati avessero avuto il grande onore di scaldare in una spoglia mangiatoia il piccolo Signore del mondo nato da pochi istanti. Giuseppe, raccontando questa storia all'ultimo dei suo figli, un poco ci rideva su. Però da cinquant'anni a questa parte mai s'era permesso di entrare nella stalla dopo quell'orario. Non era stata certamente la paura a trattenerlo. Non voleva rompere l'incantesimo di quella favola che lo accompagnava sin da piccino. Eppoi... se fosse stato tutto vero? Adolfo Leoni


...Le Marche

...Natale

le MARCHE a MANTOVA di Nunzia Eleuteri

Vi chiederete: come mai un titolo così? Tutta colpa della mia grande passione per la Vostra terra! Già da bambino, quando a scuola si studiavano storia e geografia delle varie regioni, questo tratto di Italia mi aveva incuriosito, poi una zia, grande cuoca, mi parlò di certe olive ripiene che si preparavano da voi, fu un tarlo che mi seguì per molti anni fino a che non mi recai nelle Marche. Non capivo come si potesse farcire un’oliva, io che da padano avevo sempre visto riempire capponi, faraone e al massimo dei piccioni. La mia prima volta fu una visita alla città di Jesi per una rappresentazione al teatro Pergolesi, ospite da amici; fino ad allora conoscevo il Verdicchio nella famosa bottiglia ad anfora e lì incontrai la pienezza e la succulenza dei “Vincisgrassi”; scoprii che non era una familiare versione della lasagna alla bolognese, ma uno dei piatti principe della regione. Purtroppo me ne andai senza aver esaudito il sogno delle olive. Ritornai qualche anno dopo per la ragione “ Va dove ti porta il cuore”; le costanti presenze mi diedero modo di esplorare il territorio, soprattutto di sapere che mi trovavo nelle “Marche sporche”, mi trovavo nella città di Ascoli! Fu lì che assaggiai per la prima volta le olive fritte, lo stupore fu grande quanto il piacere di addentarle e scoprire gli infiniti sapori che con delicato equilibrio componevano questa geniale preparazione della grande cucina italiana, all’epoca poco conosciuta. La mia grande passione per l’arte culinaria mi impose di imparare a prepararle, l’incisione a molla della polpa dell’oliva per estrarne il nocciolo era pressoché un miracolo di ingegneria, per poi farcirla con il delicato ripieno. Sempre per la stessa passione, con il mio amico-socio Adriano Ansaldi, abbiamo fondato una scuola di cucina in un angolo della provincia di Mantova che per dolcezza delle sue colline, le Moreniche, potrebbe ricordare le Marche. Fu l’occasione per diffondere la cultura gastronomica e far conoscere il vostro meraviglioso territorio; così signore e signori che si sono avvicendati alla scuola di cucina “Residenza Paulonia” si sono trovati con un’oliva in mano ed uno spilucchino per imparare, con pazienza, il taglio di questo frutto creando un momento ludico e di divertente socialità. Ma, Residenza Paulonia, non si è fermata qui, ha continuato le sue lezioni di cucina marchigiana mantenendo fede a ricette tradizionali avute dai tanti amici conosciuti durante le vacanze a Grottammare o a vecchi libri trovati in loco. Ora anche l’enologia sta dando un grande contributo con vini di eccellenza e il recupero di vitigni autoctoni come il Pecorino e la Passerina e di recente il ritrovato vitigno di uve Grenache o Cannonau arrivato qui per transumanza e chiamato dai locali Bordò. Tempo fa mi fu affidata, dalla rivista “A Tavola” una rubrica di cultura gastronomica del territorio italiano, non mi parve vero di scrivere e raccontare della vostra meravigliosa terra e di scoprire una serie di prodotti che sono la chiave di lettura di una così ricca e nobile tradizione culinaria.

ASPETTARE IL NATALE SOGNANDO... IL 2013. Il Natale, la festa più bella dell'anno. Per i credenti è un'attesa che si concretizza, è l'immenso dono d'amore del Padre ai figli, è il Suo Spirito che si materializza in corpo, quel corpo che nasce, cresce e muore per poi donare l'immortalità. Ma per i non credenti? Perché anche per loro il Natale è la festa più bella? Perché è il momento finale comunque di un'attesa che ha la sua origine nel sogno, nel desiderio. Di un dono, di una cena, di inviti, di amici, di serenità. E il sogno è più grande di qualsiasi dimensione materiale alla quale siamo abituati. è uno sguardo che punta in alto, che vuole scorgere verità profonde per la vita... Natale è anche sogno, sì... è predisporsi all' accoglienza, alla generosità, alla pazienza; è famiglia, è riposo, è la tavola, è il rallentamento di un ritmo quotidiano faticoso e a volte insostenibile, è una sana noia magari davanti ad un camino acceso, è incontro di persone che avevi forse anche dimenticato, è affogare ogni problema in un bicchiere di spumante o affondare le dita in quel morbido panettone che pigramente ti invita, è spiluccare l'uva e segretamente sperare sia vero che "porti soldi", è ritrovarsi con gli amici per una tombola, per un tè che dia la sensazione di dare sollievo allo stomaco, è il sorriso della serenità diffusa, è la gioia dei bambini stracolmi di doni, è l'appagamento degli anziani nel vedere tutto ciò attorno a loro. È un momento di riflessione e comunque, per tutti, è un momento di speranza. La speranza che quel futuro, spesso troppo imminente e individuato nell'avvicinarsi di un nuovo anno e nel cambiare quel calendario ormai alla fine, sia diverso, sia quello che aspetti da anni, sia quello del coronamento di un sogno che insegui da tanto... Triste colui che non desidera, non spera e ha dimenticato cosa significhi sognare... A lui, da credente, la mia preghiera e, a lui da pagana, il mio augurio più grande, convinta che, per riuscire ancora a sperare nel futuro, occorra saper tornare a sognare. A noi tutti Buon Natale e sia un 2013 ricco di sogni che possano diventare, prima o poi, realtà!

Nunzia Eleuteri 9

della vita


...Natale

...Il libro

Un Poeta e un Gigante

I doni di Natale

Ci sono alimenti che accompagnano il Natale. I pani dolci ad esempio. “Restano protagonisti indiscussi della tavola natalizia - ha scritto Paolo Massobrio nel suo Adesso ‘diario della vita’ perché sono importanti simboli cristiani: Natale è ‘il giorno del pane’, inteso in senso materiale come il cibo promesso dalla rinascita della natura dopo il solstizio d’inverno, e in senso spirituale come panis angelicum, cioè l’ostia, il corpo di Cristo, nutrimento per la vita eterna”. Dopo i dolci, arriva la frutta secca, che simboleggia, sempre per Massobrio, i “mendicanti”. Le mandorle, i fichi secchi, le nocciole, uvetta e prugne “hanno rispettivamente il colore del saio dei quattro ordini mendicanti: domenicani, francescani, carmelitani e agostiniani”. Hanno un messaggio da darci: “Ringraziare Dio per i doni che ci concede e imparare a condividerli con chi è meno fortunato”.

Le piante di Natale

Molte tradizioni verdi legate al Natale e all’anno nuovo sovrappongono una lettura cristiana ad un originario significato magico: come il melograno, che già presso i Greci era simbolo di fertilità, piantato da Venere nell’isola di Cipro. Secondo i Celti bastava gettare qualche foglia d’agrifoglio addosso a belve feroci e cani rabbiosi per ammansirli all’istante; a Roma questo sempreverde era sacro al Dio Saturno e veniva utilizzato durante i Saturnali come simbolo di salute e felicità. Per i cristiani, invece, le sue foglie spinose simboleggiano la corona di spine mentre le bacche rosse rappresentano il sangue di Cristo nella Passione. Quanto al Ginepro, Greci e Romani ne bruciavano il legno odoroso come un incenso, anche per scacciare i serpenti, e il succo di foglie e bacche era considerato un toccasana contro i morsi delle vipere. Una simbologia che è stata mantenuta nella tradizione cristiana: il serpente è il diavolo, il ginepro è Gesù, e il succo delle bacche è la confessione. Da Adesso 2012

Colori a tavola

La tavola di Natale e delle feste adotta tre colori soprattutto. Si tratta del rosso, del verde e dell’oro. Il rosso come simbolo della passione, il verde come la speranza che si rinnova e non muore mai, l’oro è l’immagine della regalità e del valore della vita. Quale rametto di agrifoglio non disdice, anzi.

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il Gusto...

Ci sono attimi che rimangono impressi per la vita. Fotogrammi del nostro vivere. Ci accompagneranno per sempre. Una domenica, il lettone accogliente dei genitori, e un padre che recita, come può, una poesia in dialetto. …Tac-tac...tac-tac...tac-tac... e su le recchie ancora me lu rsento quistu remò de tacchi. Io li contavo... jeci… venti… cento… Non so se a quel padre venissero giù le lacrime. Al figlio sì. Un par de tacchi vassi è una poesia grandiosa, piena di malinconia e suggestioni. Piena d’amore. Una donna amata e sempre attesa, che s’annunciava sempre con il suo incedere. Quella donna che un giorno arriverà con scarpe basse, per non far rumore, per non destar echi... per chiudere una storia. Sarà l’ultimo giorno di una passione giovanile. La via non risuonerà più di quei passi. La poesia è stata scritta tanti anni fa da Agostino Scaloni da Montegiorgio. Un gigante, che usa il vernacolo per rendere più efficace ogni parola, il sentimento che porta dietro, l’immagine che colpisce cuore e mente. Scalpellino dell’anima. Se la prima immagine è di una domenica mattina consacrata alle rime dialettali, l’altra riguarda un luogo. E Agostino c’entra ancora. Per diverso tempo, proprio la domenica mattina dinanzi al “Caffè de Mimì” si radunava un drappello di persone. E lui c’era in mezzo. Poeta tra poeti, perché gli altri erano Antonio Angelelli (Ntuni de Tavarrò), Sesto Vita (Sesto de Rabbiò), Giovanni Capecci (Nannì de Capiccittu). Tiravano fuori dalle tasche fogli gualciti, ritagli di carta con su scritte a matita le rime dialettali. Si confrontavano. E il bambino guardava, attento, attratto, curioso. Scaloni era ed è Gustì de Ciriolu. La sua voce basso-baritonale sovrastava tutti. Era un piacere ascoltarlo. è un piacere sentirlo ancora oggi a 81 anni compiuti. Nei giorni scorsi è uscito l’ultimo suo libro. S’intitola Core de Muntijorgio. Lo ha curato Mario Liberati. è un compendio delle poesie di Gustì. Tante ne ha scritte. Né mancano alcuni racconti dove l’autore si rivela anche fecondo narratore. Anni fa Enzo e Fabio Sartori musicarono e interpretarono alcune sue liriche. Ne venne fuori un superbo album intitolato A la mia Terra. Un racconto poetico e musicale ricco di temi nostalgici e di affreschi buffi e paradossali del vivere anni ’50 - ’60 - ’70. La grande poesia di Agostino poggia sul ricordo, sulla riflessione. Chiama in causa il sentimento e i valori profondi. Le sue parole vibrano e fanno vibrare. Il suo mondo paesano, civico, comunitario ed anche agreste sembra passato. Ma egli non protesta. Agostino lo rivive e lo ripropone. Forse quel mondo aveva valori che potrebbero ancora aiutarci. Sabato otto dicembre dovevamo presentare il volume al teatro Alaleona di Montegiorgio. Tutti gli amici, i conoscenti, gli estimatori s’erano mobilitati per un pomeriggio di festa e uno spettacolo che si trasformava in un evento. Gustì ha avuto qualche problema di salute. Ci ha consigliati di andare avanti, di fare ugualmente. Invece abbiamo rinviato, attendiamo il suo ritorno. Chi mai potrà recitare sino in fondo un par de tacchi vassi? Solo lui. Finì cuscì. Li parbiti fucusi De quistu core Da quillu jornu fuli lenti e stracchi. Quantu tempu è passatu! Ma su le recchie, che me rconta l’ore Li parbiti e li passi, li rsento sempre… un par de tacchi vassi! Agostino ti aspettiamo. Adolfo Leoni


