Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”
QUADERNI 23
a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi
BERGAMO UNIVERSITY PRESS
sestante edizioni
Con il contributo
Comune di Bergamo
Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Bergamo
Š 2013, Bergamo University Press Collana fondata da Lelio Pagani, diretta da Anna Maria Testaverde
ICONEMI alla scoperta dei paesaggi bergamaschi a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi p. 104 cm. 21x29,7 ISBN – 978-88-6642-130-6
Segreteria organizzativa: Renata Gritti www.iconemi.it
In copertina: Fotografia di Francesca Perani
Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo
INDICE
FULVIO ADOBATI Introduzione
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GABRIELE RINALDI Il distacco dell’uomo dalla natura: azioni locali per favorire una riconciliazione a Bergamo .......
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ELEONORA FIORANI Giardini e orti metropolitani ..........................................................................................................
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FRANCESCA FORNO Dal consumo critico alle Reti di Economia Solidale per un futuro autosostenibile dei territori .
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FRANCESCO CHIODELLI Abitare liberamente. Oltre i pregiudizi sull’auto-organizzazione residenziale .............................
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GIAMPAOLO NUVOLATI L’abitare spalmato nella società mobile ..........................................................................................
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MARINA ZAMBIANCHI Forme spaziali e sostenibilità sociale: modelli abitativi tra segregazione e condivisione. Piani e Progetti per la qualità dell’abitare ......................................................................................
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MARIA CLAUDIA PERETTI Paesaggi in rete ...............................................................................................................................
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FRANCESCA PERANI Le applicazioni come tramite dinamico alla creazione di nuove mappe virtuali ..........................
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ARTURO LANZANI Lo sguardo da un punto rialzato ....................................................................................................
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FRANCESCA PASQUALI A new sense of place: social e location-based media fra socievolezza e partecipazione ................
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DAVIDE SAPIENZA Il consumo di suola .........................................................................................................................
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PAOLO VITALI Sulla densità. Strategie per il contenimento del consumo di suolo ................................................
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GIOVANBATTISTA TESTOLIN I paesaggi del fotovoltaico del solare termico e delle biomasse: come le nuove energie modificano i luoghi .....................................................................................
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FULVIO ADOBATI*
INTRODUZIONE
Nuovi bisogni, nuove tecnologie; nuove energie e nuove opportunità, anche stimolate e rafforzare dalle innovazioni tecnologiche. Si sviluppa da questa chiave il ventaglio dei temi affrontati in questo ciclo di Iconemi. Paesaggi della sostenibilità implica una puntualizzazione, che a parere di chi scrive rappresenta un passo di avanzamento culturale in Italia, sul concetto stesso di sostenibilità, doverosamente diffuso e trattato come nessun altro in questi ultimi tre decenni (assumendo quali riferimenti il Rapporto Bruntland del 1987 e la Conferenza di Rio del 1992) nelle discipline territoriali. Il concetto di sostenibilità (inteso delle componenti ecologico-ambientali) ha ampiamente informato le politiche territoriali anche in Italia (almeno nelle premesse, tutte da misurare nelle scelte più o meno coerenti con i presupposti) nella sua connotazione, fondamentale ma parziale, di sostenibilità ambientale. Il successo di Rio e dell’Agenda 21 ha sollecitato attenzione e azione anche alla scala locale intorno ai temi della tutela dell’ambiente e della partecipazione sociale alla costruzione delle scelte quale legittima rivendicazione di cittadinanza (attiva). E dagli anni Novanta le Agende 21 Locali, il riconoscimento e la codificazione dei “santuari” della naturalità su scala europea (con la Rete Natura 2000), la diffusione della logica diffusa e reticolare intorno alla difesa dei valori ambientali-paesaggistici (le reti ecologiche), la maturazione di strumenti di valutazione delle scelte progettuali e delle politiche (con l’affermarsi di valutazioni ambientali su progetto e poi con l’introduzione a partire dalla direttiva del 2001 dello strumento di Valutazione Ambientale Strategica su piani e programmi). Ma, proprio facendo riferimento alle politiche
comunitarie, la strategia in materia di sviluppo sostenibile che informa l’azione dell’Unione Europea1 assume quali obiettivi chiave la tutela dell’ambiente e della biodiversità, unitamente all’equità e alla coesione sociale e alla prosperità economica. Nelle discussioni inerenti ai temi delle scelte urbanistiche e territoriali, nelle quali le componenti del triangolo Società-Economia-Ambiente devono trovare una sintesi e una mediazione intelligente (informata e consapevole), sovente i processi decisionali registrano la radicalizzazione delle posizioni degli attori: difesa dell’ambiente vs. progetti “di sviluppo”, difesa del territorio agricolo vs. necessità di ammodernamento infrastrutturale, valori ambientali vs. posti di lavoro, … in un dialogo che fatica a considerare e valutare in forma integrata le diverse componenti. Un problema certo di governance efficace dei processi decisionali, ma qui anche di adeguata apertura alla complessità -che non ammette comode trincee di appartenenza- del concetto di sostenibilità2.
* Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”. 1 Citando i riferimenti fondamentali più vicini il Consiglio Europeo di Goteborg, 2001, aggiornato poi con il Consiglio di Bruxelles del 9 maggio 2006 “Riesame della strategia dell’UE in materia di sviluppo sostenibile”. 2 Elaborazione grafica tratta da: http://cantieredelfuturo.argiso.it/RedInt/ambiente/uomo-ambiente-x.
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FULVIO ADOBATI
Fig. 2. #urgnano #iconemi #iconemibg12 #eclecticism #kitsch #architecture ##against_minimalism.
Fig. 3. Paesaggi dell’agricoltura contemporanea.#iconemibg12.
La chiave del paesaggio rappresenta la sintesi di questo approccio aperto, come efficacemente posto in premessa alla Convenzione Europea del Paesaggio:
saggio e dei contesti spaziali di convivenza propone con forza una necessaria maturazione complessiva della domanda di qualità paesaggistica e delle sue forme di regolazione: tra necessità/rigidità del vincolo, e la ricchezza, da statuire in forma condivisa, della libera azione dei cittadini. Utilizzando la efficace titolazione del saggio di Davide Sapienza in questo volume, una dimensione attiva che vada oltre il consumo di SUOLO: il consumo di SUOLA. Piace qui riportare una riflessione di R. Sennet (2013), lucidamente orientata a ricondurre il disegno previsionale caro a un modello di urbanistica determinista (tradizionalmente affezionata all’introduzione di un sistema di “certezze ipotetiche5”) alla necessità di concorrere in modo necessariamente più fluido, e collettivo, al cantiere città e territorio.
“(…) Desiderosi di pervenire ad uno sviluppo sostenibile fondato su un rapporto equilibrato tra i bisogni sociali, l’attività economica e l’ambiente; constatando che il paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all’attività economica, e che, se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro; consapevoli del fatto che il paesaggio coopera all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea (…)3.
Questo ciclo di Iconemi offre, nella pluralità degli sguardi e dei fuochi tematici, un contributo di avanzamento collettivo culturale e civile ispirati al concetto ampio di sostenibilità; entro l’obiettivo più generale di centralità della chiave paesaggistica, si propone come occasione per “Mettere al lavoro” il territorio, inteso quale “soggetto intelligente e collettivo”4. Proprio i diversi contributi tesi a sottolineare forme e iniziative diverse di costruzione attiva del pae3 4 5
(…) Nella pianificazione urbana noi ci sforziamo di creare una narrativa nel senso stretto del termine: ci concentriamo sulle fasi di sviluppo di un dato progetto e cerchiamo di intuire ciò che accadrà per primo, per poi costruire sulle conseguenze di quella mossa iniziale. Ma pianificare una città chiusa equivale davvero a tessere la trama di una novella sentimentale. L’urbanista ottuso vuole avere sotto mano, sin dall’inizio, tutti i risultati finali. La pianificazione della città aperta, al contrario, come in tutti i sistemi aperti che ritroviamo in matematica e nel mondo naturale, abbraccia forme non lineari di sequenzialità. (…)
Preambolo alla Convenzione Europea del Paesaggio, Firenze, 20 ottobre 2000. Cfr. il contributo di M.C. Peretti in questo volume. Per utilizzare una efficace espressione di Gigi Mazza.
INTRODUZIONE
Fig. 4. Empty streets.
Fig. 5. Il paesaggio è un racconto corale che lascia spazio alla voce di tutti. Archibimbi e archidonne: progetto partecipato al parco di Boccaleone. #iconemibg12#iconemi#bergamo.
Riferimenti bibliografici Consiglio dell’Unione Europea, Riesame della strategia dell’UE in materia di sviluppo sostenibile (SSS dell’UE) − Nuova strategia, Bruxelles, 9 maggio 2006 (10.06)_(OR. EN) Paquot. T., “Urbanizzazione planetaria ed eco-urbanismo sensoriale”, in Urban-Millepiani, n. 1 L’esplosione urbana, Eterotopia, Milano, 2009, pp. 37-53 Quaini M., L’ombra del paesaggio. Orizzonti di un’utopia conviviale, Diabasis, Reggio Emilia, 2006. Sennett R., Usi del disordine, Costa & Nolan, Genova, 1999 (ed. or. The Uses of Disorder, Knopf, New York, USA, 1970). Sennet R., Incompleta, flessibile, senza confini. La città ideale è un romanzo aperto, (in Convegno in onore di Guido Martinotti, Università degli Studi di Milano Bicocca, 12 aprile 2013; traduzione di Rita Baldassarre in Corriere della Sera, 13 aprile 2013).
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Fig. 6. #iconemibg12#iconi.
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GABRIELE RINALDI*
IL DISTACCO DELL’UOMO DALLA NATURA: AZIONI LOCALI PER FAVORIRE UNA RICONCILIAZIONE A BERGAMO
Il tema proposto dal ciclo di ICOMENI 2012 – i paesaggi della sostenibilità – riguarda il rapporto tra l’uomo e il suo habitat messo sotto osservazione antropologica, sociologica, botanico-naturalistica, urbanistica, culturale. Il mio punto di vista è quello di un rappresentate di un’istituzione civica presente da 40 anni, l’Orto Botanico di Bergamo ‘Lorenzo Rota’, i cui compiti primari sono condivisi da gran parte degli Orti botanici, la conservazione e l’educazione. Una sintesi
concettuale è la seguente: l’Orto botanico è un’interfaccia tra il Regno delle Piante ed il pubblico (fig. 1), agisce per farle conoscere, convincere sulla loro importanza nella nostra vita, sensibilizzare ai temi ambientali, modificare i comportamenti ed altro1. L’Orto Botanico cittadino ha intrapreso una serie di progetti volti a ridurre il gap tra giovani generazioni e natura, sulla base di dati raccolti con criteri statistici2 e su un campione significativo di giovani,
Fig. 1. Schema concettuale del rapporto tra Orto Botanico, Regno delle Piante e Pubblico. * Direttore dell’Orto Botanico di Bergamo. 1 Un buon quadro di riferimento è costituito dalle linee guida contenuto nell’Action Plan for Botanic Gardens in the European Union (Cheney, 2000). 2 La ricerca è condotta con Francesca Pugni ed è in corso di pubblicazione.
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GABRIELE RINALDI Fig. 2. Rappresentazione grafica dei dati statistici inerenti l’impiego del tempo in giovani di diverse fasce d’età. (F. Pugni e G. Rinaldi)
Fig. 3. Rappresentazione del tempo giornaliero davanti ad uno schermo per diverse fasce d’età. (F. Pugni e G. Rinaldi).
in fasce d’età riconducibili all’intervallo tra le scuole primarie e l’università. I dati indicano (figg. 2 e 3) una progressiva diminuzione del tempo dedicato ad attività in parchi e giardini, un aumento con l’età delle ore passate davanti ad uno schermo con significative differenze nelle proporzioni tra la visione di programmi televisivi (maggiore nei piccoli) e l’utilizzo del web (maggiore nei grandi). Un dato rilevante, ad esempio tra i bambini della scuola primaria (fig. 4), è lo scarto tra ciò che viene fatto abitudinariamente e quello che piacerebbe fare di più: meno televisione, più videogiochi, ma anche stare maggiormente con gli amici e più attività all’aperto e nei parchi. Per quanto riguarda la fruizione degli spazi aperti (fig. 5), tutte le classi di età esprimono in termini
percentuali uno scarto tra la fruizione reale e quella maggiormente gradita, con un picco netto per gli universitari. Questi ed altri dati ci portano ad interrogarci sugli stili di vita e sull’adeguatezza degli spazi a disposizione per la vita all’aperto, dei giovani in particolare. Un dato emerge su tutti: nel tempo si sono via via affermate modalità di gioco completamente diverse. Anche il piccolo sondaggio effettuato in occasione dell’incontro di ICONEMI 2012 ha evidenziato che nei ricordi delle persone di mezza età e oltre i luoghi preferiti di gioco 1) erano all’aperto, 2) non erano strutturati in modo specifico per il gioco, 3) non vi era presenza di adulti. Oggi queste condizioni sono l’eccezione. Un fenomeno paradigmatico del rapporto uomo-
IL DISTACCO DELL’UOMO DALLA NATURA
11 Fig. 4. Rappresentazione delle attività svolte e di quelle preferite di bambini della scuola primaria. (F. Pugni e G. Rinaldi)
Fig. 5. Rappresentazione della fruizione di spazi aperti e delle preferenze in merito nelle diverse fasce d’età. (F. Pugni e G. Rinaldi)
habitat è a mio avviso il piedibus3, la cui lettura da una parte può apparire positiva per l’attenzione ai piccoli da parte degli adulti, per il movimento fisico e per il coinvolgimento del volontariato socialmente attivo, dall’altra è rivelatore di un habitat percepito come insicuro, i cui percorsi sono ritenuti minacciosi e insalubri4 (fig. 6). A ciò si aggiunga che moltissimi genitori portano letteralmente i bambini in auto 3
a scuola, non solo per praticità o mancanza di tempo e questo non è un fenomeno locale esclusivo. Recentemente un quotidiano di Lugano si poneva domande molto pertinenti sulle limitazioni di ordine pedagogico e quindi sullo sviluppo evolutivo del bambino che sono insite in un eccesso di cura e protezione, anche nel caso in cui il trasferimento casascuola sia individuale ma blindato in un autoveicolo.
Accompagnamento di gruppi di bambini alla scuola guidati da adulti secondo percorsi e orari prestabiliti. I bambini appaiono scortati e in alcuni casi indotti ad indossare le mascherine anti polveri sottili e a tenersi in fila indiana con le mani su un nastro teso tra adulti in prima e ultima posizione. 4
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GABRIELE RINALDI
Fig. 6. Immagine paradigmatica di un piedibus in ambito urbano. (Foto dal Web)
LUGANO. Una conoscente mi confessa di non poterne più delle code di auto davanti alle sedi di scuola elementare. Succede frequentemente – per i più disparati motivi – che i bambini vi vengano accompagnati dai propri genitori e che questi, inevitabilmente, li attendano al termine delle lezioni stazionando davanti all’uscita e creando qualche ingorgo. Vien da chiedersi se i bambini in questo modo non vengano in fondo privati di qualcosa. Certo, se un bambino abita lontano dalla scuola che frequenta l’accompagnarlo diventa una misura necessaria. Molte volte però le cose non stanno così. Questa forma di cura toglie ai bambini il piacere delle scoperte che si realizzano sul percorso casa-scuola: incontri, scontri, colori, forme, persone, amici e via dicendo. Sono un elemento costitutivo della crescita di un bambino e queste esperienze trovano forma anche sulla strada. Proviamo a chiedere a dei bambini – anche se è già stato fatto – di disegnarci il percorso casa-scuola; scopriremo immediatamente chi va a piedi o in bici e chi, invece, vi si reca in automobile. TIO Ticino On Line. Notizia del 20/09/2012 - 07:00
Un paradosso è che anche negli stessi luoghi generazioni successive hanno completamente cambiato abitudini di frequentazione. I cortili, le strade, i giardini sono vuoti di bambini, c’è da chiedersi dove siano e se ce ne siano.
L’habitat dell’uomo urbanizzato è in misura crescente cementizio, la componente biologica vegetale e animale è interstiziale, eroica, residuale oppure confinata, comunque sinantropica, salvo belle eccezioni. I parchi pubblici sono recinti e tranne pochi lembi i processi naturali sono sotto lo stretto controllo antropico. L’insicurezza è parimenti la natura selvaggia e l’auto che sfreccia (anche quella dei genitori portatori di bambini), mentre la diffidenza verso l’altro va di pari passo alla difficoltà di concepire l’esplorazione come parte integrante della vita. Che la costruzione dell’habitat ostile sia frutto di scelte lo si può intuire anche per semplice confronto con situazioni altre, ecco alcuni esempi che ho visto in prima persona: 1) i bambini pastore amhara sui monti Simien in Etiopia conducono quotidianamente al pascolo pecore, vacche o capre dal mattino al tramonto a kilometri di distanza dal villaggio sopra i 3.000 m. Spesso si riuniscono e conducono vita comunitaria. Da una parte vivono una condizione di precarietà e di incertezza, sono privi delle opportunità che viceversa la nostra società rende possibili, dall’altra godono di una confidenza esperienziale con l’habitat ed un suo controllo da noi impensabile (fig. 7);
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Fig. 7. Etiopia, Monti Simien, i villaggi distano kilometri dai pascoli in quota raggiunti dai pastori bambini. (Foto dell’autore)
2) a Uppsala vi sono quartieri periferici popolari (ma non solo) in una matrice boscata in cui la trama dei percorsi ciclabili e pedonali è fitta e separata da quella per le automobili, con aree gioco rustiche, che lasciano spazio alla creatività e all’improvvisazione dei bambini (fig. 7); 3) in Inghilterra i sentieri pubblici (pubblic footpath) anche in aree pianeggianti private sono molto diffusi e la loro sopravvivenza è garantita sia dalla normativa sia dalla pubblica frequentazione (fig. 8). Guardiamoci le scarpe, chi di noi ha residui di terra perché oggi ha calpestato un suolo? Guardiamoci le mani, chi di noi oggi ha toccato una pianta o un attrezzo di legno? Chi di noi oggi ha visto, osservato un animale che non sia un altro uomo o il proprio cane o gatto? Probabilmente non ne abbiamo bisogno, ma forse siamo arrivati a questo stadio non per scelte consapevoli. Voglio citare un fatto tanto banale quanto scontato: il nostro suolo coltivabile ha rese agricole elevatissime, ma anche quello solamente calpestabile diventa molto più prezioso in termini economici se vi cala sopra per decenni o secoli un manufatto. In città è atteso che la sostituzione dei vecchi edifici avvenga con nuovi manufatti che occupano una maggiore superficie, a scapito di vecchi giardini o orti. L’albero è sempre più un lusso, o un bene da relegare nelle aree pubbliche.
Che possibilità abbiamo per orientare la costruzione di un habitat meno ostile e più funzionale ad una vita di maggiore relazione con gli spazi aperti e con la natura intesa come piante, suolo, animali? Come ridurre questo gap nelle giovani generazioni in particolare? L’Orto Botanico da una parte ha intrapreso una serie di sperimentazioni in particolare con le scuole, dall’altra un osservatorio attento dei fenomeni in corso e ed è elemento propositivo di possibili soluzioni o espedienti che portino a soluzione, talvolta è semplicemente un facilitatore di processi. In tal senso da anni consideriamo l’orto, inteso come ambito di coltivazione, uno degli strumenti da mettere in gioco strategicamente per ricondurre alla terra anche cittadini che vivono quasi completamente a contatto con l’artificialità. Osserviamo fenomeni marginali ma interessanti di ritorno alla terra da parte anche di giovani nei tradizionali settori dell’agricoltura, come sui Colli dove la tradizione è continua e secolare, ma anche nelle nuove (per noi) forme di aggregazione costituite dai cosiddetti community gardens. Uno dei primi in Italia è presente proprio a Bergamo in Via Rovelli e non a caso autodenominatosi ‘oltre il giardino’, proprio nella Bergamasca dove l’orto come territorio personale è tradizione e paradigma. Oltre ai tradizionali orti individuali, che tutti associamo al-
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GABRIELE RINALDI
Fig. 8. Sentieri pubblici di pianura tra centri urbani nell’Inghilterra del sud. (Foto dal Web)
LA DECLINAZIONE DEGLI ORTI A BERGAMO • • • • • • •
Fig. 9. Progetto orto con la scuola primaria “B. Valli” al giardino comunitario di via Rovelli a Bergamo. (Foto dell’autore)
la tratta ferroviaria o alle poche aree pubbliche date in concessione per lo specifico scopo di essere coltivate a orto domestico, si stanno sperimentando nuove forme spontanee di riavvicinamento alla terra. Come la presa in carico, in affitto o comodato, di aree private in abbandono e concesse ad una pluralità di soggetti. Il fenomeno orto non solo è in discreta espansione ma da noi è già declinato in una pluralità di forme che possiamo immaginare anche solo scorrendo il seguente elenco speditivo compilato su basi esperienziali:
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Orto Botanico di Bergamo Orto Sociale di Porta San Giacomo Orti scolastici Orti storici economicamente rilevanti (Conca d’Oro) Orti storici dormienti (via San Tommaso) Orti moderni in serra (Grumellina) Orti cooperativi con finalità sociali ed economiche (Torre Boldone, Grumellina) Orti condominiali (Dalmine) Condominio orticolo (San Martino della Pigrizia) Orti di Comunità (Valtesse, convento) Orto di giardino comunitario (Oltre il Giardino, via Rovelli) Orti biodiversi (Caravaggio) Orti micro (sul terrazzo, in fioriere, in sacche) Orti effimeri (nei contenitori dei venditori) Orti ferroviari (alla Trucca) Orti della disperazione Orti interstiziali Orti snob (nelle case patrizie) Orti verticali Orti di prossimità Orti pericolosi (inquinati dalle vie di grande traffico) Orti giardino (rari) Orti terapeutici (Treviolo) Orti domestici (ovunque) Orti magnifici (rari) Orti sinergici (Paladina, Lavanderio) Continua…
IL DISTACCO DELL’UOMO DALLA NATURA
ORTI EDUCATIVI La sperimentazione nelle scuole ci ha permesso di affermare che anche i contesti più difficili e poveri di spazi verdi possono essere dotati di elementi in cui esercitare tale pratica e innescare processi che vanno in questa direzione. In questi progetti l’Orto Botanico ha svolto e in alcuni casi svolge tuttora il ruolo di partner: 1. 2007. “La fioriera” Tipologia: costruzione partecipata di un grande contenitore lineare in tufo a margine di un parcheggio di scarso interesse, con bambini di 6-10 anni, insegnanti, due muratori e qualche genitore. Scuola primaria “Ghisleni”, Bergamo. 2. 2008. “Oltre il giardino, ovvero progetto Orto” Tipologia: allestimento di piccoli orti fuori e dentro una scuola con alunni (6-10 anni), insegnanti e volontari. Scuola primaria “Bernardo Valli”, Giardino comunitario di via Rovelli, Ufficio Opere del Verde del Comune di Bergamo. Il progetto scolastico ha meritato un premio da Regione Lombardia consistente in una serra collocata nel giardino comunitario (fig. 9). 3. Dal 2008 ”Adottiamo il giardino scolastico” Tipologia. Allestimento con allievi di 11 anni di un orto durante l’intervallo pranzo e rivitalizzazione di una grande fioriera abbandonata e non più considerata spazio scolastico. Dopo una prima fase in piena terra sono state allestite aiuole sopraelevate e tenute in funzione per un paio d’anni. Scuola secondaria di primo grado “T. Tasso” in Colle Aperto, Bergamo. 4. 2007. “Pensare il giardino/curare il giardino” 5. 2009. “Progetto etica ambiente” Tipologia. Due progetti strettamente correlati di discreta complessità per le implicazioni scientifiche, educative, comportamentali, filosofiche e non solo, che hanno tra l’altro comportato l’allestimento di piccoli giardini scolastici e adozione di piante in vaso, anche in sezioni scolastiche totalmente prive di terreno coltivabile. Scuola secondaria di secondo grado Liceo Linguistico “G. Falcone”, Bergamo. Età 15 anni. L’esperienza ci ha insegnato che solo grazie a insegnanti motivati si possono ottenere risultati significativi. La continuità si rivela un elemento critico, è 5
Il riferimento è l’Assessorato all’Urbanistica ed EXPO 2015.
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fortemente minacciata dalle normative e dalle riforme del mondo della scuola che di fatto limitano le attività extra curricolari e le risorse disponibili per tali scopi, per gli insegnanti compresi.
DALL’ALTO E IN AVANTI Anche se Bergamo dalla cinta delle mura veneziane si percepisce con una forte componente verde, si deve fare ancora molto per rendere consapevoli i cittadini del valore che hanno le aree verdi residue. Il Comune di Bergamo ha deciso di sostenere quattro azioni che coinvolgono l’Orto Botanico e che vanno nella direzione a nostro avviso auspicata di rafforzare la consapevolezza e la percezione della componente verde orticola e agricola della città, ciò in relazione al prossimo grande evento su scala internazionale e che ha baricentro in Lombardia, Expo 20155. In estrema sintesi ricordiamo: Azione 1. Cultura e natura - più valore all’Orto Botanico Prevede la riqualificazione paesaggistica dell’Orto Botanico di Bergamo “Lorenzo Rota” e la specifica valorizzazione dei temi di EXPO 2015 all’interno di una rinnovata esposizione temporanea e permanente. Azione 2. Astino: un sito espositivo naturale per EXPO 2015 Si ripromette di costituire una sezione dell’Orto Botanico di respiro europeo ad Astino e di attivare percorsi botanici tra natura e agricoltura, interpretandoli secondo il motto della grande manifestazione ‘Nutrire il pianeta/Energia per la vita’. Astino è un contesto di insolita bellezza, unico sotto il profilo ambientale, storico-conoscitivo (fig. 10). La connessione con l’orto botanico va nella direzione di ridare senso e aprire alla fruizione dei visitatori i dintorni del Monastero in chiave culturale avanzata. Ad Astino la città può ritrovare il senso dei ritmi naturali. Il comparto agricolo del progetto Astino prevede attualmente coltivazioni biologiche assai diversificate con vendita diretta da parte dei produttori. L’attenzione alla sostenibilità ambientale sarà massima e avrà valore dimostrativo, considerato l’inserimento in un sito di importanza comunitaria e soprattutto l’attuale ricchezza floristica e faunistica, sorprendente per una territorio a stretto contatto con la città.
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GABRIELE RINALDI
Fig. 10. Il monastero di Astino e il suo intorno, un luogo dove la città può ritrovare il senso dei ritmi naturali. (Foto dell’autore)
Azione 3: Orti e giardini per scuole che crescono: coltiviamo progetti e seminiamo conoscenza Si propone di attivare percorsi di tutoraggio e affiancamento per l’integrazione di progetti di orticoltura da inserire nelle attività curricolari delle scuole. L’azione si potrà ritenere svolta se avrà suscitato interesse e coinvolgimento attorno al tema delle piante orticole, se avranno avuto successo azioni formative esperienziali stimolanti orientate alla popolazione scolastica e agli adulti. In tal senso l’Orto Botanico intende diffondere l’approccio IBSE (Inquiry Based Science Education), un metodo di educazione scientifica basato sull’investigazione acquisito con il progetto europeo INQUIRE che ha coinvolto scuole e istituzioni di Bergamo6 nell’anno scolastico 2012-2013. Azione 4: Gli Orti storici di Bergamo: coltiviamoli in rete. Prevede l’attivazione di percorsi in città tra natura e agricoltura. Il progetto ha lo scopo di mettere in luce le qualità e le potenzialità di aree orticole d’interesse in ambito urbano per costituire una rete fruibile anche in chiave didattica, ricreativa, culturale, socializzan-
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Ufficio Scolastico Provinciale e Orto Botanico.
te, turistica e alla luce dell’evoluzione del rapporto nel corso del tempo tra la domus/abitato e l’hortus/ sistema del verde. Nonostante il molto terreno perduto (anche in senso letterale), a Bergamo si può e si deve fare ancora molto per orientare le scelte che coniughino sostenibilità ambientale, rigenerazione sociale, riqualificazione paesaggistica, come auspicato dalla presente edizione di ICONEMI. Non è stata ancora vinta la grande sfida che permetta dare per scontata una presenza agricola, orticola, naturalistica consistente e di qualità, come tale percepita e vissuta dai cittadini. Nemmeno i flussi turistici, sia interni che esterni, sembrano aver colto le opportunità offerte da una qualità ambientale che in parte è espressa e in buona parte deve essere portata in luce. In altri termini, Bergamo può sperimentare ancora molto. Bibliografia CHENEY J., NAVARRETE NAVARRO J. and WYSE JACKSON P. (eds), 2000, Action Plan for Botanic Gardens in the European Union. Publ. by National Botanic Garden of Belgium for Botanic Garden Conservation International.
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ELEONORA FIORANI*
GIARDINI E ORTI METROPOLITANI
Premessa - Per cogliere i diversi sensi di cui si caricano i giardini e gli orti metropolitani occorre tener conto che sono un aspetto di un’urbanizzazione diffusa, che si è nebulizzata, disegnando altre costellazioni che si formano e si disfano continuamente, in cui ogni luogo rinvia ad altri luoghi. Ne viene trasformata l’urbanizzazione stessa a livello strutturale e quel che si delinea è un continuum urbanorurale in cui è la campagna stessa che si urbanizza e quindi al trasferimento della città in campagna si aggiunge il trasferimento della campagna in città. Il risultato di questa ibridazione è “un paesaggio ermafrodito”, come lo chiama Davis, che, secondo l’antropologo Gregory Guldin, «potrebbe essere “un nuovo significativo percorso di insediamento e sviluppo umano […] una forma né rurale né urbana, ma una miscela dei due caratteri, in cui una fitta rete di transazioni lega grandi gruppi urbani alle loro regioni circostanti”» (in Davis, 2006: 17). Ed è proprio questo paesaggio misto, che l’architetto e urbanista Thomas Sieverts chiama Zwischenstadt (città intermedia) che a suo parere sta diventando il «paesaggio tipico del Ventunesimo secolo nei paesi ricchi come in quelli poveri indipendentemente dalle precedenti storie urbane» (ivi). È questo l’aspetto più interessante e nuovo su cui riflettere e concentrare l’attenzione, per coglierne la pluralità di esiti, a cominciare dalla differenza tra come questa trasformazione strutturale si configuri diversamente, anzi con caratteri e valori opposti, nelle zone ricche e in quelle povere, ma anche come processi differenziati: dalle “regioni metropolitane estese”, in cui è avvenuta una fusione tra l’urbano e il regionale, all’ibridazione città-campagna per cui i ricercatori parlano di desokotas (villaggi città) e si chiedono se si tratti di un processo di transizione o di «una nuova spettacolare forma di urbanesimo» (Davis: 17. Il che significa che, se la città si trasferisce in campagna, la campagna si trasferisce * Politecnico di Milano.
in città, e quindi avremo diversi modi in cui si declina la presenza di caratteristiche urbane nelle aree rurali e di tratti rurali nei centri urbani: da quelli più informali e poveri legati alle pratiche di sopravvivenza a quelli più sofisticati messi in atto con le nuove tecnologie. È anche in quest’ottica, anche se non solo in questa, che dovremmo leggere le ricche e futuribili città verdi o di smeraldo, le città ristrette e compatte, le nuove città-giardino e le aereo metropoli da un lato e dell’altro la “città patologica” che dimora nel cuore delle megametropoli, al di là di ogni dimensione urbana. L’altro aspetto cui occorre far riferimento è che il territorio è prima di ogni altra cosa un modo di intendere i luoghi e le relazioni dei luoghi e tra i luoghi. È senso del territorio, come diceva Kevin Lynch (1976), per cui l’attenzione, puntata all’interno delle metropoli postmoderne, sposta il suo asse sui valori, la fruizione, la qualità sensoriale, l’apprendimento, i modi in cui, all’interno di gruppi sociali, si ordinano i progetti individuali e si prendono le decisioni. Per questo a partire dagli anni Ottanta si sono moltiplicati gli studi sul ruolo della percezione dello spazio, e si sono fatte sempre più fitte le analisi umanistiche che utilizzano gli strumenti epistemologici della tradizione di Cassirer e di Merleau-Ponty per focalizzare l’attenzione sull’uomo che mangia, agisce, si sposta, come lo ha descritto Yi-Fu Tuan (1974), l’uomo totale, con il suo corpo, la sua pesantezza, la sua sensibilità, i suoi ritmi, le sue aspirazioni. O adottano criteri semiotici nell’interpretazione del territorio, letto come insieme di segni, per ricercare i significati, analizzare i comportamenti, le condotte, i processi decisionali. Inoltre, a partire dagli anni Novanta, quando l’Earth Summit di Rio de Janeiro ha posto l’accento sulla diversità dei locali e sulle logiche di sviluppo contestualizzate e partecipate, si sono moltiplicati gli studi, i progetti, le ini-
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ziative che hanno posto in primo piano la dimensione esistenziale dei territori, dando rilievo all’appartenenza ai luoghi e alla loro cura. Sono tutti modi per riscoprire e rivalutare le radici che legano persone e luoghi e mettere a frutto i saperi di cui le comunità sono depositarie. E sono elementi essenziali per il recupero di beni culturali, aree degradate e per il miglioramento di aree e servizi. Solo un approccio rasoterra, in cui riappaiono i diversi soggetti coinvolti, i processi di negoziazione, i vissuti, le voci e le istituzioni, e i modi in cui vengono messi in campo e collidono culture politiche, relazioni differenti con lo spazio e il tempo, permette di valorizzare la conoscenza minuta del luogo, di raccordare la città pensata e la città vissuta. E infine occorre tener conto che la strutturazione del territorio è il risultato continuamente mobile, da ristabilire e ricontrattare, della connessione istituita dalle diverse comunità che vi abitano tra l’ambiente fisico e quello animale e vegetale e le società con le loro diverse culture, per cui la territorializzazione è inscritta nei processi di simbiosi tra la struttura del territorio e gli uomini, gli animali e le piante, in un ecosistema di vite parallele, come è stato messo in rilievo dalla trama vegetale della storia umana per opera dell’etnobotanica. Essenziale è allora il riferimento allo specifico ecosistema in cui si inserisce e si definisce una società con le sue scelte. Così i nostri immaginari della foresta, del bosco, del verde si ridefiniscono a partire dalla stessa metropoli, che, a sua volta, deve essere ripensata alla luce dell’ecosistema in cui è inserita. Per questo nella crisi di sistema che stiamo attraversando si punta fortemente sul recupero della relazione con la natura in noi stessi e nei nostri habitat sia nelle sue valenze costitutive e originarie che in quelle dei valori di cui si carica nella contemporaneità. E quindi quelli di luogo, paesaggio, ecosistema sostenibile, in cui iscrivere il nostro abitare e le nostre metropoli e il nostro stesso futuro già da ora. Il che significa riattivare quel “pensiero della terra”, che troviamo fin dalle origini della filosofia con Anassimandro, e che il Fedro platonico evoca. È un pensiero che attraversa tutta la filosofia moderna da Kant a Heidegger, a Nietzsche. Il “pensiero della terra” ricongiunge i fili, mai del tutto spezzati, tra geografia, filosofia ed estetica, andando alle radici del pensare nei suoi rapporti con lo spazio e con il corpo, come appare in tutte le culture altre. Di qui l’importanza dei racconti, degli immaginari, delle rifondazioni di una territorialità originaria in cui si dà il carattere costitutivo del comportamento dell’uomo e della società nelle diverse forme dell’abitare. Nel “pensiero della terra” luogo e spazio si intreccia-
no e si richiamano e ci fanno intravvedere che è a partire dalla territorialità, quindi dalle forme dell’abitare, che si delineano, insieme alle strutture dell’identità e dell’alterità, le mappe dei saperi e delle azioni. Il significato allora più importante è che si torna a pensare la territorializzazione in rapporto con la natura, in una nuova visione della terra come Biosfera e dell’uomo come parte della comunità biotica. Altrettanto importante è riallacciare i nodi del percorso storico e culturale, che si è sedimentato nei processi di territorializzazione, nelle forme e nei colori del paesaggio, e i moduli costruttivi, nelle forme di vita e dell’abitare, nelle progettualità che li disegnano e danno loro forma e anima, nelle estetiche del quotidiano per ripensare la città come nuova cosmopoli nei valori di cui si carica. Giardini e orti metropolitani - Dagli anni Settanta è all’opera il movimento dei guerrilla gardening, giardinieri d’assalto, che compiono incursioni nelle zone abbandonate e degradate della città per piantare fiori e alberi. Gli hanno dato origine i Green Guerrilla di New York trasformando in giardino un lotto abbandonato a Bowery Houston e si sono rapidamente diffusi e moltiplicati, in modo virale, in tutto il mondo. Agiscono per lo più di notte, utilizzano i social network e gli sms per contrattarsi e postare le immagini delle azioni. A volte lasciano sul campo una firma o un cartello. Sono oggi nel mondo centinaia di migliaia. Così accade che nelle città di tutto il mondo, da New York a Londra, da San Francisco a Parigi, a Milano, Roma, ogni posto può diventare buono per far crescere un po’di verde, con la vegetazione spontanea (o meno) che si insinua su tetti, tubature e pareti verticali, con orti biologici casalinghi. È un fenomeno che non conosce confini. Orti, allevamenti negli spazi inutilizzati della città, sui tetti delle case e anche dei grattacieli si stanno sempre più diffondendo, passando da una moda tra l’ecologico e il sociale a uno stato di necessità in tempi di recessione, o a un nuovo modo di vivere, soprattutto negli Stati Uniti. Orti urbani sui terrazzi e sui balconi, nelle scuole e nelle carceri, orti d’artista, orti di pace, orti didattici, orti terapeutici, orti interculturali. Era già successo nel primo Novecento. Gli orti in città sono, infatti, iscritti nella lunga storia della città nel suo processo evolutivo e di progressiva distanziazione dal paesaggio. Venendo al secondo Novecento, si innesta un’altra componente, che è quella dell’immigrazione, come nel caso dell’orto di Berlino. A partire dagli anni ’60, infatti, il quartiere berlinese di Kreuzberg ha iniziato a ospitare migranti provenienti dalle più diverse parti del mondo: dalla
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conca del Mediterraneo, dai Balcani, dall’Africa, dall’Asia, dall’America latina, diventando un luogo ibrido di contatto, di amalgama, di contaminazione tra le culture più diverse. Così nel cuore di Kreuzberg, nella Moritzplatz, è sorto uno dei primi progetti berlinesi di agricoltura urbana, in cui si coltivano pomodori i cui semi provengono da India, Turchia e Marocco, il prezzemolo da Italia, Grecia e Giappone, le patate da Africa e Perù e le piante aromatiche da ogni angolo della terra. A quest’orto a gestione collettiva, che è stato chiamato “Il giardino delle principesse” (dal nome della strada dov’è situato), possono partecipare tutti gli abitanti del quartiere e avere, in cambio del lavoro sul campo, ortaggi e verdure a prezzi notevolmente inferiori a quelli del mercato. Durante l’inverno funge da centro comunitario e d’incontro, con un bar e un piccolo ristorante dove si cucinano zuppe ed altri piatti a base di ortaggi della sua coltivazione. L’orto urbano di Berlino ha fatto da battistrada. I suoi ideatori Shaw e Clausen e quanti vi operano sono stati chiamati per progetti simili sia in altre città tedesche che all’estero, tengono seminari con università e offrono consulenze. Così, le esperienze di agricoltura urbana hanno cominciato ad affermarsi anche in altre grandi città europee e si stanno facendo strada in tutto il mondo. Anche in Italia, sul modello delle community garden statunitensi, si stanno diffondendo iniziative volte a recuperare aree dismesse, con progetti per la creazione di aree verdi condivise dai cittadini sia nella progettazione che nell’allestimento e nella manutenzione. Particolarmente interessante è l’esperienza degli orti urbani a Roma, che unisce cura del territorio e agricoltura urbana, riavvicinando ai cicli della natura e iscrivendosi nei modelli economici alternativi (economie a chilometro zero). Interessa per lo più terreni abbandonati o sottratti alla speculazione edilizia e, anche, in alcuni casi, se ne rende esclusivo l’uso. Accade quando la comunità locale è coesa e gli abitanti «si auto-organizzano e realizzano una vera e propria costruzione di spazi pubblici o di aree verdi (eventualmente attrezzate) e delle relative attrezzature pubbliche mancanti, sia con fondi propri sia ottenendo fondi (anche minimali) dall’amministrazione» (Cellamare, 2011: 130). A Torino si sta avviando un progetto di “Giardinieri Barriera”, che vuole contrastare il degrado urbano agendo contro l’incuria delle aree verdi. Attualmente gli orti urbani sono un crocevia di funzioni, compresa quella di rivitalizzare le aree e le strutture abbandonate in seguito alla crisi economica. Ciò che li caratterizza è la polifunzionalità: offrono non solo prodotti da mangiare, ma anche luoghi
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di svago e di nuova socialità e risposte ambientali. Rispondono a una domanda sociale di paesaggio, in cui si incontrano la ricerca di sicurezza alimentare e il puro piacere che sfocia anche in una dimensione estetica. E non è un caso che gran parte degli orti urbani siano orti-giardino. Sono anche espressione di un mutamento dei valori, che tende a mettere in atto un diverso rapporto con la natura e la terra, privilegiando l’acquisto di prodotti del territorio o alla fonte o di prodotti biologici. E un modo di trovarsi insieme trasformando un tratto dismesso in un giardino. Così ora è possibile passeggiare sulla grande mela a 10 metri d’altezza, tra orti segreti, boschi metropolitani, fontane e giardini con centinaia di specie di piante e di fiori in un parco lungo e stretto, nel West Side di Manhattan. Il 20 giugno 2009 è stata inaugurato il primo tratto riqualificato della vecchia ferrovia High Line trasformata in un parco sopraelevato. Espressione d’inizio Novecento, fin dagli anni Trenta la vecchia ferrovia, un nastro di cemento e acciaio, adibita al trasporto di merci, è stata surclassata negli anni Cinquanta-Sessanta dal trasporto su gomma per cadere definitivamente in disuso nell’Ottanta. Così è diventata terreno fertile per quello che Gilles Clément ha definito “terzo paesaggio”, un luogo abbandonato dall’uomo in cui la natura si riprende i suoi spazi, coprendo i binari d’erba, alberi e arbusti spontanei e proprio per questo rifugio della biodiversità. Una green way che grazie alla determinazione degli abitanti del quartiere è stata trasformata in un parco assolutamente unico, un rifugio dalla vita di strada e uno spazio paesaggistico con vista sul fiume. Il progetto è stato studiato coniugando insieme le idee degli abitanti e dei progettisti, un team di architetti di Field Operations e di Diller Scofidio + Renfro, per riqualificare uno spazio storico, un’immagine identitaria per gli abitanti della zona, carica di immaginario e di affettività. Per realizzarlo è stata creata l’associazione High Line Friends. Così la zona è stata restituita agli abitanti senza modificare il quartiere come invece è avvenuto a Soho, dove la trasformazione delle fabbriche in loft, gallerie d’arte e boutique, ha costretto gli abitanti del distretto popolare a spostarsi in zone economicamente accessibili e svuotato l’avanguardia artistica. Qui invece si è lavorato per trovare un equilibrio tra un’estetica della rovina e il suo racconto, fatto di erbe selvatiche che crescono con lo scheletro del metallo di rotaie e rivetti e la creazione di un corridoio verde per i pedoni. Per questo il lastricato è fatto di singole lastre prefabbricate, accostate in modo da lasciare spazi e vuoti in cui la vegetazione possa incunearsi ed emergere come erba selvatica.
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Le lunghe unità della pavimentazione si incastrano e si combinano in letti per piante che li rendono una textura della flânerie in cui muoversi, vagare, senza seguire una strada obbligatoria. Molte delle specie che crescevano sul tetto della linea ferroviaria sono state integrate nel paesaggio del parco, che con le sue fioriture sottolinea il passaggio del tempo e il susseguirsi delle stagioni. Collinette e rampe strutturano uno spazio, in cui sia possibile percepire la natura con un inedito sguardo sulla metropoli, e soprattutto inaugurano nuovi modi di abitarla. I percorsi di accesso prolungano la transizione dalla frenesia delle strade alla calma di un altrove-qui. E contemporaneamente il progetto architettonico cerca un dialogo con la città: si sofferma su scorci, ragiona agli incroci con le vie principali, utilizza gli accessi con scale che portavano alle fermate e vi affianca nuove torri-ascensore, che conducono alla sopraelevata tra panchine e piazzole. Intorno al nuovo parco, che si colloca all’interno di un progetto più vasto, la creazione della “città del domani”, stanno fiorendo molti eventi e progetti interessanti: visite guidate da storici dell’architettura, visite alle gallerie d’arte, lezioni di botanica, parate, festival, storie per bambini, gala di beneficienza. Inoltre l’High Line è diventato il primo progetto di “agritettura”, nuovo termine coniato dai newyorkesi che lo hanno soprannominato Park on the Skyn. Sono numerosi in tutto il mondo gli esempi di giardini “segreti” nati dalle ceneri di vecchie vie di trasporto industriale: la Promenade Plantée di Parigi, nel dodicesimo arrondissement, il primo parco pubblico sopraelevato che si snoda tra le abitazioni, il Bridge of Flawers, in prossimità delle cascate Snelburne in Massachusetts. Nella stessa Parigi una parte della Ligne d’Auteuil è stata trasformata in passeggiata e la Promenade Pereire è stata realizzata sul percorso della Ligne de Petite Ceinture. E altre sono in attesa di essere ultimate e trasformate in green way o oggetto di studio in diverse località statunitensi e europee. Comitati di riappropriazione del verde urbano e riqualificazioni sostenibili stanno spuntando ovunque un albero possa prendere il posto del ferro e del cemento. La presenza degli orti urbani nelle metropoli moderne è più importante della loro microscopica realtà. Sono un indice di nuovi valori e modi d’essere: contribuiscono spesso al recupero di aree degradate e abbandonate della metropoli, costituiscono dei polmoni verdi per le metropoli industrializzate, educano a pratiche ambientali sostenibili, rispondono all’esigenza di “fare comunità” e offrono un’alternativa alle categorie sociali emarginate dalla società moderna. Certo ci sono contropartite e rischi igienico-sanitari e ambien-
tali, se non vengono gestiti correttamente, quando gli orti sono abusivi e per autoconsumo e vengono recintati con materiali di recupero. Anche il tema dell’incolto ha trovato una particolare rivisitazione da parte di Gilles Clément, che non lo intende come un segno di degrado e, anzi, ne valorizza la presenza come riconquista e liberazione da parte della natura dei luoghi abbandonati dall’uomo, nelle fabbriche in disuso, nelle ferrovie soppresse, nei campi abbandonati, nelle città decadute. Sono luoghi indecisi, luoghi dei margini, dispersi, lasciati a “un’evoluzione degli esseri biologici che compongono il territorio, in assenza di decisione umana”, in cui la biodiversità trova spazi e rifugi per la sua sopravvivenza. C’è in ciò un ritorno della visione romantica di una natura rigeneratrice e capace di rinascere orgogliosa dalle sue stesse ceneri che affascina in più modi l’uomo contemporaneo. E sono anche nell’idea di Clément un modo di considerare tutti gli spazi antropizzati, tutti i frammenti di giardino portatori delle grandi visioni del mondo come parti un giardino planetario, un “sistema eco-etnologico plurale e unitario, allo stesso tempo”, il cui giardiniere è l’umanità intera. L’aspetto più importante è però che nel ritorno dei giardini e degli orti è nuovamente presente una rifondazione che si vuole riferita alla natura, proprio perché il giardino è sempre valso come progetto dell’abitare e simbolica promessa di rinascita. L’idea, infatti, che da esso tutto possa ricominciare era già stata il grande immaginario degli umanisti ed è ritornata ad esserlo, diversamente, nel movimento della città-giardino che ha attraversato il Novecento e l’ha fatto più recentemente negli anni Ottanta con il ritorno del giardino nella ristrutturazione delle città postfordiste. E ritorna ora, nelle città del terzo millennio, assumendo, negli spazi esplosi della modernità, in cui la natura appare perduta, il valore di un recupero del rapporto fondativo con la terra, della terrestrità e del senso umano dei sensi, da cui si può avviare il mutamento di statuto della metropoli e della condizione umana di vita, coniugando insieme natura e tecnologia, naturale e artificiale, la pianta e l’architettura. Giardini pensili - Se esaminiamo ora la rinascita negli anni Ottanta dell’idea di giardino pubblico e di parco urbano, vediamo che assume nuovi ruoli e funzioni e si carica di diversi significati e simboli, a seconda che prevalga la componente di recupero dei luoghi dismessi e di arredo urbano o quella di migliorare la vita attraverso la riqualificazione del territorio e rispondere a specifiche istanze dei diversi gruppi sociali. Negli ultimi decenni si sono molti-
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plicati gli interventi che portano alla creazione di nuovi parchi per la città quali elementi della riconfigurazione della sua identità. I nuovi parchi urbani non hanno solo l’intento di ricreare paesaggi, ma quello di rispondere a una nuova visione della città come ecosistema per capire il ruolo della componente vegetale al suo interno. Sono volti a un’interpretazione contemporanea della natura non solo da coniugare come parte integrante della metropoli, ma come capace di ripensarla e rinnovarla nell’idea e nell’urbanistica. Sono giardini e architetture che possono sorprendere per la loro configurazione, che utilizzano nuovi materiali e creano nuove forme e aprono a nuovi scenari. Nascono così parchi e ibridazioni tra architettura e giardino, tra metropoli e giardino che non parlano solo della natura ma delle relazioni tra gli abitanti e l’ambiente. Nel saggio La seduzione del luogo, J. Ryckwert, interrogandosi sulle caratteristiche costitutive del luogo urbano, riporta l’attenzione sulla necessità di rendere gli spazi della città contemporanea fruibili soprattutto per favorire l’esperienza sensoriale nella quotidianità. Di qui l’importanza del giardino, luogo impregnato di sensorialità, che ritorna centrale nella figurazione dei luoghi pubblici e come metafora di una vivibilità urbana possibile. Dato che in molte città è venuto a mancare lo spazio utile per creare queste oasi nella città, la soluzione adottata è quella di realizzarla sulla pelle stessa della città moderna con i tetti e le pareti verdi. Così i giardini pensili, che erano una delle caratteristiche più celebri dell’antica Babilonia, ritornano oggi nella richiesta di rivestire delle strutture a terrazza con giardini o con tetti e pareti verdi al fine di migliorare la vita sia personale che sociale degli abitanti e per ristabilire un equilibrio tra città e natura. Ha anche portato all’ideazione e alla ricerca di nuove forme di simbiosi tra architettura e giardino che rinnovano il modo di pensare la stessa città. I tetti verdi si stanno sempre più diffondendo. Oggi sono i paesi scandinavi, la Germania, la Svizzera, l’Austria ad essere all’avanguardia in questo campo, sostenuti da sovvenzioni delle autorità locali per i vantaggi che offrono di protezione dalle intemperie e di assorbimento dell’acqua rispetto al rischio di inondazioni. È una nuova visione dell’architettura urbana, che fonde la vegetazione con gli edifici. I vantaggi del “verde pensile” dei tetti, fatti di prati e giardini, sono molteplici: riduzione del rischio allagamenti, miglioramento del microclima, mantenimento del caldo d’inverno e del fresco d’estate, assorbimento di polveri e rumori, aumento dei polmoni verdi nella città, oltre a trasformare i tetti da spazi inutilizzabili a spazi abitabili e a favori-
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re l’insediamento di ecosistemi animali. Un discorso analogo a quello che riguarda i tetti verdi riguarda il rivestimento delle pareti esterne degli edifici. Le realizzazioni che si conoscono vanno da quelle molto semplici, che consistono nel far crescere rampicanti, a quelle che consentono la progettazione di veri e propri giardini con camere di ventilazione che offrono innegabili vantaggi di isolamento termico e miglioramento del microclima per l’edificio e, talvolta, a inedite soluzioni architettoniche ed estetiche. Andando a costituire una “seconda pelle” degli edifici, consentono un guadagno energetico ed economico e un miglioramento della vita di chi vi abita. Mitigano l’inquinamento acustico, assorbono CO2 e polveri sottili dell’ambiente urbano, purificando l’aria. Il verde verticale è già un sottoinsieme dell’ormai diffusa Green Architecture. Ne sono un esempio i “Muri Vegetali” di Patrick Blanc, veri e propri giardini aggrappati a pareti e colonne, senza occupare spazio in orizzontale e, soprattutto, senza terra per cui la verticalità non è più un ostacolo per la vita e un muro può diventare un organismo vivente. Utilizza, infatti, la capacità della natura di crescere aggrappata alle rocce E colture che crescono attaccate a una base di feltro in cui scorre acqua e fertilizzante, a rilascio controllato da un timer elettronico. Del tutto nuove sono le fattorie verticali, coltivazioni in serre urbane, che riducono l’uso di acqua dolce e fertilizzanti, accorciano i trasporti, riciclano le acque reflue che diversamente finirebbero negli impianti di depurazione, e che si iscrivono nell’idea di una città auto-sostenibile. Professori di scienze ambientali, come D. Despommier della Columbia University di New York, sono, infatti, convinti che il futuro dell’agricoltura si trovi nelle “vertical farms”, in coltivazioni sviluppate verticalmente in gigantesche biotorri autosufficienti, cosicché l’agricoltura torni a far parte del paesaggio urbano, riducendo il consumo energetico, l’uso di risorse nella produzione alimentare, i costi del trasporto dalle campagne e l’inquinamento. Inoltre le tecniche di coltivazione consentirebbero risparmio d’acqua e di produrre raccolti lungo l’intero arco dell’anno, senza l’impiego di pesticidi. Sono già arrivate finanziamenti per un centro di agricoltura urbana a Dubai. Anche in Canada ci si muove in questa direzione. Il progetto delle vertical farms non è esente da polemiche sulla sua stessa realizzabilità. Una considerazione finale - È a livello micro territoriale che ha luogo e viene gestita la vita del quotidiano ed è proprio in questo ambito che, come si è visto parlando di orti e giardini, si assiste al fenome-
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no nuovo di neoagricoltori, neorurali, neoartigiani. A cui vanno aggiunti i fenomeni noti e da più parte analizzati delle associazioni senza scopo di lucro, o non esclusivamente di lucro: imprese cooperative in autogestione, comunità agricole, associazioni per il mantenimento di un’agricoltura contadina, sistemi di scambio locale, banche del tempo, comitati di quartiere, asili nidi nelle case, negozi autogestiti, cooperative di artigiani e per il sostegno dell’agricoltura contadina, banche etiche, società per l’autogestione, organizzazioni del commercio equosolidale, associazioni di consumatori, aziende di inserimento. Un universo economico solidale, inevitabilmente destinato a scomparire o ad essere assimilato al sistema se non è inserito in una prospettiva di un cambiamento radicale. E tuttavia le alternative per uscire dallo sviluppo si danno soprattutto a livello locale nell’ambito del decentramento, restituendo «al territorio della sua dimensione di soggetto vivente ad alta complessità» (Magnaghi, 2000: 65). È in questo senso che F. La Cecla (2012) legge l’universo economico solidale nei termini in cui lo ha ripreso R. Sennet (2008 e 2012), come quello in cui vale un fare qualcosa per sé e per gli altri: dagli orti agli asili gestiti in comune, al mutuo appoggio, al fare artigiano, al fare artistico e letterario. Un fare, che Illic chiamava vernacolare, e che sta monte in tutti i campi di tecniche raffinate e della stessa conoscenza scientifica moderna. Un fare per il piacere di fare e di sentirsi utili, di possedere un mestiere, un fare con l’intelligenza delle mani e con la mente, un fare con il corpo, con gli altri. Sapendo, come diceva Focillon, che la mente fa la mano e la mano fa la mente. Un fare che è la fonte del valore che esiste prima del denaro. E che oggi si amplia all’informatica, ai social network, ai blog. Un fare creativo che è stato una chiave del rilancio economico e del balzo dei paesi emergenti come la Cina, il Brasile, l’India. E che oggi è parte integrante dell’economia del simbolico. E però la restituzione al territorio della sua dimensione vivente è processo complesso e lungo che comporta «la costruzione di una nuova geografia fondata sulla rivitalizzazione dei sistemi ambientali e sulla riqualificazione dei luoghi ad alta qualità dell’abitare come generatori di nuovi modelli insediativi capaci di rivitalizzare il territorio dalle ipotrofie della megalopoli» (ivi). Un processo che richiede nuove forme di democrazia, che sviluppino l’autogoverno delle comunità che vi abitano, che se ne prendono cura con altre ottiche ambientali e tecniche e di governo, che sono modi diversi di intendere la gestione e la valorizzazione del territorio, «non più in senso gerarchico ed etero diretto, ma secondo logiche autonome partecipative» (Banini: 57).
Diviene allora cruciale la condivisione di esperienze, e l’esigenza di pensare gli spazi urbani come terreno di incontro tra esigenze diverse. È del resto nella condivisione della progettualità e nell’assunzione di responsabilità, andando al di là delle logiche individualistiche, che è perseguibile l’obiettivo della sostenibilità e la possibilità di rendere più vivibili le città, focalizzando l’attenzione sugli ambienti di vita e sulle loro connotazioni ambientali e culturali. E ciò vale anche nell’istanza di coniugare insieme la qualità della vita e la sensibilità ambientale per cui la natura, l’ambientalismo, l’ecologia, la biocompatibilità ritornano come valori insieme alla dimensione etica, a quella sociale e responsabile e equosolidale, in cui si colloca l’unione tra il verde e l’architettura, ritornando a considerare il verde come l’ambiente ideale della vita umana. Ed è visibile anche nel mutamento dei valori in corso, nel recupero selettivo del passato con il ripristino di fiere, sagre, con il vintage e revival, nella valorizzazione dell’autenticità e della naturalezza, di ciò che è espressione del genius loci, di ciò che è tramandato dal passato e da questo ha assunto nuovo valore, recuperando memorie di storie antiche, di tradizioni, di saperi e sapori antichi, assunti e proiettati nel contemporaneo. La riscoperta del territorio mette l’accento sul villaggio più che sul globale e si riappropria di abitudini, usanze, prodotti del locale e della sua cultura per aprire nuovi orizzonti progettuali. Pone nelle stesse città in primo piano l’attenzione per la persona e l’ambiente. Sono città che praticano una politica ambientale efficace e sostenibile, utilizzando e adottando tecnologie innovative, la salvaguardia delle riserve naturali della regione, dei paesaggi, delle strutture urbane che le caratterizzano, il restauro dei centri storici, la progettazione delle nuove superfici. Il territorio locale diventa allora la base dell’interazione tra i diversi attori che vi operano e l’ambiente fisico e i saperi e patrimoni in esso incorporati e presenti. È un movimento che si propone di valorizzare le risorse e le differenze locali e i processi di autonomia rispetto all’unicità del mercato. Per cui tornano a circolare termini e realtà che sembrano consegnati alla storia, come quello di paese per la bioregione, come unità a misura d’uomo in termini sociali, economici, omogenee e solidali, che preserva con la peculiarità dei territori i modi diversi di stare al mondo. E promuove una rinascita del locale senza localismo, senza chiusure ma moltiplicando le esperienze di territorializzazione, coordinando protesta sociale con protesta ecologica, con la solidarietà verso gli esclusi. Questo tipo di sensibilità ecologista è una sensibilità etica che, secondo Affusoli (2007: 49 e segg.),
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possiamo indicare con un termine coniato da Paolo Alto, la prossemica, per dire la presa in carico di ciò che è vicino ma in interazione con l’ambiente globale. È inclusione del reale vissuto nel quadro della realtà totale, ritornando a una visione della casa come Domus, la cui importanza non si limita alle quattro pareti, ma prende senso in funzione della flora, della fauna, cioè dell’ambiente che la circonda. Ciò per dire che il legame sociale si costruisce simbolicamente per un’approssimazione successiva di luoghi. Ciò che è vicino è in osmosi. Vivere in osmosi è vivere in contiguità con l’ambiente, che oggi vive all’interno della città e ne ridefinisce il senso. Questo domestico, questa immediatezza agisce per contaminazioni successive, per irradiazione, dando luogo a un’etica incarnata, concreta nel senso del concrescere, del crescere con ciò che la circonda. L’ambiente sociale non prende senso che in funzione dell’ambiente naturale: accentua lo spazio, il territorio in quanto è questo che gli permette di essere. Quindi un’etica che è modo di vivere, di esistere a partire da un luogo che si divide con gli altri. Lo spazio è il tempo vissuto delle piccole storie, dei momenti che per sedimentazioni successive fanno la cultura concreta, una maniera condivisa, un legame carnale. E la morale diventa responsabilità etica verso la collettività, diventa istanza etica che fa tutt’uno con l’immaginazione. Per questo non basterà il riorientamento dell’economia verso energie rinnovabili e attività ecosostenibili, verso le telecomunicazioni e le infrastrutture, per evitare che la green life, le città e i quartieri dell’ecosostenibile portino solo a gentrifi-
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cazioni del territorio, a luoghi del lusso, chiusi, blindati, di cui sempre più è si è costellata la globalizzazione.
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FRANCESCA FORNO*
DAL CONSUMO CRITICO ALLE RETI DI ECONOMIA SOLIDALE PER UN FUTURO AUTOSOSTENIBILE DEI TERRITORI
1. INTRODUZIONE Consumo critico, agricoltura biologica, orti urbani, mercati territoriali, filiera corta, gruppi di acquisto solidali… cosa sta succedendo alla società dei consumi, dei grandi ipermercati e degli outlet? L’aumento del consumo responsabile, l’emergere di reti e distretti di economia solidale sono fenomeni di “moda”, e quindi passeggeri, oppure ciò che stiamo osservando è l’effetto di alcuni cambiamenti che hanno pian piano assunto sempre più visibilità e radicamento grazie a scelte strategiche portate avanti da movimenti sociali che hanno cercato di identificare e praticare possibili vie d’uscita ad una società sempre più iniqua e orientata allo spreco di risorse e al consumismo? Come si cercherà di argomentare in queste pagine, il diffondersi dell’agricoltura di prossimità, la crescita di iniziative come gli orti collettivi, i mercati a Km0 e molte altre “nuove” forme di produzione e consumo che si basano su relazioni mutualistiche e di reciprocità, possono essere lette come risposte “dal basso” a importanti cambiamenti che hanno interessato le democrazie tradizionali negli ultimi decenni. In particolare, il processo di globalizzazione ha portato ad un forte allentamento del rapporto tra lavoro-produzione-consumo e fra economia e società locale. Su questo hanno pesato la rottura del tradizionale legame tra impresa e territorio: le imprese hanno teso sempre di più a guardare ad altri mercati e a delocalizzare la loro produzione alla ricerca di più bassi costi e alti guadagni. La maggiore facilità di circolazione delle merci e l’aumento della concorrenza dei nuovi mercati hanno inoltre limitato le ca-
pacità redistributive dello Stato e portato ad una progressiva erosione del welfare state, con chiare ed evidenti conseguenze sulla distribuzione della ricchezza che infatti si è polarizzata sempre di più portandoci verso una crisi che, come è noto, ha due principali e interrelate componenti: quella economica e quella ambientale. D’altra parte, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, si sono osservate notevoli spinte verso l’individualismo e la progressiva perdita dell’interesse dei cittadini per il cosiddetto bene comune, complici la fine delle grandi narrazioni ideologiche e la trasformazione dei tradizionali canali di mediazione degli interessi (partiti, sindacati ma anche importanti settori dell’associazionismo) che sempre più hanno rivolto la loro azione verso se stessi, perdendo la capacità di generare “capitale sociale” (Forno e Polizzi, 2012). La ricerca sempre più spinta al guadagno individuale, infatti, non ha riguardato solo e esclusivamente gli attori economici, le imprese. La corsa al contenimento dei costi e alla massimizzazione del profitto ha interessato settori sempre più ampi della società, fino a pervadere le pratiche quotidiane di consumo dei cittadini che nel loro ruolo di consumatori, spesso inconsapevolmente, co-partecipano al mantenimento e diffusione di pratiche economiche ingiuste e dannose per l’uomo e l’ambiente. D’altronde la società dei consumi – ovvero un modello sociale che si caratterizzata sul primato del consumo e sulla centralità della figura del “consumatore” a discapito di quella del “cittadino” – si basa su una forma di cittadinanza passiva (Baudrillard, 2010). Mentre l’idea di “cittadino” nasce in collegamento con l’affermarsi della “sfera pubblica”, in cui
* Ricercatrice di Sociologia generale presso l’Università degli Studi di Bergamo, dove insegna Sociologia generale e Sociologia dei consumi. Si occupa di partecipazione politica con particolare attenzione alla protesta e ai movimenti sociali. È autrice di numerosi saggi sulle nuove forme di partecipazione politica e sul consumo critico. Per Altreconomia ha pubblicato nel 2011 La spesa a pizzo zero. Consumo critico e agricoltura libera: le nuove frontiere della lotta alla mafia. Insieme a Cristina Grasseni e Silvana Signori, ha fondato l’Osservatorio CORES - Gruppo di ricerca su consumo reti e pratiche di economie sostenibili. È condirettrice della rivista Partecipazione e Conflitto.
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al centro delle azioni sia dei singoli che delle istituzioni c’era il “bene pubblico”, il “consumatore” è una figura motivata da desideri di tipo strettamente personali e strumentali, che non tengono conto delle esigenze e dei vincoli sociali. La centralità assunta dal consumatore, che diviene il centro sia delle produzione che della politica e delle politiche, è fondamentale per comprendere i processi di frammentazione e individualizzazione della società contemporanea (Bauman, 2008). Se nelle società tradizionali gli scambi tra gli individui erano guidati da una logica simbolica e cerimoniale affine al dono e nelle società primo capitalistiche i rapporti economici erano vincolati da una serie di diritti e di doveri (per larga parte) regolati dallo Stato, nelle società tardo-capitaliste gli individui tendono a perseguire i propri interessi attraverso transazioni anonime che si caratterizzano per un rapporto tra acquirente e venditore orientato dall’indifferenza reciproca e guidato spesso dalla sola logica della massimizzazione del profitto individuale. Data la pervasività della “logica del profitto” e la centralità assunta dal consumo nelle società tardocapitaliste, non stupisce che molti movimenti sociali contemporanei abbiano individuato proprio nel “consumo critico” un importante leva per il cambiamento sociale e identificato nel consumatore (o meglio del cittadino nel suo ruolo di consumatore) un interlocutore a cui rivolgere le proprie istanze di giustizia sociale e ambientale. Nelle pagine che seguono, le trasformazioni recenti di rigenerazione sociale, che sembrano star trasformando i luoghi e il nostro modo di viverci, verranno messe in relazione con il diffondersi dei movimenti dell’Economia Solidale. Come si sosterrà, infatti, questi attori hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo decisivo nella diffusione delle pratiche economiche non motivate dal solo profitto.
2. IL CONSUMO CRITICO Ciò che viene identificato con il termine di consumo critico riguarda l’acquisto di beni e servizi in base a considerazioni che non tengono conto solo del prezzo e della qualità dei prodotti, ma anche del comportamento dei produttori (l’eticità del trattamento accordato ai lavoratori) e delle modalità di produzione (ad esempio la sostenibilità ambientale del processo produttivo). Tradizionalmente più radicato nei paesi del Nord America e del Nord Europa (Ferrer-Fons, 2006), dalla metà degli anni Novanta, il consumo critico ha registrato una notevole crescita anche in contesti
territoriali dove era rimasto a lungo un fenomeno di nicchia. Anche nel nostro paese si assiste nell’ultimo decennio ad una rilevante crescita del numero di persone che compiono i propri acquisti sulla base di scelte etiche, orientate alla produzione di un benessere che comprenda solidarietà e sostenibilità ambientale (Forno e Ceccarini, 2006; Tosi, 2006; Leonini e Sassatelli, 2008; Rebughini e Sassatelli, 2008). Le forme di consumo “socialmente orientate” non sono un novità assoluta. Il boicottaggio, per esempio, ha una storia che va molto indietro nel tempo. Forme di boicottaggio sono state ad esempio utilizzate dal movimento per l’abolizione della schiavitù (Micheletti, 2009). Per tutto l’Ottocento e il Novecento il non acquisto di certi prodotti ha rappresentato inoltre una strategia utilizzata come strumento di lotta contro quelle aziende che trattavano i propri dipendenti in modo ingiusto o come forma di opposizione a certe scelte dei governi, come è stato il caso del famoso boicottaggio organizzato contro i test nucleari francesi nel 1995 a Mururoa (della Porta e Diani, 1997). Quando si parla di consumo critico ci si riferisce tuttavia oltre che a questa forma d’azione, che rappresenta la sua variante negativa, anche a ciò che in inglese viene chiamato “buycott” (da “buy” – comprare), ovvero alle diverse forme positive di acquisto e investimento responsabile. Negli anni recenti, in tutto l’occidente, la domanda complessiva di mercato di prodotti alimentari, manifatturieri o di servizi provenienti da imprese che garantiscono di adottare un codice di comportamento attento al rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente ha registrato una considerevole crescita. Questo aumento segnala come questo tipo di pratica incontri oggi condizioni culturali, strutturali e organizzative che ne favoriscono la diffusione. Sempre più, cioè, il consumo quotidiano è utilizzato come strumento per esprimere impegno e responsabilità nella sfera pubblica attraverso acquisti che premiano prassi produttive e di mercato coerenti con la sostenibilità dello sviluppo e il rispetto dei diritti umani. A questo riguardo le ricerche condotte sottolineano come l’aumento dei consumi critici si leghi all’emergere di un tipo di cittadino che la letteratura sociologica definisce “cittadino critico”, ovvero un cittadino che associa un forte sostegno ai principi democratici, ma che rivela una sfiducia crescente nei confronti del funzionamento delle istituzioni e dei canali partecipativi tradizionali. Il cittadino critico – che si caratterizza per alcuni tratti socio-economici particolari, tra cui un livello di istruzione più elevato della media – dimostra una
DAL CONSUMO CRITICO ALLE RETI DI ECONOMIA SOLIDALE
particolare disponibilità ad assumersi i costi (sia in termini economici che di tempo) della sperimentazione di modalità innovative d’azione e partecipazione in favore della promozione del “bene comune”. Nel nostro paese, alla fine degli anni ’90, questa componente sociale è stata fortemente influenzata dalle manifestazioni che hanno seguito alla cosiddetta Battaglia di Seattle (la manifestazione contro il WTO nel 1999). Come è noto, una particolarità del movimento per la giustizia globale è stata l’aver individuato nel mercato una nuova arena di confronto politico (Micheletti, 2010). È in questo ambito che il consumo critico inizia a diffondersi a fasce sempre più ampie della popolazione. L’azione comune in campagne e controvertici delle diverse organizzazioni attive nella protesta contro la globalizzazione neoliberista favorisce, da un lato, lo scambio di contenuti e di esperienze, dall’altro, la contaminazione delle forme d’azione tra i diversi settori di movimento1 (della Porta, 2003). La diffusione del consumo critico è resa possibile anche grazie alla pubblicazione di numerosi libri, manuali e riviste – tra cui Altreconomia e Valori – che informano sulla storia dei diversi prodotti che entrano nella busta della spesa. Nel 1996 viene pubblicata dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo la prima Guida al consumo critico (Centro Nuovo Modello di Sviluppo, 2009), un testo che fornisce informazioni dettagliate sul comportamento delle imprese nazionali e internazionali – come le loro pratiche con i dipendenti, la loro attenzione all’ambiente, ecc. – e sui boicottaggi in corso di alcuni prodotti. La guida vende in questi anni centinaia di copie, diventando un punto di riferimento per i consumatori critici. Un ruolo determinante nella diffusione del consumo critico è stato inoltre quello delle nuove tecnologie della comunicazione. Alcune delle più celebrate azioni di boicottaggio sono state condotte e organizzate principalmente on-line: la campagna con-
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tro la Nike e quella contro la Shell. L’utilizzo di internet si dimostra particolarmente importante sia per permettere la diffusione di informazioni dettagliate che per favorire il coordinamento delle diverse iniziative (Rosenkrands, 2004). Attorno all’aumento del consumo critico, si consolida in questi anni una realtà organizzativa costituita da molteplici attori: associazioni, cooperative, piccole e medie imprese attive nella commercializzazione di prodotti del commercio equo e solidale, nel turismo responsabile e nella finanza etica.