...Lapedona ...Spumanti

I VINI SPUMANTI L'elaborazione dei vini spumanti è regolamentata dalle norme comunitarie previste dal reg. CEE 822/87 e successive modificazioni.

di Francesco e Leonardo Seghetti Detto regolamento prende in considerazione tutti gli aspetti produttivi ed evidenzia che il vino spumante è caratterizzato, alla stappatura del recipiente, da uno sviluppo di anidride carbonica, proveniente esclusivamente dalla fermentazione e che, alla temperatura di 20°C, in recipienti chiusi, presenta una sovrappressione non inferiore a 3 bar dovuta alla stessa anidride carbonica. Il successivo regolamento CEE 1234-2007 prevede anche la tipologia: “ottenuto mediante aggiunta di anidride carbonica”. La normativa CEE attuale, rispetto alla citato reg. 822/87, distingue i vini spumanti in tre grandi categorie: • V.S.: vini spumanti; • V.S.Q.: vini spumanti di qualità; • V.S.Q.A.: vini spumanti di qualità del tipo aromatico. La citata legge fa presente che la sovrappressione deve essere di 3,0 bar per i V.S. mentre 3,5 bar per gli altri. La normativa, prende in considerazione anche la durata del periodo di elaborazione, che varia per ogni categoria di spumante. Gli spumanti aromatici, in Italia, possono essere prodotti solo a partire da specifici vitigni quali: Brachetto, Fresìa e Aleatico tra quelli a bacca rossa, mentre tra i vitigni a bacca bianca i più famosi ed importanti sono i Moscati, le Malvasie ed il Prosecco. La spumantistica italiana presenta una fisionomia del tutto particolare, non paragonabile a quella delle altre nazioni: la coltivazione di vitigni internazionali (Pinots e Chardonnay) destinati alla produzione di vini base spumante è maggiormente localizzata nella fascia collinare e pedemontana dell'Italia del nord, caratterizzata da climi temperato-freddi; è altrettanto normale però coltivarli anche nel centro e sud Italia. Come anticipato, in Italia si producono spumanti in tutte le aree viticole, pertanto è necessario percorrere la strada della tipicizzazione delle produzioni regionali, ricorrendo, dov’é possibile, all’impiego di vitigni autoctoni, dato che alcuni di questi hanno dimostrato potenzialità per rispondere alle aspettative spumantistiche. La produzione italiana di spumanti è prevalentemente rappresentata dall'Asti Spumante (Moscati) e dal Prosecco, ma non per questo vanno dimenticati tutti gli altri ottenuti da vitigni bianchi come Pinots, Chardonnay, Riesling, Verdicchio, Malvasie, o da vitigni neri quali Corvina e Rondinella (dalla loro mescolanza prende vita il famoso Recioto di Valpolicella), Brachetto o Marzemino, ed altri di importanza regionale. In ogni caso quando i disciplinari di produzione li prevedono possono avere l’indicazione IGP, DOC e DOCG.

La Regione Marche prevede diverse tipologie di spumanti a partire dalla zona di produzione del Verdicchio, con alla base il vino ottenuto dall’omonimo vitigno; la zona Picena con l’utilizzazione di vini base ottenuti da due vitigni autoctoni come la Passerina ed il Pecorino. Da qualche anno alcuni produttori si sono cimentati, anche con buon successo, nella produzione di spumanti rosè, ottenuti generalmente con le uve del vitigno Montepulciano d’Abruzzo. Gli spumanti vengono classificati anche in funzione del residuo zuccherino: • Brut, quando contiene al massimo 12 grammi per litro di zucchero con una tolleranza di più 3 grammi; • Extra-secco, quando contiene tra 12 e 17 grammi per litro di zucchero, con la stessa tolleranza di 3 grammi; • Secco, quando contiene tra 17 e 32 grammi per litro di zucchero, con la stessa tolleranza di 3 grammi; • Semi-secco, quando contiene da 32 a 50 grammi per litro di zucchero; • Dolce, quando contiene più di 50 grammi per litro di zucchero.

TECNOLOGIE DI PRODUZIONE Le tecnologie produttive di preparazione degli spumanti afferiscono alle seguenti metodologie: Per rifermentazione o “presa di spuma” in bottiglia; - metodo rustico o rurale; - metodo tradizionale o classico o Champenois; - metodo misto Marone Cinzano o transfert. Per rifermentazione o “presa di spuma” in grandi recipienti chiusi o Martinotti /Charmat; - ciclo rapido; - ciclo lungo, con sosta del vino in autoclave a contatto dei lieviti per un periodo di 9 - l2 mesi e più; Siamo prossimi alle festività Natalizie, e nonostante la crisi economica è bene non farsi mancare un brindisi augurale con uno spumante dal brut al dolce, in giusto abbinamento con le pietanze delle citate festività, magari prodotto nel nostro territorio con i vitigni tipici. I piccoli piaceri della nostra tradizione agroalimentare sono ciò che ci caratterizzano, non dimentichiamoli! AUGURI A TUTTI I LETTORI.

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della vita


...Federazione Cuochi Fermo

dr Emiliano Di Lullo e dr Danilo Ciafardoni dell'azienda Amadori, al centro Brigata di cucina e di sala. Alessandro Pazzaglia.

F.I.C. Ass.ne Cuochi della Provincia di Fermo via Legnano, 2 - 63018 Porto Sant’Elpidio tel. (+39) 330 650208

A cena con le carni bianche

Lo scopo dell’Associazione Cuochi della Provincia di Fermo è anche quello, se non soprattutto, di preparare incontri, alzare dibattiti, offrire spunti di rif lessione sul proprio settore. In modo speciale creare le condizioNon sono mancate domande di apbianca. Antipasto freddo: Composè ni di incontrare produttori e operaprofondimento e ulteriori spiegazioni. di Pagnottella di tacchino Amadori tori del mondo dell’agroalimentare. La serata è terminata come di conai profumi di questa terra; Antipasto Ogni tre mesi circa un appuntamensueto a tavola. Le parole spese caldo: Il meglio di una volta in fricasto di grande livello. Come quello ad nell’incontro sono diventate fatti consea. Per primi: Risotto alla crema di esempio del tre ottobre scorso. creti. Il menù ha privilegiato la carne petto di pollo campese allevato a La location è delle miglioterra e Stringozzi alla salri. A Lapedona bassa opesiccia di pollo Amadori. Il ra Il Giardino dei Cedri. è secondo ha riguardato il il locale che ha ospitato Concassè di pollo campel’incontro con l’azienda se allevato all’aperto. Amadori. Occasione per Per dessert si è preferito discutere di carni bianun golosissimo Millefoglie che, del loro valore nutrialla chantilly e fragoline tivo. di bosco. “I grandi pregi delle carni I vini serviti sono stati quelbianche” è stato il tema li dei Poderi La Collina: delle due relazioni svolte Chardonnay, Barbera vidal dr Emiliano Di Lullo e vace, Nebbiolo. dal dr Danilo Ciafardoni. Per digestivo non poteva Ad ascoltare un nutrito mancare la Distilleria Vargruppo di ristoratori e aminelli con i suoi insuperabili Dr Roberto Vespasiani, preside dell'Istituto Alberghiero di Sant'Elpidio a Mare ci dell’Associazione. prodotti.

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il Gusto...


...Federazione Cuochi Fermo

Comune di Torre San Patrizio

F.I.C. Ass.ne Cuochi della Provincia di Fermo via Legnano, 2 - 63018 Porto Sant’Elpidio tel. (+39) 330 650208

Se l’olio è insuperabile.

L’ EXTRA VERGINE DI OLIVA lo è di più

L'assessore Guglielmo Massucci, Alessandro Pazzaglia, il Prof. Leonardo Alessandro Pazzaglia, S.E. il Prefetto di Fermo Emilia Zarrilli, il Presidente della Seghetti Camera di Commercio di Fermo Graziano di Battista, il Sindaco di Torre San Patrizio Giuseppe Bellabarba, Fabrizio Ferracuti e il titolare del Ristodance Baladì Franco Santoni.

Lunedì 10 dicembre 2012 è stata la volta del Ristodance Baladì di Torre San Patrizio. Un locale che altre volte ha ospitato l’Associazione Cuochi della provincia di Fermo e i suoi amici ed estimatori. Il tema della serata ha riguardato l’olio. Esattamente: “L'Olio E.V.O. un prodigioso dono della natura, e grande opportunità per la nostra salute”. La relazione è stata svolta da un grande intenditore e conoscitore: il prof. Leonardo Seghetti già docente universitario e tra i più carismatici conoscitori dell'argomento. Anche in questa occasione, così come nelle altre serate promosse dall’associazione, è stata offerta ai partecipanti

la possibilità di un confronto diretto con un personaggio di grande calibro. Il relatore ha spiegato tutte le potenzialità dell’olio, dal suo valore nutritivo alle capacità curative. Le terre fermane sono ricche di cultivar specifiche, un patrimonio da valorizzare sempre di più. La cena seguente, che ha visto la partecipazione an-

che di diverse autorità istituzionali, ha proposto un menù valorizzato proprio dall’olio extravergine di oliva. Antipasti: Prosciutto, bruschetta e ricottina dei Sibillini, Cocottina di ceci al profumo di olio E.V.O. I primi sono stati contraddistinti dal Risotto al radicchio e taleggio, e dagli Strozzapreti agli asparagi e pancetta affumicata. Per secondo la proposta degli chef s’è indirizzata sullo Stinco di vitello al forno con patate. Proposti i Vini Firmanum: Falerio Pecorino DOC 2012 e Rosso Piceno DOC 2011. Il dessert ha visto la prevalenza dei Dolci caserecci accompagnati da Vino Cotto. Per digestivo i prodotti della Distilleria Varnelli.

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della vita


...Mela Rosa

di Ugo Bellesi La “mela rosa”, che in varie località delle Marche ed in particolare tra le province di Macerata e Fermo, si cerca di valorizzare dopo anni di oblio, fa parte della storia della nostra agricoltura. Un tempo le famiglie patriarcali che conducevano i terreni a mezzadria, o in proprietà, ne possedevano almeno una ventina per una caratteristica fondamentale: la mela rosa si poteva conservare per tutto l’inverno e fino alla primavera e quindi era una risorsa importante, anche perché, con il tempo, diventavano più profumate e più gustose. Non c’erano i frigoriferi (che, si è scoperto oggi, rovinano il frutto anziché conservarlo) per cui i contadini erano soliti raccogliere le mele rosa in cesti di vimini avvolti da tanta paglia per evitare le gelate e le insidie delle muffe e degli animali, e poi deposti all’aperto tra i rami degli alberi intorno all’aia. Altri invece sostengono che erano le vergare a conservare le mele rosa in cima all’armadio della sua camera da letto, sia per evitare che fossero oggetto delle ruberie dei ragazzi di famiglia, sia perché emanavano un profumo molto gradevole. Poi, mano a mano che maturavano, sempre la vergara le portava in tavola o le dava ai nipoti per la merenda di metà pomeriggio. A quel tempo non c’era il riscaldamento e le camere da letto erano gelide, anche se c’era l’accortezza di sistemare la camera del capofamiglia sopra la stalla per avere un minimo di conforto ma anche perché il vergare potesse sentire meglio se qualche malvivente si intrufolasse per rubare qualche capo di bestiame. Non solo quella camera era gelida ma era anche ventilata perché gli infissi non erano come quelli di oggi ma gli spifferi si insinuavano da ogni parte ed anche i vetri erano sottilissimi. Un tempo con le mele rosa (ma anche con le altre) si preparava anche il sidro che, specie nelle zone di montagna dove l’uva non riusciva mai a giungere a maturazione, sostituiva (in qualche modo) il vino. Le mele venivano schiacciate con un particolare attrezzo e dall’impasto che se ne ricavava usciva abbastanza liquido da portare a fermentazione e poi da bere, quando non c’era di meglio. Ma la mela rosa serviva soprattutto per preparare la marmellata. Infatti sbucciate e fatte a pezzi venivano messe a bollire con il vino cotto (e quindi non c’era bisogno di

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il Gusto...

aggiungere zucchero, se non in minima quantità). E anche questa marmellata poteva servire sia per la merenda dei bambini che, in occasione di qualche ricorrenza, per preparare le crostate. Un tempo la mela rosa era tanto ricercata che entrava a pieno titolo nel contratto di mezzadria perché i proprietari del terreno ne pretendevano una certa quantità. Infatti anche nelle case borghesi si era soliti consumare la mela rosa, sia cruda a fine pasto dei mesi invernali, quando non c’era altra frutta, oppure cotta al forno. Per i buongustai si preferiva prepararla in tegame lessandola nel vino con aggiunta di chiodi di garofano, buccia di limone e cannella.

Ma perché si chiama “mela rosa”? Non certo per il colore rosso che compare solo dalla parte in cui il frutto è esposto al sole mentre per il resto è gialla o verdognola, ma soprattutto perché il suo profumo ricorda quello della rosa. Profumo dovuto alla molecola aromatica detta geraniolo che si trova nel geranio come nella citronella e nella rosa, come si legge nel volume “La mela rosa dei monti azzurri” edito dalla Comunita montana di San Ginesio. Le proprietà organolettiche sono note a tutti ma non tutti sanno che la mela rosa è ricca di minerali come il potassio, calcio, magnesio, acido fosforico, pectine, vitamine, fenoli e polifenoli oltre a betacarotene e tannini. Inoltre la presenza di fibre contribuisce ad eliminare di grassi, proteine e zuccheri assorbiti in eccesso, regolando di conseguenza i livelli del colesterolo. Tutto questo conferma il vecchio adagio dei nostri nonni: “Una mela al giorno leva il medico di torno…” Tra l’altro sono proprio i medici che consigliano di ridurre il consumo di grassi e di carni per aumentare quello di frutta e verdura. Ma attenzione perché la frutta non a chilometro zero, cioè quella che viene da lontano (che percorre chilometri in autostrada) spesso è conservata per settimane in celle frigorifere e quando occorre metterla in vendita si ricorre all’etilene per accelerare la maturazione.


...Mela Rosa

...Stella di Natale

LA PIANTA DI STAGIONE Il che è consentito ma comporta un peggioramento organolettico della frutta soprattutto per quanto riguarda gli zuccheri. Ecco perché allora spesso a tavola si sente dire: “Ma questa frutta non ha alcun sapore, o almeno non ha quello che conoscevo un tempo…” Meglio quindi consumare la mela rosa che “rifiuta il frigorifero” in quanto in poco tempo vi marcisce. Va anche detto che la mela rosa contiene acido gallo tannico, che combatte la dissenteria (ecco perché le nostre nonne davano ai bambini una certa dose di mele grattugiate al giorno quando avevano la diarrea infantile) perché provoca la secrezione di un enzima che elimina i batteri intestinali. La mela rosa ha anche un alto contenuto di vitamina C mentre nei semi e nella buccia troviamo la pectina che, insieme all’acido malico e all’acido tannico ha un alto potere astringente. Importante è anche la presenza della vitamina B6 che favorisce l’assorbimento delle proteine e combatte le infezioni. Ma senza addentrarci oltre in disquisizioni mediche è preferibile andare al concreto ricordando l’importanza dell’utilizzo della mela rosa in cucina: sia cruda nelle insalate sia cotta con le verze che con cipolla e cavolo cappuccio. Ma le casalinghe della zona pedemontana sono riuscite a preparare ottimi piatti con le mele rosa abbinate alla cacciagione (specie il cinghiale), al maiale, con i brasati o con le bistecche, ma anche con gli animali da cortile. Qualche ristoratore prepara piatti anche a base di mele rosa e anguilla o salmone. Capita quindi a proposito la citazione di alcune ricette: frittelle di mele, mele al forno, mele fritte, faraona alle mele, lonza alle mele, salsa di mele, torta di mele, frittata di mele, mele sciroppate, sciroppo di mele, gelatina di mele, pasta di mela, composta di mele, liquore con semi di mela.

L' Euphorbia Pulcherrima o Poinsettia, comunemente conosciuta come Stella di Natale, si distingue per la caratteristica rosetta di brattee, false foglie scarlatte simili a fiori e disposte a stella che crescono in cima ai rami con foglie verdi lobate e circondano i fiorellini piuttosto insignificanti di color giallo crema. Il colore e la forma di questo arbusto sono autentici, di una bellezza classica e senza tempo: dal rosso tipico al più trendy color salmone, dal fuxia sfumato al rosa bordato di bianco, dal rosso scuro screziato di crema al giallo limone; di taglia mini o midi, stelofiore, pianta o alberello, addirittura ibridata con la rosa (Stella Winter). Grazie alla loro versatilità le Poinsettie offrono infinite possibilità di design e personalizzazione lasciando ampio spazio alla creatività. L'ultima moda è di usarla come fiori recisi e in vivaci centrotavola. Dato che gli steli contengono una vitale linfa lattiginosa, per allungare la vita, è necessario cauterizzare il fusto tenendolo un attimo sulla fiamma di una candela o bagnandolo pochi secondi in acqua bollente. L' Euphorbia Pulcherrima è il simbolo universale delle feste natalizie in tutta Europa; in Italia è importante come l'albero o il Presepe, in Polonia è tradizione decorare la tavola con composizione di stelle rosse o bianche con rami di pino e foglie adagiati in ceste di vimini, in Francia usano l' "étoile de Noel" per abbellire tutte le stanze di casa. Per quanto riguarda la tecnica colturale è facile far crescere la pianta e farla rifiorire. • In primavera, con luna crescente, accorciare decisamente gli steli fino a 10 cm dalla base e tenere quasi asciutta la composta lasciando per un mese la pianta in semi ombra a temperatura ambiente. • In seguito, bagnando il terriccio, la pianta comincia a vegetare e verso maggio si può rinvasare in terra fresca con un vaso non troppo grande per evitare che si sviluppino troppi steli ma pochi fiori e brattee. • Fino a settembre tenere in luogo luminoso, anche in esterno, non direttamente soleggiato, bagnando moderatamente e con fertilizzante ogni due settimana. Tagliare i rami in eccesso tenendo più o meno 5 steli per formare un robusto cespuglio. I getti tagliati, se trattati come talee, possono servire per moltiplicare la pianta. • In autunno-inverno, esponendo la pianta a luce piena e annaffiando poco, pian piano compariranno le caratteristiche foglioline rosse e i fiori gialli. Le Poinsettie possono essere soggette a ingiallimento e caduta delle foglie provocati da correnti d'aria fredda o da aria troppo viziata. Spostare quindi in posizione più favorevole. La decolorazione delle bratte e delle foglie è dovuta all'eccesso d'acqua che fa marcire le radici. Lasciare asciugare la composta tra una annaffiatura e l'altra . L'afide verde attacca in colonie i germogli e provoca l'accartocciamento delle foglie. Spruzzare in tal caso un insetticida specifico efficace anche per la cocciniglia bruna che spesso si attacca sugli steli e sulle foglie formando delle escrescenze piatte. A volte si può manifestare una malattia fungina detta botrite che si evidenzia con macchie grigiastre sulle foglie e sui rami più bassi. Eliminare le parti infette e trattare la pianta con un fungicida adatto. Forse l'elenco di malattie e parassiti vi avrà scoraggiato nell'acquisto di questa pianta. Vorrei però consigliare di recarvi nel vostro negozio di fiducia e prenotare una bella Stella di Natale, di qualità, chiedendo tutte le spiegazioni in merito. Anche in questo momento di crisi lasciatevi attrarre dal rosso puro della Poinsettia che rappresenta l'incarnazione ottica della forza positiva, di una innata gioia di vivere, di una emozione intensa di intimità, calore, irresistibile energia, aria di festa, tavole imbandite e appetito. In fondo anche un fiore o una pianta possono contribuire a gratificarci, a farci star bene, come cibo dell'anima infondendoci fiducia ed ottimismo, stimolando i sensi, i muscoli e il cuore. Parola di una umile fioraia. Paola Eleuteri "Papaveri e papere" Amandola

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della vita


Foto di Serafino Fioravanti

IL TARTUFO sublime profumo istr uzioni per l’uso

di Serafino Fioravanti Presidente ATT Sibillini (Associazione Tartufai - Tartuficoltori dei Sibillini) serafinofioravanti@libero.it Il nostro territorio, in ogni periodo dell’anno, ci propone diverse specie di tartufi con il loro irresistibile profumo. Consumiamoli freschi rispettando la stagionalità, al di fuori della quale sono in agguato le frodi, e lasciamo perdere i prodotti conservati quasi sempre “corretti” con aromi artificiali. In dicembre, mese generoso per gli amanti dei tartufi, sono disponibili contemporaneamente le tre specie più apprezzate di questi funghi ipogei: il bianco pregiato (Tuber magnatum), lo scorzone autunnale (Tuber uncinatum) ed il nero pregiato (Tuber melanosporum). Mentre per i primi due con il 31 di dicembre termina una stagione di raccolta con scarsa produzione e conseguenti quotazioni elevate a causa della siccità estiva, per il nero pregiato col primo del mese è iniziato il periodo di raccolta, che si protrarrà fino al 15 marzo; la stagione si presenta favorevole, prediligendo questa

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il Gusto...

specie un habitat fondamentalmente eliofilo e xerofilo. Inoltre, Tuber melanosporum viene coltivato con ottimi risultati, in particolare nell’area dei Sibillini, dove la tartuficoltura riesce a sopperire con una produzione di qualità alla progressiva scomparsa delle tartufaie spontanee.

Scelta del tartufo

Il tartufo è un prodotto di pregio e costoso, conviene quindi sceglierlo bene al momento dell’acquisto, procedendo ad un attento esame visivo, tattile ed olfattivo. In linea di massima, il migliore è quello fresco di raccolta, sodo, compatto, tondeggiante, con superficie regolare, maturo al punto giusto, intensamente profumato, con aroma tipico della specie. Quest’ultimo è indubbiamente l’aspetto più importante, in quanto il tartufo è principalmente profumo ed ogni specie ha caratteristiche olfattive specifiche:

Tuber uncinatum - Scorzone autunnale

Tuber magnatum: aroma fragrante, intenso, persistente, leggermente e piacevolmente agliaceo, con sentori di fieno, di miele, di formaggio fermentato e di spezie dolci; Tuber melanosporum: profumo dolce, fruttato (fragola), gradevole, armoniosamente intenso, tipico; Tuber uncinatum: profumo leggero, gradevole, fungino (porcino e prataiolo), con sentori di nocciola.


...Il tartufo

Tuber magnatum

Conservazione del tartufo

è opportuno consumare il tartufo appena raccolto, in quanto l’intensità del suo profumo diminuisce progressivamente col passare dei giorni. La sua eventuale conservazione, ovviamente per brevi periodi (10-15 gg.), va fatta in frigorifero, con il velo di terra che lo ricopre, avvolto in carta assorbente e riposto in un vaso di vetro chiuso ermeticamente. è importante che la carta venga sostituita spesso, al fine di eliminare l’umidità rilasciata dal tartufo che potrebbe favorirne il deterioramento.