3. LA CRESCITA DELLE ORGANIZZAZIONI DELL’ECONOMIA SOLIDALE Tra la metà degli anni novanta e l’indizio del nuovo secolo, particolarmente imponente appare la crescita del commercio equo e solidale italiano, e questo sia in termini di visibilità che di fatturato. Il numero delle botteghe del mondo (BdM) cresce – seppur in modo sbilanciato, ovvero principalmente più nel nord e nel centro del paese – in modo esponenziale, passando da 91 nel 1993, a 273 nel 1998, a 458 nel 20042 (Rinaldi, 2000; Musso, 2004; Viganò, Glorio e Villa, 2008). Oltre allo sviluppo del CES, questi anni sono segnati anche dalla moltiplicazione nel numero degli operatori e delle agenzie di viaggio specializzati nel settore dell’ecoturismo. Relativamente al mercato italiano, un’indagine svolta nel 20023 ha rilevato come questo settore muovesse un giro d’affari stimabile attorno al 2% del mercato turistico complessivo, con potenziali di crescita annua del 20%. Questi anni sono inoltre segnati dall’espansione e dal consolidamento anche delle forme di risparmio e di finanza etica, nel 1999 dall’esperienza di alcune MAG4, insieme a 21 associazioni di volontariato e migliaia di cittadini, viene fondata a Padova la Banca Popolare Etica5.
1 È proprio questa situazione che sembra aver facilitato la diffusione del consumo critico, in precedenza prerogativa di specifici gruppi, a settori più ampi della popolazione. In modo particolare nel nostro paese, l’investitura politica del consumo sembra aver facilitato la relazione e la contaminazione tra gruppi e organizzazioni della società anche molto lontani per riferimenti identitari. 2 Secondo una recente e approfondita ricerca sarebbero 379 oggi le organizzazioni del commercio equo e solidale (Ces). Un circuito che produce un fatturato superiore a 103 milioni di euro che impiega nel nostro paese 1900 addetti (Viganò, Glorio e Villa, 2008). 3 Il dato è tratto dal Primo Rapporto sul Mercato dell’Ecoturismo in Italia realizzato da Ecobilancio Italia per il WTO (World Tourism Organization) nel 2002. Questo primo studio estensivo sulle proporzioni del fenomeno in 7 paesi occidentali: Italia, Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti, ha rilevato, relativamente al mercato italiano, come questo settore si costituisse di un numero elevato di operatori e agenzie di viaggio specializzati nel settore ecoturistico, in genere di piccole dimensioni; in molti casi, i prodotti ecoturistici erano inoltre venduti da ONG di solidarietà verso il Terzo Mondo. 4 Le MAG (Mutue di Autogesione) nascono in Italia negli anni Settanta, quando si comincia a diffondere il concetto di risparmio autogestito, per consentire l’accesso al credito a soggetti (associazioni e cooperative) che operano senza scopo di lucro in attività di carattere sociale e ambientale. 5 Banca Etica – che oggi ha 15 filiali e una rete di banchieri ambulanti che le consentono di essere presente in tutto territorio nazionale – alla fine del 2010 contava quasi 35.000 soci per un capitale – comprensivo delle riserve – di oltre 37 milioni di euro.
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Ognuno di questi settori si organizza a livello nazionale tramite associazioni: AGICES (Associazione Generale Italiana Commercio Equo e Solidale), AITR (Associazione Italiana Turismo Responsabile), AFE (Associazione di Finanza Etica). Questa trasformazione organizzativa permette a queste esperienze di assumere delle caratteristiche più strutturate che in qualche modo garantiscono la loro capacità di crescita anche nel momento in cui il ciclo di mobilitazione – e l’attenzione dell’opinione pubblica verso la giustizia globale – perde di intensità (Biolghini 2007). Parallelamente alla crescita osservata all’inizio del nuovo secolo dal commercio equo e solidale, dal turismo responsabile e dalla finanza etica, in questo periodo si diffondono anche altri tipi di iniziative meno strutturate delle precedenti che, partendo anch’esse da una critica radicale al modello di sviluppo dominante, utilizzano il consumo critico con l’obiettivo di conciliare attenzione alla solidarietà, difesa dell’ambiente e qualità della vita costruita sulle relazioni. A questo riguardo, particolarmente significativa è l’esperienza dei Bilanci di Giustizia, una campagna lanciata nel 1993 dai Beati Costruttori di Pace (Valer, 2000). La campagna si propone l’obiettivo concreto di attivare forme di rieducazione al consumo che non partono però dall’alto, ma che vengano elaborate tramite il confronto tra le famiglie che incontrandosi e discutendo insieme rivedono il loro stile di vita e di consumo, dopo aver annotato le proprie spese compilando un “bilancio” familiare. Nel dettaglio, si tratta di una campagna di revisione delle spese e dei consumi allo scopo di ridurli e riorientarli secondo criteri di giustizia e solidarietà. Più o meno negli stessi anni iniziano a diffondersi in Italia anche le Banche del Tempo, la cui prima esperienza nasce a Parma all’inizio degli anni Novanta. È tuttavia solo nel 1995, attraverso una serie di incontri divulgativi, che l’idea di scambio di tempo incontra il favore di numerosi gruppi, associazioni costituite e gruppi informali. Il 29 maggio 1995, in seguito all’interesse suscitato da una conferenza svoltasi a Bologna – durante la quale sono state presentate le BdT di Parma e di Sant’Arcangelo di Romagna (in provincia di Rimini), le uniche esistenti in Italia a quella data – nasce Tempomat, l’Osservatorio nazionale sulle Banche del Tempo, creato per sostenere e promuovere la diffusione di queste esperienze. Nel giro di un anno le BdT attive nel territorio nazionale raggiungono le 70 unità. Oggi le
BdT attive e in corso di progettazione-sperimentazione sono circa 300. Nel 1994 nasce inoltre a Fidenza il primo gruppo di acquisto solidale (Saroldi, 2001; Bertelli e Marini, 2011). I GAS sono l’esperienza che ha registrato la crescita maggiore proprio negli ultimi anni. Sebbene anche in questo caso si tratti di esperienze che trovano la propria origine all’inizio degli anni Novanta, la loro diffusione sembra in qualche modo seguire temporalmente la crescita osservata da tutti gli altri gruppi organizzazioni di “altra economia”. A questo riguardo si nota inoltre come il maggior numero di Gruppi di Acquisto Solidale si concentri nelle regioni in cui negli ultimi quindici anni è cresciuto di più il commercio equo e solidale e maggiore è il numero delle botteghe del mondo. Come verrà sottolineato, rispetto alle altre esperienze in qualche modo ascrivibili all’area dell’economia solidale e che generalmente aggregano persone già sensibili a determinati temi, i Gas favoriscono l’incontro di soggetti che possono essere anche molto diversi tra loro, generando processi di auto-apprendimento che favoriscono la diffusione di determinati valori e stili di vita anche all’interno di fasce della popolazione non inizialmente sensibili ai temi come la sostenibilità ambientale e sociale. L’attuale crisi economica, inoltre, sembra dare un ulteriore impulso alla diffusione di questi gruppi. I Gas infatti permettono non solo di abbassare, grazie all’acquisto collettivo, il costo di alcuni prodotti (si pensi ad esempio ai cibi biologici), ma sembrano rispondere ad una ricerca di senso che investe gli aspetti quotidiani della scelte di vita.
4. I GAS COME LABORATORI DI CITTADINANZA SOSTENIBILE E PALESTRE DI DEMOCRAZIA
I Gruppi di Acquisto Solidale sono gruppi informali di persone che scelgono di acquistare collettivamente beni alimentari e di uso quotidiano rivolgendosi direttamente a coltivatori e aziende con cui instaurano un rapporto diretto e personale. Tra tutte le esperienze orientate a stimolare nei cittadini un ripensamento del proprio stile di vita e di consumo6, i Gruppi di Acquisto Solidale sono l’esperienza che ha registrato la crescita maggiore proprio nell’ultimo decennio. Passati in pochi anni da 153 nel 2004, a 394 nel 2008, a 518 nel 2009 agli attuali 919 (facendo riferimento a solo i gruppi censiti, perché in realtà se ne
6 Oltre alle organizzazioni già menzionate vanno ricordati i Circoli della Decrescita, i nodi italiani del movimento delle Transition Town, gli ecovillaggi e Slow Food, ma la lista potrebbe continuare…
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Fig. 1. Crescita dei GAS nel tempo (fonte: www.retegas.org).
stimano quasi il doppio7), i Gruppi di Acquisto Solidale rappresentano dei veri e propri spazi di elaborazione e di confronto in cui non solo si saldano relazioni, ma si costruiscono pratiche comuni e nuovi immaginari. Particolarmente interessante è infatti il ruolo “auto-educante” che caratterizza queste nuove aggregazioni sociali. Anche chi entra in contatto con un Gas perché attratto principalmente dalle opportunità che queste esperienze offrono ad esempio relativamente all’acquisto di prodotti biologici e di qualità ad un prezzo inferiore rispetto ad un normale negozio specializzato, pian piano può apprendere che scegliere un certo modo di consumare vuol dire gestione del territorio, tutela del paesaggio, sostengo ai piccoli produttori, attenzione per il processo produttivo non solo dal punto di vista tecnico, ma anche per chi ci lavora. È proprio la capacità di attrarre soggetti mossi da motivazioni differenti che spiega la grande dinamicità e diffusione osservata dai Gas negli ultimi anni. La presenza di questi soggetti organizzati è infatti centrale perché la politica del quotidiano, espressa con il consumo critico, possa espandersi in settori sempre più ampi della popolazione. Come mostrano alcune ricerche, la partecipazione ad un Gas può essere motivata da ragioni di tipo
salutistiche, in quanto si ritiene che il cibo, le tecniche e le modalità con le quali viene prodotto, si siano trasformati in una fonte di rischio, oppure perché si vuole sostenere un progetto forte di cambiamento del modello dominante di produzione e di consumo, contro l’omogeneizzazione dei prodotti alimentari e l’appiattimento delle competenze e dei saperi (Carrera, 2009). Non è un caso che gran parte dell’attività dei Gruppi di Acquisto Solidale consista ad esempio nella “mappatura” dei soggetti economici “virtuosi” presenti nei propri territori. Non ci si accontenta cioè di prodotti di qualità. Facilitati nella propria azione dalla presenza ormai diffusa in tutte le regioni italiane anche di altri soggetti di economia solidale, questi gruppi ricercano prodotti e produttori “vicini” per valorizzarli e sostenerli attraverso gli acquisti collettivi. È così che i Gas iniziano a intessere relazioni stabili con alcuni produttori costruendo veri e propri circuiti economici nuovi, capaci di sostituire (almeno in parte) l’offerta della grande distribuzione. Le ricerche condotte, mettono in evidenza come in genere i soci vengano a conoscenza dell’esistenza dei GAS tramite la propria rete amicale e in misura minore, ma crescente, tramite la lettura di giornali o riviste, a seguito di incontri presso altre associazioni, dalla televisione (Osservatorio CORES, 2013). An-
7 La crescita dei GAS negli ultimi anni ha avuto un tasso di crescita costante, con un aumento di circa il 40% all’anno nel numero dei gruppi.
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che internet ha una funzione determinate nel permettere l’avvicinamento dei singoli a queste esperienze. Dal sito della rete nazionale oltre a numerose informazioni rispetto alle finalità e alle attività dei gruppi, si possono facilmente ottenere gli indirizzi per prendere contatto con i referenti di GAS presenti nel proprio territorio.
5. DALLE ORGANIZZAZIONI DEL CONSUMO CRITICO ALLE RETI DI ECONOMIA SOLIDALE Dal consumo critico come scelta individuale (seppur con obiettivi collettivi) si è quindi passati all’elaborazione di progetti di economia solidale-locale più complessi, basati su nuovi sistemi di economia delle relazioni, capaci di (ri)-costruire tessuti economici e sociali che facilitino la cooperazione tra i diversi attori che agiscono in uno stesso territorio. All’interno di queste reti di economia solidale si ricrea così un senso di appartenenza comunitaria fondato sul riconoscimento che i problemi globali e i problemi locali sono intrinsecamente connessi tra loro e sulla consapevolezza che il futuro della società necessita di una assunzione di responsabilità che deve coinvolgere tutti i soggetti sociali, nei loro rispettivi ruoli e capacità di azione. Queste esperienze rappresentano dei veri e propri “cantieri” in cui diversi attori, più o meno organizzati (dai gas, alle cooperative di consumo, ai piccoli produttori agricoli ai commercianti di prossimità) si coordinano e individuano strategie per l’allargamento e l’approfondimento di una economia in cui sia possibile un incontro di una domanda e una offerta capace, invece di dividere, di ritessere la rete degli scambi. Sono ormai molti i progetti promossi nei vari territori dalle reti di economia solidale, ne sono un esempio la ricostruzione di alcune filiere, come quella del pane, la sperimentazione di sistemi di garanzia partecipativa (PGS), la raccolta collettiva e la creazione di mercati a filiera corta, progetti che tra l’altro coinvolgono spesso anche le pubbliche amministrazioni locali. Non da ultimo, deve essere evidenziato il ruolo di pressione che queste reti possono esercitare sulle istituzioni locali. Sono infatti sempre più frequenti i casi di campagne di raccolta di firme promosse da queste esperienze a sostegno di petizioni che chiedono ad esempio l’introduzione di alimenti biologici nelle mense scolastiche. Anche se ancora circoscritte in termini numerici, è indubbio come le pratiche promosse dalle reti di economia solidale si stiano diffondendo, a riprova di come nel momento in cui le persone comprendono
che le loro azioni “private”, ad iniziare dal semplice atto del consumo, hanno delle conseguenze “pubbliche”, possono cominciare a contribuire in modo volontario a progetti che hanno come obbiettivo non la massimizzazione del proprio profitto, ma il benessere collettivo. D’altronde l’attuale “crisi” rende urgente l’individuazione di nuove modalità di produzione e distribuzione di beni e servizi che pongano al centro il benessere delle persone e dell’ambiente. È chiaro che su questi aspetti un ruolo centrale dovrebbe essere giocato dalla politica che però appare, fatta eccezione per qualche amministrazione locale, ancora distante e poco recettiva rispetto alle domande di maggiore equità e giustizia sociale che emergono dalla società.
6. IL RITORNO DEL TERRITORIO Nella globalizzazione, il territorio, l’ambiente locale, ha via via perso la sua importanza e quando non è diventato merce e stato luogo quasi esclusivamente di rivendicazione identitaria e difensiva, rivolta più alla rievocazione del passato che al progetto di futuro. Poca attenzione negli anni passati è infatti stata data a temi come l’ambiente, la tutela del paesaggio e delle culture e colture locali, nonché al ruolo e al coinvolgimento attivo dei cittadini nel processo di governance del territorio. Lungi dall’essere “un’idea buona per gente buona in un mondo buono”, oppure un “intervento di supplenza di diritti negati dalla crisi e dal restringimento del welfare”, le reti di economia solidale, rappresentano nuove forme di azione diretta positiva, volta a rendere esigibili diritti elusi e a promuovere nuovi diritti (Ferraris, 2011). In una società in cui i legami sociali si sono spezzati, e dopo una lunga stagione in cui ha imperato l’individualismo, queste esperienze, così come molte altre che si sono diffuse negli ultimi anni, hanno come obiettivo quello di ritessere la tela degli scambi e dei rapporti. Tramite una serie di strategie tese ad affermare un rapporto radicalmente mutato in cui è la società civile con la sua azione decentrata (le decisioni di consumo e di risparmio) e con quella organizzata (l’azione delle associazioni, dei gruppi, e delle organizzazioni di movimento) a dare un impulso decisivo nella direzione di uno sviluppo socialmente e ecologicamente sostenibile. Queste esperienze propongono un nuovo rapporto tra stato e mercato che vede emergere il protagonismo dei soggetti, il loro potere di partecipazione solidale alle scelte e alle decisione che riguardano le loro stesse esistenze.
DAL CONSUMO CRITICO ALLE RETI DI ECONOMIA SOLIDALE
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FRANCESCO CHIODELLI*
ABITARE LIBERAMENTE. OLTRE I PREGIUDIZI SULL’AUTO-ORGANIZZAZIONE RESIDENZIALE1
1. UN DIBATTITO NOSTRANO POCO VIVACE In Italia il dibattito sull’auto-organizzazione residenziale (o, più precisamente, su quelle che possiamo chiamare “comunità contrattuali”2) è poco vivace: il tema non è considerato particolarmente rilevante e la ricerca sull’argomento è piuttosto limitata. Una delle possibili ragioni di ciò è connessa alla scarsa diffusione nostrana del fenomeno. Le comunità contrattuali residenziali sono infatti una forma insediativa diffusa prevalentemente negli Stati Uniti: dal 1970 al 2010 il numero di statunitensi che vive in qualche forma di comunità contrattuale è passato da 2,1 a 62 milioni (dall’1 per cento al 20 per cento circa della popolazione totale); oggi le comunità contrattuali (residenziali) statunitensi sono circa 310.000, il 50 per cento delle quali costituite da forme organizzative particolarmente complessee articolate3. In Italia si contano invece pochi casi isolati di quest’ultimo tipo. Tra questi, qualche sporadico insediamento per popolazione benestante (si pensi adesempio a San Felice, nei pressi di Milano)4
equalche caso di cohousing (è soprattutto con riferimento al cohousing che il dibattito sull’autorganizzazione residenziale in Italia ha ripreso ultimamente un po’ di vigore). Che il dibattito italiano sull’argomento sia piuttosto asfittico è dimostrato da due fatti: (i) la diffusione, tanto nel discorso comune quanto in quello accademico,di una serie di luoghi comuni difficili da superare; (ii) la tendenza ad affrontare pregiudizialmente il tema, trattando in modo diametralmente differente fenomeni in realtà analiticamente molti simili.
2. LUOGHI COMUNI Tra i luoghi comuni più diffusi in materia di comunità contrattuali, segnalo il seguente5. Spesso – non soltanto nel discorso comune e giornalistico – si tende a considerare le comunità contrattuali come luoghi elitari destinati alle classi più agiate6. Per quanto negli Stati Uniti una parte rilevante di questi
* Gran Sasso Science Institute, viale Francesco Crispi, 7 - 67100 L’Aquila. E-mail: francesco.chiodelli@gssi.infn.it. 1 Il presente testo è stato precedentemente pubblicato in Moroni S. (ed) (2012), La città rende liberi. Riformare le istituzioni locali, IBL Libri, Torino, pp. 87-95. Si ringrazia l’Istituto Bruno Leoni per il permesso di ripubblicarlo all’interno del presente volume. 2 Con “comunità contrattuali” si intendono: «Forme organizzative a base territoriale (ossia legate a una specifica porzione di territorio) a cui i membri aderiscono volontariamente alla luce di un contratto unanimemente accolto e in vista dei benefici che ciò garantisce loro. Il contratto stabilisce […] i diritti e i doveri dei membri della comunità contrattuale» (Brunetta e Moroni, 2011, pp. 9-10). Per descrivere il fenomeno si utilizzano anche altri termini: ad esempio Common Interest Developments (CID) o Common Interest Communities (CIC). Non tutte le comunità contrattuali hanno funzione prevalentemente residenziale: ne fanno parte, tra gli altri, anche centri commerciali, alberghi diffusi, orti collettivi (si vedano ad esempio: Falletti, 2011; Baglione, Caldarice, Chiodelli, 2011). Esistono inoltre diverse forme organizzative e proprietarie di comunità contrattuali; anche condomini e cooperative residenziali sono annoverabili tra le comunità contrattuali. In questo capitolo, salvo specifiche indicazioni in contrario, si farà riferimento alle forme più articolate e innovative di comunità contrattuali a funzione residenziale (ad esempio, le homeowners associations) diffuse soprattutto negli Stati Uniti. 3 Si vedano: Gordon (2003), Nelson (2004), Brunetta e Moroni (2012). Sulla diffusione delle comunità contrattuali in altre parti del mondo si veda, ad esempio, Glasze et al. (2006). 4 Per un approfondimento su San Felice si veda Beretta e Chiodelli (2011). Da sottolineare che il quartiere di San Felice era nato con l’intenzione di organizzarsi e funzionare in modo innovativo, con un’ampia autonomia rispetto alle municipalità di riferimento, sul modello delle associazioni comunitarie statunitensi; tuttavia, a causa della rigidità del diritto condominiale vigente in Italia e delle pochissime libertà lasciate alleforme di auto-organizzazione residenziale, ha dovuto conformare la propria forma organizzativa a quella dei più tradizionali modelli nostrani di condominio. 5 A proposito di altri luoghi comuni sulle comunità contrattuali, si veda Chiodelli (2010c). 6 Si parla in proposito di «secessione delle persone di successo».
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insediamenti (circa il 50 per cento) abbia caratteri di esclusività e sia destinata a fasce di popolazione ad alto reddito, le comunità contrattuali sono in verità disponibili per diversi segmenti di mercato: circa il 30 per cento è abitato dalla classe media; circa il 20 per cento da popolazione a reddito basso o medio-basso7. Da sottolineare anche che le comunità contrattuali statunitensi non sono prerogativa soltanto della popolazione bianca8. Tutto ciò non stupisce, visto ad esempio che, in alcune zone degli Stati Uniti, la maggior parte delle nuove abitazioni (e in alcuni casi la totalità delle nuove abitazioni) è realizzata in forma di comunità contrattuale9.
3. UN ATTEGGIAMENTO PREGIUDIZIALE Il tema delle comunità contrattuali è spesso affrontato con un atteggiamento pregiudiziale, non soltanto in Italia. In particolare, si ha la tendenza ad interpretare e trattare in modo diverso – ad esempio in termini di politiche pubbliche – forme insediative che invece sono analiticamente simili. Ciò è reso evidente, ad esempio, dal trattamento diametralmente opposto che ricevono cohousing10 e quel tipo particolare di homeowners associations che sono le cosiddette gated communities11 (lo stesso discorso vale anche per alberghi diffusi e outlet/centri commerciali). Il primo è solitamente analizzato in maniera estremamente positiva (con toni più o meno agiografici a seconda dei casi): gran parte della letteratura nazionale ed internazionale sul tema vede nel cohousing «una valida soluzione contro la crescente
atomizzazione e solitudine delle nostre grandi città […], un nuovo modello di abitare e vivere la città, un’occasione di riscoprire socialità, cooperazione e solidarietà» (Lietaert, 2007, p. 6)12. Al contrario, le gated communities sono solitamente analizzate in maniera estremamente negativa, come l’espressione di una “comunità in trincea” che combatte per la propria esclusiva sopravvivenza, in cui «quello che più ampiamente e avidamente si desidera è scavare trincee profonde e possibilmente invalicabili tra il dentro di un territorio [...] e il fuori» (Bauman, 2003, p. 69). Tali affermazioni contengono sicuramente alcuni elementi di verità e giudizi di valore soggettivi assolutamente legittimi. Tuttavia non sono utili a comprendere a fondo la natura del fenomeno e diventano problematici se sono in qualche modo connessi alle politiche pubbliche. Prendendo a prestito il lessico tassonomico proprio delle scienze naturali, si può piuttosto affermare che gated communities e cohousing sono semplicemente due varietà13 di una stessa famiglia (quella, appunto, delle comunità contrattuali). TAXON
NOME
Famiglia
Comunità contrattuali
Genere
Comunità contrattuali residenziali (1) Cohousing
Varietà
(2) Gated communities (n)...
Le caratteristiche costitutive delle comunità contrattuali sono condivise sia da cohousing sia da gated communities14. Le differenze tra i due modelli inse-
7 A confermare l’eterogeneità sociale dei residenti delle comunità contrattuali vi è anche il dato relativo agli affittuari, che, negli Stati Uniti, sono più dei proprietari. Si veda Sanchez et al. (2005). 8 Ad esempio sono gli ispanici che hanno maggiori probabilità di abitare in una gated community (sia come affittuari, sia come proprietari). 9 Ciò è legato anche al fatto che alcune municipalità richiedono per legge chetutte le nuove costruzioni facciano parte di una comunità contrattuale (così facendo, le municipalità possono fornire meno infrastrutture e servizi pubblici – una parte dei quali è fornita autonomamente dalla comunità contrattuale – pur continuando a riscuotere le stesse imposte locali). Sui problemi a ciò connessi si vedano McKenzie (2004) e McKenzie (2006). 10 Il cohousing è una particolare forma di comunità residenziale che si costituisce con l’obiettivo di creare una comunità coesa, dialogica, collaborativa, in cui i residenti partecipino a diversi momenti di vita collettiva (ad esempio pasti comuni, attività di cura della comunità, momenti di discussione) pur senza sacrificare la propria privacy (non si tratta, in sostanza, di una “comune”). Spazi e servizi collettivi sono infatti integrativi e non sostitutivi degli spazi abitativi privati tradizionali. Sul cohousing si vedano Chiodelli (2010a) e Baglione (2011). 11 Si vedano Caldeira (1996), Blakely e Snyder (1997), Low (1997), Lang e Danielsen (1997), Rifkin (2000). 12 Si vedano anche anche Fromm (1991), Norwood e Smith (1995); McCamant et al. (2011). 13 Con varietà, come nelle scienze naturali, si intende l’ultimo gradino dellascala tassonomia (quello più aleatorio, tanto da essere escluso dalle classificazion ipiù rigorose), in cui le distinzioni si fanno flebili, sfumate, mai definitivamente acquisite. 14 Secondo Moroni (2001, pp. 15-17) le caratteristiche costitutive delle comunità contrattuali sono: (i) proprietà privata, in forme plurime; (ii) territorialità (sono strettamente legate a un territorio identificabile); (iii) volontarietà di adesione (i membri vi aderiscono volontariamente); (iv) esistenza di un contratto sociale reale (le regole di convivenza sono automaticamente accolte all’atto di ingresso e adesione alla comunità e unanimemente accettate); (v) reciprocità come elemento istitutivo, ma non esclusivo (la costituzione di una comunità contrattuale ha luogo nel mutuo interesse dei suoi membri, ma ciò non esclude di per sé forme di solidarietà verso l’esterno); (vi) diritto dei privati (non sono solo “create”, ma anche “ordinate” dai membri; in altri termini, generano il proprio “diritto” tramite accordi e patti effettivi tra i componenti della comunità); (vii) controllo e sanzione interni (esistono non solo regole interne, ma
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diativi si riducono ad elementi “accessori”, ad esempio: (i) il tipo di spazi e di attrezzature comuni (nel cohousing è più orientato alla condivisione di momenti di vita quotidiana – ad esempio il pasto; nelle gated communities è più orientato al fattore sicurezza); (ii) i gradi di partecipazione e coinvolgimento dei residenti nella gestione della comunità (nel cohousing sono più accentuati e presenti fin dalle prime fasi di costituzione della comunità; nelle gated communities sono più formalizzati e legati soprattutto alla gestione della comunità una volta costituita); (iii) i meccanismi di selezione dei membri (nel cohousing sono informali, di natura quasi empatica, exante rispetto alla realizzazione fisica della comunità residenziale, basati su una serie di valori condivisi; nelle gated communities sono più formalizzati, impersonali, codificati nei documenti costitutivi dell’associazione, basati ad esempio sulla disponibilità a pagare il prezzo dell’abitazione e dei servizi forniti); (iv) i meccanismi di governo della comunità (nel cohousing le decisioni vengono solitamente prese per consenso, all’unanimità; nelle gated communities per votazioni a maggioranza o super-maggioranza)15. Mostrano invece qualche differenza in più i valori e le motivazioni personali specifiche dei residenti di cohousing e gated communities16. Generalizzando, si potrebbe dire che nel cohousing tali valori sono soprattutto quelli dell’interazione, della socialità, del rispetto, del mutuo aiuto, della sostenibilità ambientale; nelle gated communities tendono invece ad essere quelli della privacy, della sicurezza personale, della preferenza per ambiti sociali omogenei. Gli esiti sociali delle due varietà di comunità contrattuali non sembrano differenziarsi più di tanto. I problemi di segregazione, spesso enfatizzati nel caso della gated communities, se effettivamente riconosciuti come tali (cosa non affatto scontata)17, devono essere estesi anche al cohousing. Non solo
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l’omogeneità sociale è tipica anche di quest’ultimo18; è per di più complicato dire quanto nel cohousing l’enfatizzata ricostruzione di un senso di comunità e di responsabilità collettiva sia una “reazione progressista” alla crescente atomizzazione sociale, e quanto invece sia – o possa facilmente diventare – una risposta neo-comunitaria che non fa che approfondire la frammentazione sociale del panorama urbano. Lo stesso principio del “vicinato elettivo” (inteso nel senso che i cohousers vengono scelti sulla base della loro presunta attitudine a vivere in modo comunitario secondo certi valori condivisi), su cui il cohousing esplicitamentesi fonda, può essere non troppo diverso, in termini di esiti, dai meccanismi di esclusione praticati in certe gated communities e tanto stigmatizzati19.
4. UGUALE TRATTAMENTO ED ESALTAZIONE DELLE POTENZIALITÀ
Esistono diverse forme di auto-organizzazione residenziale, gran parte delle quali può essere considerata come una varietà della famiglia delle comunità contrattuali. In tal senso condividono gli elementi costitutivi di tale forma organizzativa; ciò che differenzia una varietà dall’altra è invece una serie di elementi “accessori”: ad esempio il tipo di servizi comunitari forniti, il tipo di residenti, le regole di funzionamento delle comunità, i valori (impliciti o espliciti) sulla base dei quali la comunità si costituisce. Tutti questi elementi sono sicuramente rilevanti da un punto di vista individuale, tanto che, in effetti, indirizzano in modo diverso le scelte di vita di individui diversi. Tuttavia non lo sono da un punto di vista pubblico. In questo senso è opinabile un diverso trattamento pubblico di diverse varietà di comunità contrattuali20, a meno che si voglia sostene-
anche forme di controllo e sanzione relative a tali regole); (viii) auto-finanziamento (il funzionamento della comunità e i servizi forniti sono finanziati esclusivamente dai membri); (ix) contributo in termini di beneficio (i contributi versati dai membri vengono stabiliti e fissati in termini di rapporto diretto rispetto al beneficio atteso). 15 Per un approfondimento si veda Chiodelli (2010a). 16 Ma non il fatto stesso che entrambi i tipi di comunità si costituiscano sulla base di certi valori condivisi. 17 Diversi autori sottolineano come i rischi spesso enfatizzati in relazione allecomunità contrattuali (ad esempio segregazione sociale, discriminazione, frammentazione urbana) siano spesso esagerati e poco fondati empiricamente. Si vedano, ad esempio, Webster (2001),Webster (2002), Webster e Le Goix (2005). Si veda anche Salcedo e Torres (2004) sugli effetti positivi di una gated community a Santiago del Cile su un quartiere povero a essa adiacente. 18 Si vedano Rogers (2005) e Williams (2008). 19 Si potrebbe in proposito sostenere che, paradossalmente, sono soprattutto i meccanismi di selezione dei cohousers ad essere a rischio di “discriminazione”. Nel cohousing, infatti, la selezione è arbitraria, non formalizzata, dichiaratamente empatica (e dunque soggetta a “qualsiasi” tipo di discriminazione); in altre forme di comunità contrattuali (tra cui anche le gated communities) la selezione avviene invece sulla base di precise regole scritte, formalizzate all’atto di costituzione della comunità e riconducibili per lo più a questioni economiche (ad esempio può entrare a far parte della comunità chi ha un reddito sufficiente a coprire le spese di acquisto della casa e per la gestione degli spazi comuni: vi è dunque una discriminazione diretta “solo” reddituale). 20 Si pensi al sostegno pubblico di cui gode il cohousing ad esempio in Olanda, Svezia e Germania; difficilmente un analogo appoggio pubblico verrebbe concesso alle gated communities.
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re che tale diversità di trattamento si possa legittimamente fondare sui valori individuali espressi dai residenti. In termini di politiche si può sostenere che non si dovrebbero mantenere «legislazioni ad hoc per ogni singolo tipo [di comunità contrattuale], ma […] costruire un quadro giuridico quanto più astratto e generale possibile» (Brunetta e Moroni, 2011, p. 12). A differenza della prassi dominante, sarebbe dunque importante che l’attitudine – in particolare dei soggetti pubblici – nei confronti dell’auto-organizzazione residenziale non fosse manichea, evitando di distinguere le diverse tipologie di comunità contrattuali in “varietà buone” e “varietà cattive”. Allo stesso tempo sembra poco utile anche un atteggiamento che impedisca o ostacoli qualsiasi forma di comunità contrattuale, in nome dei suoi (presunti) effetti negativi. Come affermano Webster e Le Goix (2005), la domanda da porsi in proposito non è tanto se il governo dovrebbe permettere a piccole comunità locali di pianificare e organizzare la propria vita collettiva contrattualmente, quanto, piuttosto, quali giustificazioni esistano per impedirlo. Si danno certamente alcune ragioni per regolamentare specifiche questioni relative alle comunità contrattuali; l’obiettivo dovrebbe però essere, in questo senso, quello di esaltarne gli aspetti positivi e minimizzare quelli negativi, incentivando nuove forme virtuose di sussidiarietà orizzontale in campo urbano.
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1. METAFORE DESUETE Gaston Bachelard in La poetica dello spazio del 1957 (edizione Dedalo 2006) nel parlare della casa fa ricorso a due metafore: la “casa nido” e la “casa guscio”, la prima rimanda alla casa come luogo semplice, luogo privilegiato della tranquillità e felicità, luogo adatto per l’educazione, l’accudimento dei soggetti deboli della famiglia, per la trasmissione di valori; la seconda concerne invece l’abitazione come luogo di difesa e riparo rispetto all’esterno, alla minacciosità del mondo. Intimità, segretezza, cura, stabilità, protezione sembrano i concetti che le rêverie suggerite da Bachelard ci trasmettono in merito all’idea di abitazione.
elencare alcune delle cause di questa riformulazione in senso spalmato dell’abitare, intendendo con l’aggettivo spalmato una crescente distribuzione delle pratiche abitative sul territorio, o in più unità abitative. Una distribuzione legata alle varie fasi di passaggio della vita delle persone e che, ultimamente, sembra subire improvvise accelerazioni con momenti continui di ripensamento delle pratiche abitative. Ovviamente l’identificare alcune tendenze non significa considerarle come le uniche in atto. Piuttosto, tali tendenze richiamano una tensione continua che riguarda l’uomo: l’essere attraversato da profonde mutazioni e proprio perciò impegnato a trovare di volta in volta ancoraggi di riferimento. Lo stesso principio vale per la casa che nelle sue continue rifunzionalizzazioni perde o quantomeno vede indebolirsi alcuni dei suoi significati tradizionali, ma non per questo si dissolve definitivamente.
2. TRASFORMAZIONI DEL MERCATO DEL LAVORO
Questi concetti oggi non sembrano più in grado – o comunque non sono i soli – di rappresentare i fenomeni che caratterizzano la società contemporanea. Una società che la sociologia della post-modernità descrive come liquida, incerta, instabile nel tempo e nello spazio. Dunque anche la casa che nella sua materialità ed immobilità richiama l’idea della solidità dei rapporti si presta ad essere oggetto di profonde mutazioni. Al posto della casa (intesa come bene sacralizzato) sembra prendere consistenza l’abitare come processo, e soprattutto l’abitare come insieme di azioni, comportamenti, atteggiamenti e sentimenti che non sono più facilmente riconducibili, come in passato, a contesti domestici definitivi e rassicuranti. Proveremo di seguito ad
* Università degli Studi di Milano - Bicocca.
Nei decenni del secondo dopoguerra, la costruzione della famiglia casa-centrica si connetteva all’acquisto di beni durevoli da parte di un proletariato orientato a una maggiore privatizzazione della propria vita sociale come segno distintivo di un benessere acquisito e di un progressivo imborghesimento. A questa condizione corrispondeva peraltro un’organizzazione abitativa fortemente gerarchica, per ruoli e funzioni, fondata sulla presenza prolungata della donna a cura dello spazio domestico, sul prevalere dei tempi della comunità familiare nei confronti delle singole individualità, sulla delimitazione precisa degli spazi e dei tempi. È alla figura femminile che è sempre spettato il compito di «tenere insieme» le esigenze dei singoli, strutturandole rispetto a quelle complessive del nucleo, ma proprio
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l’«uscita di casa» della donna lavoratrice ha generato un vuoto organizzativo e fisico. L’“angelo del focolare” ha preso il volo, lasciando sconcerto dietro di sé.