Pulizia del tartufo

Il tartufo va pulito al momento dell’uso, con uno spazzolino, sotto l’acqua corrente, lavandolo a fondo senza paura, il suo aroma verrà protetto dal peridio impermeabile.

Cesto di Tuber melanosporum

Tuber melanosporum

Il tartufo in cucina

I migliori risultati si ottengono realizzando piatti semplici, nei quali i tartufi sono i protagonisti, con pochi ingredienti e soprattutto senza eccessi di altri aromi o spezie. I tartufi bianchi si consumano rigorosamente crudi (l’alta temperatura ne distruggerebbe l’aroma), tagliati a fette sottili con l’apposito mandolino e disposti sopra le pietanze come finitura delle stesse. La massima espressione aromatica si ottiene in abbinamento con grassi di origine animale, in particolare con il burro; eccellente risulta il loro abbinamento con brodo di cappone o di gallina, con crema di latte, con formaggi fusi o stagionati e con le uova. I tartufi neri possono essere consumati sia crudi che cotti. I loro composti aromatici non sono termolabili, quindi possono integrarsi a pieno nella preparazione culinaria, qualunque tecnica di cottura venga utilizzata: salto, stufatura, fàrcia o altro. Essi prediligono le preparazioni a base di olio extravergine di oliva e di grassi di maiale stagionati, come pancetta e guanciale. Specialmente con i primi piatti, si può esaltare la loro intensità olfattiva con la mantecatura. I tartufi neri non vanno affettati, ma grattugiati e amalgamati nella preparazione, che, alla fine, può essere decorata con pezzetti di tartufo tagliati a Julienne o a fiammifero.

Serafino Fioravanti nella ricerca del tartufo

Frodi, beffe e aromi chimici.

Siccome il tartufo suscita grande interesse e si presenta come un prodotto alla moda e desiderabile, intorno ad esso prolificano le frodi e gli inganni finalizzati al facile guadagno, come l’illecito impiego di prodotti di sintesi per aromatizzare tartufi non ancora maturi, di scarsa qualità o di specie con profumo scarso o nullo, spesso di provenienza estera e dei quali è vietata la commercializzazione. Inoltre una vera “beffa legalizzata” (in quanto consentita dalla legge) è l’utilizzo degli aromi di sintesi nei cosiddetti prodotti “al tartufo” o “tartufati” (olio, burro, sughi, salse, paté), nei quali il contenuto di tartufo è minimo o del tutto assente; con una normativa diversa essi dovrebbero chiamarsi “al bismetiltiometano”, sostanza prodotta chimicamente come derivato del petrolio, che dà l’aroma di tartufo, del bianco in particolare. Occhio quindi all’etichetta: se c’è la parola “aroma”, il profumo è artificiale. (L’Associazione che presiedo da sempre si adopera per diffondere la conoscenza ed il corretto uso in cucina del vero tartufo e, nel contempo, per smascherare le contraffazioni e le “beffe legalizzate” di prodotti che niente hanno a che vedere con questa eccellenza gastronomica del nostro territorio.) BIBLIOGRAFIA C. MODESTI, I tartufi in cucina, HALLEY EDITRICE SRL, Matelica 2007 A. TOCCI , Tartufo: il profumo del piacere, Ali&no editrice, Perugia 2004 L. et G. RIOUSSET, G.CHEVALIER, M.C. BARDET, Truffes d’Europe et de Chine, INRA, Paris 2001 P. SOURZAT, La truffe, Aubanel, Genève (Suisse) 2005

Risotto con pesce e scorzone

Tagliatelle con Tuber magnatum

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della vita


...Ai fornelli

Carpaccio di Marchigiana al cuore di frutta secca con petali di formaggio di Fossa, riduzione di vino cotto e mela disidratata Lo chef Mauro Michetti Nato a Shaffausen (Svizzera) il 19/09/1969, ha frequentato dal 1983 al 1988 l’istituto alberghiero di San Benedetto del Tronto(A.P.) dove ha conseguito il diploma di qualifica come addetto ai servizi alberghieri di cucina e il diploma di maturità professionale come tecnico delle attività turistiche alberghiere. Fin dall’età di 14 anni ha lavorato in diverse strutture ristorative ed alberghiere in Italia e all’estero, frequentando numerosi corsi di aggiornamento con maestri di livello internazionale. Dal 1999 è entrato a far parte come membro ufficiale del pluridecorato Team Regionale cuochi Marche capitanato dal maestro di cucina Ottaviano Pellini; partecipa a diverse manifestazioni gastronomiche regionali, nazionali ed internazionali. Dal 2002 ad oggi docente tecnico pratico di cucina , della Ristorazione alberghiera e coordinatore didattico presso l’IPSSAR (Istituto Professionale di Stato per i servizi alberghieri e della ristorazione) di San Benedetto del Tronto. Chef, consulente di cucina e pasticceria presso aziende alberghiere e ristorative, collabora come docente con numerosi enti locali per la formazione, alla realizzazione di corsi di pasticceria,corsi artistici (sculture in ghiaccio, margarina, zucchero, vegetali, etc) corsi e cucina moderna nel rispetto delle tradizioni; consigliere della federazione italiana cuochi di Ascoli Piceno.

Il galeone di pane

Medaglia d’oro agli internazionali di cucina di Massa Carrara Interamente fatto con pasta di pane rappresenta una serie di tecniche e impasti fatti con il pane artistico e realizzato dal Maestro di cucina ed Executive Chef Mauro Michetti in occasione del concorso internazionale d’Italia di cucina con il Team Regionale Cuochi Marche di cui lo stesso Michetti è membro ufficiale.

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il Gusto...

Ingredienti per 10 pax • filetto di chinina o fiocco di punta di manzo gr 600 • frutta secca gr 200 (fichi,noci ,datteri,pistacchi, mandorle,uvetta passita) • vino cotto dl 0,5 • olio extravergine di oliva dl 1,5 • sale bilanciato con 125 gr di sale e 100 gr di zucchero • formaggio pecorino di fossa semi stagionato gr 200 • misticanza di insalatine gr 300 • pinoli q.b. Procedimento Aprire, un filetto di razza Marchigiana già pulito, a mo’ di libro nel verso della lunghezza,introdurvi all’interno la frutta secca tagliata grossolanamente. Arrotolare bene facendo attenzione che la frutta non esca, passarlo nel sale bilanciato chiudere nella carta forno e legare bene con lo spago da cucina; sotto vuotare e abbattere a -18°C. Su di un piatto accomodare un' insalatina possibilmente colorata (radicchio, rucola, carote, insalata riccia, poca mela verde qualche fiore di rosmarino o altro commestibile ecc..), togliere il carpaccio dall’abbattitore e lasciarlo stemperare circa 10 minuti, quindi svestirlo dello spago e della carta forno e affettare dello spessore di circa 2 mm; adagiare sopra le insalatine 2 fettine sottili di filetto; salare e pepare in giusta misura, condire con una emulsione di vino cotto e olio extravergine di oliva, finire con pochi pinoli, uvetta sultanina, delle lamelle sottili di pecorino di fossa semi stagionato e mele rosa disidratate.


...Ai fornelli

Tortino ai porcini dei Sibillini, crema di zucca , tartufo di Roccafluvione e scaglie di parmigiano reggiano Coniglio alle erbette ripieno con carciofi su giardinetto di verdure, la sua demi-glace, soufflè con fagioli e castagne. Ingredienti per 6 persone

• coniglio kg 1,2 • erbette aromatiche (rosmarino, finocchietto, timo, pimpinella) • dadolata (cm 2 per 2) di patate gr 150 • Fette di guanciale stagionato gr 200 • Sedano, carote e cipolla per salsa q. b .circa gr 200 • Sale e pepe q.b. • Olio extravergine di oliva 1 dl • Carciofi puliti e tagliati a spicchi 4 • Aglio 1 spicchio • Vino bianco 2 dl • Per il giardinetto: sedano, carote, peperoni, melanzane, cipolle, funghi, zucchine tagliati a pezzi 4cm per 4 circa kg 1 • Per il soufflé di fagioli e castagne: gr 300 di besciamella (fatta con 30 gr di farina, 30 gr di burro, 250 gr di latte, sale e noce moscata) 3 uova, fagioli borlotti precotti gr 200, castagne pulite spellate e cotte gr 100, parmigiano grattugiato gr 80, sedano gr 40, cipolle gr 40, olio extravergine di oliva q.b.

Procedimento: Disossare un coniglio mettendo da parte la carcassa, aprirlo sopra un tagliere per carni bianche, salare e pepare e profumare con un trito di erbette aromatiche, appoggiare sopra la carne le fette di guanciale, e al centro mettere una dadolata di carciofi e patate precedentemente saltate in padella con aglio olio e rosmarino. Chiudere il coniglio come un rotolo passarlo su un trito di erbette aromatiche quindi avvolgerlo su un foglio di carta forno e legarlo con lo spago a mò di salame. Cuocere il coniglio così preparato al forno a 180° C insieme con poco olio, la sua carcassa, il sedano, la carota e la cipolla, lo spicchio d’aglio e il rosmarino; dopo una prima rosolatura di circa 10 minuti aggiungere il vino bianco e poco brodo di carne (circa 1 dl), continuare la cottura per circa 30-40 minuti (cottura al cuore 75° C). Togliere dal fuoco e lasciare raffreddare mentre il fondo di cottura sarà messo sul fuoco con poco brodo di carne e riportato a bollore, per circa 15 minuti quindi aggiustato con il sale e filtrato. Per il soufflè: in un tegame soffriggere in poco olio extravergine di oliva il sedano e la cipolla, aggiungere i fagioli passati, le castagne cotte e tritate grossolanamente il timo, cuocere a fiamma bassa per circa 15 minuti. Unire alla besciamella, 3 rossi d’uovo il parmigiano grattugiato, e il composto di fagioli e castagne ,alleggerire con 4 bianchi d’uovo montati a neve; introdurre il composto all’interno di tazzine di caffè precedentemente imburrate e infarinate. Cuocere al forno a 170° C per 15 minuti circa. Per il giardinetto di verdure: saltare le verdure in padella con poco olio ,aglio e rosmarino per pochi minuti,quindi passare al fornoa 170° C per 20-25 minuti circa. Finitura: mettere al centro del piatto il giardinetto di verdure, appoggiare sopra 2 medaglioni di coniglio bollenti, a fianco mettere il soufflé, salsare con la demi-glace di coniglio e decorare a piacere.

Ingredienti per 10 pax • ricotta vaccina gr 400 • patate gr 300 • funghi freschi porcini gr 300 • parmigiano grattugiato gr 150 • bianchi d’uovo gr 120 • prezzemolo q.b. • timo q.b. • zucca gialla gr 600 • panna da cucina dl 1 • cipolla gr 80 • aglio 1 spicchio • latte q.b. • olio extravergine di oliva 4 cl • sale e pepe q.b. • tartufo nero di Roccafluvione gr 80 • pasta al tartufo gr 40 Procedimento Cuocere in sottovuoto a 50% al forno a vapore a 85° C i funghi porcini tagliati a mirepoix precedentemente conditi con olio extravergine di oliva, 1 spicchio d’aglio già sbollentato nel latte, poco peperoncino a piacere e prezzemolo tritato, salare e pepare in giusta misura; cuocere le patate al vapore, passarle al setaccio fine; amalgamare alle patate i funghi incorporare il parmigiano grattugiato, i bianchi d’uovo, il timo, la ricotta, la pasta al tartufo e mescolare il tutto, correggere di sale. Introdurre la farcia così ottenuta all’interno di stampi siliconati formato mezza sfera; cuocere a 160° C al forno per circa 25-30 minuti, raffreddare e sformare. A parte preparare una crema di zucca mettendo a soffriggere nell’olio la cipolla, aggiungere la zucca tagliata a pezzi, lasciare cuocere aiutandosi con del brodo vegetale, regolare con sale; tirare fuori dal fuoco, aggiungere poca panna da cucina quindi passare al mixer. Comporre così il piatto, mettere sulla base la crema di zucca, porvi sopra il tortino di porcini e arricchire il tutto con delle lamelle di tartufo e parmigiano grattugiato; decorare con delle fettine di zucca disidratata al forno ventilato o statico a 90° C per circa 40 minuti.

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della vita


...Piatti della Tradizione

Ricette della Tradizione ZAMPITTI DI MAIALE, ORECCHIE, MUSITTU E COTICHE CON FINOCCHIO SELVATICO Ingredienti - varie parti di maiale: zampetti, cotiche, musetto, orecchie - finocchio selvatico - sale - pepe - vino bianco - aglio Preparazione In una pentola colma d'acqua fredda immergere gli zampetti, le orecchie, le cotiche e il musetto (il tutto ben pulito) e portare a cottura. Scolare, tagliare a grandi pezzi e mettere il tutto in una padella dove abbiamo già messo del finocchio selvatico tagliato fine, spicchi d'aglio, sale e pepe. Versare del vino e far cuocere a fuoco molto lento. Servire caldo.

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CROSTINI CON FEGATINI DI POLLO Ingredienti - fegatini di pollo - olio extra vergine di oliva - prezzemolo - cipolla - formaggio pecorino - un uovo Preparazione Cuocere i fegatini di pollo con: olio, prezzemolo, cipolla. Quando sono fermi (ossia non esce più sangue) si battono con un coltello e poi si rimettono a cuocere con lo stesso olio. Si aggiunge un po' di formaggio pecorino e un uovo. Quando il tutto si è raffermato, togliere dal fuoco e spalmare su fette di pane abbrustolite.

Gusto... Cucinaildel Monastero Corpus Domini di Loro Piceno

CONIGLIO IMPANATO Ingredienti - coniglio - farina - uova - pane grattugiato - sale - limone - olio extravergine di oliva Preparazione Prendere un coniglio lavarlo e farlo a pezzi. Passarlo con succo di limone, salarlo e farlo riposare un poco. Preparare in tre ciotole diverse: farina, uova sbattute salate e pane grattugiato. Prelevare il coniglio, asciugarlo e passarlo nella farina, poi nell'uovo e poi nel pane grattugiato. Battere bene con le mani il pezzo di coniglio per far aderire l'impanatura e far cadere le parti residue. Disporre i vari pezzi in una pirofila unta. Spruzzare sopra del succo di limone e olio. Informare. A metà cottura rivoltare i vari pezzi in modo che siano dorati da tutte le parti.


...Convento di Monte San Martino

Monastero di Monte San Martino

San Benedetto nella sua grande sapienza è stato il grande innovatore della vita monastica in occidente e si è occupato non solo della parte spirituale del monaco, ma della persona in “toto”.

...Monte San Martino

La Bellezza… di Monte San Martino Monte San Martino, ovvero un paese che sposa natura, arte, preghiera. In una parola: la Bellezza. In provincia di Macerata, ma saldamente legato al Fermano per storia e rapporti di lavoro, il piccolo paese premontano sembra una sentinella che si erge silenziosa sulla strada che dalla piana del fiume Tenna porta ad Amandola e ai Monti Sibillini.

Immagini tratte da: IL CIBO DELL'ANIMA "STORIE DI CLAUSURA" di Piero Cannizzaro

Insieme alla parte spirituale, liturgica e penitenziale dà sagge e precise indicazioni su come e quando dormire, regola l'orario in base alla stagione che lui considera basandosi sull'evento fondamentale del cristiano che è la Pasqua. Dice infatti per esempio nel capitolo VIII che riguarda gli uffici notturni: durante l'inverno, cioè al principio di novembre fino a Pasqua, secondo una ragionevole valutazione, la levata sia all'ottava ora della notte, perché si dorma un po' di più che metà della notte e i monaci si alzino a digestione compiuta. Da Pasqua invece fino al suddetto principio di novembre l'ora della levata si regoli in modo che all'Ufficio notturno seguano le Lodi da recitarsi al primo albeggiare. San Benedetto dà anche precise indicazioni per il cibo e le bevande nei capitoli 39 e 40. Dà una misura sia nel mangiare che nel bere che lui ritiene sufficiente; per esempio vi siano due vivande, una cotta e una cruda, a seconda delle esigenze dei fratelli, e due legumi e frutta. Egli consiglia la misura anche nel pane: una libbra. Però da buon padre, Benedetto, dopo aver detto tutto ciò, dà facoltà all'abate di modificare il “menù” o se i monaci hanno svolto un lavoro pesante possono avere una quantità maggiore di cibo o di bevande. Dice che il vino può traviare anche i “savi”, ma concede ai monaci di bere moderatamente per essere sempre sobri.

Una piccola deviazione sulla destra, ed eccoci arrivati. Il primo grande complesso è quello del monastero benedettino di Santa Caterina. Una vivace e folta comunità monastica continua l’osservanza della Regola di padre Benedetto da Norcia: preghiera e lavoro. Un punto d’attrazione per fedeli, turisti, comitive. Su, nel punto più in alto del cucuzzolo, invece, una piccola chiesa conserva grandi tesori. Sono i tre polittici dei fratelli Crivelli: due di Vittore, e uno di Carlo e Vittore (l’unico finora noto realizzato dai due fratelli insieme). Il tempio è arricchito da un polittico di Girolamo di Giovanni da Camerino e da un affresco di Vincenzo Pagani da Monterubbiano. Dal monastero alla chiesa dei dipinti è un susseguirsi di palazzi nobiliari specie quattro - cinquecenteschi. Quelli delle famiglie Giansanti, Palombi, Ricci, e Urbani. La struttura del paese è tipica dei centri medievali, con quattro porte castellane, alcune delle quali ribattezzate: Coccione, Delle Grazie, Parco Rimembranza e del Tornello. Lo sguardo spazia a 360 gradi: dalla catena dei Monti Azzurri al mare Adriatico, da Amandola a Fermo. Silenzio e pace sono le caratteristiche di questo borgo incantato. E, se volete gustare qualche piatto tipico, non mancano i locali per farlo. Anche la gola ha i suoi… diritti. Nunzia Eleuteri

Conclude nel capitolo 40 che i monaci non mormorino, siano sereni e non manchino del necessario perché la vita spirituale possa essere piena, gioiosa e beata nel Signore. Ciò a cui Benedetto tiene è che “nulla antepongano a Cristo” e vivano la vita amandosi e obbedendosi l'un l'altro, perché in tutto sia glorificato Dio (capitolo 72). Seguendo questo detto, per noi monache punto importante, lo spirito non sia appesantito dai cibi materiali che rendono pigri, svogliati e indolenti. Monache Benedettine di Monte San Martino

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della vita


...Bollicine

Il Gusto degli altri … La Franciacorta,

l’eleganza delle Bollicine Italiane!

di Stefano Isidori

Non è detto che è “bello e buono” solo quello che produciamo a casa nostra! L’Italia, la Nostra Nazione, ha un territorio affascinante, fecondo, proficuo, aiutato da condizioni climatiche che permettono di variegare un’offerta di prodotti agroalimentari che fanno invidia al resto del mondo e sono il nostro fiore all’occhiello che consente di aumentare di qualche punto il “PIL”! Zona soggetta alle condizioni mezzadrili fino al non lontano 1950; fillossera, guerre e soprattutto l’industrializzazione della vicina Brescia, hanno determinato la perdita del notevole patrimonio ampelografico locale. Vini un tempo rinomati, come si legge nel “Vigne e vino nel Medioevo: il modello della Franciacorta” di Gabriele Archetti (secoli X - XV), che descrive dettagliatamente vitigni, tecniche di coltivazione e di cantina, fino a stabilire i prezzi del vino nel periodo “altomedioevale”! Poi l’abbandono, la viticoltura fu solamente condotta per ottenere “vinelli”, per lo più rossi, da bere in famiglia, l’unica peculiarità era il “passito” ottenuto dal vitigno “Invernotto”: l’uva si lasciava appassire per consumarla in inverno, quella che avanzava si pigiava in primavera, sia per non buttarla via sia per ottenere un passato da centellinare nelle grandi occasioni.

Tanti territori eccellenti, tutti conosciuti e apprezzati! E oggi vi voglio raccontare la storia di uno di questi … la Franciacorta! Ci troviamo in Lombardia, in provincia di Brescia, nei territori morenici a sud del lago d’Iseo, o Sebino che dir si voglia. Il nome non deve ingannare, nulla c’entra con i nostri cugini d’Oltralpe. La Franciacorta si chiama così perché feudo delle potenti corti monastiche fondate dei monaci Cluniacensi, libere da pagamento delle “decime” al vescovo di Brescia, quinti “corti franche” o libere o, nel latino del tempo, Francae Curtae! Territorio benedetto da Dio prima e dall’uomo poi, che ha saputo sfruttare le peculiarità per creare un prodotto unico e irripetibile altrove, un dono della natura che in questo lembo di terra è ricco di “bollicine”! Notizie certe sui vini ricchi di bollicine in Franciacorta ci arrivano da Girolamo Conforti e dalla sua pubblicazione del 1570 “Libellus de vini mordaci”, dove racconta in dettaglio le tecniche e le caratteristiche di vini che “mordono” quando entrano in bocca! Ma la storia di questo territorio, un anfiteatro morenico formatosi durante le ultime glaciazioni ad opera del grande ghiacciaio disceso dalla Val Camonica che ritirandosi ha creato il lago d’Iseo e ha spinto le proprie morene a formare gli attuali cordoni collinari, è similare a tante regioni italiane. Sempre coltivata la vite e prodotto vino, come ci ricordano gli antichi classici, Plinio, Columella e Virgilio, la zona ha sopportato tante vicissitudine che ne hanno condizionato il risultato.

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il Gusto...

Si arriva così alla seconda metà del secolo scorso, impianti vecchi e fatiscenti, prodotti di dubbia qualità, senza nessuna aspettativa per il futuro. Sola la tenacia, la caparbietà e l’intuizione di alcuni personaggi, tra cui Franco Ziliani e Guido Berlucchi, Carlo Barboglio di Gaioncelli (per citarne alcuni) hanno fatto si che il territorio ritornasse all’antico splendore. All’inizio fu faticoso, in quel periodo nei territori limitrofi s’impiantavano uve rosse per preparare grandi vini, poi, trovata la strada fu tutta discesa: nel breve volgere di alcuni decenni la Franciacorta diventa il sinonimo di “bollicine italiane”! Con certezza si può affermare che l’antesignano della rinascita è stato Guido Berlucchi che, ereditato dal Conte Lana, suo prozio, un vigneto con annesso “maniero”, volle cercare di fare “economia” con l’eredità. Fu fortunato ad incontrare un giovane enologo dal nome di Franco Ziliani con il pallino delle bollicine. Erano gli anni ’50 dello scorso secolo, portarono in Franciacorta i vitigni adatti alla spumantizzazione, Chardonnay e varie tipologie di Pinot, le allevarono, raccolsero i frutti, li spumantizzarono … nel 1961 videro la luce le prime 3000 bottiglie di quello che diventerà nel futuro il Franciacorta Docg. A questi antesignani si avvicinarono subito altri; come ricordato un profeta, fu la Famiglia Barboglio. La signora Emanuela nel 1950, appena diciottenne, prende le redini dell’Azienda di famiglia alla scomparsa del padre. Ha la fortuna di essere amica di Guido Berlucchi che la consiglia e la invoglia a lavorare con gli spumanti, impianta Chardonnay e Pinot e inizia a produrne con il Metodo Martinotti (in autoclave) rientrando nel 1968 nella denominazione Franciacorta. Ma la lungimiranza della signora Emanuela esplode nel 1992, quando il Consorzio di Tutela lavora per il riconoscimento della Docg, accettò senza “batter ciglia” e per il “bene comune” che la denominazione fosse legata esclusivamente alla