4. TECNOLOGIA TIME SAVING E TIME CONSUMING La casa ovviamente non solo si svuota ma si riempie sebbene in modo diverso rispetto al passato. In particolare, la tecnologia negli ultimi decenni da time saving si è fatta soprattutto time consuming, serve cioè non tanto a risparmiare tempo (come nel caso della lavatrice) ma diviene indispensabile al riempimento del tempo libero e in direzione di una privatizzazione delle esperienze di consumo. Si collocano in questa ottica strumenti come cellulari, computer, dvd, play station, pay tv, etc. grazie ai quali la casa diventa una stazione in cui transitano flussi di immagini, messaggi e informazioni, una stazione da cui si osserva il mondo, dal palco più comodo possibile. In questo quadro, lo spazio abitativo è spesso ridotto a semplice involucro, a fondale buio della luminescenza degli schemi a cristalli liquidi. La vita diviene attraversata da corridoi che favoriscono una costante comunicazione virtuale con l’esterno – un “altrove” di maggiore interesse. Il tempo del lavoro e il tempo libero vedono sfumati i loro confini in società dove gli individui sono permanentemente in linea, connessi. Le curvature dei rapporti in chiave fisica e di compresenza, il ripiegamento domestico e intimo delle relazioni segnano il passo, pur non scomparendo.
3. PENDOLARISMO E STILI DI VITA Il processo di urbanizzazione a scala sempre più vasta è stato accompagnato anche dall’aumento del pendolarismo. In particolare l’allungamento dei tempi di trasferimento, così come gli stili di vita ad esso legati – primo fra tutti il consumo di pasti fuori casa – ha contributo ulteriormente a ridurre i tempi domestici, a svuotare l’abitazione o a farne il luogo del riposo. Nell’immaginario complessivo il tema dei quartieri dormitorio non ha smesso di perdere il significato e il rilievo assunto nel tempo anche quando dai grandi palazzi della periferia l’attenzione si è spostata verso i moduli abitativi unifamiliari delle varie “villettopoli” sparse anche nel nostro Paese. Oltre al pendolarismo quotidiano, la società contemporanea è caratterizzata da un più generale moltiplicarsi degli spostamenti e dei viaggi con motivazioni varie. La mobilità porta gli individui a trascorrere periodi di tempo più o meno prolungati fuori casa. Se è vero che ciò non lede, anzi in alcuni casi rinforza i vincoli di appartenenza e identità con i territori di origine, è altrettanto indubbio che si modificano le modalità dell’abitare, del modo di vivere la casa e i suoi surrogati.
Fotografia di Cristiano Mutti Laboratorio di sociologia visuale dell’Università degli studi di Milano Bicocca (1998)
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5. LA “CAMERA D’ALBERGO”
7. L’ABITARE ESTRANEO
Alcuni spazi abitativi vedono un continuo andirivieni di individui. Ad esempio, la difficoltà di accesso al mondo del lavoro per i giovani, congiuntamente con i loro desideri di libertà ed autorealizzazione, fanno di alcune case, e camere in particolare, luoghi ad alta provvisorietà, paragonabili a camere d’albergo. Svuotamento e nuovo riempimento della casa rimandano a circostanze di incertezza sempre più frequenti, almeno rispetto al passato quando i riti di passaggio prefiguravano situazioni più nette e definitive. Il difficile transito verso l’adultità sembra rispecchiarsi in stanze eternamente adolescenziali. Dalla casa albergo di passa peraltro all’albergo casa. Il tema dell’albergo come abitazione, in chiave provocatoria, si presta alla descrizione di modelli abitativi appartenenti a quella che viene definita iperborghesia, ai bobos e, più in generale, a quella élite nomade costituita da soggetti sempre in viaggio. La tipologia stessa dei consumi, anche di quelli più lussuosi, sembra maggiormente risponde a dimensioni esperienziali e simboliche piuttosto che concentrarsi sul mero possesso di beni materiali e in questa ottica l’abitare sparso rinvia ad emozioni che trascendono la “pesantezza” della casa.
Spesso la casa si svuota di familiari impegnati nel lavoro e si riempie di figure estranee. Mi riferisco alle collaboratrici domestiche, ma ancor più alle badanti straniere. Per queste ultime, soprattutto quelle che prendono domicilio presso il loro datore di lavoro, l’abitazione rappresenta un luogo altamente provvisorio, ad intimità reciprocamente negata. La mancanza di un riferimento abitativo preciso nelle biografie degli individui determina peraltro la gemmazione delle propaggini dell’abitare, cioè delle occupazioni temporanee di spazi pubblici e semipubblici a fini pseudo-abitativi. Per chi non ha casa o la casa è troppo fatiscente, i giardini pubblici, le piazze, gli interstizi della città diventano il luogo dell’incontro, della socializzazione, soprattutto con altri/e connazionali. L’abitare sparso degli immigrati è il frutto di un disagio abitativo profondo che non si placa neppure quando gli immigrati stessi raggiungono una certa autonomia residenziale e che tende a fare degli spazi pubblici e del loro uso un tema di conflitto urbano. Spinte alla occupazione e privatizzazione degli spazi pubblici vedono contrapporsi fazioni diverse di autoctoni e alloctoni che spesso esplodono in profonde tensioni. Lo spazio pubblico urbano abitato diviene fonte di identità, ma anche di sfida e segregazione.
6. LA CRISI DELLA FAMIGLIA Il processo di formazione, scomposizione e ricomposizione dei nuclei familiari: matrimoni, separazioni, divorzi, singles di ritorno, anziani soli, con i problemi di riformulazione degli spazi abitativi interni e dei significati connessi, trova ampia diffusione soprattutto nelle realtà urbane; anche in queste circostanze la casa stenta a mantenere quegli elementi di continuità simbolica (soprattutto in termini di valorizzazione del repertorio di oggetti in chiave mnemonica) che ne caratterizzavano l’immagine nella fase in cui la famiglia “robusta” (soprattutto borghese o piccolo borghese) rappresentava il nucleo fondante della società e dettava le traiettorie d’identità dei suoi membri. La crisi dei modelli tradizionali di famiglia, congiuntamente con le situazioni economiche generali e individuali, con le offerte del mercato immobiliare e con variabili di ordine socio-culturale possono profondamente condizionare le scelte abitative delle persone e in generale si può ipotizzare che sia in aumento il numero di case che i soggetti cambiano nelle loro carriere familiari e residenziali. La provvisorietà dell’abitare dunque corrisponde alla fragilità familiare.
8. COABITAZIONE Coabitare rappresenta frequentemente una scelta consapevole, diffusa e variamente articolata che interessa famiglie intere, giovani, anziani, studenti, lavoratori, datori di lavoro e lavoratori. Le scelte alla coabitazione possono essere di natura economica, sociale e culturale ma in ogni caso rimandano a una dimensione di provvisorietà abitativa che vede alter-
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GIAMPAOLO NUVOLATI
narsi momenti di maggiore investimento affettivo, ad altri di ordine assai più strumentale. In questo caso il luogo perde la sua “rugosità” cioè si lascia attraversare dall’abitare senza connotarlo, resta una superficie piana che incide solo in forma momentanea sulla storia dell’individuo. Ancora una volta occorre però distinguere tra gruppi diversi di popolazione. Di fatto alcuni soggetti hanno trascorso gran parte della loro esistenza o lunghi periodi in comunità e hanno visto nella coabitazione anche in contesti residenziali a prima vista anonimi importanti occasioni di socializzazione, scambio e relazione. Ciò vale soprattutto per strutture più o meno protette rivolte a segmenti deboli della società e che non possono contare su di un sufficiente capitale sociale, di supporto. In sintesi, laddove la storia personale delle persone non si è tradotta in solidità e identità abitativa, ha comportato condotte abitative a geometria variabile che consentissero alle persone stesse di adattarsi a circostanze diverse.
9. IL DENTRO E IL FUORI, IL CALDO E IL FREDDO Da quanto finora osservato emerge con una certa chiarezza che il tema dell’abitare spalmato (in più posti e in modi diversi nel corso della vita) sia un tema che connota in misura crescente le realtà contemporanee. La casa diventa sempre più porosa. Le sue incerte delimitazioni in chiave sia fisica che simbolica si prestano a continui processi di attraversamento i cui protagonisti sono i componenti della famiglia ma anche figure estranee. La moltiplicazione dei contesti abitativi tende altresì a modificare i processi di identità e attaccamento alla casa. La casa degli affetti, dei ricordi, la casa del calore umano, il luogo in cui le relazioni si riproducono e consolidano, sebbene ancora esistente, mostra segnali di debolezza riconducibili soprattutto al modificarsi degli stili di vita e dei condizionamenti che la società esercita sull’individuo. Il mercato del lavoro, la diffusione delle tecnologie, la mobilità delle persone tende a liberarle dai vincoli territoriali e pertanto anche dai vincoli domestici per come erano stati fino ad oggi concepiti. Certo la dispersione del calore, per restare nella metafora, rende l’abitare “tiepido”, condizione questa però sempre più necessaria poiché agli individui viene chiesto in misura crescente di adattarsi alle circostanze più disparate che la vita di volta in volta propone loro e dunque di diminuire il proprio investimento affettivo. La città stessa nel suo complesso
vede l’alternarsi di vuoti e pieni, di aree abbandonate, di case sfitte, di zone altamente caratterizzate dal turn-over di popolazioni residenti, momentaneamente domiciliate o di passaggio quotidiano e come tale stenta a proporre di se stessa un’immagine precisa, univoca. La fine della città compatta, lo sprawl contribuiscono alla configurazione di modelli abitativi anonimi, caratterizzati da una rapida obsolescenza, da un alternarsi di famiglie con scarso radicamento territoriale. Del resto, il prevalere di biografie personali attive, non incardinate in modelli precostituiti, presenta come possibile conseguenza anche questa disinvoltura abitativa cui l’uomo contemporaneo si sta abituando. La “casa nido”, una struttura povera ma che resiste alle intemperie, un rifugio naturale, di perenne riferimento per l’uomo anche in quanto animale, sembra oggi risentire dei fenomeni di sradicamento che minacciano le società. Anche la “casa guscio”, che protegge il mollusco, un essere debole che necessita di robusta difesa, scricchiola sotto il peso della contemporaneità. Al soggetto non resta che destreggiarsi rispetto a forme fluide dell’abitare, che di tanto in tanto si raggrumano per poi liquefarsi nuovamente. Le convivenze e le coabitazioni in questo quadro si moltiplicano generando il desiderio di una casa provvisoria, momentanea, come lo sono spesso le unioni che la determinano.
10. LA SFIDA DELLA SOCIOLOGIA La sfida della sociologia sul tema dell’abitare è duplice. La sociologia ad oggi ha prestato una scarsa attenzione rispetto ai temi sopra delineati. La casa è stata infatti prevalentemente vista come una risorsa che crea disuguaglianza e di difficile accesso per alcuni gruppi di popolazione, ma l’analisi si è sempre interrotta sulla “porta di casa”, come si potrebbe dire. Rare sono state le riflessioni che hanno cercato di indagare il mutare dei repertori simbolici legati alla composizione e all’uso della casa a seconda dei vari modelli abitativi posti in atto. L’articolazione delle stanze e dei mobili, la suddivisione e la privacy degli spazi concordemente alla presenza giornaliera dei familiari o di personale domestico, la concentrazione o la dispersione degli oggetti di rilevanza per la storia del nucleo familiare, la privatizzazione e la domesticazione di spazi neutri in strutture anonime e aree dismesse, in spazi semi-pubblici sono temi poco frequentati dall’analisi sociologica e che invece meriterebbero maggiore attenzione.
L’ABITARE SPALMATO NELLA SOCIETÀ MOBILE
Dall’altro lato, lo sforzo della sociologia dovrebbe essere indirizzato alla ricostruzione dei meccanismi che determinano vecchie e nuove forme dell’abitare in contesti territoriali differenziati. Nonostante la larga diffusione di modelli di vita metropolitani in linea con i fenomeni descritti, è infatti ancora pensabile che alcune realtà mostrino resistenza rispetto alle trasformazioni in atto. Il persistere di modelli di comunità connotate da pratiche residenziali tradizionali anche in aree profondamente urbanizzate e, viceversa, il delinearsi di forme abitative originali in zone extraurbane e rurali, richiede approfondimenti mirati capaci di fare luce sulle varie articolazioni dell’abitare. Quelle delineate in questo breve articolo oltre che descrizioni del reale (mi riferisco in particolare ai trend sociali riguardanti la trasformazione dei modelli familiari, di lavoro e di consumo) intendono costituire ipotesi sulla casa, da verificare attraverso ricerche empiriche sul campo che scavino più in profondità nella quotidianità delle persone, nel loro modo di dimorare.
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11. I METODI DI INDAGINE Un’ultimissima considerazione meritano le metodologie più opportune che sarà necessario sviluppare al fine di intercettare la segmentazione crescente delle pratiche abitative. Se il tema dell’housing, cioè dei processi di acceso ed esclusione al bene casa, dello stock abitativo per evoluzione e caratteristiche, è sufficientemente documentabile attraverso statistiche ufficiali, le questioni inerenti le carriere abitative dei soggetti e ancor più i modelli di presenza, attaccamento, consumo e ri-significazione della casa non possono che passare attraverso metodi di ricerca fondati su survey rivolte a campioni di popolazione oppure su tecniche di ricerca qualitativa. Queste ultime tecniche possono spaziare dalla sociologia visuale (volta a descrivere attraverso immagini l’organizzazione interna della abitazione, sia in chiave materiale che simbolica), alle interviste in profondità capaci di restituire la storia degli individui per come si è intrecciata con le scelte residenziali.
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MARINA ZAMBIANCHI*
FORME SPAZIALI E SOSTENIBILITÀ SOCIALE: MODELLI ABITATIVI TRA SEGREGAZIONE E CONDIVISIONE. PIANI E PROGETTI PER LA QUALITÀ DELL’ABITARE
“Abitare il territorio” significa costruire le condizioni materiali e immateriali affinché le persone e la comunità locale possano “ri-trovarsi” a partire dallo sviluppo di un sistema di servizi (la casa, tra questi) capaci di rendere accogliente, ospitale, riconoscibile lo spazio nel quale vivono1.
LE POLITICHE ABITATIVE DEL COMUNE DI BERGAMO Le politiche abitative anche a Bergamo sono chiamate ad affrontare problemi nuovi e articolati e l’intervento sulla casa assume un significato sociale e d’interesse pubblico volto a rispondere ai bisogni emergenti e a presentare forme e modelli abitativi coerenti. I Comuni sono attori principali nelle politiche per l’abitare sociale, considerando i diversi profili: • il ruolo nel governo del territorio attraverso i PGT (Piano di Governo del Territorio) e per l’equilibrato e sostenibile sviluppo delle aree urbane, con un mandato e un’attenzione specifica per l’edilizia residenziale pubblica nell’ambito del Piano dei Servizi e nei grandi interventi di trasformazione urbana (l.r.12/2005)2 • la risposta alla domanda sociale e l’impegno per i servizi alla persona (welfare) • la responsabilità diretta nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica, ricordando le competenze specifiche definite dalla L.R. 27/20093. Bergamo si trova oggi nella condizione di una progressiva riduzione della popolazione residente e di una progressivo aumento del numero di anziani,
a fronte di un allarmante perdita di popolazione giovane sotto i 30 anni e sta cambiando in modo radicale la tipologia di domanda abitativa: da un lato, si registra un aumento nella richiesta di alloggi temporanei, soprattutto in affitto da parte di giovani coppie o lavoratori immigrati, italiani e non; dall’altro anche la popolazione di Bergamo registra un fenomeno, comune alla maggior parte dei comuni italiani, di frammentazione dei nuclei familiari.
IL PROGETTO DI HOUSING SOCIALE PGT DI BERGAMO
NEL
Il PGT di Bergamo, in risposta ai nuovi bisogni, individua la Casa come servizio per la città e per il territorio. Il progetto prevede la realizzazione di iniziative di edilizia sociale dedicate a giovani, giovani coppie, anziani, studenti, che non riescono a soddisfare il proprio bisogno abitativo sul mercato, la cosiddetta fascia grigia. È il Piano dei Servizi che provvede a disciplinare e a regolamentare l’intervento con l’obiettivo di attribuire alla residenza declinazioni sociali e, di conseguenza, riconoscendo alla stessa una funzione di pubblico interesse4. Il PGT (attraverso il Piano dei Servizi) e il Piano di Zona per l’edilizia convenzionata sono strumenti integrati e sinergici per dare una risposta adeguata ai bisogni espressi dagli abitanti in condizioni economiche più difficoltose, dalle giovani coppie e dalle popolazioni temporanee. Il principio informatore di entrambi gli strumen-
* Comune di Bergamo. 1 Contratto di Quartiere di Grumello del Piano. Il Contratto di Quartiere propone la costruzione di un nuovo sistema di servizi per la comunità di Grumello. 2 Legge Regione Lombardia n. 12/2005 - “Legge per il governo del territorio”. Il Piano di governo del territorio è composto da: Documento di piano, Piano dei Servizi, Piano delle regole. 3 Legge Regionale 4 dicembre 2009 - n. 27 - Testo Unico dell’Edilizia Residenziale Pubblica. Il TU da una parte riprende interamente materie già organicamente disciplinate nelle singole leggi (ad es. la disciplina delle ALER, la disciplina dei canoni), dall’altra dà una visione sistematica delle competenze regionali e degli altri soggetti ERP. 4 Piano dei servizi - Apparato Normativo - PS0b - Titolo II - Capo V - Il progetto dei servizi - art 18. 8 - Residenza Sociale (Rs).
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Fig. 1. PGT - Housing sociale come servizio.
ti è il progetto di una città integrata, meno frammentata nelle sue diverse identità che vanno comunque difese e recuperate, con quartieri più vivibili, con un’offerta funzionale e tipologica diversificata e una adeguata dotazione di servizi diffusa su tutto il territorio cittadino. Gli interventi proposti dal Piano di Zona riguardano prevalentemente zone urbane da riqualificare, anche attraverso opportuni miglioramenti del sistema della mobilità e dei servizi. La modalità d’intervento è, quindi, impostata secondo una logica prevalente di completamento più che di espansione. Gli interventi sono tesi a consolidare frange urbane, a ricucire, dal punto di vista urbanistico, situazioni prive di connotazione e carattere proprio. È stato ritenuto fondamentale, in tal senso, promuovere la progettazione degli spazi aperti pubblici e privati, luoghi privilegiati destinati, forse ancor più degli edifici, a caratterizzare i diversi ambiti urbani e i quartieri, attraverso uno studio dettagliato degli elementi che concorrono a definire e a caratterizzare lo spazio urbano.
NUOVI SPAZI DI RELAZIONE: IL DISEGNO DELLO SPAZIO PUBBLICO NEL PIANO DI BERGAMO La qualità degli interventi è certamente lo strumento fondamentale per coniugare la prospettiva
strategica di un Piano e i suoi effetti nella costruzione della città. Progetti qualitativamente significativi degli spazi aperti, gli unici in grado forse di stabilire fertili relazioni tra le parti urbane e le persone, possono caratterizzare gli interventi entro il paesaggio di solito eterogeneo della città contemporanea. La progettazione dello spazio aperto persegue un obiettivo qualitativo, non solo estetico, riguarda la qualità della vita e promuove nuove relazioni sociali. La costruzione della città pubblica e la qualità dello spazio pubblico sono obiettivi perseguiti da entrambi i Piani, anche attraverso gli strumenti normativi, che definiscono principi, indicatori e standards di qualità architettonica ed urbana (standards qualitativi), da osservare in sede di progettazione degli interventi. Il disegno dello spazio pubblico nel progetto del Piano dei Servizi di Bergamo vuole contribuire a dare forma all’intero sistema urbano, in una sequenza leggibile spazialmente, reintegrando episodi oggi dispersi ed estranei con quel senso di città che permea i luoghi di maggior valore collettivo. Ad una domanda di diversa qualità dello spazio collettivo – oggi – si deve rispondere non solo razionalizzando le politiche dell’offerta di servizi e/o un riequilibrio nei rapporti tra i costi e le risorse, ma anche traducendo questa domanda in una precisa indicazione, per un nuovo progetto della città pubblica che sappia restituire al sistema dei servizi
FORME SPAZIALI E SOSTENIBILITÀ SOCIALE
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Fig. 2. PdZ 167 - Interventi in corso di attuazione.
identità, riconoscibilità e capacità di trasmettere significati anche attraverso l’assetto fisico dello spazio pubblico. Il Piano dei Servizi di Bergamo risponde alla sollecitazione dei nuovi bisogni attraverso un adeguamento non solo delle politiche d’intervento, ma anche dei criteri e delle tecniche di progettazione dello spazio pubblico, attribuendo ai servizi un ruolo di
sistema generatore degli assetti funzionali e della qualità urbana complessiva. Così impostato, il Piano dei Servizi diviene l’occasione per progettare il telaio su cui riqualificare la città: continuità, compiutezza e riconoscibilità di questo telaio consentono di ritrovare coerenza tra le diverse categorie di servizi nonché tra queste e gli altri elementi della struttura urbana.
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MARINA ZAMBIANCHI
QUALITÀ DEI SERVIZI E QUALITÀ URBANA: LE LINEE DI AZIONE STRATEGICA NEL PIANO DEI SERVIZI Il progetto di Piano assegna allo spazio pubblico e alla sua qualità un ruolo rilevante nella promozione di nuove relazioni sociali: nuovi spazi attrezzati e fruibili per le attività di gioco, sport e tempo libero (45 nuovi parchi e giardini oltre ai tre grandi parchi territoriali e al parco lineare della cintura verde) ma anche nuove piazze progettate per un uso flessibile, su cui si attestano mix di funzioni in grado di presidiarle: spazi per i servizi di giorno, spazi per attività ricreative la sera e ancora spazi attrezzati anche per ospitare il mercato settimanale. Il Piano dei Servizi si pone l’obiettivo di dare una risposta qualitativa ai bisogni (pregressi e insorgenti) espressi dalla Città e vuole concorrere a restituire identità e senso di appartenenza ai luoghi, proponendo una strategia per il disegno della città pubblica, individuata all’interno di un processo di scambio e di dibattito aperto con la Città, allargato ai diversi soggetti pubblici e privati che operano sul territorio bergamasco. Tale obiettivo viene reso esplicito introducendo nelle norme di attuazione del Piano gli elementi di indirizzo strategico su cui impostare la progettazione dei servizi per costruire il disegno della città pubblica5. Il Piano dei Servizi di Bergamo declina infatti la visione della città pubblica secondo quattro linee di azione strategica: LA COSTRUZIONE DI UN SISTEMA AMBIENTALE. con il progetto di Piano dei Servizi si intende dare continuità e connessione alle parti di città costruita e in trasformazione attraverso la creazione di un sistema del verde fruibile e di mobilità dolce. PROGETTARE UNA “FILIERA DI SERVIZI”. Con il progetto di Piano dei Servizi si intende creare una visione integrata multi scalare dei servizi esistenti e di progetto che regoli l’efficienza del sistema dei servizi in logica di filiera. La filiera diviene tanto più efficace quanto più sono efficaci ed efficienti i percorsi e i mezzi/modi per raggiungere i servizi che la costituiscono, con particolare attenzione alle condizioni di accessibilità fisica e di conciliazione di orari. GARANTIRE ACCESSIBILITÀ SPAZIALE E TEMPORALE. Con il progetto di Piano dei Servizi, si intende ripensare al concetto di accessibilità mettendo al centro l’utente del servizio con particolare attenzione all’età, alle condizioni di motilità, ai “vincoli” temporali dettati dalla sua “agenda” e alla possibilità di garantire i suoi spostamenti mediante una mobilità sostenibile. L’accessibilità spazio-temporale deve essere garantita al servizio e al suo spazio fisico
d’accesso considerato alle diverse scale di riferimento (quartiere, urbana, territoriale. GENERARE QUALITÀ URBANA E DEI SERVIZI. Con il progetto di Piano dei Servizi si intende promuovere la qualità dei servizi e urbana attraverso la qualità architettonica dello spazio pubblico (aperto e costruito), la manutenzione, la sicurezza, l’accoglienza, la sensibilità ad ospitare diverse età e la loro compresenza. QUALITÀ DELL’ABITARE L’edilizia residenziale sociale, con la domanda in crescita di alloggi a basso costo e l’esigenza di una maggiore sostenibilità degli insediamenti, diventa terreno fertile anche per sperimentare nuove soluzioni progettuali improntate sul principio di efficienza energetica e qualità dell’abitare contenendo i costi. Le nuove forme dell’abitare promuovono la sostenibilità ambientale, sia nell’uso dei materiali sia nella corretta interpretazione degli spazi abitativi per una migliore qualità della vita e urbana. Sia in Italia sia in Europa si guarda con sempre maggiore interesse alla progettazione d’insediamenti residenziali in grado di garantire la qualità dell’abitare (servizi, spazi, verde) e la sostenibilità della costruzione (prestazione costruttiva, sviluppo urbano sostenibile e utilizzo di fonti energetiche alternative). Una attenta progettazione dei luoghi di socializzazione e di servizio per gli abitanti fanno del moderno social housing uno strumento efficace per lo sviluppo di una società di abitanti integrata e collaborativa. LA COLLABORAZIONE TRASVERSALE E LA COOPERAZIONE SOCIALE
Per risolvere l’attuale situazione di disagio abitativo, è possibile operare attraverso forme di partenariato tra soggetti pubblici e privati mediante: – La pianificazione, attraverso l’individuazione di aree o immobili da destinare ad edilizia residenziale sociale privata attraverso la disponibilità di beni già di proprietà del soggetto pubblico o con strumenti perequativi piuttosto che di compensazione di crediti edilizi; – Modelli di cooperazione che prevedano il partenariato sociale ed economico tra pubblica amministrazione e soggetti privati, permettendo a questi ultimi di produrre Housing Sociale, ovvero residenza privata sociale da immettere sul mercato a prezzi o canoni calmierati attraverso opportuni accordi con il soggetto pubblico.
5 Piano dei servizi - Apparato Normativo - PS0b - Titolo II - Capo V - Il progetto dei servizi - art. 17 - Criteri prestazionali qualitativi e indicazioni morfologiche insediative per i nuovi servizi.
FORME SPAZIALI E SOSTENIBILITÀ SOCIALE
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Fig. 3. PdZ 167 - Nuovi spazi di relazione.
Il comune di Bergamo ha già promosso diverse iniziative che si configurano come best practices e intende proseguire in tale direzione. Si richiamano a titolo esemplificativo due progetti: il Progetto “Emergenza dimora” e il “Contratto di quartiere di Grumello al Piano”.
Fig. 4. PGT - Nuovi spazi della città pubblica.
Progetto “Emergenza dimora” L’Amministrazione Comunale ha partecipato nell’anno 2008 alla promozione del cosiddetto “Progetto emergenza Dimora” che prevede l’utilizzo di canali di finanziamento della Fondazione Cariplo per il recupero e l’allestimento di forme di abitazioni tem-
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MARINA ZAMBIANCHI
Fig. 5. PGT - Nuovi spazi della città pubblica.
poranee da dedicare al bisogno abitativo d’emergenza. In particolare viene affrontato il problema abitativo nella sua forma emergenziale e legata a situazioni di emarginazione soprattutto in contesti urbani. Il progetto Emergenza dimora si è concluso, sotto il profilo degli interventi edilizi, nell’anno 2010 e si è attivato il servizio sperimentale di “prima accoglienza” puntando a diversificare gli strumenti a disposizione rispetto alle classiche strutture dei dormitori: l’intento è stato quindi quello di realizzare e avviare micro-strutture di ospitalità distribuite sul territorio delle aree metropolitane di Milano e di Bergamo, valorizzando le capacità di accoglienza e di solidarietà dei territori di intervento e rafforzando e ampliando le reti di coordinamento tra organizzazioni, per favorire il processo di recupero e di reinserimento sociale della persona presa in carico. 6
Contratto di Quartiere6 di Grumello del Piano Il tema dominante della proposta è sintetizzabile dal suo titolo “Welfare place - La costruzione di un nuovo sistema di servizi per la comunità di Grumello” attraverso cui Grumello del Piano diventa il luogo della sperimentazione di un nuovo approccio alle politiche di servizio locale partendo dall’intervento sui luoghi dell’abitare. “Abitare il territorio” significa costruire le condizioni materiali e immateriali affinché le persone e la comunità locale possano “ritrovarsi” a partire dallo sviluppo di un sistema di servizi (la casa, tra questi) capaci di rendere accogliente, ospitale, riconoscibile lo spazio nel quale vivono”. La proposta ha anche una caratteristica molto marcata: la partnership con numerosi e diversi attori pubblici e privati, tutti portatori di progetti concreti e tali da rendere reale la costruzione di una “rete sociale”, molto efficace ed articolata, all’interno di una strategia comune:
Il Contratto di Quartiere è un programma integrato di intervento destinato a quartieri prevalentemente di Edilizia Residenziale Pubblica ed ha come scopo il miglioramento dei principali fattori di criticità locale, il riordino urbanistico ed ambientale, il riassetto fisico ed architettonico, e lo sviluppo delle economie locali. Viene promosso e finanziato in prevalenza da Regione Lombardia ma richiede anche la costruzione di accordi tra i diversi soggetti pubblici e tra pubblico e privato, con il coinvolgimento di enti no-profit, imprese e cittadini.
FORME SPAZIALI E SOSTENIBILITÀ SOCIALE
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Fig. 6. Nuovi spazi della città pubblica.
– il Comune di Bergamo in primo luogo, promotore del progetto di riqualificazione, costruito attorno all’occasione del Contratto di Quartiere, che intende investire in una serie di azioni sperimentali che, una volta concluso il programma, potranno entrare a fare parte delle politiche pubbliche locali. – l’Aler, che svolge un ruolo centrale sia come operatore immobiliare beneficiario dei finanziamenti per la costruzione dei nuovi alloggi a canone moderato previsti nel Contratto di Quartiere e proprietario di una quota importante del patrimonio ERP di Grumello, sia come soggetto gestore di un notevole numero di alloggi nel quartiere, e in quanto tale potenzialmente interessato a verificare l’efficacia e gli esiti della sperimentazione dei servizi di prossimità proposti all’interno del Contratto di Quartiere. – la Fondazione MIA - Congregazione Misericordia Maggiore di Bergamo, attore da qualche tempo coinvolto nella riflessione sull’abitare sociale ed ora partner del Comune nel processo di riqualificazione di Grumello, la cui presenza nel Contratto di Quartiere come soggetto promotore di un intervento di alloggi a canone moderato e in locazio-
ne temporanea mostra un potenziale nuovo ruolo dei soggetti privati nell’ambito di progetti integrati a scala di quartiere. – il Consorzio Città Aperta, attivo nel settore dei servizi alla persona, con particolare attenzione al campo della famiglia, dell’infanzia e dell’adolescenza, che in veste di capofila dell’Asse 2 (Asse della coesione sociale), svolge un ruolo di proposta e di coordinamento delle diverse realtà attive nel quartiere. – l’Associazione Casa Amica, che da anni promuove servizi abitativi per soggetti deboli nella Provincia di Bergamo e allo stesso tempo collabora a programmi di produzione di offerta abitativa a canoni contenuti a fianco delle Amministrazioni Comunali.
CONCLUSIONI In un momento di fragilità delle famiglie, ma anche del mercato economico è necessario orientare gli sforzi verso il difficile compito di dare risposte e servizi abitativi alle famiglie ed ai cittadini, e svolge-
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MARINA ZAMBIANCHI
Fig. 7. Contratto di quartiere di Grumello - Wellfare Place.
re contemporaneamente una funzione anticiclica sotto il profilo economico facilitando e favorendo iniziative di housing sociale, anche ricettive di finanziamenti pubblici in grado di aprire cantieri e rilanciare il mondo dell’edilizia ed il suo indotto. In quest’ottica è necessario promuovere la trasversalità e sussidiarietà dell’operato dei tanti attori in gioco per incentivare e sostenere l’incontro tra l’offerta di abitazioni (social housing) e la reale domanda di abitazioni (domanda sociale). Questo può concretizzarsi attraverso l’analisi, la valutazione, la promozione ed il coordinamento delle attività sulla casa, in sinergia con altri enti operanti nel campo (ALER, Regione, etc.), Cooperative, Associazioni, Fondazioni (Casamica, ANCE BG, etc.), operatori privati, singoli cittadini. Parallelamente è indispensabile oggi porsi la questione della qualità del costruito, della qualità dell’abitare, di quali siano i nuovi modelli che la struttura sociale ed economica in rapida evoluzione pone rispetto ai tradizionali modelli abitativi. È altresì necessario porre attenzione al consumo di suolo e conseguentemente cercare di non riprodurre azioni di urbanizzazione del territorio basate su modelli che la città contemporanea non è più in grado di accettare. Il concetto di “sostenibilità” va inteso in senso molto ampio, non solo con riferimento ai seppur importanti aspetti di risparmio energetico, ma anche, e soprattutto, di compatibilità con la dimensione ambientale, paesistica e di qualità dello spazio pubblico.
La sfida è quella di individuare le modalità con le quali le necessità socio-economiche ed abitative possano trovare risposta in un percorso di ricerca in grado di produrre nuove forme dell’abitare che si traducano in un valore aggiunto per la qualità della città costruita e per la qualità della vita. Bibliografia Il PGT di Bergamo http://territorio.comune.bergamo.it/ PGTapprovato Urbanistica n. 144, Bergamo il Piano di Governo del Territorio, dicembre 2010: GIORGIO CAVAGNIS, GIANLUCA DELLA MEA, MARINA ZAMBIANCHI, Strategie e progetti urbani per uno sviluppo sostenibile. MARINA ZAMBIANCHI, Il progetto della nuova città pubblica: dai bisogni alle azioni. GIANLUCA DELLA MEA, Residenza e nuovi abitanti: una strategia per l’abitare. MARINA ZAMBIANCHI, Comunicazione e partecipazione nel processo di costruzione del PGT. Il PDZ 167 di Bergamo: http://territorio.comune.bergamo.it/servizio-sviluppo-territoriale-e-politiche-dellacasa/piano-di-zona-167. Contratto di Quartiere di Grumello: http://www.comune.bergamo.it/servizi/Menu/dinamica.aspx?idArea=11 82&idCat=1195&ID=19761. Housing sociale: http://www.comune.bergamo.it/servizi/ Menu/dinamica.aspx?idArea=1182&idCat=1195&ID =1616.
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MARIA CLAUDIA PERETTI*
PAESAGGI IN RETE
Negli ultimi anni il paesaggio invisibile della rete si è sovrapposto in maniera rapidissima al paesaggio fisico e sociale per come siamo tradizionalmente abituati a pensarlo. Quello del network è un paesaggio pervasivo, disordinato, informale e frammentario: è cangiante e mutevole, dotato di ampi gradi di obsolescenza legati alla velocità con cui si innovano le tecnologie a cui fa riferimento1. La rete è una presenza fortemente destabilizzante, una grande sfida e una grande opportunità: immateriale e impalpabile è in grado di ridefinire i territori, le loro strategie, le loro connessioni funzionali e sociali. La loro fisicità e il loro senso. Sulle nuove connettività e sulle loro conseguenze sono state e continueranno ad essere scritte molte pagine, a favore o contro: i ragionamenti inseguono con affanno la velocità dei cambiamenti e rischiano di essere vecchi fin dal momento in cui vengono formulati. Già questa è una caratteristica che pone interrogativi seri: la nostra capacità di sedimentare un pensiero approfondito e di collocare le attuali innovazioni tecnologiche entro uno sfondo di senso generale, appare insufficiente. Corriamo il rischio che il tema della smart city sia soltanto un brand per alimentare nuove forme di consumo acritico, in direzione opposta rispetto al-
l’urgenza di ristabilire un rapporto di equilibrio sostenibile tra la nostra specie e il pianeta che la ospita. Per contro, mai come ora, disponiamo di strumenti capaci di in-formare, monitorare, organizzare, mettere insieme, …. insomma di strumenti capaci di aiutarci a ricostruire il territorio come “soggetto intelligente e collettivo”, in cui ciascuno possa partecipare attivamente alle politiche di rigenerazione del luogo in cui abita, consapevole e corresponsabile del suo destino. Insieme agli altri. Da studiosa del paesaggio mi chiedo sempre più spesso come le nuove tecnologie della connettività in rete possano incidere sulla forma dei luoghi e sulla loro organizzazione. La prima risposta, al di là di ogni altra considerazione, è che di certo il periodo che stiamo attraversando ha trasformato con una rapidità senza precedenti il nostro modo di percepire il mondo e di abitarlo e se è vero che il paesaggio è la proiezione di un sistema mutevole di valori sull’ambiente che ci circonda, ne va da sé che l’impatto è radicale2. Quello che cercherò di fare in questa sede è analizzare le caratteristiche dello “sguardo” che i nuovi strumenti consentono e della “visione del mondo” che contribuiscono a costruire. Da qualche tempo frequento Instagram3, attualmente la più grande piattaforma planetaria di condi-
* Architetto, ideatrice di ICONEMI. 1 A proposito del paesaggio “invisibile” vedi il suggestivo video “Immaterials: light painting WiFi, girato nel 2009 da TIMO ARNALL, JØRN KNUTSEN and EINAR SNEVE MARTINUSSEN. <iframe src=”http://player.vimeo.com/video/20412632?title=0&amp;byline= 0&amp;portrait=0&amp;color=ffffff” width=”400” height=”300” frameborder=”0” webkitAllowFullScreen mozallowfullscreen allowFullScreen></iframe>. Gli autori del filmato sono studenti della Facoltà di Design di Oslo, che hanno costruito una barra alta 4 metri con segnali luminosi in grado di accendersi quando sollecitati dalle onde delle reti wifi. Quattro metri è una misura scelta perché in grado di rapportarsi in modo efficace alla scala del costruito. La barra viene spostata lungo determinati percorsi che attraversano lo spazio pubblico della capitale norvegese e il tutto viene ripreso con tecnica di lunga esposizione delle immagini durante la stagione invernale che offre le condizioni migliori di ripresa per la mancanza di luce naturale: il risultato è l’evidenziazione della presenza della rete, della sua diffusione, dei suoi rapporti con la fisicità e l’organizzazione funzionale della città. 2 La Convenzione Europea del Paesaggio (sottoscritta a Firenze nel 2000 e ratificata dallo Stato italiano nel 2006) definisce il paesaggio come “…..una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. La “percezione” di chi abita viene quindi assunta come elemento fondativo dell’idea stessa di paesaggio.
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MARIA CLAUDIA PERETTI
visione di immagini: con un’applicazione gratuita e utilizzabile dai device mobili, è possibile condividere fotografie, elaborarle con semplicità attraverso vari filtri, ritagliarne dettagli significativi, commentare le immagini degli altri Istagrammers. Si legge che in due anni di vita la tribù di Instagram abbia accolto cento milioni di utenti e che le fotografie in circolazione siano miliardi: numeri cangianti e, (se il trend continua nella stessa direzione), in crescita esponenziale. Dentro questo fiume in piena scorrono centinaia di migliaia di fotografie di paesaggi provenienti da tutto il mondo. QUANTITÀ La quantità è uno degli aspetti centrali. Ciascun utente può caricare, senza limiti, le sue fotografie. Il sistema dei clic e dei commenti consente di acquisire, via via, una rete sempre maggiore di followers dei quali, in tempo reale, si possono osservare gli scatti messi in rete. Chi posta l’immagine può indirizzarla (oltre che verso i propri followers), verso contenitori indicizzati per temi e soggetti e quindi può raggiungere un numero vastissimo di utenti, vedere ed essere visto in una rete enorme. La quantità di Istagram è tale da essere un dato qualitativo. VARIETÀ - SIMULTANEITÀ - MIXAGE - VELOCITÀ Nell’oceano di Instagram si trovano contemporaneamente, una vicina all’altra, immagini estratte da contesti molto diversi, sia dal punto di vista fisicogeografico, che da quello della cornice di senso all’interno della quale gli scatti vengono prodotti. In sostanza si ha una visione simultanea e veloce di frammenti eterogenei mixati in maniera del tutto casuale e non prevedibile. I ritmi sono velocissimi: dentro ai contenitori più frequentati, le fotografie rimangono nelle prime linee soltanto pochi minuti, per poi perdersi in posizioni molto meno visibili. Questo tipo di percezione non ha precedenti nella storia umana: se è vero infatti che anche in epoche assai remote un uomo spesso attraversava molti paesaggi e molte culture nell’arco della sua esistenza, è di certo totalmente nuova la velocità con cui le reti propongono senza sosta migliaia di
sollecitazioni allineate lungo tragitti ipertestuali non finalizzati. Quello che scegliamo da utenti di Istangram è per la gran parte dovuto alla casualità di incontri che si ramificano in altri incontri, in una struttura che si divide all’infinito e della quale l’unica cosa nota è il punto di partenza. CATEGORIE E INDICI. FRAMMENTARIETÀ INDIVIDUALISTA E STEREOTIPI GLOBALIZZATI
Ogni foto postata in Instagram può essere indirizzata verso contenitori che raggruppano per argomenti i soggetti delle fotografie (p.e. London, flowers, architecture…..). Ogni utente può utilizzare un contenitore già esistente, oppure creare un nuovo contenitore con un nome specifico da lui deciso. L’indicizzazione è, in qualche modo, un principio di ordine e di catalogazione volontaria. Colpisce però la soggettività dell’interpretazione di uno stesso contenitore: in “landscapes”, per esempio, possiamo trovare fotografie di edifici, panorami, dettagli, ma anche di situazioni personali, cibi, vestiti, incontri tra amici. Accanto a utenti che usano la fotografia come strumento di ricerca estetica e di contenuto specialistico, una parte notevole degli Instagrammers coglie l’opportunità dell’applicazione per restituire in tempo reale un diario della sua quotidianità, che consente a chi lo segue di sapere cosa ha fatto, dove è stato, cosa ha mangiato, chi ha incontrato. Il network diventa così un luogo dove svelare la propria intimità, o per consolidare rapporti di amicizia: fanno tenerezza le immagini di molti adolescenti che lanciano messaggi fortemente ispirati dalla ricerca di affettività e di nuovi incontri. Nella grande quantità di scatti è comunque interessante notare come permangano forti, attraversando tutte le geografie, alcune categorie percettive e alcuni temi comuni, che, seppur variamente interpretati, rappresentano veri e propri stereotipi nella rappresentazione fotografica del paesaggio. Cieli e nuvole, fiori e animali, alberi e onde… sono protagonisti di un’enorme quantità di fotografie immesse in rete. Marine e montagne, tramonti e albe….: lo spettacolo della natura, filtrato attraverso la sterminata serie di rappresentazioni che dall’avvento della pittura di paesaggio ne è stata fatta, continua ad esercitare un fascino enorme.
3 Instagram è un’applicazione sviluppata da Kevin Systrom e Mike Krieger ed è stata messa a disposizione nell’App Store a partire dal 6 ottobre 2010. Nell’aprile del 2012 è stata acquisita da Facebook. L’utilizzo di Instagram consente di condividere le proprie fotografie in Twitter, Facebook, Foursquare, Tumblr, Flickr.
PAESAGGI IN RETE
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In generale nei social network, ancora di più in Instagram, la comunicazione è basata sull’immagine. La parola è del tutto marginale, ricondotta negli spazi minimi di didascalie brevissime in un inglese variamente deformato, se non addirittura inesistente e tendenzialmente sostituita da parole-verso (wow,ops, sic), da parole-sigla, o da parole-immagine come gli emoticons, faccine che ridono, piangono, manine che applaudono, stelline, soli……… Gli emoticons sono il colpo mortale alla lingua e alle sue dense sfumature: sono un alfabeto semplificatissimo che in rete funziona come un esperanto capace di accompagnare la velocità dei sentimenti e dei pensieri. In Instagram si condivide con orgoglio un certo disprezzo per la parola e per la sua inadeguatezza: nei brevissimi profili che ciascun utente imposta come propria presentazione, non è raro trovare frasi come “just one picture for a thousand words”. D’altra parte se lo scopo dei network è la condivisione globale come si potrebbe condividere globalmente il pensiero espresso con i lemmi e le costruzioni di una lingua locale? Quando la tua geografia si allarga al mondo intero la parola ha dei limiti assai grevi come strumento di comunicazione. L’immagine è invece un linguaggio universale: funziona molto bene per allargare il discorso a tutti, per superare la barriera delle differenze. Come la musica d’altronde. La lingua giunta fin qui come straordinario giacimento del “locale” è sottoposta ad un attacco diretto da parte della globalizzazione e del culto dominante dell’immagine: sono a rischio i doppi sensi, le sfumature, i modi di dire, i concetti impliciti che ogni idioma porta con sé come patrimonio denso e stratificato di cultura delle comunità territoriali.
Le tappe sono plurime, le deviazioni pure, gli stimoli teoricamente infiniti. Nell’esperienza virtuale dei luoghi che questo viaggio ci riserva si appiattiscono le differenze legate alla storia, alle geografie e alle culture: spariscono le esperienze sensoriali invece così presenti e vincolanti nell’attraversamento fisico dei luoghi e nella nostra conoscenza degli stessi. Senza sangue e sudore il mondo ci appare come un collage di immagini, soggettivo e instabile. Il paesaggio diventa un’interfaccia personalizzabile entro cui organizzare una raccolta di icone scaricandole dagli stores digitali4. “Ceci n’est pas une pipe”5: è soltanto una delle sue possibili rappresentazioni. In Instagram la rappresentazione mediata del mondo è semplice, assai divertente e alla portata di tutti, non più solo di operatori professionali: il gesto del fotografare ci accompagna nella quotidianità, è continuo, quasi automatico, sempre meno intenzionale. Il gioco della manipolazione attraverso i filtri e i ritocchi è dichiarato, evidente. Più che mai in Instagram l’occhio è un “faux miroir”6, percepisce parvenze semplificate, miraggi che svaniscono subito e simulacri pallidi della realtà. Nella casualità veloce si perde la profondità dello sguardo e della ricerca, in un clima di ipersollecitazione che rende sempre più difficile entrare nel merito, cogliere le differenze, decodificare e interpretare. Le trasformazioni del nostro immaginario e della nostra percezione si intrecciano con le trasformazioni fisiche del mondo globalizzato contemporaneo: i paesaggi che stiamo producendo sono quelli delle città indifferenti ai contesti, delle vie commerciali e dei “non luoghi” replicati uguali ovunque si trovino, dell’eclettismo linguistico assunto come paradigma espressivo, dei grandi eventi mediatici, dei grattacieli “record” prodotti dalle economie in competizione, della storia venduta come brand al turismo di massa.
IL PAESAGGIO COME ATTRAVERSAMENTO VIRTUALE. MANIPOLAZIONE DELL’IMMAGINE
ANONIMATO E GRATUITÀ. MARKETING E COMUNICAZIONE
Entrare in Instagram ogni volta è come iniziare un viaggio senza un punto d’arrivo finale rispetto al quale individuare, progettandola, la motivazione del tragitto.
Per chi come me è abituata a “firmare” quello che progetta e produce, Instagram esercita la fascinazione di ciò che sovverte i tuoi canoni abituali. La firma è contemporaneamente un’assunzione di re-
PROTAGONISMO DELL’IMMAGINE. MARGINALIZZAZIONE PROGRESSIVA DELLA PAROLA
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Vedi l’analisi dell’opera del fotografo-artista Tom Leighton esaminata nell’edizione di Iconemi 2011 in: PERETTI. M.C. (2012) Luoghi versus Siti. Antipaesaggi o nuovi paesaggi della contemporaneità?, Sestante Edizioni, Bergamo. 5 Renè Magritte (1898-1967), grande artista belga, dipinse il soggetto della pipa accompagnata dalla didascalia “Ceci n’est pas une pipe” in molte opere, tra gli anni Venti e gli anni Sessanta. 6 L’opera “Il falso specchio” dipinta da Renè Magritte nel 1928 si trova al Museum of Modern Art di New York.
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MARIA CLAUDIA PERETTI
PAESAGGI IN RETE
sponsabilità (questi contenuti sono miei nel bene e nel male) e una forma di distinzione (questi contenuti sono miei e non tuoi: c’è dietro il mio know how, la mia fatica, la mia professionalità). Colpisce allora questa enorme adesione alla condivisione gratuita e in molti casi anonima. Una volta messe in rete le immagini si incanalano verso destini ignoti, verso usi incontrollabili. Non solo però: la rete è anche, all’opposto, un’ opportunità di visibilità senza precedenti se l’uso che ne fai è finalizzato e legato ad una strategia di autoesposizione e di marketing. Con quale altro strumento di comunicazione gratuito un fotografo potrebbe mai sperare di ricevere in pochi minuti oltre 15.000 likes? Si parla di pro-am, cioè di una nuova realtà in cui si miscelano amatorialità e professionalità, in un quadro di ridefinizione profonda del lavoro e delle discipline. Ugualmente si parla di pro-sumer, dell’incontro inedito e creativo tra produttore e consumatore. Cambiano le modalità di consumo, le forme di pubblicità e di marketing. Il consumatore esce dal ruolo passivo di chi subisce le scelte e vuole prendere parte attiva alle strategie aziendali, interloquire, esprimere le sue opinioni, fare le sue richieste, in un rapporto che non è più monodirezionale, ma di scambio e di interazione continua. Cambia il nostro modo di pensarci come abitanti della Polis e di conseguenza cambia l’idea delle Istituzioni e dei Servizi che esse erogano ai cittadini. Tra molte difficoltà e inerzie stanno cambiando le modalità di governo del territorio: il paesaggio contemporaneo chiede a voce sempre più alta di essere un paesaggio partecipato dal basso.
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che vive nuove opportunità, nuove forme di fruizione, nuovi flussi e nuovi sistemi di aggregazione fino a poco tempo fa imprevedibili. Oltre alle utilizzazioni legate al geomarketing e al ribaltamento degli assiomi della pubblicità e del coinvolgimento commerciale del consumatore7, la rete sta generando forme di riappropriazione creativa e non convenzionale degli spazi pubblici. Il network viene usato come potente mezzo di connessione, diffusione e condivisione delle notizie, come veicolo per organizzare eventi che, realizzandosi, portano alla risignificazione temporanea, sorprendente e spiazzante degli spazi fisici che tornano così ad essere luoghi centrali della comunicazione e dello scambio sociale. Val la pena di citare, tra i tanti fenomeni che vanno in questo senso, quello del Guerrilla Marketing, quello dei movimenti di contestazione da Occupy Wall Street agli Indignati, attraverso la primavera araba, quello della Flash Mob in tutte le sue declinazioni. Vale anche la pena di citare la riscoperta del Walking, cioè del camminare e dello spostarsi a piedi attraverso i luoghi, di nuovo dentro e non fuori o sopra i paesaggi, facendo fatica, sudando, gioendo di un rapporto diretto con la madre terra e con il proprio corpo nella natura. Camminare ha oggi per molti un forte valore politico intriso della nuova coscienza ecologica, alla ricerca di rapporti veri e non mediati con gli altri. In sintesi la virtualità della rete e delle sue connessioni genera nuove pratiche di uso e riappropriazione degli spazi pubblici, nuove forme di condivisione e nuove pratiche di cittadinanza: genera pure, in contrapposizione, un forte bisogno di corporeità e di esperienzialità diretta.
RITORNO AL TERRITORIO: LA GEOLOCALIZZAZIONE RIVOLUZIONI Se è vero che attraverso i nuovi strumenti ciò che è virtuale assume un peso enorme, è altrettanto vero che, parallelamente, stiamo assistendo ad una fase di ritorno al territorio e alla sua fisicità. La grande frontiera delle applicazioni è attualmente quella della geolocalizzazione, cioè della funzione presente in tutti i nuovi device che consente di individuare la posizione geografica di un soggetto, collocandolo così entro un contesto definito di relazioni e di contatti spaziali. In questo modo i contenuti che circolano a livello globale convergono verso una dimensione locale,
La diffusione della rete si accompagna al ribaltamento di categorie concettuali che da sempre usiamo per descrivere i luoghi e per progettarli. Interno- Esterno Privato-Collettivo Domestico-Sociale Centro- Periferia Locale- Globale Quantità – Qualità Prossimità- Movimento …………………
7 L’esempio emblematico delle nuove forme di geomarketing è rappresentato da FourSquare: si tratta di un celebre social network lanciato nel 2009 da Dennis Crowley e Naveen Selvadurai, che assume la geolocalizzazione come tema centrale, consentendo in modo giocoso e divertente di individuare, segnalare e condividere negozi, locali, musei avvenimenti.
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MARIA CLAUDIA PERETTI
Sempre più la nostra idea di territorio è fatta di flussi, di relazioni tra nodi concettuali svincolati dalla storia, dalla geografia, dalle comunità sociali. Forse il più grave tra i rischi che i nostri paesaggi corrono è quello di una percezione distratta, superficiale, incapace di cogliere le differenze e le molteplici sfumature che sono alla base delle identità locali e che rappresentano per tutti noi una straordinaria ricchezza. Le nuove tecnologie sono strumenti potenti di cui disponiamo per migliorare il mondo e, allo stesso tempo, possono essere strumenti micidiali per allontanarci dalla possibilità di elaborare sintesi consapevoli, che invece sono sempre più urgenti e necessarie: mai come ora abbiamo bisogno di uno sguardo in profondità, alla luce del quale costruire uno sfondo comune di senso alle azioni quotidiane, finalizzato al riequilibrio sostenibile del nostro modello di sviluppo e alla sopravvivenza della nostra specie su questo Pianeta.
Mai come ora abbiamo bisogno di immaginare il mondo come luogo dove possano coesistere pacificamente e nel reciproco rispetto ecosistemi vivi, diversi l’uno dall’altro, densi di relazioni e di strati, di attribuzioni e di simboli, di materia e di valori immateriali.
Nota dell’autore Ho scritto questo testo nell’ottobre del 2012 come sintesi della conferenza tenuta nel ciclo di Iconemi Bg. Sono consapevole della velocità con la quale possono invecchiare le opinioni e le parole relative ad argomenti come quello qui trattato. Sarò quindi curiosa, tra uno o due anni, di rileggere questo scritto per capire la distanza che nel frattempo avremo percorso lungo le infinite ramificazioni della rete.
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FRANCESCA PERANI*
LE APPLICAZIONI COME TRAMITE DINAMICO ALLA CREAZIONE DI NUOVE MAPPE VIRTUALI
«Abbiamo finalmente capito che Internet non è una rete di computer, ma un intreccio infinito di persone. Uomini e donne, a tutte le latitudini, si connettono tra loro, attraverso la più grande piattaforma di relazione che l’umanità abbia mai avuto. La cultura digitale ha creato le fondamenta per una nuova civiltà. E questa civiltà sta costruendo la dialettica, il confronto e la solidarietà attraverso la comunicazione. Perché da sempre la democrazia germoglia dove c’è accoglienza, ascolto, scambio e condivisione. E da sempre l’incontro con l’altro è l’antidoto più efficace all’odio e al conflitto. Ecco perché Internet è strumento di pace. Ecco perché ciascuno di noi in rete può essere un seme di non violenza. Ecco perché la Rete merita il prossimo Nobel per la pace. E sarà un Nobel dato anche a ciascuno di noi.» (“Manifesto Internet for Peace” - 2010) Non solo internet, ma le interazioni di tipo sociale che si manifestano attraverso le applicazioni utilizzate dagli smartphone caratterizzano il nostro oggi e sempre più caratterizzeranno il nostro domani. Quale è la tendenza, il trend nel mondo della tecnologia applicata ai device mobili in quella che è l’interazione tra utente e territorio? Innanzitutto è importante capire che l’influenza dei social network non può più essere sottovalutata: infatti di tutto il tempo trascorso per la navigazione in internet ne dedichiamo il 26% ad un social network. E seppure la parola Social Network venga immediatamente abbinata agli strumenti più utilizzati in internet come Facebook, Twitter, Google plus, è sempre più evidente la presenza di nuove applicazioni il cui utilizzo raggiunge numeri tali per poterle includere all’interno dei social più utilizzati al giorno d’oggi. Tra queste potremmo inserire, ad esempio, Instagram (che agli esordi, in soli tre mesi ha raggiunto un milione di utenti). È un’applicazione che ri* Architetto/grafico Studio Spectacularch!
chiede la creazione di un profilo, permette l’articolazione di una lista di contatti e attraverso una semplice condivisione tra gli utenti riesce a produrre ogni minuto 3700 immagini. Un telefonino intelligente, cellulare intelligente, telefonino multimediale, ovvero smartphone è un dispositivo mobile che abbina le funzionalità del telefono cellulare a quelle di gestione dei dati personali. La caratteristica più interessante degli smartphone è la possibilità di installarvi ulteriori applicazioni (App), che aggiungono nuove funzionalità. A rendere gli smartphone così performanti e funzionali rispetto a telefoni cellulari di precedente generazione è l’aumento delle prestazioni in termini di processamento e memorizzazione, grazie a processori sempre più evoluti e sempre più simili a quelli dei device fissi o portatili e a memorie sempre più capienti (es. schede SD), unite a sistemi operativi sviluppati ad hoc (sistemi operativi per dispositivi mobili) e ad interfacce utente sempre più user-friendly. La diffusione dei telefoni cellulari è stata una delle più rapide ed estese raggiungendo in meno di 20 anni 5,6 miliardi di utilizzatori ovvero il 70% della popolazione globale ed è stimato che entro la fine del 2012 i device mobili (non solo i cellulari ma anche i tablet) saranno in rapporto due a uno con i computer tradizionali presenti. Uno strumento il cellulare che da sempre, oltre ad offrire il servizio della telefonia, includeva anche quello della messaggistica e del gioco e che con l’avvento degli smartphone, si è arricchito della gestione dati (che l’ha subito avvicinato alle potenzialità di un computer) che unitamente alla possibilità di essere georeferenziato ha consentito lo sviluppo di moltissime applicazioni/funzioni. L’aspetto sociale del cellulare deriva dal fatto che possedere un address book o poter mandare messaggi è di per se già un azione sociale.
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Ora con gli smartphone sta avvenendo una evoluzione esponenziale dalla comunicazione alla condivisione e alla scoperta. Interagire in modo sociale con altri utenti diventa ormai un elemento inevitabile e stimolante per tutto il mondo online del futuro. L’applicazione, anche se di recente realizzazione, è già un grande e consolidato strumento di comunicazione, è infatti possibile raggiungere l’utente in qualsiasi luogo e in ogni momento. Le applicazioni che hanno avuto grande diffusione si suddividono nell’ambito del gioco, della vendita (promozionale e commerciale) e in quello dei servizi dell’utente che esprimono una utilità di tipo personale o sociale. Tra tutte le manifestazioni di app social quelle che prendiamo in considerazione sono quelle che ci mettono in contatto non solo socialmente, ma spazialmente ed in tempo reale con il nostro territorio. Di seguito identifichiamo una casistica eterogenea di mappe che aiutano a rappresentare livelli diversi di conoscenza del nostro paesaggio. La creazione di queste mappe avviene secondo due casistiche differenti.La prima in cui la partecipazione arriva dal basso, ovvero dove sono gli utenti con il loro utilizzo che costruiscono e modificano i contenuti delle applicazioni stesse. La seconda che invece prevede l’inserimento dei contenuti da parte degli sviluppatori e sfrutta la possibilità di sapere dove l’utente si trova nel momento in cui utilizza l’app per visualizzare contenuti attraverso la realtà aumentata1.
INTERAZIONE CON LA CITTÀ APPLICAZIONI PARTECIPATE
Abbiamo verificato la grande diffusione di mappe partecipate dove sembra possibile il cambiamento della società in conseguenza dell’uso di questi nuovi media sociali. L’uso dei media digitali e la geolocalizzazione risultano di fondamentale importanza nel favorire questo processo di collaborazione. Si parte dal principio per il quale la smart city usa il sistema dell’open-data, ovvero la condivisione di informazioni con il cittadino, applica sensori hitech alla vita quotidiana e rafforza il ruolo del singo-
lo utente, per potenziarne la conoscenza e l’influenza sullo spazio in cui vive. Si aprono scenari innovativi che spaziano dal volontariato alla partecipazione politica: il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadinanza comincia ad essere vissuto attraverso esperienze di stretta collaborazione. L’utente interagisce attivamente con il territorio che lo circonda. Obiettivo di questi strumenti diventa migliorare gli standard di vivibilità delle città attraverso nuove forme di collaborazione tra le cittadinanza. È il caso di Clean City dove è possibile segnalare situazioni di degrado urbano. Con Decoro Urbano le segnalazioni possono essere inviate dal sito internet attraverso la procedura guidata o con uno smartphone lanciando l’app e scattando una foto per far sì che il dispositivo associ automaticamente le coordinate GPS e visualizzi la segnalazione sulla mappa. Da quel momento gli utenti possono commentarla, condividerla online o sottoscriverla accrescendone la visibilità. È evidente come applicazioni come questa offrono la possibilità di aprire un filo diretto tra le amministrazioni e i cittadini, ai Comuni di poter essere Comuni attivi e dunque di poter dare una risposta alle segnalazioni. Già più di un milione cittadini stanno collaborando ed un comune come quello di OLBIA segnala le problematiche risolte e quelle ancora in carico. Altro esempio interessante di interazione con il territorio riguarda l’ambito fiscale: si tratta di Tassa.li. cioè di una applicazione che da l’opportunità di segnalare in modo anonimo episodi di evasione fiscale come la mancata emissione dello scontrino fiscale o della fattura per beni o servizi pagati. Ha uno scopo esclusivamente statistico che promuove la presa di coscienza del livello di evasione fiscale in Italia. Attualmente viene indicato un valore di 16 milioni di euro non tassati grazie alla segnalazione di 100000 utenti. L’occupazione del tetto da parte dei residenti di un edificio di lusso di New York in segno di protesta per l’installazione di un ripetitore per trasmissione dati per i cellulari (evidente sintomo di crescente preoccupazione dei cittadini per l’impatto di questi segnali elettromagnetici sulla salute e sicurezza) è stato di ispirazione per la nascita di City Sensing, con la quale è possibile identificare la posizione esatta dei ripetitori e la potenza del segnale in uso, dando vita a vere e proprie mappe:si arriva così ad avere
1 È quella che si chiama Realtà Aumentata (in inglese Augmented Reality, abbreviato AR) e che permette di passare dai dati che possiamo vedere con i nostri occhi a quelli virtuali che vengono visualizzati sul display dello smartphone. Si tratta di una tecnologia capace di arricchire la percezione sensoriale umana mediante informazioni, in genere manipolate e convogliate elettronicamente, che non sarebbero percepibili con i cinque sensi.
LE APPLICAZIONI COME TRAMITE DINAMICO ALLA CREAZIONE DI NUOVE MAPPE VIRTUALI
una piattaforma per la condivisione di dati e strumenti di visualizzazione in ambito elettromagnetico. Il device mobile applica così sensori hi-tech alla vita quotidiana e rafforza il ruolo del singolo, per potenziarne la conoscenza e l’influenza sullo spazio in cui vive. DataSF App è un insieme di applicazioni sviluppate utilizzando set di dati pubblicati dalla città di San Francisco. In questo caso vediamo visualizzate in mappa tutte le attività criminali e ciò consente all’utente di capire a colpo d’occhio le aree più a rischio e di poter contribuire a migliorare le informazioni attraverso la propria segnalazione diretta. PlacePulse ha lo scopo di estrarre quantitativamente le opinioni soggettive degli utenti usandole per riconoscere quali sono le aree di una città che possono essere percepite come più o meno ricche, moderne, accogliente sicure, vivaci, attive. Questa partecipazione avviene semplicemente attraverso una scelta immediata tra due luoghi identificati da google street view, dove l’utente ottiene una carrellata di immagini tra le quali scegliere. PlacePulse risulta utile per identificare quali quartieri di Bangkok sono percepiti meglio di quartieri di New York City o per esaminare come la distribuzione di una certa percezione a Città del Messico può essere messa a confronto con quella stessa percezione a Tokyo. Questo strumento digitale ha lo scopo di aiutare le città a capire come diventare più flessibili e rappresentative dei desideri dei propri abitanti. Un’altra applicazione che utilizza il principio delle percezioni è ISentiment che consente agli utilizzatori di esprimere il proprio sentiment o percezione rispetto a temi proposti. Nell’immagine di riferimento, ad esempio, il quesito riguarda la percezione della mobilità e l’interazione dell’utente viene sintetizzata oltre che in un diagramma a barre anche su mappa identificando per aree territoriali i valori più o meno positivi di percezione. Un’ulteriore caratteristica di interesse è la possibilità di restringere il campo di interazione degli utenti ad un dato raggio di azione. Da segnalare comunque anche MyBlockNYC. com che è un sistema interattivo, sito mappatura user-generated popolato con i video personali della vita e della cultura a New York City. Il pubblico è invitato a caricare video e tag all’ora esatta e nel luogo esatto in cui vengono girati. La mappa MyBlock trasmette non solo la geografia della città, ma anche le storie, la cultura e lo stile che definiscono un luogo. I video sono ricercabili per posizione, per ora del giorno, per argomento e per età del regista con l’obiettivo di sfruttare il potenziale creativo degli occupanti della città e dei vi-
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sitatori per raccontare un ricco e intimo ritratto in continua evoluzione della città condivisa con gli altri cercando di portare le mappe ad una dimensione più umana attraverso la creatività degli utenti.
ITINERARI EMOZIONALI All’interno delle app che interessano l’ambito dei servizi esistono poi app che non forniscono un contributo specifico utile a livello socio amministrativo, ma si concentrano sulla capacità di suscitare all’utente interazioni di tipo emozionale con il territorio in cui vive. Ne è un esempio Serendipitor: con i telefoni intelligenti, le città intelligenti, e gli strumenti infiniti per massimizzare l’efficienza e ridurre al minimo il tempo di viaggio la possibilità di incontri o scoperte fortuite è in diminuzione. Serendipitor nasce con l’intento di far riscoprire l’esploratore giocoso che c’è in tutti noi. L’utente immette la sua destinazione e l’applicazione procede nel fornire con inventiva percorsi direzionali e nel suggerire azioni che aiutano a trovare qualcosa di nuovo e sorprendente lungo il percorso, con la possibilità di aumentare o diminuire la complessità del tragitto, a seconda del tempo disponibile. È possibile scattare fotografie lungo la strada e, una volta raggiunta la destinazione, inviare una email per condividere con gli amici il percorso e i passi fatti. Anche l’App Dérive cerca di creare percorsi alternativi attraverso l’introduzione di azioni lungo il percorso con un intervallo di 3 minuti tra l’una e l’altra: cerca una fontana, segui una coppia, trova il luogo più luminoso e così via. Dérive è un’applicazione per perdersi, un viaggio non programmato per la città, un’evasione alla Routine attraverso un’esplorazione più spontanea del proprio territorio. Un app che così facilita un aspetto importante: il potere durevole dell’esperienza soggettiva in un’epoca di informazioni di saturazione.
REALTÀ AUMENTATA L’applicazione Il Museo della Città Fantasma (Museum of the Phantom City) sfrutta appieno queste capacità degli smartphone. È un progetto di arte pubblica che utilizza i dispositivi mobili per trasformare la città in un museo vivente. L’applicazione rivela le proposte progettuali di architetti e artisti visionari dell’ultimo secolo a New
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York City rendendo così visibili le storie invisibili della città. Questo “museo senza pareti” vuole intensificare le esperienze urbane, l’introdurre piacere e mistero nella condizione metropolitana. Obiettivo centrale è rendere le storie invisibili della città visibili. Lasciare vedere agli utenti progetti utopici e non, consentendo anche l’inserimento di nuovi progetti. Camminando per la città, una volta vicini ai luoghi segnalati, l’applicazione mostra un progetto visionario e l’utente può interagire comparandolo con la realtà e votandolo. Lo smartphone si trasforma in una macchina del tempo anche in Streetmuseum, un’applicazione che permette di visualizzare illustrazioni e fotografie storiche dalla collezione del Museo di Londra, dal 1666 fino agli anni ’60. L’applicazione funziona grazie al GPS e alla fotocamera. Inquadrando la strada
in cui ci si trova sullo schermo apparirà un’immagine d’epoca di quel luogo. Con un clic sarà possibile visualizzare informazioni storiche. World Park infine è un esempio emblematico di sfruttamento delle potenzialità della realtà aumentata. Se l’esempio precedente riguarda principalmente il mondo della fotografia, con WorldPark si assiste a un passaggio ancora più coinvolgente attraverso l’esperienza dei video. L’applicazione è nata nel 2010 per favorire la conoscenza del parco di Central Park a New York e favorire l’interazione con esso soprattutto da parte delle fasce dei più giovani non solo fornendo informazioni di tipo storico, scientifico e artistico di luoghi di interesse del parco, ma anche creando delle suggestioni fotografiche e riproducendo estratti di film girati in quei luoghi permettendo così di riportare alla luce una moltitudine di eventi passati.
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FRANCESCA PERANI
Bibliografia SAYLOR M., 2012, The Mobile Wave: How Mobile Intelligence Will Change Everything, Perseus Books/ Vanguard Press. FORD E.R., WIEDEMANN J. (a cura di), 2011, The App & Mobile Case Study Book, Taschen. LUNA R. (introduzione a cura di), A.A.V.V., 2010, Internet è un dono di Dio, Skira.