...Bollicine spumantizzazione in bottiglia con il sistema denominato “Metodo Classico”. Con grandi sacrifici e investimenti smise le autoclavi e riorganizza la cantina per produrre con il metodo classico. Oggi l’Azienda si chiama “Il Mosnel”, antico toponimo di probabile origine celtica che significa “luogo pietroso” per via dei numerosi massi che coprivano i terreni e che i coloni hanno poi “ammassato” in alti mucchi per rendere coltivabili le terre. Ora la conduzione dell’Azienda è affidata ai figli della signora Emanuela, Lucia e Giulio, che hanno dato grande impulso all’impresa, concentrandosi sulla produzione di Spumanti elegantemente elaborati. Ampia la gamma di Franciacorta proposti, dal “brut” ottenuto da uve Chardonnay, Pinot bianco e nero, maturato sulle fecce per 18 mesi, al “saten” massima espressione di eleganza e vellutatezza con la più bassa sovrappressione di bollicine, al “rosé”, ottenuto vinificando in rosso il Pinot nero e successivamente assemblato alla Chardonnay elevato in barrique, fino al “Pas Dose”, senza aggiunta di dosaggio, il più secco, fragrante, adatto ad aprire un pasto! Poi le selezioni! Grandi e opulenti Franciacorta, tutti con il millesimo per certificare la bontà di quell’annata, tutti lungamente maturati sui lieviti, dai 36 ai 60 mesi, come solo i grandi prodotti si possono permettere! L’EBB, Franciacorta Millesimato, dedicato alla signora Emanuela Barboglio Barzanò, solo Chardonnay solo mosto fiore, vinificato in barrique e dopo la presa di spuma 36 mesi sui lieviti. Sfavillanti bollicine che rendono brillante il giallo paglierino carico, al naso è ampio con ricordi di frutti secchi e pan brioche, fiori gialli di mimosa e frutta a polpa gialla matura. Al gusto affascina per lo straordinario equilibrio tra morbidezza e freschezza che rende la beva lunga e piacevole.

Il “Parosè”, Franciacorta rosè Millesimato, la maggiore percentuale di Pinot nero vinificato in rosa (circa il 70%) arricchisce la complessità olfattiva con sentori di piccoli frutti rossi maturi impreziositi da note speziate e tostate. Avvolgente l’impatto gustativo con piacevolissima freschezza e persistenza. Il QdE, ossia “Questione di Etichetta”, Franciacorta Riserva, prodotto solamente nelle annate eccellenti e con etichette che arrivano da un concorso volto a valorizzare artisti più o meno noti che si mettono in gioco per impreziosire la bottiglia. I 60 mesi di maturazione sui lieviti lo rendono affascinate sia alla vista, con bollicine finissime e un colore che si avvicina al giallo oro, ma ancor di più l’olfatto dove le note di pasticceria secca ricca di burro si impreziosisce di crema pasticcera vanigliata e ancora frutti tropicali in confettura e bouquet di rose gialle. Grande avvolgenza al gusto, opulento e suntuoso al palato. Preziosi prodotti italiani! Per salutarvi, sperando di avervi messo curiosità, riporto a “massima” che l’Azienda scrive sulle etichette: “Il tempo e l’esperienza ci insegnano come trasformare le nostre uve in emozioni!”

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...Cinema e cibo

Arance di Natale di Eleonora Quintavalle

I punti fermi delle vacanze invernali sono l'arancia e Una poltrona per due (Trading Places, 1983), un classico della Vigilia natalizia. ANATRA ALL' ARANCIA

Il film si estende proprio nell'arco di tempo che precede e segue il Natale e ruota intorno a quattro personaggi: Billy Ray Valentine e Louis Winthorpe III, le cui vite vengono stravolte per scommessa, e i fratelli Duke, spietati e ricchissimi imprenditori. Il tutto prende corpo a partire da un interesse quasi morboso per i raccolti delle arance, le cui informazioni al riguardo saranno sfruttate per speculare sul prodotto di consumo che, in questo caso, è il succo d'arancia surgelato.

Gli ingredienti sono pochi e semplici da ottenere:

L'arancia, frutto dell'albero di arancio (o Citrus x Sinensis), è un antico ibrido tra il pompelmo ed il mandarino, ma da secoli cresce come specie autonoma. Sembra sia originario della Cina e del sud-est asiatico, importato successivamente in Europa nel X secolo dagli arabi. L'arancio è un albero che può arrivare fino a 12 metri, con foglie allungate, fiori candidi e frutti rotondi, la cui buccia, leggermente ruvida, è inizialmente verde. Prenderà il caratteristico colore arancione con la maturazione. La polpa interna è divisa in spicchi che contengono succo, il quale può essere giallo, rosso o arancione. Il periodo di raccolta va da ottobre a marzo per le arance più produttive. Ed è proprio di queste che si parla nel film. Il rapporto sul

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raccolto delle arance in possesso dei due protagonisti riporta infatti una buona disponibilità di arance fresche grazie al fatto che l'inverno rigido non ha creato troppi problemi ai produttori. Ed è proprio grazie a questo rapporto che Billy Ray e Louis riescono a battere i fratelli Duke nel gioco della Borsa. Il consumo dell'arancia è molto importante anche per l'organismo, in quanto ricca di vitamina C, fondamentale per il potenziamento delle difese immunitarie contro virus e batteri. Può essere consumata a spicchi, nelle spremute – come ci suggerisce lo stesso film – o come ingredienti nelle insalate. Viene utilizzata per preparare dolci, marmellate, bevande e liquori, frutta candita e gelatine. È spesso impiegata anche nella preparazione di secondi piatti, per ottenere un sapore agrodolce, in particolar modo nel famoso piatto natalizio dell'anatra all'arancia.

• 1 anatra • 3 arance • 50 g di burro • ½ bicchiere di Grand Marnier • 1 bicchiere di vino bianco Preparazione Inizialmente si dovrà far sciogliere il burro in una pentola e far rosolare ben benino l'anatra per qualche minuto su tutti i lati, aggiungendovi anche il vino bianco e un po' d'acqua. A questo punto andrà lasciata cuocere, a fiamma bassa e con il coperchio, per circa 45 minuti (60 minuti se l'anatra è molto grande). Salare a fine cottura. Nel frattempo bisognerà sbucciare un'arancia, la cui scorza - privata interamente della parte bianca - andrà tagliata a striscioline sottili. Le striscioline andranno messe in un pentolino e scottate con acqua bollente per circa 3 minuti, avendo poi cura di scolarle bene. Le altre due arance devono essere spremute e il succo aggiunto, assieme alle striscioline, al fondo di cottura dell'anatra. Far ridurre un po' il succo a fine cottura e servire l'anatra calda.

Buon Natale!


...Vino Cotto

Da Lapedona, la riscossa del Vino Cotto. Dall' antipasto al gelato Comune di Lapedona

Ci sarà il menù interregionale a base di vino cotto? Ci sarà. E ne hanno dimostrato bontà e fattibilità tre esperti: tre cuochi di fama. Stiamo parlando di Alessandro Pazzaglia (Marche), Mario Falco (Puglia), Gionni Tucci (Emilia-Romagna).

Sabato 29 settembre, in piazza della Concordia a Lapedona, si sono cimentati ai fornelli dimostrando che il vino cotto non è solo un liquore fine pasto, un digestivo, un rimedio al tumore e all' infarto. è anche un prodotto alimentare – come tengono a ripetere i funzionari dell'Istituto qualità e antifrode - che si sposa con ogni tipo di pietanza. Anzi, dall'antipasto al gelato si possono preparare piatti di alta cucina. Detto, fatto e assaporato. Dimostrazione che vale più di mille parole. Anche se le parole non vanno disprezzate. Il talk show culinario, condotto dal nostro direttore Adolfo Leoni, ha Lombo d'agnello al vino cotto con formaggio di fossa e germogli

funzionato dunque. Ne sono stati pienamente soddisfatti il sindaco di Lapedona Mauro Pieroni e l'assessore Stefania Mattetti, ormai definiti per antonomasia: ambasciatori del vino cotto in Italia e - perché no? - anche in Europa. In piazza, dinanzi alla cucina allestita sotto un pergolato da dove si potevano piluccare acini di squisita uva nera gli interventi degli invitati sono stati numerosi e tutti di buon contenuto, a difesa del prodotto alimentare già bevuto dai Piceni, poi trasferito alle mense imperiali romane, tenuto nascosto nelle cantine di campagna, riemerso e legalizzato solo dal 2004.

Risotto al brodo di Giuggiole

La Coldiretti ha mandato Giuseppe Luciani, la Camera di Commercio fermana Riccardo Tarantini, la Prefettura Claudio Faloci, l'Ispettorato centrale tutela qualità e repressione frodi Angelo Mangoni. Sono poi intervenuti Walter Scotucci con la sua storia del vino cotto, Graziella Ciriaci consigliere regionale e il deputato on. Remigio Ceroni. La manifestazione si è conclusa a tavola, come nelle migliori tradizioni della nostra Terra di Marca. Un brindisi al vino cotto, assaporato anche nel gelato di Luca Antonini, giovane cuoco e gelataio fermano, ha chiuso la manifestazione. L. N.

Filetto di maiale in crosta di lardo e mandorle con uva bianca e vino cotto Gelato al vino cotto

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della vita


...Camera di Commercio Fermo

Resoconto Merano:

una edizione di grandissimo spessore e successo per le nostre aziende

I presidenti di Battista e Di Chiara insieme al presidente del Winefestival Helmuth Koecher

“L'apprezzamento avuto dalla aziende vale più di mille parole”. Cosi il presidente camerale, Graziano di Battista, ha commentato il successo ottenuto dalla collettiva di aziende presenti a Merano per il Winefestival&Gourmet 2012. “Voglio solo aggiungere che se la nostra presenza a Merano ha ottenuto un risultato addirittura superiore alle aspettative, questo è dovuto alla passione e all'amore che c'è stato messo nell'organizzazione di un evento che per il quarto anno ha aperto per Fermo, il Fermano e la Regione Marche una finestra internazionale”, ha aggiunto il presidente Di Battista durante l'incontro con la stampa e le aziende per un bilancio della “spedizione” Fermana in Trentino, presenti anche Helmuth Koecher, direttore del Festival, l'assessore provinciale Guglielmo Massucci, il sindaco di Sant' Elpidio a Mare Terrenzi, Nazzareno Di Chiara presidente di Fermo Promuove. “Abbiamo avuto un incremento di presenze di oltre il 10% - ha detto Koecher – rispetto al 2011, con la presenza sempre più numerosa di addetti ai lavori e della stampa internazionale (circa settemila visitatori che hanno pagato un

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Di Chiara e Koecher premiano Danilo Bei lo chef stellato del Ristorante Emilio di Fermo che ha firmato il menu della serata di gala.