Webologia http://life.wired.it/specialesmartcity/2012/06/29/appsmart-city-city-open-app-challenge-concorsobologna-smart-city-expo-2012-rete-civicaiperbole.html http://opencities.appcircus.com/apps/ubipix http://www.decorourbano.org/applicazioni/ http://www.cleancityapp.com/
http://agencymagma.com/ http://www.appbrain.com/app/tassa-li/li.tassa.android http://www.spontaneousinterventions.org/project/citysensing-signal-spaces http://www.datasf.org/showcase/ http://www.spontaneousinterventions.org/project/placepulse http://www.good.is/post/good-design-daily-give-a-minutelets-you-talk-back-to-your-city/ http://www.isentiment.it/ http://www.spontaneousinterventions.org/project/myblocknyc http://www.spontaneousinterventions.org/project/serendipitor http://www.deriveapp.com/ http://www.spontaneousinterventions.org/project/museum-of-the-phantom-city http://www.museumoflondon.org.uk/Resources/app/youare-here-app/home.html http://www.theworldpark.com/nyc/
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ARTURO LANZANI*
LO SGUARDO DA UN PUNTO RIALZATO
PRENDERE DISTANZA La prima esperienza costitutiva del paesaggio è quella della visione che possiamo cogliere dalla sommità di un monte, “poiché il paesaggio presuppone un punto di vantaggio dell’osservatore, presuppone un rilievo, un punto di vista elevato da cui guardare: perché esso è il contrario di ogni forma di riduzione ad una superficie piatta della superficie della Terra (Farinelli). La conquista della visione da un punto elevato simboleggia l’emergere della soggettività moderna, quella di un osservatore che si slega dai legami originari, che si distacca momentaneamente dalla vita precedente, la riguarda in modo nuovo e si spinge in un orizzonte più vasto. Prendere distanza è condizione di visibilità e fonte di sorpresa verso un mondo, che tuttavia, a differenza che con lo sguardo zenitale della carta, nella visione dal colle, non si ritiene di poter dominare e controllare totalmente, ma rimane per molti aspetti indeterminato nella bruma del cielo e che richiede di essere esplorato ed esperito (Jacob). Questa esperienza ci riporta a tappe inaugurali della stessa idea di paesaggio nella cultura europea: la nota e discussa lettera di Petrarca sull’ascesa al monte Ventoso (Ritter e Besse); le vedute pittoriche da un punto rialzato di Brughel e di molta pittura del paesaggio che si svilupperà in seguito (Besse, Dubbini; Milani); le visioni a volo d’uccello che per lungo tempo costituiranno una delle strategie di rappresentazione della città prima del definitivo affermarsi della visione zenitale (Gambi, De Seta) fino ad arrivare alle vedute con cui Humboldt sintetizza uno specifico quadro di natura, combinando contemplazione estetica e conoscenza scientifica, capacità seduttiva e ricerca interpretativa (Quaini, Milani, Besse). Più in generale entro questa esperienza si segnala un legame costitutivo tra il paesaggio e lo sguardo, un legame quasi ovvio se pensiamo * Politecnico di Milano.
alla ricerca del pittore, del fotografo ed anche del letterato (Dubbini, Milani) e che però ritroviamo anche nella ricerca di molti naturalisti, agronomi, giardinieri, sociologi e urbanisti che guardano la natura e la stessa città, la metropoli e poi una urbanizzazione sempre più estesa e diffusa con prospettive un poco eterodosse, ma non del tutto estranee al moderno sviluppo della ricerca scientifica (Dematteis, Besse). Essa evidenzia in ogni caso quando già anticipato: per guardare al mondo come un paesaggio è necessaria una qualche distanza tra osservatore e scena osservata (Turri). Una distanza che storicamente si crea quando sentiamo di non appartenere più a quella realtà, quando nella modernità ci sentiamo alienati dalla natura e nello stesso tempo cerchiamo di reinventare una relazione con la stessa, quando nella modernità si rompe la dimensione del radicamento nei luoghi e nello stesso tempo si vuole mantenere una relazione con quella specifica località che osserviamo dal colle, quando lo stesso spazio metropolitano e periurbano non ci pare più ordinato e comprensibile, ma come qualche cosa di simile ad una foresta sconosciuta. L’esistenza di una distanza dalla scena osservata non vuol dire tuttavia pensare necessariamente ad un soggetto outsider portatore di una visione paesaggistica contrapposto ad un soggetto insider incapace di concepirla (come troppo rigidamente è stato sostenuto ad esempio nei primi scritti sul paesaggio di Cosgrove a partire da Lowental). Semmai questa distanziazione corrisponde alla capacità – tipicamente moderna – di un individuo, di un gruppo sociale, di una società di prendere una distanza anche solo momentanea da un ambiente che solo poche ora prima è stato segnato dal proprio lavoro e dal proprio operare, contemplandolo in una esperienza estetica, ma anche in una prospettiva critico-interpretativa, progettuale e trasformatrice (Assunto, Turri). Le ragioni dell’abi-
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tare e quelle del paesaggio non coincidono, ma non sono neppure tra loro contrapposte: possono e debbono integrarsi
IL COESISTERE DELLE COSE, L’ATTITUDINE ECOLOGICA DEL PAESAGGIO Questa visione da un punto rialzato, grazie a un colpo d’occhio, consente di osservare il coesistere delle cose, dei viventi e delle persone, concentra la nostra attenzione sul loro stare insieme in uno specifico quadro ambientale (Humboldt). Il paesaggio non permette di cogliere la totalità dell’ambiente che ci circonda, incorniciandone inevitabilmente una parte, ma non lo frammenta a piacimento, consentendo di osservare un “ritaglio” della stesso in tutta la sua complessità (Simmel). Non è un aspetto irrilevante questa propensione a “mettere in relazione” a vedere “insieme” cose differenti, entro un attitudine del pensiero che possiamo definire per questa ragione “ecologica”. Questa attenzione al coesistere delle cose ci indica una fondamentale alternativa nel nostro approccio al mondo e più specificatamente ai possibili sviluppi delle scienze del territorio, della geografia e dell’urbanistica. Come ci ricorda Farinelli, alla classificazione logica delle scienze moderne, che seziona le cose del mondo e le ricompone secondo parametri e attributi definiti analiticamente dallo studioso (una strada seguita ad esempio nella classificazione delle specie vegetali linneiana), Kant affianca e contrappone la classificazione fisica della geografia, che raggruppa le cose in base alla loro prossimità fisica (una strada seguita ad esempio dalla classificazione delle specie per la classificazione delle specie vegetali entro differenti ecosistemihabitat). La logica della moderna “ragione cartografica” segue la prima via, scomponendo e ricomponendo su una superficie piana e liscia, le cose del mondo secondo qualche principio di classificazione logica. Anzi si può ritenere che proprio la rappresentazione cartografica del mondo, prima ancora del pensiero scientifico moderno, abbia contribuito alla definizione di questa prospettiva. Il tutto in un percorso segnato da alcune tappe fondamentali: la mappa di Anassimandro, la cartografia tolemaica, lo sviluppo della prospettiva nel rinascimento, la moderna rappresentazione zenitale del territorio, più in generale l’assunzione dell’operatore spaziale euclideo come dato di realtà e non come codice della rappresentazione e una conseguente concezione dello spazio come spazio omogeneo, vuoto, puro contenitore (privo di attributi materiali e valenze ed esperien-
ziali) di oggetti selezionati in ragione di una qualsivoglia ragione strumentale (Farinelli, Dematteis). Lungo la strada della classificazione logica muovono non pochi filoni delle geografie fisiche e delle scienze ambientali che hanno fatto proprio gli approcci positivisti maturati nell’ottocento e verso i quali ha rotto molti punti di contatto la geografia umana negli anni sessanta e settanta nel suo emanciparsi da positivismo banale e nella sua riscoperta della dimensione storica e del conflitto nel farsi del territorio (Gambi). Per quanto quell’approccio oggi non risulti più univoco nelle scienze fisiche ed ambientale, non va però ignorato che anche molti recenti sviluppi della landscape ecology ricorrono nelle loro tecniche, con analisi fattoriali e carte tematiche, alla medesima logica di rappresentazione che seziona, separa e poi riaggrega troppo spesso artificialmente gli elementi di un certo quadro ambientale. Ad un approccio che separa e divide rimanda, seppur in modo differente, il nucleo portante della geografia urbana e dell’urbanistica funzionalista con la suddivisione dello spazio in zone destinate a funzioni differenti e a tipologie edilizie predefinite, con la definizione di uno schema cinematico di relazione tra le parti, con la definizione e la modellizzazione di regioni funzionali. Questa impostazione di fatto permane in una condivisa ed eclettica visione contemporanea del territorio come spazio dei flussi che guida la costruzione corrente di infrastrutture di comunicazione, di grandi contenitori chiusi e spettacolari di grande rilevanza simbolica, di innumerevoli oggetti atopici dalla veloce obsolescenza, nonché di isole di paesaggi e patrimoni dell’umanità da tutelare e salvaguardare. Ancor più radicalmente questa strada è stata fatta propria dalla geografia economica, che soggiogata dai principi del pensiero economico neoclassico si è mossa principalmente lungo quella strada con la sua concezione del suolo come pura superficie destinabile ad usi alternativi, con le sue teorie della localizzazione e degli squilibri regionali e con il suo stesso riferimento alla “qualità” del paesaggio (ridotto a pura forma o peggio ancora a suo simulacro in una immagine stereotipizzata) come a una delle componenti con cui valutare la capacità attrattiva e competitiva di una regione o di una città. Nella stessa direzione opera la geografia del paesaggio di matrice positivista che, da Shluter in poi, priva il paesaggio di ogni riferimento al soggetto che osserva e lo seziona in componenti oggettive ed universalizzate e la geografia delle sedi dopo Maitzen (e Cattaneo) che nei suoi sviluppi positivisti espelle dal suo studio delle relazioni tra forme topografiche
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degli insediamenti, strutture di proprietà, forme di impresa, condizioni ambientali, processi economici generativi (Farinelli). I principi della classificazione logica sono stati fatti propri in modi assai simili anche nella “analisi urbana” maturata nelle scuole di architettura nel corso della seconda metà del novecento in virtù di una lettura morfo-tipologica degli insediamenti che viviseziona per tracciati, lotti, tipi il paesaggio urbano, ricomponendoli poi in un esercizio progettuale che si condanna ad un perenne formalismo, fuori da qualsiasi relazione con il mondo della vita (Consonni). In questo senso, non va sottolineato, quanto il diffuso ricorso a una rappresentazione del territorio per layer da parte del landscape urbanism e lo sforzo di classificare e cartografare le componenti qualitative del landscape heritage conservation ci riporti molto spesso più alla logica della ragione cartografica e al predominio dell’idea di spazio che alla logica della classificazione fisica e ad una visione propriamente paesistica. La logica della pittura del paesaggio ha invece seguito principalmente la seconda via, perlomeno nei suoi sviluppi meno legati alla prospettiva rinascimentale. L’attenzione al coesistere delle cose può essere risolta evidenziando una tonalità, una atmosfera pregnante e propria di un paesaggio (l’irruenza del dato geologico in Leonardo, la dimensione conviviale e quotidiana del vivere di Brughel e Avercamp, la presenza del passato in Lorrain, il carattere vivente della natura di Cezanne), superando la stessa idea di distinguibilità degli oggetti in una unitarietà di luce e di colore (nella grande pittura di paesaggio delle opere ultime di Monet e di Turner). Tuttavia nella pittura del paesaggio l’attenzione alle relazioni può focalizzarsi sullo stridore tra cose differenti che coesistono (nei paesaggi californiani di Hokney con la combinazione di oggetti qualsiasi visti da punti di vista differenti o nell’inquietante combinazione di una sensazione di quotidianità conviviale e di anomia e alienazione di Hopper), o può esplodere nell’evidenziazione di forze contrastanti all’interno di uno stesso paesaggio e di una stessa figura (nella pittura di Bacon). Più prosaicamente la presenza a lungo di un codice pittorico-paesistico nella stessa storia della cartografia preottocentesca (Quaini) nella lunga tradizione della progettazione dei giardini e in alcuni esercizi cartografico-urbanistico del novecento hanno comunque evidenziato l’esistenza di una resistenza alla più rigorosa applicazione della classificazione logica. In ogni caso l’adesione a questa seconda via, l’attenzione al coesistere delle cose, la troviamo enunciata nitidamente a partire dal 700 nei maestri del pensiero paesaggistico. È evidente da subito nella
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teoria del colore e nell’attenzione alle atmosfere vaporose della “teoria del paesaggio” di Goethe e nella idea del camminare e della contemplazione del paesaggio strutturalmente poco attenta agli oggetti particolari, ma in grado di sentire il “tutto” di Rousseau, così come nella sua abbozzata idea di inchiesta regionale che si appella al viaggio e allo sguardo oltre che al rilievo e ai censimenti. Al centro della ricerca di Humboldt troviamo l’interesse non tanto per la scoperta di nuove specie vegetali o animali, ma per le forme della coesistenza delle specie e in particolare per il rapporto tra natura vivente e inanimata. E questo interesse si noti bene che lo porta a ragionare per quadri e paesaggi cercando un punto di contatto tra l’approccio al mondo di Goethe e lo sviluppo moderno delle scienze della natura. Un punto di incontro che in forme diverse si trova in Ratzel. Nella sua antropogeografia, nel suo tentativo di uno sviluppo di un studio storico-sociale ben saldato alla dimensione spaziale il paesaggio diventa impressione totale capace di mettere in relazione un insieme di cose tra loro sempre più antagoniste e difficilmente iscrivibili nella visione armonica humboldtiana. Parimenti Ruskin matura un interesse non più per i singoli monumenti o al più delle relazioni tra monumenti e il contesto circostante (come nella tradizione degli antiquari e degli archeologici che lo precede), ma per l’intero paesaggio urbano e per le relazioni sempre più problematiche e laceranti che al suo interno si creano tra pietre antiche, nuove architetture e vita quotidiana. In Simmel infine questa propensione all’osservazione del coesistere delle cose si manifesta nell’idea che il paesaggio sia più della somma delle parti che lo compongono, sia un riquadro che tuttavia mantiene la complessità del tutto da cui trae origine e soprattutto si manifesta nelle immagini sintetiche da lui prodotte per interpretare fenomeni differenti, immagini, che non si soffermano mai su un oggetto specifico, ma sulla copresenza spesso conflittuale di cose e persone, che sono alla base di un modo di pensare, che non casualmente è stato definito come impressionismo e relazionismo sociologico. Del resto, non casualmente il paesaggio è presente in tutti quei filoni delle scienze del territorio che negli anni successivi hanno sviluppato un approccio “ecologico” al mondo, mostrando una forte attenzione al coesistere delle cose in un contesto specifico, in un contesto che a sua volta non può essere definito che da questo coesistere. In questa direzione si è mossa sicuramente la geografia regionale e la geo-storia francese, che ha sempre rifiutato la costruzione di un qualche modello astratto del territorio ottenuto vivisezionando
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prima gli elementi della realtà analizzata e ricomponendo poi gli stessi elementi su uno spazio ridotto a pura superficie geometrica. Viceversa essa ha sempre valorizzato la capacità che le immagini di paesaggio hanno nel mettere in relazione cose differenti. Questa attitudine si ritrova in Vidal de la Blache a cui interessa lo studio delle relazioni tra esseri eterogenei in coabitazione e correlazione reciproca in una regione e in particolare le relazioni tra le varie attività e insediamenti e il supporto geologico su cui si sviluppano (Besse, Robic). Egualmente essa si ritrova nella ricerca sulle campagne di Bloch che studia le relazioni tra forme dei campi, degli insediamenti e delle colture, strutture di proprietà, modalità di organizzazione del lavoro, tecniche produttive. Si pensi infine alla fusione tra questi due insegnamenti nelle straordinarie letture dei paesaggi rurali dell’estremo oriente, della Sardegna e dell’Umbria di Gourou, Le Lanou e di Desplanques. Letture che si segnalano per lo studio dell’estrema varietà e originalità di relazioni tra clima, natura dei suoli, generi di vita, organizzazione economica, forme degli insediamenti e sistemazione dei suoli. Non poche analogie con questo approccio relazionalista contestuale e per “immagini” le si ritrova nel nostro paese nella ricerca socioeconomica, storica e geografica che si sviluppa da Cattaneo a Serpieri, a Rossi Doria e Sereni, a cui non casualmente si deve una grande attenzione al paesaggio agrario nella sua varietà geografica e storica, sempre all’interno di una visione attenta alla relazione tra città e campagna, tra elementi urbani e rurali così differenti nel tempo e nello spazio. In una direzione simile opera la ricerca geografica di Biasutti e Gambi sull’edilizia rurale, che viene sempre esplorata e interpretata entro differenti contesti regionali, entro differenti paesaggi, caratterizzati da specificità climatiche, geologiche e storico sociali. Un approccio relazionale e contestuale emerge negli studi urbani già in Geddes, con la sua sezione di valle, con le sue osservazioni (a volo d’uccello dalla torre del suo ipotizzato osservatorio urbano, cosi come camminando nelle strade di una città) sulle relazioni di generi di vita e configurazioni spaziali urbane di cui riconosce il carattere plurale e non deterministico nelle diverse città inglesi e poi indiane (Ferraro). Questo interesse a vedere le cose insieme nel loro coesistere lo si ritrova parimenti negli studi urbani di Poete (tutti focalizzati su Parigi) che ci restituiscono il paesaggio urbano per “pennellate ampie”, per “impressioni e per immagini”, dando conto di originali intrecci tra vita quotidiana nella sua ritmica evoluzione giornaliera e città fisica nelle sue mutevoli configurazioni (Calabi).
Un pensiero “relazionale” certo meno attento alle pratiche di vita, ma non così disattento alla dimensione esperita e vissuta dello spazio guida anche le riflessioni sul paesaggio urbano di Sitte e la polemica con non pochi aspetti dell’urbanistica tecnica ottocentesca (Wieczorek, Zucconi). Simili riflessioni conoscono riprese ma anche sviluppi del tutto originali nel nostro paese. Innanzitutto nella lettura della città e del territorio per ambienti e per paesaggio di Giovannoni che supera alcuni limiti della lettura sittiana del paesaggio urbano nella comprensione della nuova città (Choay) e poi soprattutto nelle letture di Samonà, Quaroni, De Carlo nei quali emerge l’immagine di una città più consolidata come una narrazione e una tessitura a più voci, prodotto storico di società insediate spesso assai articolate al loro interno e oggi quadro materiale più o meno capace di accogliere e adattarsi alla vita contemporanea. Questi autori sviluppano così una più densa idea di paesaggio e ambiente urbano come intreccio tra configurazioni fisiche, forze economiche e pratiche sociali, riprendendo l’insegnamenti di Geddes e Poete, ma aprendosi al dialogo anche con le riflessioni della geografia e della storiografia francese, con i contributi della ecologia urbana americana e di alcuni filoni della ricerca sociale francese e con le stesse riflessioni di Gambi, Sereni e Rossi Doria (Lanzani). D’altra parte questi veloci richiami ad alcune importanti tradizioni di ricerca non debbono indurci a pensare che questo riflettere del paesaggio sulla coesistenza delle cose e sulle relazioni tra le cose porti necessariamente ad una qualche forma di generalizzante “organicismo”. Innanzitutto perché la metafora organica per alcuni di questi autori non veicola tanto una idea di una armonica, proporzionata e generalizzante composizione degli elementi, ma è semplicemente lo strumento per sviluppare un pensiero relazionale e convive con l’attenzione all’individualità di ogni organismo urbano. In secondo luogo perché accanto a posizione più organiciste, nelle letture per paesaggi e per ambienti troviamo riflessioni che muovono fin dall’inizio dall’evidenziazione di contrasti, di stridori, di rotture, di conflitti tra le differenti cose. Tutto ciò è in effetti già straordinariamente evidente a fine secolo nelle riflessioni di Simmel e Ruskin, che proprio grazie all’osservazione del visibile e del paesaggio, segnalano l’emergere di fratture, di conflitti e di contrasti di non facile composizione nel mondo che osservano. Non diversamente l’ecologia urbana di Chicago di Park, di Anderson e di Wirth risulta interessata non solo a forme di coesistenza relativamente stabilizzate, ma anche e soprattutto alle dinamiche di combinazione
LO SGUARDO DA UN PUNTO RIALZATO
e di successione tra differenti popolazioni cosi come ai paesaggi urbani entro i quali si evidenziano dinamiche anomale. Con ancora maggior evidenza le immagini di città di Benjamin giocano tutte su un doppio livello di attriti e di contrasti: quello tra differenti regioni e paesi e quello tra rovine del passato, testimonianze di un possibile diverso presente, e di un irruzione del nuovo non sempre portatrice di futuro. A partire dal secondo dopoguerra, gran parte delle letture del paesaggio urbanizzato ci parleranno con insistenza, sia di nuove impreviste forme di coesistenza tra cose e persone in scenari nuovi e al tempo stesso ordinari, sia di palcoscenici dove si manifestano e stridono tra loro processi storici e sociali sempre più scomposti e frammentati. Nel primo senso si pensi alle ricerche di Jackson sui paesaggi dei suburbi degli strip e della provincia americana, alla lettura di Los Angeles per ecologie-paesaggi sviluppata da Banham, alla riflessione sui paesaggi ordinari della campagna urbanizzata e della prima stagione dell’industrializzazione/urbanizzazione diffusa italiana. Nel secondo senso si pensi ad esempio alle riflessioni di Lynch sulle vedute urbane dalla strada e sul moltiplicarsi degli scarti urbani, ad alcune originali annotazioni di De Carlo su pratiche di vita impreviste in spazi ai margini della periferia e del territorio periurbano, a quelle di Davis, Goss e Knox sui paesaggi contrapposti e al tempo stesso coesistenti. prodotti dal degrado o dalla gentrification dei suburbi e delle downtown americane e si pensi anche alle considerazioni sugli stridenti contrasti da subito emersi nel paesaggio dell’urbanizzazione diffusa italiana (Turri) poi approfonditesi in forme nuove e più radicali negli anni più recenti nella stagione della diffusione (Boeri, Lanzani) e nel costituirsi di labirintici arcipelaghi metropolitani. Il tutto nel quadro di una contrapposizione, su cui torneremo, tra chi ritiene possibile ricercare forme parziali di dialogo e di relazione tra gli innumerevoli oggetti caduti al suolo attraverso un nuova urbanistica del paesaggio attraverso il landscape urbanism e chi ritiene inevitabile un fare architettura – e urbanistica che procede attraverso grandi oggetti manufatti griffati & generici format ripetuti.
LA FUNZIONE EURISTICA DELLE IMMAGINI E IL RUOLO DELLA METAFORA NELLA DESCRIZIONE GEOGRAFICA
Il paesaggio è dunque intrinsecamente ecologico poiché associa, connette, suppone relazioni, tra i diversi elementi e tra questi e il contesto. C’è dunque un punto di contatto profondo – non tematico e non
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disciplinare – con l’elemento essenziale dell’ecologia: l’attenzione ad elementi ed esseri eterogenei in coabitazione e correlazione reciproca. È questo il punto di contatto più profondo tra il paesaggio e l’ambiente (o meglio il più denso concetto di milieu) la ragione odierna di un loro possibile e sempre più necessario riavvicinarsi (Dematteis, Greppi, Settis). Paesaggio e ambiente non ritagliano cose, persone, processi a piacimento ricomponendole poi sul freddo tavolo di una carta geografica o di un quadro di contabilità economica e più in generale di un qualsiasi forma di pensiero analitico sezionale e strumentale; ma evidenziano situazioni prodotte e caratterizzate da componenti eterogenee e composite, spingono a ragionare sulle relazioni tra queste cose (e pratiche e persone). Ciò non deve tuttavia portare a sottacere le ragioni delle divaricazioni – tra paesaggio e ambiente – esistenti nel passato e gli elementi di differenziazione e di specificazione che permangono tra questi due modi di vedere il mondo. Sulle divaricazioni maturate nel passato e oggi superabili ci limitiamo a sottolineare che storicamente vi è stata una frattura tra l’idea di paesaggio come “veduta/visione da un punto rialzato” riferibile ad un soggetto (individuale e collettivo) e le concezioni oggettivanti del concetto di ambiente che hanno dominato (più in passato che nel presente) le scienze della terra e la stessa ecologia (e che hanno portato ad una oggettivazione dello stesso paesaggio dapprima nella geografia positivista e in tempi più recenti nella stessa landscape ecology). Il paesaggio rifiuta quella prospettiva a lungo propria del pensiero scientifico ed anche dell’ecologia che tende ad eludere l’esistenza di un occhio che guarda, la particolarità della sua visione, senza per questo dover necessariamente far propria una posizione soggettivistica, una visione radicalmente costruttivista. Parimenti anticipiamo che nella fenomenologia di Husserl e soprattutto di Merleau Ponty fatta propria dalle riflessioni sul paesaggio di Dardel, ma anticipata in Humboldt, Ruskin e Simmel, questo richiamo alla presenza di un punto di vista non comporta necessariamente far propria una posizione soggettivistica e una visione radicalmente costruttivista (che ritroviamo in alcuni approcci al paesaggio). Parimenti nelle stesse scienze ambientali e della terra, nella “ecologia dello guardo” e nei più recenti sviluppi delle scienze cognitive questa contrapposizione viene meno per il superamento di ogni banale cartesiano oggettivismo (Berque, Dematteis), giustificando un riavvicinamento tra prospettive ecologiche e culturali un tempo divergenti (Gambi, Dematteis).
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Vi sono tuttavia anche specificità e differenze che permangono e che rendono il punto di vista paesaggistico e quello ambientale distinti ancorché collaborativi. Queste specificità risiedono in una forma di pensiero e una pratica della conoscenza che valorizza il ruolo delle immagini e che muove dal visibile verso l’invisibile. Due aspetti che sono stati a lungo considerati dequalificanti letture paesaggistiche o perlomeno tali da confinarle ad una dimensione estetica contrapposta a quella scientifica. Di questi due elementi vogliamo invece sottolineare la rilevanza negli stessi processi cognitivi e fuori da rigide e paralizzanti separazione tra i saperi. Il paesaggio in quanto immagine ha un duplice ruolo nel processo cognitivo che possiamo evidenziare a partire dalle riflessioni di Arnheim sul pensiero visivo (Lanzani). Il paesaggio nella sua specifica e puntuale configurazione, può essere inteso come una suggestione-impressione iniziale che apre la conoscenza, evidenziando associazioni tra i diversi elementi che vanno indagate. L’immagine concreta e puntuale, esemplificativa, restituita ad esempio da una fotografia, da una descrizione letteraria, da una rappresentazione pittorica o da uno schizzo, oltre che segnalare la specificità di quella situazione, assume allora una valenza simbolica: è la strada inaugurata da Humbodt e da Ruskin. In alcuni casi può segnalare delle qualità astratte e generali come il limite molto netto delle nevi perenni nella rappresentazione pittorica del vulcano Chimborazo di Humboldt. In altri casi evidenzia una atmosfera specifica di una particolare situazione, come in alcune fotografie e descrizioni della provincia americana e della vita lungo le sue strade di Jackson. Spesso segnala un fenomeno emergente, come nelle immagini letterarie dei passages di Parigi di Benjamin o nelle descrizioni verbo-visive degli strip commerciali di Jackson e poi di Venturi e Scott o ancora nelle foto delle fabbriche milanesi dismesse di Basilico. Il paesaggio come immagine e simbolo può indicare, sia una particolare interpretazione locale del comporsi di campi, colture, piantate ed insediamenti secondo regole compositive ben definite e perfezionatesi nel tempo come nelle fotografie di Desplanques delle campagne umbre, sia l’accostarsi di oggetti in forme stridenti e sorprendenti in fasi di profonda trasformazione come si ritrova in buona parte delle immagini di paesaggio del viaggio (fotografico) in Italia coordinato da Ghirri e in quelle della Mission Photographique della Datar all’inizio degli anni ottanta. In tutti questi casi richiamati il paesaggio come immagine specifica è una suggestione iniziale che apre una interrogazione e una ricerca più ampie. È tuttavia necessario richiamare che non tutte
le immagini indicali hanno questa valenza: accanto ad “esempi-simbolo” incontriamo spesso “esempimodelli”. In questo caso la riproduzione di una situazione la sua immagine non è tesa a suggerire nessuna ipotesi, ad aprire qualsivoglia ricerca, ma si fa modello da replicare in serie, come è avvenuto a partire dalla fine dell’ottocento per molte rappresentazioni stereo tipizzate dei monumenti, delle località turistiche e nello specifico italiano di certe immagini – codificate nel passato dalle cartoline – del nostro “belpaese” e come avviene oggi per gran parte delle riproduzioni fotografiche delle principali mete turistiche riprodotte nei cataloghi cartacei o nei siti delle principali agenzie di viaggio. Il paesaggio può essere viceversa come immagine di sintesi, come una immagine-quadro dotata di un certo livello di astrazione. In questo caso essa sottolinea generi e tipi. È la strada seguita dapprima da Ratzel con le sue potentissime immagini di sintesi geografica del tipo “la Corsica è una montagna in mezzo al mare” (ossia la Corsica possiede i caratteri del genere “montagna”) e poi seppur diversamente nella grande geografia umana francese con la distinzione di diversi quadri regionali descritti nelle loro immagine idealtipica di Vidal de la Blache e di Sorre o nello studio di particolari tipi di paesaggi rurali da parte di Gourou, Le Lanou e Desplanques. La stessa strada è stata sviluppata da studiosi del paesaggio agrario come Bloch, Sereni e Rossi Doria e in tempi recenti da geografi come Batzing con la definizione di due fondamentali tipi di paesaggi-ambienti alpini e da diversi geografi urbanisti che hanno provato a distinguere con alcune immagini di sintesi diverse forme e stagioni differenti dall’urbanizzazione diffusa. Anche per le immagini quadro si può ricorrere ad una interpretazione ricca e una ridotta. Riduttivamente esse possono intendersi come dei tipi-contenitori entro cui ricondurre la complessità del mondo, congelando così ogni processo cognitivo. In modo più stimolante si può invece pensare a delle immagini quadro/idealtipiche (seguendo Arnheim e Weber) con un elevato grado di astrazione e dalla forma non mimetica che tuttavia consentono di cogliere differenze e complessità, poiché queste situazioni particolari possono essere viste come interpretazione specifica di una immagine quadro sua deviazione e distorsione o ancora come intreccio e ibridazione di differenti tipi. Parlare di paesaggio alpino latino contrapposto a un paesaggio alpino germanico (Batzing) o di un paesaggio dell’urbanizzazione diffusa pulviscolare contrapposta allo sprawl (Lanzani), fare riferimento all’emergere di vuoti urbani nei tessuti urbani compatti o di spazi aperti interclusi nell’urbanizzazione diffusa (Secchi)
LO SGUARDO DA UN PUNTO RIALZATO
o di un nuovo originale “terzo paesaggio” (Clement) non è infatti una operazione meramente classificatoria e riduttiva. In tutti questi casi il ricorso ad una immagine con un elevato grado di astrazione e dalla forma non mimetica diventa non solo strumento per riconoscere differenti famiglie di situazioni (evitando la riduzione del mondo a modelli unitari e generalizzanti), ma anche strumento per meglio esplorare la specificità e l’originalità di una situazione puntuale e specifica. Questo modo di inserire il “pensiero visivo” paesaggistico nei processi cognitivi si sposa con la più rilevante riflessione epistemologica maturata nella geografia contemporanea, che ne ha rivalorizzato la dimensione descrittiva entro una concezione metaforica. Dematteis che è il principale protagonista di questa riflessione, contrappone due forme di descrizione geografica. La prima si propone come letterale, vera, naturale di una molteplicità di oggetti di varia natura nello spazio. Essa tuttavia occlude due ordini di scelte che essa compie: quella della selezione degli oggetti da rappresentare e quella dell’operatore spaziale utilizzato (tipicamente ma non necessariamente quello euclideo). Questo tipo di descrizione risponde ad una logica performativa strumentale (si fa perché serve), ma proponendosi come rappresentazione vera assume anche una valenza ideologica: è il caso si molte immagini-paesaggi stereotipati di luoghi turistici o di quartieri creativi metropolitani funzionali all’economia globale e capaci di cancellare la presenza di scarti e dissonanze siano essi luoghi degradati, popolazioni espulse o lavoratori sfruttati (Minca). La seconda forma di descrizione non fa appello all’evidenza, ma all’immaginazione, non si configura come letterale ma come metaforica, come nelle foto di Basilico o nell’immagine della Corsica come “montagna” in mezzo al mare e non come una “isola”. Nella descrizione geografica la metafora – spesso riconducibile ad una immagine di paesaggio – evidenzia carattere peculiari poco esplorati o imprevisti, talvolta anticipa ipotesi e concetti teorici relativa a relazioni ancora analiticamente non conosciute, ma che lo saranno meglio attraverso quella metafora che funziona come un vero e proprio programma di ricerca. La metafora evoca infatti degli aspetti non evidenti della realtà, degli aspetti nascosti o semplicemente ignorati dalle rappresentazioni usuali. Essa sospende per un istante la forza cogente del mondo, ovvero delle sue più consolidate rappresentazioni e facendolo guardare in modo differente, genera stupore rispetto a ciò che il buon senso e la consuetudine considera” normale”. La geografia poetica che sviluppa una concezione metaforica della geografia non si riduce tuttavia ad
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una continua produzione di qualsivoglia rappresentazione nel gioco senza fine della geografia postmoderna, non solo perché le sue immagini di paesaggio sono intrise di materia di realtà, ma anche perché esse fanno emergere un “senso” che pur andando oltre il “buon senso”, deve produrre comunque “consenso”, sia attraverso argomentazioni razionali, verificabili, falsificabili relative alle ipotesi che formulano, sia attraverso condivisione e confronto di una molteplicità di attori verso una progettualità sociale in esse implicita. La geografia poetica, le sue metafore e le sue immagini non si contrappongono, ma dialogano e alimentano la ricerca scientifica (per quanto correttamente intesa fuori dalle più banali e riduttive concezioni positiviste), nonché le narrazioni storiche e le forme di pianificazione argomentabili. Le immagini del paesaggio in entrambe le modalità richiamate entrano pienamente in questa concezione della geografia poetica e operano come delle metafore, alimentando una immaginazione geografica, che rompe con il determinismo della geografia normale. Come immagini simbolo esse evidenziano dei nuovi segni nel disordine della terra che sono espressione di nuovi processi (ancora ignorati) danno loro un senso immettendoli in quella rete di comunicazione che è il mondo. Come immagini quadro esse consentono di cogliere flessioni e anomalie in una pluralità di mondi come pensati come strutturati e stabili e invece soggetti a continue deformazioni e biforcazioni evolutive. In tutti i casi queste immagini segnalano forme del coesistere tra cose e soggetti differenti, ora stabilizzate, ora impreviste e aprono l’indagine su possibili relazioni orizzontali (di interazione) o verticali (con proprietà storicoecologiche) che ne diano in qualche misura conto. Detto in altri termini le immagini “dense” di paesaggio, supportano una strategia abduttiva della conoscenza, diversa da quella – deduttiva o induttiva – dominante negli “approcci standard” delle scienze naturali e sociali. Nel procedimento abduttivo l’ipotesi interpretativa (che è spesso una immagine quadro di un assetto paesistico, un frame paesaggistico) non deriva, né da un insieme di assiomi, né da una generalizzazione empirica, ma da una procedura aperta non sistematica, creativa e non priva di una dimensione intuitiva. Tra immagini quadro con un certo grado di generalizzazione e immagini indicali di paesaggio si apre infine una interazione che non può ricondursi alle procedure popperiane di falsificazione proprie delle scienze della natura e neppure alle procedure che si istaurano tra ipotesi e case study delle scienze sociali, ma a un procedere esplorativo e indiziario. Non solo, la produzione di immagi-
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ni “di paesaggio” stilizzate o figurative, con la loro capacità di mettere in insieme le cose, ma anche con un certo grado di costitutiva bruma e indeterminatezza ha un ruolo centrale in una concezione del progetto non come “proiectum” del soggetto e proiezione del presente, ma come interrogazione ed esplorazione sul futuro, aperta a procedure di deformazione, apprendimento e riformulazione.
CODICI PAESAGGISTICI E MEDIAZIONE PAESAGGISTICA NEL PASSATO E NELLA CONTEMPORANEITÀ
Osservando dall’alto di un colle un territorio, mettendo in evidenza l’accostarsi di cose differenti e restituendo questo coesistere con alcune immagini, siamo spesso indotti a evidenziare qualche cosa di più: una modalità di composizione tra questi oggetti, un qualche principio che organizza le relazioni tra gli stessi, tanto da indurre non pochi studiosi ad associare al concetto di paesaggio quello di “armonia” (Turri). Nella vita di uno specifico contesto ambientale che è al tempo stesso ecologico e simbolico, materiale e culturale, il paesaggio non mostra solo il coesistere delle cose, ma può essere inteso come un insieme di ecosimboli (Berque) o di iconemi (Turri) che connotano questo coesistere, come un codice genetico (Settis) dotato di una relativa stabilità che regola e riproduce questo coesistere delle cose. Di più, entro questa prospettiva il paesaggio può essere inteso come una delle più importanti componenti che legano una società con il suo ambiente. In questo senso il paesaggio, in quanto componente assai rilevante di quella mediance che lega società e ambiente, non ci parla solo di cose tra loro affiancate e del nostro modo di coglierle in una immagine, ma restituisce più in profondità “il senso di un contesto, senso che è simultaneamente significato, percezione, sensazione, orientamento e tendenza effettiva di questo ambiente in quanto relazione” (Berque), o detto in altri termini si fa mezzo di scambio continuo tra spatial milieu e immagine culturale di una società che abita un territorio (Corner). Tutto ciò si è manifestato con forza, in tanti paesaggi edificati dall’uomo e da esso riosservati dalla sommità di un colle. Il bocage della Bretagna, l’alberata tosco-umbro emiliana, l’alpeggio o anche i grandi viali alberati della grande città europea ottocentesca o i piccoli invasi collettivi della densa città medioevale si configurano come dei veri e propri iconemi ed ecosimboli capaci di comporre il coesistere di cose differenti, di regolare le relazioni tra una società e un ambiente materiale di definire il senso di un contesto e di influire sulla sua traiettoria
evolutiva. Nella storia lenta delle campagne europee la ricerca sul paesaggio ha in effetti riconosciuto una grande varietà regionale di regole dispositive e compositive, che si definiscono e perfezionano nella lunga durata. Nella più unitaria storia urbana la ricerca sul paesaggio ha maggiormente messo in evidenza alcune regole generali costitutive dello storico spazio urbano europeo ed italiano: la definizione riconoscibile di un limite urbano, l’imporsi della facciata continua come dispositivo che crea lo spazio pubblico a partire dall’iniziativa privata e in grado di produrre teatralità alla città, il ricorrere di una pluralità di spazi urbani riconducibili alla forma archetipa della radura – di una internalità dell’esterno –, il costituirsi di una unitarietà tra i diversi edifici al di fuori dell’uniformità entro una tensione dialogica narrativa tra i differenti edifici, ecc (Benevolo, De Seta) Altresì ha evidenziato con egual forza entro questo fondo unitario il passaggio nel corso di una decina di secoli da alcuni codici ad altri; quello dello spazio di contatto, scenico e di circolazione (Choay), quello della città medioevale, rinascimentale, barocca e dell’ottocento (Grohman, Calabi, Curcio, Zucconi). Solo in second’ordine la ricerca sul paesaggio urbano ha evidenziato alcuni caratteri specifici nazionali o regionali. Questi caratteri possono essere prodotti dalla singolarità della relazione con la topografia, dalla ricorrenza di alcuni materiali urbani piuttosto che di altri – il portico, piuttosto che il cortile –, cosi come di alcuni materiali costruttivi – il tufo, il mattone, piuttosto che una particolare pietra, caratteri specifici che danno luogo a dei “dialetti locali” che si esprimono nella produzione del tessuto residenziale ordinario e permangono nel tempo e un più generale “lingua scritta”, che si esprime principalmente negli edifici e alcuni significativi spazi pubblici in forme differenti nelle grandi stagioni di cui si detto (Consonni). Ma questi caratteri possono anche esprimere macroscopiche differenze nazionali legate ad esempio alle forme della socialità (come nella storica distinzione tra paesaggio mediterraneo e nord-europeo, magistralmente segnalata da Benjamin) o ad alcuni modelli di regolazione dei rapporti tra pubblico e privato, tra governo e propietà fondiaria (come nella altrettanto paradigmatica distinzione tra modello inglese e francese nella città dell’800) In ogni caso queste ricerche evidenziano come i paesaggi edificati dall’uomo (urbani o rurali) non sono solo volto di una natura rimodellata dall’uomo, deposito del lavoro umano e costruzione di una economia civile (Cattaneo), non sono solo l’impronta al suolo, in una data regione e in un preciso momento storico, di specifici rapporti di proprietà e di lavoro,
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di forma dell’impresa, di tecniche produttive e costruttive, di relazioni di mercato, di consuetudini culturali (Gambi….). Il paesaggio come ha ben detto Sereni, non è solo un “fatto storico” ma è anche un “fare, un farsi di genti vive: con le loro attività produttive, con le loro forme di vita associata, con le loro lotte, con la lingua che di quelle attività produttive, di quella vita associata, di quelle lotte era il tramite, anch’esso vivo, è anche un codice spaziale e una rappresentazione simbolica che regola le sistemazioni del suolo, il disporsi degli oggetti al suolo le relazioni tra loro i vari oggetti e questo insieme di condizioni materiali e le pratiche della vita delle popolazioni insediate. La storia del paesaggio agrario e urbano è stata a lungo una storia di ecosimboli, di iconemi, di codici relativamente stabili capaci di influenzare le traiettorie evolutive di ciascun contesto e al tempo stesso la storia del suo divenire. Certo non sono mancate fasi lunghe di destrutturazione e riorganizzazione di quei codici, di evoluzioni da una forma paesistica ad un’altra. Nel nostro paese ad esempio il passaggio dall’ordine paesaggistico urbano e rurale emerso durante l’impero romano a quello medioevale è durata qualche secolo e la definizione di un nuovo codice spaziale è stata operazione lunga e non sempre lineare. Questo passaggio ha portato talvolta a spostare la geografia delle sedi e delle terre coltivate dai fondovalle e dalle coste ai primi rilievi collinari con nuove operazioni di sistemazione del suolo, con un radicale ripensamento dell’intera rete infrastrutturale. Talvolta si è espresso con una lenta metamorfosi di vecchi insediamenti e terre coltivate dove il nuovo è spesso convissuto a fianco delle rovine del passato, anzi è cresciuto talvolta all’interno delle stesse, con una lenta metamorfosi che ha ribaltato il rapporto tra interno ed esterno della città romana e ha portato alla nascita di una città nuova fatta di facciate e di spazi pubblici definiti dall’edificazione di ogni singolo lotto (Sereni, Benevolo). Lo stesso vale per la città moderna, o meglio per la città ottocentesca dell’Europa continentale che si esprime in città come a Barcellona, Parigi e Milano, un modello di paesaggio urbano che emerge a valle di una fase di transizioni certo assai più breve, ma ricca di lacerazioni, di fratture. Lo spazio di contatto che regola la Parigi medioevale solo qua e là modificato da qualche intervento che risponde ai principi dello spazio scenografico, a lungo rimane un corpo estraneo e conflittuale con i prepotenti interventi hausmanniani che promuovono un nuovo spazio di circolazione, che lo attraversa lo lacera e si proietta nelle nuove espansioni. Solo dopo molti anni i due ordini spaziali riescono a trovare una fertile relazione e a ricomporsi in
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quello che diventerà il volto moderno di Parigi, capitale del diciannovesimo secolo (Choay). Parimenti la formazione dei due differenti paesaggi della pianura padana, quello della pianura asciutta e quello della pianura irrigua emerge lentamente tra quattrocento e settecento in ragione del costituirsi di forme di imprese e di lavoro differenti oltre che di differenti specializzazioni produttive, muovendo da un quadro inizialmente assai più simile. Analogamente potremmo dar conto di come tra medioevo e rinascimento maturino due modelli di paesaggio sulle Alpi e del loro differente grado di tenuta di fronte alla rivoluzione socio-economica ed infrastrutturale dispiegatasi nel XIX secolo. Oggi gran parte delle osservazioni sul paesaggio contemporaneo evidenziano conflitti e disordine, il venir meno di ogni codice condiviso. Stiamo oggi vivendo una fase momentanea di trasformazione, di passaggio da un insieme di ecosimboli ad un’altra, di irruzione di una nuova forma di mediance? E se si, questa trasformazione assume una valenza particolarmente radicale? L’immagine caotica dei paesaggi contemporanei è riconducibile all’idea di un ordine nuovo che non è stato ancora svelato, in una fase di passaggio, oppure esprime una condizione strutturale nuova in cui sempre più spesso diversi principi d’ordine tra loro autonomi e settoriali si trovano a convivere e confliggere tra loro accostandosi negli stessi territori? Non è facile rispondere a questa domanda e questa difficoltà legittima ipotesi interpretative radicalmente divergenti. Per alcuni siamo oggi arrivati ad una trasformazione radicale, ad un cambiamento epocale nei nostri codici spaziale, che si riverbererà addirittura nella nostra stessa struttura antropologica (Choay, Consonni). Per questi studiosi stiamo abbandonando, perlomeno in Europa e in quella parte del mondo che è stata più segnato dalla sua presenza, un insieme di codici rimasti relativamente stabili per alcuni millenni e definiti nel loro nucleo essenziale dall’idea di un insediamento-città come luogo di concentrazione entro una radura rurale a sua volta conquistata dentro uno spazio naturale, da una idea di città come luogo di intense relazione sociali, di contatto e di scambio, di una città dove nei rapporti di prossimità si perfeziona una idea di architettura urbana e da una idea di campagna a più bassa intensità di relazioni, regolata da una diffusa e paziente attività di cura del suolo e della terra proprie di una agricoltura radicata al suolo e ancora influenzata dai fattori climatici. Stiamo abbandonando, questi codici paesistici, sperimentando un mondo nuovo con delle urbanizzazione senza fine e una geografia puntuale di nodi di reti globali di scambio e di comuni-
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cazione, che poco o nulla si relazionano con il suolo e l’ambiente naturale, con gli insediamenti preesistenti, ne tanto meno con le cose le persone e i mondi di vita che si collocano nella loro prossimità (Castells, Bauman, Augè). In questo quadro stanno forse emergendo nuovi codici spaziali. Alcuni nuovi iconemi nascono dall’imporsi di una sorta di feticismo della crescita e dei flussi che si materializza in un insieme illimitato di oggetti atopici di spazi banali e ripetuti che fanno dell’urbanizzato una specie di nuova foresta edificata in continua estensione, nelle sempre più visibili grandi reti infrastrutturali nelle loro forme lineari o nodali, infine un numero più discreto di contenitori introversi, chiusi e definiti, sempre più stupefacenti e griffati che si fanno landmark alla grande scala (come segnalano pur entro prospettive contrapposte da un lato i più critici Choay, Consonni, Gregotti, Benevolo o dall’altro i più entusiasti Koolhaas e Branzi). Altri iconemi nascono per opposizione da una sorta di feticismo del patrimonio della conservazione che produce un insieme di micro paesaggi al tempo stesso imbalsamati e manomessi, esito di un continuo esercizio di stereotipizzazione di semplificazione iconica di alcuni paesaggi storici, sempre più sottratti a quelle pratiche di vita di lavoro e di costruzione che li avevano in passato prodotti (si vedano ancora seppur in polemica tra loro Choay, Koolhass), ma anche di paesaggi “naturali” di cui si vuole congelare lo stesso dinamismo vegetazionale e naturale. Nuovi iconemi infine sono espressione di una globalizzazione di modelli culturali ed organizzativi e si materializzano nuovi generalizzanti e ripetuti format paesaggistici – scape – dei luoghi del consumo e del tempo libero (Koolhaas), ma anche del buon abitare che tendono a diffondersi nel mondo con poche differenze in una sorta di deriva mediatico-populistica (Ferrari). Una rivoluzione epocale che sembra manifestarsi anche in una campagna radicalmente modificata dalla rivoluzione “verde” dell’agricoltura industriale che ha rotto nella seconda metà del novecento storiche relazioni, durate qualche millennio, tra agricoltura e allevamento, tra suolo e rotazione delle colture, tra produttori e mercato, tra clima e produzioni (…….., De Castro. Petrini, Schiva). Conseguentemente, sempre più spesso nei paesaggi rurali ci troviamo di fronte a forme di allevamento (e talvolta persino di agricoltura) totalmente slegate dal suolo agricolo, a dei deserti agricoli monoculturali dove si registra il venir meno di varietà di colture, di vegetazione e di sistemazioni di suolo (alberate, opere idrauliche, ciglionamenti, viabilità agraria) e dove la conservazione dello strato fertile e superficiale è
sempre più affidata a soli trattamenti chimici, al limite riproducibili in suoli agricoli artificiali posti all’interno di edifici o su qualche forma di supporto staccato dalla terra (come si registra nelle aree giapponesi contaminate dal recente incidente nucleare). Per quanto questa visione stilizzata del “nuovo” paesaggio, urbano e rurale, venga in ogni caso vista talora con una grande nostalgia verso il passato e con profonda inquietudine per il presente, talora dentro una prospettiva di (quasi) incondizionata adesione e di entusiasmo, il punto di partenza è in ogni caso l’enfatizzazione del nuovo rispetto al passato. Per altri studiosi dobbiamo certo pensare ad un nuovo tipo (genere) di città/metropoli (e di campagna) che segue la forma precedente di città/metropoli (e di campagna) dentro una lunga storia evolutiva, dove accanto a forti discontinuità possono cogliersi anche elementi di continuità (Soja, Corboz, Secchi, De Casrtro, Bocchi). Alle immagini contrapposte ma in fondo convergenti delle precedenti letture “epocaliste” si oppone un sforzo immaginativo di ricomposizione del paesaggio contemporaneo aperto al nuovo, ma anche attento a preservare alcuni aspetti tradizionali alcuni valori della città e del fenomeno urbano o del mondo rurale al di fuori di nostalgie paralizzanti, ma anche di adesioni superficiali e acritiche al nuovo. Caratterizza questo secondo approccio il tentativo di evidenziare strutture latenti che possono condensare e organizzare le nuove forme di urbanizzazione aperta sul territorio, di cogliere dinamiche di inserimento di nuclei urbani e paesaggi agrari storici, come elementi vitali di questa nuova estesa urbanizzazione, la ricerca di nuove modalità con cui relazionare seppur in modo più indeterminato e plurale edifici e spazi aperti o di combinare differenti colture entro una maglia più ampia di quella tradizionale e in forme in grado di conciliare sapienza ecologica e ragioni tecnologiche e produttive. Caratterizza altresì questo approccio anche l’interesse per la varietà dei contesti, per la presenza di paesaggi in profonda trasformazione, ma dove si segnala il permanere, seppur rinnovate, di forme di urbanizzazioni puntuali e di medie dimensioni e di paesaggi agrari dove elementi tradizionali si combinano con profonde rivoluzioni tecnologiche ed economiche. Il tutto nella convinzione di essere di fronte ad un movimento di profonda e “orizzontale” trasformazione, che tuttavia impattandosi su differenti condizioni “verticali” produce una pluralità di assetti, dove lo stesso dato del conflitto e del disordine assume tratti differenti. Dentro questa prospettiva sembra maturare l’idea che l’elemento costitutivo di questa nuova fase non risieda tanto o solo in un cambiamento più o
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meno epocale rispetto ad altri fasi trasformative, ma nel passaggio strutturale dalla prevalenza di paesaggi costruiti (agrari e urbani) entro cui si condivide un unico codice spaziale, una lingua e delle prassi comuni a una prevalenza di paesaggi dove coesistono cose appartenenti ad ordini totalmente differenti e al limite in comunicanti.. Tutto ciò non può sorprendere. Molti antropologi e sociologici ci parlano da tempo del definitivo venir meno di un mondo fatto di vallate tra loro separate, di isole dai chiari confini, di contesti con pratiche, lingue e codici spaziali differenti (siano essi nazioni, regioni agrarie, sistemi insediativi,…), a favore di contesti “ibridi” che certo rimangono specifici, ma dove convivono pratiche, soggetti e culture differenti secondo specifiche forme di combinazioni o meccanismi di reciproco annidamento (Geertz, Appadurai). Detto in altri termini e con riferimento all’urbanizzazione, se tutto il mondo appare come una sola città estesa è pur vero che in ogni città contiene al suo interno la varietà del mondo (Augè). Oggi chiedendosi cosa sia un “paese” quanto non è più una “nazione”, Geertz risponde che esso rimane qualcosa e principalmente una arena specifica dove si compongono, si confrontano e interagiscono diversi attori o meglio un intreccio di volta in volta particolare di differenti attori, culture, interessi, dispositivi relazionali immateriali e materiali (Geertz). In modi simili possiamo pensare i paesaggi contemporanei urbani e rurali come dei campi strutturati da molteplici dispositivi dove si combinano in forme non indifferenti e in qualche misura indirizzabili e governabili tipi di suoli, di edifici, di pratiche spaziali differenti espressioni di codici differenti al limite incomunicanti. Anzi possiamo dire che questo “dato” epocale, è una delle ragione per cui sempre più spesso pensiamo la città e la campagna come un paesaggio, proprio perché la cultura del paesaggio, dal pittoresco in poi, ha cercato di mettere in relazione materiali che rispondono a codici differenti, non ha presupposto (senza del resto negarne la possibilità) la presenza di un unico codice caratterizzante. Da un punto di vista euristico possiamo dire che proprio in una simile più intricata realtà l’osservazione del paesaggio assume una rilevanza ancora più importante nella ricerca. L’osservazione del paesaggio ci consente infatti di cogliere meglio di altre strategie cognitive un sempre più imprevedibile coesistere di cose totalmente differenti, una sempre più mutevole combinazioni di specie vegetali e animali di diversa provenienza e un inaspettato e diffuso convivere di persone che non hanno gli stessi valori, di vicini che sono prossimi, ma che spesso non comunicano tra loro, di soggetti che non fanno pro-
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pria la stessa sfera pubblica pur condividendo degli spazi. Oggi abbiamo un estremo bisogno di scoprire queste nuove varietà di combinazioni nelle loro differenze contestuali, nella consapevolezza che esse continuano a definire un quadro di possibilità evolutive differenziate e irriducibili ad una rigida contrapposizione tra paesaggi storici e contemporanei. L’osservazione del paesaggio deve e può svelarci sia il territorio al plurale (i differenti quadri di natura di Humboldt o paesaggi umani di Vidal de la Blache), sia i territori plurali che convivono tra loro nello stesso territorio (sviluppando osservazioni sulla dimensione conflittuale e contrastante del paesaggio già presenti in Ruskin e Ratzel). Dal punto di vista dell’azione possiamo dire che questa nuova condizione non ci permette più di muovere pur innovando da un linguaggio dato, da un sistema di ecosimboli e di iconemi consolidati. In questo senso l’idea di una azione modificatrice e innovativa che muove dalla particolarità di un contesto suggerita da Sereni e Rossi Doria con riferimento alle trasformazioni del paesaggio agrario e da Rogers, Samonà, Gregotti con riferimento al paesaggio urbano, non riesce più a cogliere la questione essenziale del farsi del paesaggio contemporaneo. L’agire paesaggistico deve essere consapevole di doversi muovere in un contesto sempre più frantumato, segnato da ordini parziali. Esso non si propone di costruire un nuovo linguaggio a partire da quello preesistente, ma dei “protocolli di comunicazione” dei “dispositivi di traduzione” agendo essenzialmente sulle relazioni tra cose e persone che non parlano necessariamente la stessa lingua. Esso si propone semmai di definire un supporto minimo “condiviso”, agendo nello spazio tra le cose, nella consapevolezza che questo spazio aperto, che questo suolo condiviso non sarà (salvo eccezioni momentanee e discontinue) spazio comunitario e/o pubblico, teatro di vita comunitaria o di una comune sfera pubblica. Esso semmai deve rendere possibile il con-essere e convivere di cose e persone (evitando separazioni e gestendo conflitti) e forse con più coraggio deve favorire esercizi di affiancamento, di approssimazione tra modi di vita molto diversi tra loro, relazionando cose e persone, (o micro-aggregazioni degli stessi come principi insediativi e popolazioni), che rispondono anche a logiche, linguaggi e culture differenti, ma che tuttavia non rinunciano ad una qualche forma di reciproca comunicazione (Castells, Cassano) e possono mobilitarsi nella loro reciproca alterità per il riconoscimento e la costruzione di “beni comuni”. In questo senso il paesaggio, riconosciuto e prefigurato diventa dispositivo che riconosce degli specifici intrecci, esistenti o possibili, tra caratteri fi-
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sici variegati e pratiche d’uso molteplici, diventa dispositivo che così facendo riconosce dei beni comuni ereditati o potenziali (Jackson, Ghel, Viganò, Lanzani, Gabellini).
RICOMPORRE CITTÀ, CAMPAGNA E NATURA NEI PAESAGGI IBRIDI
Una delle ragioni di successo del paesaggio nell’urbanistica contemporanea è legata innanzitutto alla sua capacità di dar conto della crescente eterogeneità del territorio contemporaneo, del coesistere sempre più imprevedibile di edifici e usi dei suoli differenti, di sempre più diffuse ibridazioni, tra edifici, suoli, funzioni, attività, popolazioni. La più macroscopica eterogeneità e ibridazione, la forma di coesistenza più macroscopica che possiamo cogliere con uno sguardo da un punto rialzato è quella data da un continuo e imprevedibile intreccio tra mondi a lungo pensati come separati e dotati di un proprio distintivo ordine: lo spazio urbanizzato, lo spazio rurale e lo spazio naturale. Questo intreccio rompe sicuramente con le categorie più consolidate della geografia e dell’urbanistica moderna, ma forse, come si è detto, rompe anche con una visione più profonda quasi archetipica dell’organizzazione spaziale: la presenza di una radura (lo spazio rurale) nella foresta (lo spazio naturale) e di uno spazio di concentrazione (lo spazio urbano) dentro questa radura. Molti concetti dell’urbanistica e della pianificazione spaziale forgiati principalmente sulla logica della separazione di questi elementi, sui principi della classificazione logica del pensiero cartografico-statistico che rimanda a questa distinzione, entrano in crisi. Il paesaggio ci aiuta viceversa a radicare le nostre visioni, i nostri progetti le nostre azioni nella concreta osservazione del coesistere sempre più frequente di frammenti di città, campagna e natura. Lo sguardo paesaggistico ci obbliga e ci consente di fare i conti con una realtà ibrida confusamente urbano-ruralenaturale che ci stupisce e sorprende, che ci appare poco controllabile e intellegibile (a differenza della città tradizionale e del mondo rurale il cui ordine ci è conosciuto). Non casualmente, per questa realtà, ibrida e “altra”, proviamo un sentimento di aliena-
zione come nel Settecento fu per la natura intesa nella sua totalità e alla fine dell’Ottocento per l’emergente metropoli. Nel paesaggio, ora come allora, cerchiamo una via per sentire e rappresentare questa realtà indecifrabile e per reinventare e ricreare una relazione con essa fuori da una logica puramente strumentale e sezionale. In effetti, nella gran parte dei territori contemporanei, uno sguardo paesaggistico, attento al coesistere delle cose, mette in evidenza, sempre più spesso, ambienti ibridi: certo con livelli differenti di urbanizzazione, di utilizzazione agraria e di naturalità, ma in ogni caso difficilmente riconducibili a una idea quasi archetipa di città, campagna e territorio naturale tra loro rigidamente differenziate (per quanto sempre relazionate tra loro entro differenti quadri regionali). Materiali fisici e pratiche sociali urbane si annidano all’interno di contesti con più forte naturalità, suoli rurali risultano spesso interclusi in estese urbanizzazioni reticolari, nuove forme di naturalità (terzo paesaggio) e nuove forme di agricoltura si sviluppano entro ambiti fortemente urbanizzati, su suoli un tempo edificati. Entro questo divenire l’osservazione del paesaggio segnala di volta in volta tracce o lacerti, embrioni o scarti di città, di campagna e di natura tra loro diversamente intrecciati e sovrapposti. Non può pertanto sorprendere come lo studio del paesaggio in Italia, in Europa e negli altri continenti abbia giocato un ruolo fondamentale nella conoscenza di questa nuova realtà. Il paesaggio è stato un potente strumento euristico praticato da geografi e urbanisti, ma anche e soprattutto da letterati, fotografi e cineasti che hanno svelato con stupore e sorpresa questi intrecci imprevisti, queste combinazioni inaspettate. Né può sorprendere l’emergere contemporaneo di ciò che è stato definito come landscape urbanism: un caotico, non sempre felice, ma comunque fertile intreccio tra le storiche pratiche novecentesche del landscaper (progettisti di giardini e di parchi urbani), dell’urban designer, di una tradizionale urbanistica focalizzata sui temi della funzionalità e della promozione di welfare, di esperienze di bonifica di siti inquinati e di aree degradate, nonché di una politica agricola sempre più attenta ai temi della multifunzionalità e al riconoscimento delle sue eventuali esternalità positive.
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A NEW SENSE OF PLACE: SOCIAL E LOCATION-BASED MEDIA FRA SOCIEVOLEZZA E PARTECIPAZIONE
In Una cosa divertente che non farò mai più (1997), David Foster Wallace racconta di una crociera extralusso, di un viaggio in cui ogni cosa è fatta e detta per manipolare i luoghi, le esperienze, e la loro interpretazione, “prendendosene cura in anticipo” attraverso un sofisticato processo di mediazione della realtà – quella realtà di cui una decina di anni prima, in Neuromante (1984), William Gibson prefigurava la catastrofe nell’“allucinazione consensuale” del cyberspazio. Per quanto radicalmente diversi, Wallace e Gibson si affiancano nel raccontare con rara efficacia l’estenuazione del reale, immerso nella crescente mediatizzazione dell’esperienza e accelerazione dei flussi globali (informativi, economici ecc.). È letteratura, certamente, che tuttavia evoca consonanze con alcuni concetti, o quanto meno con la loro circolazione di senso, elaborati da sociologi e antropologi. Si pensi a una certa vulgata della riflessione di Joshua Meyrowitz (1985) intorno al superamento del “senso del luogo”, all’idea di “non luogo” di Marc Augé (1992) o alle teorie di Manuel Castells (1996) sulla società delle reti. Tutte testimonianze della grande fortuna, per non dire popolarità, di quelle chiavi interpretative del contemporaneo che hanno messo al centro i processi di simulacralizzazione del reale e la dissoluzione dei luoghi nello spazio dei flussi e delle reti. Si tratta di una fascinazione cui rispondeva chi, d’altro canto, ricordava come fosse, invece, proprio la crescente integrazione fra spazi fisici, spazi rappresentati e spazi dei flussi comunicativi il tema da mettere in agenda per gli studiosi di media (Morley, 2001). Questa raccomandazione è tornata a farsi oggi urgente a fronte di un paradigma tecnologico nel quale le tecnologie mobili, portabili, personalizzate e geolocalizzate rivestono un ruolo sempre più rilevante. Ovviamente non è possibile rispondere, in questa sede, alle molteplicità di questioni poste dal nuovo paradigma sociotecnico (Bennato, 2012, Boc* Università degli Studi di Bergamo.
cia Artieri, 2012); è però possibile individuare (senza alcuna pretesa di sistematicità) alcuni aspetti che se da un lato scongiurano lo scenario solipsistico e smaterializzato da molti paventato, per altri aspetti radicalizzano alcuni rischi connessi alla virtualizzazione, fornendo così spazio a nuove criticità. La networked communication integra i nostri legami online e offline e la dimensione globale con quelle locale (Rainie, Wellman, 2012, Gordon, E., de Souza e Silva A., 2011). Social media, media mobili e spazializzati (De Souza e Silva Sutko, 2009) come i locative media (Tuters, Varnelis, 2006) o l’augmented reality rendono ancora più concreti ed evidenti i processi di rilocalizzazione in atto e l’emersione di un nuovo senso del luogo. Da una parte infatti è ormai infatti chiaro che si tratta di tecnologie che noi usiamo e modelliamo sulla base delle nostre esigenze, delle nostre reti sociali e pratiche quotidiane nella loro natura localizzata e temporalizzata. Dall’altra però i modi in cui abitiamo i luoghi e i tempi della nostra quotidianità (e anche la percezione che ne abbiamo) si modificano nel loro essere sempre più intrecciati con le infrastrutture comunicative di rete e mobili e con le nostre pratiche di networked communication. La diffusione dei social media, dei media mobili e delle tecnologie di geoposizionamento ci consente di documentare la nostra presenza in un determinato luogo e di condividerla con altri. La possibilità poi che queste piattaforme generino (o raccolgano) nel loro stesso uso una quantità di informazioni, inimmaginabile fono a pochi anni fa, sugli utenti e sugli spazi fisici e tecnologici in cui vengono utilizzate consente di elaborare nuove forme di interazione con gli spazi che abitiamo, e persino nuove forme di cittadinanza. Social network come foursquare (https://foursquare.com) consentono ad esempio agli utenti registrati di condividere la propria posizione con i propri contatti ma anche di scoprire nuovi luoghi e
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attività grazie alle segnalazioni della propria rete di contatti e ad applicazioni elaborate da soggetti terzi (ad esempio con finalità turistiche, commerciali ma anche informative e culturali). Nel recupero poi del “senso del luogo” vanno anche piattaforme e applicazioni di condivisione di materiale fotografico e visivo (peraltro assai diverse se analizzate nelle loro specificità) come Pinterest, ma anche Flickr e la stessa Google maps che consentono di “taggare”, localizzandole, le fotografie: il geotagging diventa così una pratica di personalizzazione della rappresentazione che viene poi generalizzata attraverso l’utilizzo delle mappe online (de Lange, 2009) o attraverso pratiche di social tagging. Se guardiamo a questi repertori visuali è evidente quanto sia presente l’opera di modellizzazione dello sguardo esercitata da decenni di racconto e di iconografia mediale. Tuttavia accanto a immagini cartolina, riproduzioni più o meno riuscite di stereotipi visivi, emergono anche altre forme di racconto del territorio. Cercando su Instagram l’hashtag Bergamo si trovano migliaia di fotografie (New York ne ha milioni, ovviamente) che ritraggono Piazza Vecchia, le Mura, e San Vigilio intervallate a panorami sulla pianura e a fotografie di ristoranti e negozi, di sassi e pietre in Città Alta, di cani e gatti, di cibi, di festeggiamenti per le lauree, di feste e serate con gli amici. Accanto a fotografie/cartolina, logore nel loro continuo riproporsi allo sguardo, sotto lo stesso hashtag si raccolgono così paesaggi del gusto, o della memoria, paesaggi minimi, paesaggi interiori intessuti di socialità e di vissuti. Frammenti di un discorso visivo che decostruiscono quel destino che i media del Novecento sembravano aver tracciato per il paesaggio, vale a dire il suo ridursi a stereotipo, certo, ma anche che intrecciano in un tessuto di “socievolezza” (Simmel, 1917) la rappresentazione di un territorio. Decine di applicazioni georeferenziate ci consentono, poi, di raccogliere informazioni in tempo reale sul traffico o su una città che stiamo visitando, ci permettono di scegliere i servizi migliori (trasporti, ristoranti, shopping) in base alla prossimità o confrontandoli con i giudizi degli altri attraverso sistemi di social rating, ci permettono di scoprire cose di cui nessuna guida turistica si prende la briga di parlare, o ci offrono itinerari d’autore o della memoria. Dalla più semplice delle applicazioni fino ai più sofisticati progetti di gestione territoriale, la relazione con i media nella vita quotidiana sta diventando sempre più elemento di “place-making” (Moores, 2012) in cui l’ordine del vedere si ricongiunge con quello del fare. Nell’intersezione fra competenze territoriali e media si colloca anche la cartografia partecipata,
che intreccia gli open data rilasciati dalle istituzioni, con la sempre più ampia diffusione di sistemi di sistemi di VGI (Volunteered Geographic Information) e l’integrazione, infine, di questi ultimi con apps e social media. Vi sono esempi pionieristici come il progetto Open Accessible Space Information System (OASIS - http://www.oasisnyc.net), lanciato nel 2001 e cresciuto, grazie alla collaborazione fra rappresentanti del settore pubblico e associazioni, fino a raccogliere in forma cartografica un’impressionante quantità di informazioni sulla città di New York (dal verde pubblico alla aree dismesse, dai servizi sociali alle caratteristiche sociodemografiche della popolazione) che sempre più spesso diventano lo strumento usato per produrre altre mappe finalizzate a scopi specifici di interazione locale o community building (un esempio è quello delle mappe legate alle pratiche di urban farming o di guerrilla gardening. Cfr. Bartoletti, Musarò, 2012). La cartografia partecipata si sta diffondendo con i più diversi scopi: dalla mappatura delle situazioni di rischio o di emergenza (ad esempio ambientale o sanitario), al supporto delle pratiche di deliberazione pubblica fino alla promozione e riqualificazione territoriale (come, ad esempio, nel caso del progetto Bergamo Open Mapping elaborato dal Laboratorio Cartografico Diathesis dell’Università degli Studi di Bergamo e connesso alla candidatura di Bergamo a Capitale Europea della Cultura nel 2019). Si tratta certamente di esperienze assai variegate che sempre però segnalano la convergenza fra esperienza dei luoghi e produzione/condivisione di informazione tramite i media digitali dando spesso forma tangibile alla molteplicità dalle culture civiche contemporanee (Dalhgren, 2009; Marinelli, 2013). Tutte poi richiamano alla mente la riflessione di De Certeau (1984) sulla pratiche del quotidiano e sul loro essere sempre radicate in uno spazio che porta, al di là di ogni rappresentazione e mediatizzazione, le tracce di chi lo abita. Perché, afferma Certeau (1984), ogni mappa, e aggiungerei ogni rappresentazione mediale, è uno scenario “totalizzante dietro a cui vi sono però elementi di origine disparata che si sono concentrati per formare il quadro di uno ‘stato’ [che] respinge davanti a sé o alle sue spalle come dietro alle quinte le operazioni di cui essa è l’effetto o la possibilità” (Certeau, 1984, p. 181 trad. it.). Accanto alla geolocalizzazione delle nostre pratiche quotidiane e alla spazializzazione e rappresentazione cartografica delle pratiche partecipative (Mazzoli, Antonioni, 2012), lo scenario tecnologico contemporaneo interagisce con la dimensione del luogo anche in molti altri modi. Si pensi ad esempio alla
A NEW SENSE OF PLACE: SOCIAL E LOCATION-BASED MEDIA FRA SOCIEVOLEZZA E PARTECIPAZIONE
raccolta di dati locali grazie all’elaborazione dei big data che si generano (automaticamente o con l’attivazione consapevole degli utenti) sulla scorta delle nostre interazioni mediate e della pervasività delle tecnologie digitali nel quotidiano. Sono i dati che si producono, ad esempio, nel momento in cui ci moviamo con il nostro smartphone, con una tessera dotata di un RFID (Radio Frequency IDentification) in tasca, o un abbonamento elettronico ai sistemi di trasporti, o quando facciamo una transazione con la carta di credito: flussi di informazioni dietro ai quali vi sono usi concreti dello spazio e del tempo e da cui, sempre più, si estraggono informazioni rilevanti a livello locale (emblematici in tal senso i lavori sulla mobilità del Senseable City Lab del MIT: http://senseable.mit.edu/). Tali straordinarie opportunità non devono però farci dimenticare che vi sono anche alcuni rischi. La moltiplicazione dei layer informativi paradossalmente potrebbe ad esempio portare a nuove forme di deterritorializzazione mentre la ridefinizione dei confini fra pubblico e privato mette in discussione l’idea stessa di privacy (de Souza e Silva A., Frith J., 2012) con la crescente pervasività di forme di sorveglianza da parte delle istituzioni e del mercato e, forse in misura persino più radicale, della pratiche di “coveglianza” (termine che indica la pratica dell’osservarsi l’un l’altro: cfr. Mann, Nolan, Wellman, 2003). Gli spazi nei quali ci muoviamo sono ormai monitorati non più solo dalle telecamere di sorveglianza ma anche da milioni di occhi: tanti quanti sono i cellulari con un dispositivo di ripresa e una connessione in rete. Per non parlare dell’enorme quantità di personal data generati nelle pratiche di networked communication e immediatamente disponibili agli operatori internet (primi fra tutti i quattro grandi player del web 2.0: Google, Apple, Facebook, e Amazon). Infine, sebbene lo scenario tratteggiato abbia straordinarie opportunità nella direzione di una più ampia partecipazione alla vita sociale e di una più piena cittadinanza, esso può anche assestarsi su forme di partecipazione debole (Carpentier, 2011) che di fatto si limitano all’ampliamento delle possibilità di interazione (fra persone, merci e luoghi) senza che si inneschino effettivi cambiamenti nel processi di decision making. Sempre più infatti è necessario chiedersi se davvero nello scenario attuale si promuova la connessione fra le persone e una più piena partecipazione o se non si promuova invece una connettività in cui la socializzazione è ingegnerizzata dagli algoritmi e dai modelli di business che stanno alla base di Google e Facebook e di altre piattaforme web 2.0 (van dijk, 2013).
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Social e locative media (come d’altra parte tutti i media nella modernità post industriale; cfr. Lunt, 2009) sono da un lato risorse fondamentali di riflessività (Giddens 1991) ma dall’altro, nella loro articolazione di potere e sapere, agiscono in chiave normativa, coinvolgendo le persone in pratiche di autocontrollo funzionali alle politiche neoliberiste (Ouellette, Hay 2008) ed esercitando il loro potere discorsivo in primo luogo sui corpi, le menti e le condotte delle persone. In questa prospettiva dunque le tecnologie di geolocalizzazione e le piattaforme di social network aprirebbero a nuove forme di governamentalità – secondo la teoria foucaultiana (Dean, 1999) – basate su un ordinamento geodemografico che consente di costruire, tramite l’elaborazione algoritmica e lo sviluppo della connettività, un nuovo ordine spaziale totalmente orientato alle pratiche di consumo. (Barreneche, 2012) In questo senso ancora più importanti, accanto alla nostra responsabilità nell’uso di questi strumenti, sono i progetti di crowdmapping tattico (Mogel, Bhagat, 2008) – esplicitamente finalizzato a sovvertire la dimensione normativa dell’ordine cartografico (Farinelli, 2009) – o i numerosi progetti artistici basati sui locative media (Timeto, 2009, 2011). Si tratta di progetti che decostruiscono al contempo l’illusione che i luoghi preesistano alla loro rappresentazione ma anche la staticità in cui le rappresentazioni chiudono i luoghi, svelando come i luoghi siano in realtà “costruita attraverso una particolare costellazione di relazioni”, e come in essi si articolano diverse “geometrie di potere” (Massey, 1993, 61). Geometrie che, senza dubbio, nei prossimi anni non potranno essere decostruite senza decostruire le traiettorie di visione/azione tracciate dalle piattaforme di connettività location-based.