biglietto di ingresso di 85 euro, oltre a 300 giornalisti accreditati, ndr), tanto che nella giornata inaugurale sono abbiamo dovuto regolamentare gli ingressi, tanta la calca degli ospiti che erano in coda per entrare. Inutile dire la grande soddisfazione che si è stata espressa grazie alla vostra presenza, sia nella collettiva – ha aggiunto – che nell'organizzazione del gala”. Gala firmato da due giovani chef stellati, Danilo Bei del Ristorante “Emilio” di Fermo e William Zonfa del “Magione Papale” di Aquila, coordinati dal Presidente dei cuochi della Provincia di Fermo, Alessandro Pazzaglia. “Spero - ha finito Helmuth Koecher - che tra il Winefestival e la vostra splendida terra si apra un ponte, perchè oramai Fermo è una colonna portante del Winefestival&Gourmet”. Si diceva della soddisfazione delle aziende: il 100% ha detto che l'esperienza è da ripetere, l'80% ha ottenuto ha avuto riscontri dei contatti delle precedenti partecipazioni, il 90% ha avuto contatti con nuovi distributori e partner, per citare alcune delle risposte ad un questionario appositamente predisposta da Fermo Promuove. “Sono un ultras del Merano Winefestival –

ha detto l'assessore Massucci - tanta è la visibilità che sa offrire al nostro territorio e alle nostre aziende”. Entusiasta il sindaco Terrenzi, alla sua prima esperienza a Merano. “Stiamo registrando un ulteriore successo della nostra collaborazione con il Festival meranese – ha detto il presidente Di Chiara – grazie soprattutto alle nostre aziende. Noi continueremo su questa strada – ha finito – convinti che in sinergia, facendo squadra, possiamo continuare a sostenere le aziende, non solo del Fermano e non solo dell'enogastronomia, l'opportunità di essere presenti a Merano, finestra sul mondo che abbiamo aperto quattro anni fa e che ci ha regalato, vista l'eleganza e l'esclusività dell'evento, grandissime soddisfazioni”, ha finito Di Chiara. Ringraziamenti per i risultati ottenuti sono arrivati anche da Maria Pia Castelli, dell'omonima cantina, da Roberto Di Mulo dell'azienda “Angolo di Paradiso” e da Anna Lenzi del “Relais il Margarito”, tre dei proprietari delle aziende presenti all'incontro con la stampa che hanno raccontato la loro esperienza a Merano. Mauro Nucci Ufficio Stampa Camera di Commercio Fermo


...La Pagnottella

Un negozio di cose buone. “La Pagnottella” in piazza Verdi a Fermo

Diversi giorni fa, durante la settimana dei morti, sono entrata nel negozio “La Pagnottella” di piazza Verdi per comprare due di quelle sue prelibate ciambelle di mosto e ho chiesto a Massimo, che sta al banco con Giordano, “perché le vostre ciambelle di mosto hanno l'interno scuro a differenza di altre? sono integrali?” “No” mi fa “sono impastate col mosto vero fatto bollire a lungo, come una volta le facevano le donne di casa dopo la vendemmia, e non con la fialetta di essenza di mosto”. Ecco perché il mosto lo si vede e lo si sente e la ciambella è buona, compatta al punto giusto, di colore naturale. Applicata alle ciambelle è questa la filosofia del negozio aperto da non molto: lievitazione naturale con lievito madre per pani e pizze, dolci impastati con uvette e mandorle di qualità, lavorazione artigianale per formaggi e salumi, tutti accuratamente scelti nelle nostre terre, senza conservanti e con i loro giusti tempi di stagionatura. Ecco il segreto delle fave dei morti che si sciolgono in bocca, del prosciutto dal sapore robusto e antico e dal colore non finto, delle salsicce che hanno la stagionatura di quelle che tagliavamo dalla filza appesa al soffitto della cucina, dei vini e vini cotti che raccontano le nostre colline. Ampia la scelta dei pani: comune, di grano duro, di kamut, di farro, ai cereali, alle olive. Notevole quella delle paste artigianali e biologiche. Come pure biologici i mieli e le marmellate. Un negozio dove la tipicità non è determinata unicamente dal fatto che i prodotti vengono dal territorio, ma dalla qualità degli ingredienti e dalla sapienza e passione di chi li lavora. G. R.

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della vita


...Sant'Elpidio a Mare

UNA FORNERIA? DI PIÙ: UN CENTRO CULTURALE

Giovedì 6 dicembre, in via Monturanese, 1401 a Sant’Elpidio a Mare, è stata inaugurata la nuova casa di Forneria Totò, ribattezzata per l’occasione Forneria Totò - Panorama Caffè.

Si è così finalmente giunti alla fine di un percorso iniziato un paio d'anni fa: la creazione di un nuovo punto vendita, più ampio dell'attuale laboratorio di via Celeste. Una visione, diventata realtà grazie all'attenta progettazione dello studio Santarelli di Fermo, capace di interpretare al meglio le esigenze dell'azienda. Il nuovo punto commerciale infatti vuole essere una grande vetrina dove poter mettere in mostra i prodotti della Forneria, veri protagonisti del progetto. L'intento non è quello di reagire alla crisi attraverso una nuova attività, quanto piuttosto esaltare l'inconfondibile prodotto a marchio “Totò” rendendolo fruibile ad una fetta di pubblico sempre maggiore, calandolo in una nuova realtà, com'è appunto quella di un raffinato caffè, in cui ora è possibile degustare “il dolce” ed “il salato” abbinato a cocktail accattivanti, caffè dalle miscele particolari o tè dai molteplici sapori ed aromi. Al piano terra della struttura sarà sempre possibile acquistare i prodotti della Forneria, nonché godersi un'ora di pace leggendo un libro su dei comodi divanetti, riscaldati da un accogliente caminetto. Libri magari acquistati direttamente al Caffè, grazie

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ad una convenzione stipulata con la libreria Mondadori di Civitanova Marche. Al primo piano invece, nella sala da tè, l'occhio sarà rapito dal “Panorama” che dà il nome al nuovo locale: uno sguardo sull'infinito delle colline fermane.

Il venerdì sarà il giorno del “Caffè Letterario”, nella migliore tradizione della Forneria, che abbina il piacere del palato a quello della mente. Si è cominciato già il 14 dicembre, in collaborazione con l'Associazione Antonio Santori, che ha proposto un incontro con Bianca Garavelli, dantista di primissimo livello, ricercatrice all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Oggetto, la presentazione del suo ultimo romanzo, edito da Baldini Castoldi e Dalai Editore: “Le terzine perdute di Dante”. Il 21 dicembre tocca invece a “Christmas in Jazz”, in collaborazione con il circuito Jazz di Marca. Ospite del Caffè lo Skyline Jazz Quintet: Simone Grassi, Giacomo Uncini, Ludovico Carmenati, Massimiliano Pirani, Massimo Manzi. Per i più piccoli il 16 dicembre ci sarà una “lettura magica” (con annesso workshop) di fiabe locali, legate al mito della Sibilla. Abbinata a questa una degustazione di biscotti al cocco, protagonisti di uno dei racconti. Il programma prevede poi, per il 6 gennaio 2013, una festa realizzata insieme ai ragazzi dell'Associazione Gam Lab. NEL


...Sapienza - Esperienza

LA SAPIENZA È FIGLIA DELL’ESPERIENZA. (Leonardo da Vinci)

Ecco perché i proverbi dei nostri antenati sono ancora così veri e attuali. Ed ecco perché ho pensato di raggrupparne un po’: sull’inverno, sul cibo, sul vino, tra il serio e il faceto, tra il dialetto e la lingua italiana, a voi una parte di storia che spesso, sbagliando, snobbiamo... Parto dall’autunno per dirvi che “Quando ottobre scroscia e tuona, l’invernata sarà buona”. E così il 23 novembre: “Quando arriva San Clemente già l’inverno ha messo un dente”. Il 2 dicembre è “Santa Bibiana quaranta dì e ‘na settimana”. Arriva così “Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia e fuoco in compagnia”. Se i nostri avi avessero ragione quest’anno non avremo da lamentarci: “Dicembre nevoso, anno fruttuoso”. E ancora “La neve prima di Natale è madre, dopo è matrigna”, “A Dicembre vento e gelo, a Marzo Sole in cielo”. Non posso saltare il classico sull’Epifania che “tutte le feste porta via”. E se è vero che “Freddo a gennaio fa ricco il granaio” è pur vero che “gennaio bello, febbraio in mantello”. Sembra assodato che “Chi vo’ patì le pene dell’inferno, l’estate a Jesi e a Cingoli l’inverno”. Mi sembra chiaro, no? Arriva la fine di gennaio con i suoi giorni più freddi dell’anno e un bel consiglio ci è stato lasciato: “Se li jorni de la merla voli passa’: pane, pulenta, porcu e focu a volontà”. E non solo: “Quannno lu ventu cattiu vidi ‘rrià, canna che se piega devi diventa’ “. Ma oltre ai consigli anche qualche rassicurazione: “C’hai lo pà e le legne? Lassa che négne”. Una filosofia di vita davvero rilassante. Come a dire di preoccuparsi solo dell’essenziale. Questo l’aspetto curioso e anche invitante: “ ‘Na pagnotta e ‘na fiasca e pijimo lu munnu come casca... “. Prendiamo il mondo come viene, senza preoccuparci più di tanto... Magari si riuscisse a farlo!!! Leggendo questi detti popolari mi viene in mente che l’evoluzione forse non porta sempre un miglioramento. Avevano molto meno di noi i nostri nonni ma sapevano divertirsi cento volte di più e con leggerezza: “Lu primu vicchiere serve pè leasse la sete, lu secondu pè allegria, lu terzu pè

piacere, lu quartu pè ‘mbriacasse”. E ancora: “Un’aria de focu e una de cantina, fa vène la sera e la matina”. Bastavano una boccata d’aria calda e un sorso di vino per rendere una giornata più bella. E se col vino spesso si esagerava c’era subito pronta la risposta: “Meglio puzza’ de vi’ che d’olio santo”. La loro crisi non è paragonabile alla nostra e anche su questi temi la sanno lunga. Quello che noi chiamiamo oggi “spending review” era per loro “Chi spande e spende presto s’arrende...”. Economisti, non sui libri ma sulla esperienza, sapevano che “Dieci anni dura la grascia e trenta la caristia”. L’abbandonza quindi perde sempre in termini di durata! Se i nonni dei nostri nonni avessero visto il tg di questi giorni dove si parla di elezioni anticipate e parlamentari, avrebbero di certo così commentato: “Quanno lu porcu è satullu capota la trocca”; oppure: “Lu porcu più va là , più fa la botta grossa”. Ma per non correre il rischio di essere querelati nell’oltretomba rinuncerebbero a dire tutto ciò e si limiterebbero ad un diplomatico: “Chi somenta ventu, ‘rcoglie tempesta”... Sperando di non averli messi nei guai, giro loro un consiglio: “Se da li guai te voli ‘rcaccià, a medicu, prete e avvocatu dì sempre la verità”. Non si sa mai. Viviamo in un mondo di prepotenti, non vorrei ci fossero ripercussioni. Sapete? “De prepotendi ce n’è tre: chi non c’ha cósa, lu papa e lu ‘rre”. Ma ora concludo, sperando di avervi divertito un po’ e un po’ anche avervi lasciato qualche perla di saggezza marchigiana. Un ultimo consiglio, visto che di gastronomia trattiamo: “Robba de campagna, è cojó chi no’ la magna” e “Quello che non strozza, ‘ngrassa” perciò sappiate scegliere, snobbando poco... Buon gusto...della vita!

Nunzia Eleuteri

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della vita


...La cucina

la CENERE dei FORNELLI e la BRACE del CAMINO Cosa bolliva in pentola... di Liana Cognigni

Salsicce e salami a casa Cognigni, Castagneto-Montegiorgio 1968

“La cucina a Fontespina”: è evocativa e suggestiva l’opera del pittore marchigiano Ivo Pannaggi, esposta nel Palazzo Ricci e facente parte della Collezione permanente della “Fondazione Cassa di Risparmio” della Provincia di Macerata. “La cucina a Fontespina”, un olio su tela del 1916 / ’17, risale alla produzione giovanile del pittore maceratese, prima della sua adesione al Futurismo. è talmente realistica che, guardandola, si risvegliano l’immaginario e i ricordi. Sembra di essere tornati nella vecchia cucina, di potersi avvicinare ai fornelli, all’acquaio ed usare la brocca dell’acqua. Brocche e terrecotte che, tra l’altro, vengono ancora abilmente realizzate nelle botteghe di artigianato artistico a Montottone. La bella brocca di terracotta, invetriata all’interno, smaltata di giallo ambra sul manico e intorno al beccuccio, serviva per recare l’acqua potabile dalla fonte pubblica all’abitazione e per conservarla fresca sul lavandino della cucina. Le donne andavano a riempire i brocchetti e le brocche alla fonte più vicina, tenendo la brocca piena in equilibrio sulla testa, poggiante sul cercine (la sparra), procedendo con maestria, mani sui fianchi e portamento eretto. Fino agli anni ’60 del Novecento, erano tutte molto simili le cucine delle case marchigiane. Nella nostra media Valle del Tenna, nelle cucine delle case di campagna, spesso a piano terra, dalla non molto distante stalla per le mucche e i vitellini, ci si attivava attorno ai fornelli e al camino, che costituivano il “salotto” di casa, l’unica fonte di riscaldamento e di cottura. Prima dell’avvento della cucina economica a legna e del gas domestico, si cucinava sulla brace posta nei fornelli in muratura o direttamente sul fuoco del camino. Cucinare sui fornelli con le pentole di terracotta o di alluminio, significava avere a disposizione un piano cottura in mattoni con griglie di ferro incassate che venivano riempite di brace ardente, alimentata con lo sventolio della ventola di paglia. La cenere si depositava nel piano sottostante e un po’ ovunque, ad ovattare i colori e i suoni dello sfrigolio delle padelle! Nel paiolo di rame, appeso al gancio della catena del camino, si lessavano le verdure, appena raccolte dall’orto, o le tagliatelle all’uovo, fatte a mano, che, raggiunta la cottura, risalivano tra la schiuma bianca dell’acqua bollente. Bollivano, bollivano per ore e ore i fagioli, la cicerchia e i ceci in terrecotte, appoggiate sul treppiedi di ferro, senza o col manico lungo che ne facilitava la gestione, sopra la brace rossa, con, intorno, fiamme e tizzoni infuocati del camino.

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Veniva pure tenuta, sempre, accanto al fuoco, per il pronto uso dell’acqua calda, la panciuta cuccuma di rame, dal coperchio bombato. Mentre, sembrava una caccia al tesoro il recupero delle patate cotte sotto la cenere calda: bastava togliere la buccia e la patata bollente era pronta da mangiare o da passare di mano in mano! Nei mesi di dicembre e gennaio, vicino al camino, facevano sfoggia salsicce di carne e di fegato, salami duri con lardelli e ciauscoli, pendenti da canne fissate al soffitto. Dovevano restare appesi per il tempo necessario ad asciugarsi e maturare, favoriti dal calore del focolare. Mentre, le lonze, una volta rivestite dal budello e legate ad arte, si appendevano direttamente dentro al camino, ai lati, per lasciarle sgocciolare e perdere il grasso in eccesso. L’uccisione del maiale e la salata segnavano veri e propri eventi nel calendario della vita quotidiana in campagna. Tutta la famiglia era impegnata nell’impresa. Anche i bambini ricevevano piccoli incarichi. Immediato era quello di portare ai vicini il sangue del maiale appena ucciso, raffermo, dopo una prima sbollentata. Dei bei pezzi di sangue lessato si mettevano in un piatto fondo, coperto da un altro piatto rovesciato, legato in un fazzoletto da spesa, azzurro, a scacchi con righe rosse e bianche, e il fagottino era pronto da portare in regalo. Poi, la cottura del sangue sarebbe continuata, rosolandolo a cubetti, in padella, con aglio, rosmarino, foglie di alloro e pezzetti di buccia d’arancia per aromatizzare. Era la parte del maiale che si mangiava per prima, calda e saporita; perché gran parte della carne di maiale, lavorata e stagionata, veniva consumata durante i mesi dell’anno. Mani abili e laboriose facevano scivolare salsicce in grandi barattoli di vetro, disponendole a cerchio, e, ricoperte da candido strutto, chiuso il tappo, si conservavano fino alla futura estate. Bianco strutto che, sciolto nella padella sulla brace del camino, si usava per friggere frittelle e sfrappe: golosità che gratificavano i bambini e allietavano le tavole di carnevale. Pensando che le righe scritte sopra siano una testimonianza di memoria storica, intesa non in modo consolatorio, come nostalgia del passato, bensì come un’azione propositiva di pensiero, vorrei condividere la frase citata in esergo nel libro di Paolo Fresu, “Musica dentro”, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2009 “La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere.” Gustav Mahler


...Porto San Giorgio

Dalla vongola al brodetto: viaggio

alla ri-scoperta delle tradizioni marinare. Catia Ciabattoni, Assessore al Turismo di Porto San Giorgio

Lo sviluppo del territorio passa anche dalla riscoperta delle tradizioni e dalla valorizzazione della cultura fondante di una società, con la collaborazione di tutte le categorie che la compongono.

In quest’ottica a Porto San Giorgio si è svolta la scorsa estate “Vongolopolis”, evento capace di attirare attorno al villaggio della vongola tutti, ma proprio tutti. I pescatori e i vongolari in primis che hanno mostrato le tecniche del loro duro lavoro, portando in mezzo alla gente alici e vongole per offrire un assaggio di questi due tanto semplici quanto buoni prodotti del nostro mare. Oltre 20 ristoratori si sono accordati per fare altrettante ricette, a base di vongole, alici e non solo: tutti insieme hanno risposto alle intuizioni dell’assessore alla pesca del comune sangiorgese, Catia Ciabattoni: “La manifestazione è stata un successo, la popolazione ha risposto molto bene alla nostra volontà di riscoprire la vera e autentica vocazione marinara della città”. Dopo Vongolopolis c’è stata la Festa del mare, che ha restituito alla città un altro pezzo della storia marinara sangiorgese: la padella gigante dell’Adriatico, ritornata durante i festeggiamenti per il trentennale della posa della prima pietra del porto. Adesso è inverno, ma non per questo la mente “geniale” dell’assessore alla pesca è a riposo: nell’ottica della riscoperta e della valorizzazione del territorio l’assessorato alla pesca ha deciso di scoprire “il vero brodetto sangiorgese”. Si tratta di un progetto volto a recuperare e formulare la ricetta più autentica del brodetto, quella che si avvicini il più possibile alla procedura della tradizione gastronomica di questo piatto tipico della cucina locale. “Il brodetto sangiorgese è importante per la storia, la tradizione e la caratterizzazione gastronomica del nostro territorio – ricorda l’assessore Ciabattoni – ed è per questo che la formulazione della ricetta passerà attraverso osservazioni, ricerche, coinvolgimento delle risorse storiche, culturali e

della memoria, senza dimenticare tutte le realtà della ristorazione sangiorgese, che hanno contribuito, contribuiscono e contribuiranno a rendere alta la fama del «brodetto sangiorgese»”. Il coinvolgimento della ristorazione non è casuale e tanto meno inutile: attraverso la collaborazione di tutti, proprio come è successo per le vongole e le alici di Vongolopolis o per la Padella Gigante, si mantiene alta la visibilità e l’attrattiva della città, per raggiungere una promozione turistica diversa, più ampia, per passare insomma “Dallo sviluppo del turismo al turismo dello sviluppo”, per citare l’omonimo libro del prof. Norberto Tonini. Sembra certo che il brodetto nasca anticamente in mare con i pescatori, con l’abitudine che la gente aveva di utilizzare la parte del pescato che non poteva essere venduta, o per varietà o per dimensioni troppo ridotte. Una varietà di pesci, che unita alla giusta dosatura dei condimenti e all’aggiunta di molluschi e crostacei, valorizza questo piatto, dandogli un sapore omogeneo che permette però di identificare ciascun pesce. L’assessorato e l’associazione sono al lavoro per l’identificazione della ricetta che sarà la base del progetto. La Ciabattoni precisa che “per la prossima primavera il progetto sarà pronto e verrà presentato. Subito dopo inizierà la sperimentazione nei ristoranti per essere pronti per l’avvio della prossima stagione estiva”. Già perché il progetto sul vero brodetto sangiorgese non si ferma alla formulazione della ricetta, ma coinvolgerà tutte le persone interessate, ristoratori in primis, che potranno coordinarsi nella proposta di questo piatto a clienti locali e turisti. Chiara Morini

Preparazione di un Brodetto tipo (con varianti) per 6/8 persone. Ingredienti - 2.0/2.5 Kg. circa di pesce fresco: - palombo e/o gattuccio - merluzzo - sgombro - razza e/o sogliola - seppie - triglie e/o gallinella - cozze - vongole - scorfano - panocchie - rombo - calamari (Secondo stagionalità o reperimento). - 4/5 Cipolle grandi - un bicchiere di aceto bianco - sale - olio extra vergine di oliva - fette di pane tostato - ½ kg di pomodori verdi - peperoncino e/o pepe - brodo (fumetto) di pesce 1 litro circa Preparazione Ovviamente pulire e lavare il pesce. Preparare un sughetto con olio, cipolla a fette, peperoncino, abbondante aceto e pomodori. Quando pronto aggiungere al sughetto le seppie e i calamari a pezzi, poi aggiungere via via il pesce più delicato in cottura tipo palombo, sgombro, scampi, razza, merluzzi, triglie, vongole, cozze ecc. aggiungendo sale e/o pepe q.b. Lasciar cuocere a fuoco lento, aggiungendo continuamente il brodo di pesce preparato in precedenza. A cottura ultimata servire possibilmente su terrine di terracotta riscaldate precedentemente in forno. È possibile, secondo gusto, disporre fette di pane precedentemente tostate sul piatto e versarvi sopra il brodetto. Guarnire con rametto di prezzemolo.

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della vita


...Le Fermanelle

F.I.C. Ass.ne Cuochi della Provincia di Fermo via Legnano, 2 - 63018 Porto Sant’Elpidio tel. (+39) 330 650208

Le Fermanelle sono Europee Tanto s’impegnò che alla fine riuscì. L’Associazione Cuochi della provincia di Fermo ha avuto sempre un pallino: quello del riconoscimento delle “Fermanelle”.

Oliva Fermanella e sezione

Le Fermanelle sono le olive nere, piccole, quelle dell’olivo Piantone di Falerone, che hanno una morbidezza unica e un rapporto “giusto” tra polpa e nocciolo. Quelle che nei menù di pesce vengono riempite di pesce azzurro, e nei menù di carne hanno la carne d’agnello dei Sibillini come riempimento, la “meno nobile”, per un dato di risparmio. Pesce e agnello di montagna. Come dire: Sirene e Sibille, ancora una volta. La riuscita sta nel fatto che le “Fermanelle” hanno ottenuto il Marchio Comunitario. D’ora in poi, nella classe merceologica 29, quella che ingloba le “olive fritte, quelle conservate, quelle trasformate, carne e ripieni di carne per olive conservate, pesce e ripieni di pesce per olive conservate”, risultano a tutti gli effetti di legge e contro ogni abuso di marchio le “Fermanelle”. Una garanzia, insomma, e un

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il Gusto...

riscontro territoriale per un prodotto alimentare molto… interessante e goloso. Il marchio comunitario, che è stato intestato all’Associazione Cuochi della provincia di Fermo, è un marchio che, a differenza dei marchi nazionali, produce i suoi effetti sull’intero territorio dell'Unione Europea. L. N. L'Unione Regionale Cuochi Marche organizza per fine gennaio 2013 un importante corso teorico/pratico di cucina sull'interessante tema:

"Organizzazione e presentazione dei piatti da buffet"

La lezione sarà tenuta da un docente dell'Ateneo della Cucina Italiana della Federazione Italiana Cuochi. Per informazioni 330 650208




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