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FRANCESCA PASQUALI
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La rivoluzione è a due passi. Anzi, la rivoluzione si può fare, ci vogliono due passi. Dunque se mentre osservo la geografia profonda del territorio che cambia divorata da una società che scelto di vivere il proprio tumore come soluzione della malattia, mi è difficile accettare questo consumo di suolo, ovvero che mi si tolga la Terra da sotto i piedi. La loro intelligenza, quella dei piedi, si rifiuta. Chi è ancora vivo dentro, chi non è sostenuto dall’accanimento terapeutico che utilizza quotidianamente metaforiche cannule per l’’infibulazione politica e affabulatoria degli intellettuali astratti (capaci di pontificare di mondi esterni dall’interno di una stanza chiusa o di libri di testo, quasi mai dall’esperienza diretta con il suolo, nel senso che non ne hanno un rapporto intimo), sa che questa casta è priva dell’ossigeno necessario per essere vivi. Sa che è morta nel momento stesso in cui ha contribuito a erigere cemento per cancellare orizzonti, sa che sopravvive proiettata su queste mura di cemento come gli zombie dei film dell’orrore. L’unico grosso problema, è che questi zombie sono quelli che hanno messo in mano agli assassini dello spirito umano il territorio pensando a orrori come la BreBeMi dove scaricare tutto il veleno possibile per uccidere ulteriormente la Terra, nel nome del consumo di suolo in quanto risposta a un’economia la cui finzione è ormai stata smascherata da anni. Qui invece, parleremo del consumo di suola. Partiamo subito, a piedi. Sono due i passi che non potrò mai ricordare. Il primo, e l’ultimo. Sono i due passi che il mio organismo non potrà evitare di fare. Questo me lo sono ricordato molto bene nel momento in cui ho deciso di vivere impegnandomi a favore del consumo di suola: in effetti, mi sono detto, camminare resta l’ultima (e dunque la prima) soluzione per vedere, conoscere, percepire e partire verso la direzione opposta al consumo di suolo. Per fare questo però, occorre mettersi in gioco: non ba* Diritti Natura Italia.
stano più i convegni, i powerpoint, le disquisizioni verbali, le discussioni sul nulla. Ora serve riconoscere che la libertà è un cammino e che questo cammino va ripreso. Immediatamente. Ma per essere liberi, nel reticolo sempre più virtuale, ma terribilmente concreto, dello stato di connessione con un mondo quotidiano irreale, la nuvola tossica perpetua in cui viviamo, servono ora i due passi per dare inizio al consumo di suola: il primo e il secondo. Ho sempre diffidato dalle costruzioni teoriche fatte da chi non conosce il territorio. E ho osservato incredulo per decenni “tecnici” che normano se stessi e le proprie credenziali togliere la Terra a chi la conosce(va) per farla diventare un plastico della propria finzione intellettuale e interiore. Attenzione, per “conoscere il territorio” si intende un’intimità con il suolo, una “conversazione con il luogo”, come dice Barry Lopez in Una geografia profonda (Galaad Edizioni, 2013). È la stessa cosa che accade tra persone: ho sempre diffidato da chi dice di conoscere qualcuno solo perché ha intrattenuto alcuni minuti di scambio superficiale. Sapere chi è l’altro, non significa conoscerlo. Figuriamoci con il suolo, la Terra: non basta suddividere i regni della Natura e conoscere gli algoritmi o un’infinita nomenclatura. Quel sapere sta anche in un pdf. La consocenza, quella no: la conoscenza vive, si evolve, cambia, suscita rispetto per ciò che è altro. Questo, il consumo di suolo non lo fa. Il consumo di suola, invece, sì. Il mio primo passo l’ho compiuto nel secolo scorso, nello stesso periodo in cui i Beatles pubblicavano il loro prima 45 giri. Ci tengo molto a questa coincidenza temporale. Non lo ricordo quel passo, ovviamente. Eppure mi ha cambiato la vita, perché a ricordarlo bene ci ha pensato da allora il mio corpo: se no come avrei potuto fare il secondo, il terzo e tutti gli altri milioni di passi? Se la mente e l’anima non sapessero quale immensa potenza contenne quel movimento così nuovo, per il bambino che ero,
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come avrei potuto riconnettermi al Cammino anni dopo, da giovane uomo, per ribellarmi agli anni sedentari post adolescenziali, quando pensavo che per conoscere un luogo, bastava leggere e poi andarci? Con quel passo, il mio corpo ha capito che l’orizzonte si allargava e che stavo prendendo coscienza di fare parte di una catena di esseri viventi lunga migliaia di anni. La mia mente ha richiamato a sé e registrato tutte le informazioni latenti del mio più lontano antenato, le ha riconosciute e riordinate perché i recettori erano pronti, i canali ripuliti dall’ossigeno entrato in grande quantità dentro me dopo avere scelto di vivere in montagna. Ognuno ha la sua strada, questa era la mia. Volevo guarire dal tumore dell’Homo Contrarius, i noi di oggi, che procedono in senso opposto all’evoluzione, consumando invece che rigenerando(si). Dunque ho fatto il passo uno: sono andato in quella che l’era moderna considera “periferia”, convinta che ogni rivoluzione culturale e sociale provenga da un “centro urban(izzat)o”. Io penso il contrario del Contrarius: è nel dimenticatoio che giacciono le soluzioni, è lì che comprendi, perché stabilisci un rapporto intimo con la tua nuova Terra, quanto la tua comunità è stata disposta a perdere le ricchezze più grandi: la biodiversità del sentire e del pensare, dell’immaginare e dell’elaborare, dell’evoluzione necessaria e reale. Per fare questo l’Homo
Contrarius ha escogitato meccanismi straordinari: il più fatale, il consumo di suolo, alla cui radice sta una ragione ancora più banale, l’opulenza. Per decenni l’Homo Contrarius lo ha chiamato in tutti i modi: civiltà, progresso, crescita, economia, ricchezza. Poi, una frangia sempre più nutrita di persone vive perché capaci di respirare ossigeno e non proiezioni cervellotiche autoassolutorie, ha compreso che era più importante la “a” della “o”, ricordando che è il consumo di suola ciò che da sempre ha condotto sulle vie del mondo le idee e le realizzazioni migliori, perché in sintonia con ciò che la Terra ci andava dicendo da millenni. I filosofi, gli architetti e gli intellettuali delle civiltà dalle quali discende la nostra, camminavano per osservare, osservavano per pensare, pensavano per dare una casa alla Comunità Terra, una sua economia. È facile: economia nasce da “oikos” ovvero “casa” e “beni di famiglia” e”nomos”, ovvero “norma”, “legge”. L’economia, dunque, sarebbe la regola della casa. Se dunque l’economia della crescita illimitata è questa, proviamo a visualizzare casa nostra che cresce a dismisura. Cosa accade? Esplode. Consuma il suolo. Lo distrugge e lo avvelena. Ecco perché “oikos nomos” non è un dogma, ma un’ipotesi, un luogo, una geografia profonda per noi esseri umani dove abitare, prosperare e convivere nel reticolo di relazioni con gli altri della Comunità Terra. È per questo che si va a consumare la suola,
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invece che il cervello poco ossigenato di fronte a modelli nei quali la teoria prevale su una pratica della quale non si vede traccia, ma si sente solo una lontana eco: la pratica di coloro che hanno dominato sino a oggi i mezzi di comunicazione di massa è “cloud” – ipotetica, invisibile, in definitiva, non vera, eppure nella realtà è riuscita a devastare una geografia fisica e una di conseguenza interiore: annientando vaste aree, torturando il genius loci, ha consentito che ciò si riflettesse nell’anima delle persone, sia di quelle consapevoli (poche) che di quelle incapaci di assumersi la responsabilità di essere vive e libere come dovere, non come diritto: il dovere verso la Comunità Terra. Il consumo di suola è attività centrale della Comunità Terra, come la chiama Cormac Cullinan nel suo libro I diritti della natura. Wild law (Piano B Edizioni, 2012). Perché se non si comprende una volta per sempre che noi facciamo parte di un ecosistema globale, il pianeta Terra, al cui interno il reticolo di relazioni esiste ciò che deve agire nella maniera più sana possibile, non capiremo come insegnare a noi stessi la vera economia, che dovrebbe essere un modo per creare una “ricchezza” in grado di essere ottenuta da “risorse naturali” a loro volta in grado di poter sostenere la nostra azione e quella di tutte le altre parti componenti di questo reticolo. Ecocentrismo, invece di egocentrismo e ciò si può fare solo sottomettendo l’ineffabile ego alle regole
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della condivisione con la Comunità Terra. Ma consumando il suolo, ovvero la Terra, noi consumiamo qualcosa che non ci appartiene e del quale ci siamo indebitamente appropriati. Così facendo noi consu-
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miamo anche l’opportunità di vita di tutte quelle creature che quel reticolo lo compongono e lo rispettano; distruggiamo le relazioni, produciamo tumori per l’ecosistema, rallentiamo il passo e ci fermiamo convinti di essere in movimento, di progredire verso chissà dove chissà perché, ma senza ossigeno siamo fermi, siamo nell’oscurità e usciamo dal
delicato e meraviglioso equilibrio tra tutti gli esseri viventi del pianeta, animali e vegetali, mammiferi e invertebrati, microrganismi e minerali. Basta abbeverarsi a una sorgente, per sentire tutto questo in divenire, non serve essere online tutto il tempo. L’unica vera connessione è quella: consumate la suola, andate alla sorgente.
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Io non so dove compirò l’ultimo passo: sinchè il consumo di suola lo consentirà, a me tocca procedere per respirare, stare vivo e riconoscere tutte le minacce che vanno contro questo semplice assunto: senza i diritti della natura, della Comunità Terra, non possono esistere i diritti di tutte le creature della Terra, dunque anche mie di uomo e mie di componente della lunga catena della vita e della comunità umana. Il punto è che la nostra società ha seguito una pista sbagliata: ha sceltodi inquinare l’aria che respira, a ogni costo. Poi ha scelto di inventarsi dei parametri per decidere da che ora a che ora è possibile distruggere l’ossigeno, i polmoni e la vita. Infine, ha creato apparati emotivi fasulli, da Homo Contrarius, con slancio anche encomiabile ma tardivo ha eletto a regola l’emergenza. La mancanza di ossigeno è imperdonabile, e questo sono in milioni di esseri umani a saperlo. Chi consuma la suola, ha dimostrato che un’umanità diversa non solo può esistere, ma già c’è e agisce: è quella che ha saputo resistere a questa illusione e lo ha fatto grazie all’ossigeno, quando ha capito che un cielo deve essere un cielo, un fiume deve essere un fiume, una tigre deve essere una tigre e un albero deve essere un albero. Niente gabbie, niente zoo, niente circhi. Questa umanità è grata alle grandi scoperte fatte nel corso dei secoli, ma non accetta di esserne schiava per l’interesse di pochi. Questa umanità si è resa conto che adagiarsi su di esse era l’esatto contrario del procedere nella direzione di un rapporto sano con il resto della comunità Terra. Io non credo che camminare sia solo un istinto: è
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più di quello. Camminare è una conoscenza e siccome la conoscenza è il sapere che vive, questo è il tipo di scienza che occorre adesso per dare le risposte giuste: sapere non basta. I numeri sono come il denaro, la riduzione ai minimi termini di sistemi complessi. Se non lasciamo a noi stessi la potenziale opportunità di evolverci in maniera sorprendente, chiaramente non potremo immaginare che la stessa cosa la possa fare un camoscio o un lupo o un corvo o un pettirosso o un salmone. Noi diamo per scontato che camminare è normale. Ma così non è: altrimenti non saremmo passati dalla posizione quadrupede a quella bipede per finire, ahimé, in quella sedentaria. In Camminare (Se Edizioni, 1989) Henry David Thoreau, mai uomo di mezze misure (e si può esserlo, in quest’epoca?) scrive: “Io, che non riesco a rimanere nella mia stanza neppure un giorno senza ricoprirmi di ruggine, quando mi accade di poter predisporre la mia passeggiata soltanto alle undici, o alle quattro del pomeriggio, troppo tardi per riscattare quel giorno, nell’ora in cui le ombre notturne iniziano a fondersi con la luce del giorno, sento di aver commesso un peccato che devo espiare, e confesso che mi stupisce sempre la grande capacità di resistenza, l’insensibilità morale, per meglio dire, dei miei vicini, tutto il giorno reclusi, per settimane, per mesi e per anni, in botteghe e uffici, come se ne facessero parte.”
Cosa cercava di dire Thoreau? Sempre in Camminare afferma che “in wildness is the preservation of the world”. Il suo invito è un pensiero che incita il consumo di suola finalizzato alla vita, opposto al
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consumo di suolo finalizzato alla morte interiore. Questo invito, oggi ci deve apparire nuovo perché il suo è un richiamo primordiale. L’uomo antico camminava ma non necessitava di esserne consapevole. Quella era la sua tecnologia, grazie ai piedi e alle gambe si spostava, si sentiva padrone di se stesso e capace di esplorare le vie del mondo. Se qualcuno ostruiva quella vie, quel tipo di uomo poteva comunque provare a camminarle e a riconquistarle. La vera magna charta della democrazia (del camminare) affermò che l’uomo era vivo in funzione del suo rapporto con la Comunità Terra, mentre oggi l’uomo generalmente esiste in funzione della produttività, dunque la democrazia è “cloud”, non esiste. Allora l’uomo e ogni altra cretura erano necessari alla vita della Comunità Terra, oggi sono apparentemente un accessorio. Per questo consumo di suolo si, consumo di suola no: perché ci si è convinti che tutto può esistere al di fuori della vita stessa. L’uomo di oggi, sia che viva in città che in un piccolo paese di montagna o di mare, spesso trova cemento e recinti che non lasciano neppure dieci centimetri di spazio per lasciare passare piedi e gambe di chi vuole andare da un punto all’altro. Nei paesi scandinavi esiste l’allemansrett, il diritto di ogni uomo, ovvero, il diritto di passaggio ovunque. È un diritto naturale. È il diritto di consumare la suola senza
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essere ostacolato da chi ha deciso di fare dell’abuso la legge. Io non amo disturbare ma se trovo una via ostruita da norme emanate da gente che non conosce l’ossigeno perché non vive ma esiste all’interno di kafkiane strutture istituzionali burocratiche e mentali, allora io devo fare capire che non siamo come loro, noi che consumiamo la suola. Noi avanziamo, perché abbiamo il diritto di ogni uomo. Me ne frego della proprietà e delle carte catastali, perché “non si vende la terra dove cammina un popolo”, disse Cavallo Pazzo, il mio antenato di consumatore di suola. Il mondo è un dovere di tutti: quello di non consumare il suolo dove si cammina nel nome della civiltà dell’Homo Contrarius, colui che ha ucciso Cavallo Pazzo. Ma non il suo spirito, il suo messaggio. Siamo diventati animali che non solo vengono addomesticati o rinchiusi, ma che vengono fatti nascere e crescere solo per morire in allevamenti mostruosi. La stessa sorte toccata a miliardi di animali innocenti, ai quali non solo non è consentito vivere, ma è richiesto di nascere per essere sfruttati a uso e consumo di noi umani. E quel che è peggio, questa finta carne non nutre, riempie. Non è energia, è calorie. È carne “cloud” ma con sofferenza “real”. Ci fu un tempo in cui il cibo era energia. Poi venne un altro tempo. La rivoluzione industriale. E da allora,
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lentamente, questa morte sedentaria è passata dentro di noi. Il tumore avanza, ci avvolge, ci ammalia, diventa consumo di suolo, quello stesso suolo che è il riflesso della nostra anima, la geografia profonda, il cammino che inizia e finisce dentro di noi e ci rende unici, per cui indispensabili alla Comunità Terra. Recintare nostra madre Terra ha significato dirle anche che preferivamo andare a divertirci, invece che impegnarci per preservarla e onorarla. Abbiamo perduto il legame con il diritto del wild di essere. Dobbiamo recuperare le gambe, riconoscere che i nostri piedi sono più intelligenti di quei cervelli senza ossigeno riuniti in un Parlamento o per un vertice mondiale sulla follia della finanza virtuale: in quei luoghi nessuno sa cosa sia il Cammino, sono loro che ci hanno tolto il suolo da sotto i piedi e siamo noi che dobbiamo riprenderlo percorrendolo in lungo e in largo, di continuo, per ristabilire con esso l’intimità più profonda. E questa intimità arriva quando alla fine del consumo di suola torneremo a sentire finalmente i piedi nudi e duri, sensibili alla Terra. Io non voglio “crescere”, sono già grande abbastanza. Io voglio consumare la suola, voglio sentire la terra nuda sotto i piedi nudi. Io voglio ascoltare l’intelligenza dei piedi, non la corruzione delle menti e delle anime di chi ha consumato “la terra dove il popolo cammina”.
Perché il cammino prevede una visione. Una visione prevede un legame. Un legame prevede di scegliere un rapporto di intimità. Un rapporto di intimità ci fa sentire vivi. Sentirsi vivi significa respirare, camminare, sentire la forza della vita percorre muscoli vene e articolazioni, e non avere paura. Cavallo Pazzo era un mistico. Ma anche un guerriero. E ora, è vivo, qui e adesso. Per il consumo di suola.
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Le fotografie che accompagnano il testo sono dell’autore.
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PAOLO VITALI*
SULLA DENSITÀ STRATEGIE PER IL CONTENIMENTO DEL CONSUMO DI SUOLO
0 PREMESSA In Italia ogni giorno si cementificano 100 ettari di superficie libera. Dal 1956 al 2012 il territorio nazionale edificato è aumentato del 166%. La perdita di superficie agricola – e la conseguente riduzione della produzione – impedisce al Paese di soddisfare completamente il fabbisogno alimentare nazionale e aumenta la dipendenza dall’estero1.
Il 14 settembre 2012 il consiglio dei ministri, presieduto da Mario Monti, si pronuncia sul tema “Valorizzazione delle aree agricole e contenimento del consumo del suolo”, approvando in via preliminare un disegno di legge in materia. Con estremo ritardo rispetto ad altri paesi si prende atto, anche dal punto di vista normativo, di una situazione ormai insostenibile e si pongono finalmente le premesse per un’inversione di tendenza. “Il provvedimento – stando alle intenzioni dei legislatori – mira anzitutto a garantire l’equilibrio tra i terreni agricoli e le zone edificate o edificabili, ponendo un limite massimo al consumo di suolo e stimolando il riutilizzo delle zone già urbanizzate. Ha inoltre l’obiettivo di promuovere l’attività agricola che si svolge (o si potrebbe svolgere) su di essi, contribuendo alla salvaguardia del territorio. Il mantenimento dell’attività agricola infatti consente di poter gestire il territorio e contribuisce a diminuire il rischio di dissesti idrogeologici”2. La drammaticità delle parole introduttive descri-
ve un quadro rispetto al quale è assolutamente urgente e necessario aggiornare gli strumenti normativi, imparando a leggere in modo nuovo3 un fenomeno assai variegato e complesso che, nei molteplici contesti dove si verifica, si articola in forme differenti e non sempre riconducibili a modelli di riferimento, con l’obiettivo di costruire nuove strategie operative in grado di fronteggiarlo.
1. DISSOLUZIONE Owing to the dissolution of the city as a bounded domain, dating from the mid-nineteenth century, architects have long since been aware that any contribution they might make to the urban form would of necessity be extremely limited K. FRAMPTON, Megaform as Urban Landscape, 1999
A partire dalla metà del XIX secolo le città europee (con forme specifiche per i singoli territori) vengono interessate da dinamiche espansive di portata fino ad allora sconosciuta che ne sconvolgono gli assetti consolidati e ne modificano fortemente le strutture insediative, attivando processi di dissoluzione. Da sistemi chiusi si trasformano in sistemi territoriali, diventando entità complesse, luoghi “della discontinuità, della eterogeneità, della frammentazione e della trasformazione ininterrotta”4. Le loro forme, per secoli ambito (e appannaggio) quasi
* Politecnico di Milano. 1 http://www.governo.it/Governo/ConsiglioMinistri/testo_int.asp?d=69146. 2 ivi. 3 “Gli indirizzi in materia di consumo di suolo adottati in particolare in Germania e in Olanda dettano già dall’inizio del nuovo millennio una linea che potrebbe essere di tutta la comunità europea: usare l’architettura esistente come una terra di frontiera. Di nuovo a dimostrazione di come una norma che definisce la quantità di terreno edificabile può, a cascata, mutare il modo di leggere ciò che è dato, incidere sul ritorno di una nuova necessità di stratificazione, sostenere di conseguenza richieste di alterazione delle possibilità e del modo di agire su ciò che è già”. (S. MARINI, Inventari, in S. MARINI, F. DE MATTEIS (a cura di), Nello spessore. Traiettorie e stanze dentro la città, Nuova Cultura, Roma, 2012, p. 23). 4 “Al contrario della città storica e moderna, pensata per parti e strettamente separata per funzioni, nella città contemporanea si spezzano le gerarchie classiche, funzioni differenti si alternano, si concentrano e disperdono negli stessi spazi” (C. MARIANO, Densità spaziale e densità relazionale nella “metropoli territoriale”, in “(h)ortus”, n. 58, luglio 2012).
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esclusivo delle discipline architettoniche, diventano difficilmente gestibili attraverso l’utilizzo delle sole competenze e dei soli strumenti disciplinari. Il “problema della città” coinciderà sempre meno con il problema della forma urbana, del suo controllo e delle regole di utilizzo dello spazio. Si prenderà progressivamente atto della limitatezza del contributo che l’architettura può portare alla “questione urbana” attraverso i suoi strumenti tradizionali. Eppure a questa consapevolezza5 non corrisponde, fatte salve alcune importanti eccezioni, una altrettanto lucida produzione di nuovi strumenti di gestione della forma urbis adeguati al salto di scala che si è determinato. In questo senso la stagione modernista – la cui eredità orienta in parte ancora oggi l’approccio al tema – rappresenta forse l’ultimo momento nel quale è riscontrabile uno sforzo teorico organico in riferimento al controllo delle trasformazioni territoriali che affronta la questione in termini quantitativi oltre che qualitativi. Con soluzioni oggi non più praticabili a causa di una struttura sociale e di condizioni economiche fortemente mutate. E di nuovi orientamenti culturali. Partendo quindi da questa constatazione, già da qualche anno la cultura architettonica ha ripreso a interrogarsi rispetto ai grandi fenomeni trasformativi e alle loro cause, con lo scopo di ridefinire il proprio ambito di pertinenza e verificare l’efficacia di nuovi o aggiornati strumenti di indagine e operativi con l’obiettivo di continuare ad avere un ruolo nel governo delle dinamiche che riguardano il suo oggetto di riferimento primario: lo spazio6. Oggi probabilmente il miglior banco di prova per verificare l’efficacia di questa operazione è la questione del contenimento del consumo di suolo, per certi versi vera e propria emergenza (nazionale). Consapevoli di ciò e rifuggendo da una facile quanto inefficace “apologia del potere taumaturgico dell’architettura”, alcune recenti ricerche nate in ambito strettamente architettonico rappresentano
in questo senso una possibile opzione, costruita su nuove strategie e sulla proposta di scenari alternativi praticabili in grado di fronteggiare la “recente e invasiva fase della costante evoluzione del processo di urbanizzazione”. La loro efficacia si basa su una messa a fuoco qualitativa di questioni quantitativamente rilevanti nella definizione dell’habitat costruito, a partire da “nuove forme di lettura, interpretazione dello spazio e quindi verso una progettazione che si rinnova e che si impegna nella costruzione di un diverso approccio, che abbia la consapevolezza dei mutamenti intercorsi (…) per rispondere adeguatamente al cambiamento”7.
2. INSTABILITÀ Nelle odierne formazioni metropolitane, nuove forme insediative si sovrappongono a quelle storiche instaurando dimensioni impreviste dell’esperienza individuale e collettiva dello spazio e del tempo: le nozioni di luogo, tipo, natura e artificio, interno ed esterno, vicino e lontano, lento e veloce ne risultano profondamente modificate. In questo quadro, i temi progettuali emergenti devono essere ricollocati entro una dimensione globale nella quale le reti di trasporto, circolazione e comunicazione assumono un ruolo strutturale8.
Spesso descritti come “territori instabili”, spazi a cui la città “impone le proprie dinamiche”, gli spazi extraurbani sono i luoghi maggiormente soggetti alle trasformazioni repentine che le necessità delle nuove economie impongono. Trasformazioni caratterizzate da specifici temi e luoghi: “la proliferazione dell’urbanizzato per effetto della infrastrutturazione dei territori e la correlata invasione dell’edificato nelle campagne e nelle aree naturali; l’impatto delle grandi infrastrutture (reti per la mobilità, stazioni, aeroporti, parcheggi, ecc.) sui paesaggi natu-
5 “La cultura architettonica e urbanistica ha compreso da almeno due secoli come il salto di scala dell’espansione urbana assegni al territorio e al paesaggio un ruolo essenziale nel ridefinire la relazione tra struttura e immagine nelle nuove forme insediative” (S. PROTASONI, Oltre la Großstadt. Identità e trasformazioni dei paesaggi contemporanei, in “Territorio”, n. 28, 2004). 6 “I modelli e i paradigmi che hanno organizzato lo sviluppo delle città occidentali nel corso della rivoluzione industriale anche nelle loro successive riforme prodotte nel XX secolo per corrispondere alla sua specifica dinamica trasformativa si mostrano inadeguati a controllare l’attuale fase di trasformazione delle città caratterizzata dai due seguenti aspetti: a) dalla decadenza irreversibile del modello insediativo legato all’idea dello “sviluppo” delle polarità urbane consolidate, che pone il problema di individuare nuove e più avanzate modellizzazioni; b dalla diffusione di pratiche di intervento discrete e puntuali estese ad interi territori regionali secondo un principio di aggancio alle reti di comunicazione e trasporto, il quale esige un diverso approccio alla problematica tipologica in sé e in rapporto agli apparati di organizzazione morfologica di territori, tessuti e reti” (Obiettivi formativi e programma (sintesi del documento istitutivo del dottorato), in “ARC – Architettura Ricerca Composizione”, anno IV, n. 7, ottobre 2001, p. 8). 7 M. SAVINO, Una nuova alleanza, in «Domusweb», 12.10.2012 (http://www.domusweb.it/it/recensioni/2012/10/12/una-nuovaalleanza.html) su M. AGNOLETTO, M. GUERZONI (a cura di), La campagna necessaria. Un’agenda d’intervento dopo l’esplosione urbana, Quodlibet, Macerata, 2012. 8 Documento istitutivo del dottorato in Progettazione architettonica e urbana, Politecnico di Milano, 2001.
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rali; i vasti campi inedificati interclusi, abbandonati o ancora produttivi, nei quali permangono le antiche strutture edilizie (cascine o borghi) connesse all’originaria strutturazione agricola del territorio”9. Se ormai è abbastanza acquisito il ruolo chiave delle infrastrutture (con la loro natura multiscalare) e delle loro logiche come fattore di condizionamento degli assetti fisici dei territori contemporanei10, sembra evidente come l’inadeguatezza delle risposte ai problemi posti dalle nuove configurazioni territoriali sia da attribuire da una parte a una carenza di strumenti conoscitivi adeguati, dall’altra alla frammentazione (mancata integrazione) degli ambiti di competenza territoriale, a strutture amministrative non dialoganti e a una normativa urbanistica caratterizzata da un quadro legislativo incoerente, disomogeneo e sicuramente non aggiornato, incapace sostanzialmente di agire in modo efficace sui fattori generativi dell’iperterritorio stratificato contemporaneo (“paesaggio a molte velocità”), contesto per eccellenza del fenomeno del consumo del suolo. Alcune delle caratteristiche di questa condizione e dei dispositivi che la strutturano sono ben descritti da Bernardo Secchi nel suo Prima lezione di urbanistica (2000): Ai luoghi della sociabilità tradizionale la città contemporanea ha sostituito altri luoghi tuttora in via di progressiva definizione funzionale e formale. (…) Queste nuove attrezzature urbane non hanno generalmente trovato spazio entro la città esistente e il suo sistema di compatibilità e incompatibilità (…). Per questo, grazie alla mobilità consentita dall’automobile e dalle nuove tecniche del traspor-
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to collettivo, ma non a causa loro, portando con sé alberghi, sale congressi, palestre e attrezzature sportive – cioè la frammistione e l’articolazione della città antica –, le nuove attrezzature si sono disperse in un territorio sempre più immaginato come un grande campus, un parco di oggetti e frammenti di città isolati e liberamente disposti nel verde. nella città contemporanea tutto è divenuto parco: parco tecnologico, parco dei divertimenti, parco degli uffici, parco tematico11.
Nonostante il fenomeno presenti caratteri comuni sull’intero territorio nazionale e una forma diffusa, esistono – e rappresentano un elemento chiave per una sua adeguata lettura – delle specificità locali (“la permanenza dei palinsesti del territorio nelle trasformazioni recenti”12), sulle quali già da diversi anni è stato posto l’accento13, così come alcune sostanziali differenze rispetto al concetto di sprawl14, che vanno correttamente inquadrate e capite. Significativo soprattutto come, venendo meno i tradizionali elementi che conferiscono ai contesti e alle strutture insediative un carattere urbano, si richiami il concetto di densità (nella sua accezione di frequenza di relazioni) come discrimine tra città e non città15. È infatti ancora la città al centro del discorso, non più come manufatto fisico, ma come concetto relazionale: L’uso del concetto di “città” in economia – e, in generale, negli studi urbani – richiama immediatamente il problema della identificazione empirica, poiché la città contemporanea si è estesa nello spazio assumendo la forma di una città dispersa in
Documento istitutivo del dottorato, cit. “I grandi canali della mobilità, ferrovie sopraelevate e sotterranee, fasci di strade e di viadotti, assi attrezzati, insieme ai parcheggi hanno però trasformato in modi evidenti i rapporti spaziali e l’estetica della città: costruendo barriere invalicabili, ostacolando o impedendo relazioni visive e spostamenti consolidati da una lunga tradizione, costruendo nuovi luoghi dell’oscurità, no-man lands delle quali si sono appropriate pratiche al margine della legalità, instaurando rapporti violenti, anche se talvolta suggestivi, con il contesto. (…) Le strutture della mobilità con le loro dimensioni e scale spesso imponenti sono entrate a far parte del paesaggio urbano contemporaneo: con esse occorre confrontarsi.” (B. SECCHI, Prima lezione di urbanistica, Roma-Bari, 2000, p. 103). 11 B. SECCHI, Prima lezione di urbanistica, cit. 12 G. AMBROSINI, M. BERTA (a cura di), Paesaggi a molte velocità: infrastrutture e progetto del territorio in Piemonte, Meltemi, Roma, 2004, p. 21. 13 “L’interpretazione delle differenze nelle prestazioni territoriali è stata possibile in Italia soltanto attraverso un cambiamento di scala nell’analisi regionale, introducendo il “locale” come livello di descrizione e spiegazione dello sviluppo economico regionale” (A. CALAFATI, F. MAZZONI, Città in nuce nelle Marche. Coalescenza territoriale e sviluppo economico, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 25). 14 “Nell’urbanizzazione diffusa italiana ed in genere europea, un ruolo niente affatto marginale è invece giocato da un processo di densificazione ed urbanizzazione di campagne densamente abitate a cui semmai si aggiunge come elemento secondario una dinamica di decentramento di residenza e delle sedi di lavoro dalla città compatta più vicina. I nuovi nodi commerciali hanno un ruolo rilevante, ma lo ha anche una rete estesa di medi e piccoli centri inglobati, il palinsesto delle infrastrutture di riferimento è assai più variegato, disetaneo e complesso e i materiali urbani e le tipologie edilizie con cui si costruisce il nuovo spazio urbanizzato sono meno univocamente determinabili (rispetto a quelli dello sprawl)”. (A. LANZANI, L’urbanizzazione diffusa dopo la stagione della crescita, in C. PAPA (a cura di), Letture di paesaggi, Milano, Guerini, 2012). 15 “Molte delle definizioni di locale richiamano il concetto di densità relazionale spazialmente delimitata – in definitiva una configurazione territoriale che molto spesso, e certamente nei casi di maggiore rilievo economico, assume i caratteri della città: non è altro che una città” (A. CALAFATI, Economie in cerca di città: la questione urbana in Italia, Donzelli, Roma, 2009, pp. 95-96). 10
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Fig. 1. Bergamo, campioni di tessuto urbano (fonte: Bing maps).
termini spaziali. La dispersione ha spostato l’attenzione sulla dimensione relazionale come carattere costitutivo della città e ha quindi posto il problema della sua identificazione”16.
Ed è ormai evidente come solo “interpretazioni adeguate dell’organizzazione territoriale” possano consentire di superare l’“incapacità di definire strategie di sviluppo di lungo periodo”17.
3. CAMPIONI DI TESSUTO URBANO La definizione di strategie di stratificazione, per tornare ad insistere sul senso di urbanità e di prossimità, va progettata nella specificità dello scenario culturale italiano, non solo architettonico, e sostanziata dunque in modifiche delle attuali possibilità (in termini normativi, economici, tecnologici). Il ritorno ad una possibile sovrascrittura dei manufatti quale motore del produrre città è possibile solo rimettendo in dialogo gli strumenti dell’urbanistica e quelli dell’architettura18. 16
Se si prende a campione una porzione di territorio di 100kmq (10.000 ettari) – un quadrato di 10 km di lato – in prossimità di Bergamo è possibile constatare quasi immediatamente come nell’area selezionata rientri una casistica molto varia di tessuti urbani e di strutture insediative. Elementi fortemente eterogenei. Una varietà che racconta della sua natura articolata (e frammentata), della complessità di un territorio stratificato e “disegnato” dalla compresenza di sistemi insediativi e infrastrutturali con logiche molto differenti tra loro e che agiscono a scale molto diverse, della sua inerzia alla trasformazione. Questa complessità è l’esito della sovrapposizione nel corso del tempo (lungo) di elementi appartenenti a sistemi e strutture differenti e in parte incompatibili, di trasformazioni parziali e incompiute. Un tipico territorio della contemporaneità. Brano (frammento) di formazione metropolitana, di cittàterritorio o, se si preferisce, di “metropoli territoriale”19. Caratterizzato da addensamenti e rarefazioni (leggibili in pianta), ma anche da uno spessore variabile (leggibile solo in sezione), un’alternanza di
A. CALAFATI, F. MAZZONI, Città in nuce nelle Marche, cit., pp. 24-25. ibidem, p. 9. 18 S. MARINI, Inventari, cit., p. 20. 19 “Definire il concetto di densità della metropoli territoriale è quindi un’operazione complessa, per diverse ragioni legate al carattere estremamente composito che contraddistingue questa realtà territoriale. La metropoli territoriale è infatti una forma di città estesa su territori di inusitata dimensione, una città porosa che include al proprio interno la città antica, la città moderna e compatta, le periferie disordinate, gli insediamenti diffusi di case unifamiliari, i comparti produttivi e le grandi attrezzature urbane” (C. MARIANO, Densità spaziale e densità relazionale nella “metropoli territoriale”, cit.). 17
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4. DENSITÀ In altri termini la densità rappresenta attraverso un semplice numero lo spazio che viviamo; ne definisce gli aspetti qualitativi, le caratteristiche morfologiche, le potenzialità e le debolezze. Un parametro molto prezioso per chi si occupa di progettare la città, pianificandone gli assetti interni e le possibili linee di sviluppo20. Fig. 2. Logiche dispositive nei territori dello spazio dei flussi: le scale di ordine superiore “costringono” all’ibridazione contesti omogenei (fonte: schema elaborato dall’autore).
porzioni multistratificate (profondità) e porzioni piane (a un solo livello). Di fronte a tale complessità (dove le nozioni di prossimità e accessibilità – su cui si sono costruite le strutture territoriali storiche – appaiono completamente ribaltate) risulta evidente che per affrontare contesti simili con l’obiettivo di riqualificarne gli spazi in un’ottica di contenimento di consumo del suolo, una strategia di mera densificazione che non tenga conto dello “spessore della città” non sarebbe spendibile per la sua genericità nei confronti del materiale urbano con cui andrebbe a confrontarsi.
Fig. 3. Modalità di sovrapposizione dei diversi sistemi (stratificazione (sovrapposizione nel tempo), sostituzione, interazione, interferenza) conseguenze (complessificazione delle logiche d’uso del territorio, esclusione (incompatibilità), separazione, marginalizzazione), strategie alternative (connessione, integrazione) (fonte: schema elaborato dall’autore).
La densità è un parametro che definisce il rapporto tra una data grandezza e l’estensione su cui essa si distribuisce, misurandone il grado di concentrazione. La sua capacità non solo di misurare ma anche di descrivere la distribuzione spaziale dei fenomeni ne ha determinato il successo all’interno delle discipline del progetto e del territorio come strumento allo stesso tempo operativo e interpretativo. Rappresenta “una questione sempre centrale: tra le poche in architettura dove un parametro quantitativo, misurabile, ha così vaste conseguenze qualitative e implicazioni nei più diversi aspetti (economici, funzionali, ambientali, sociali, spaziali...) dell’organizzazione complessa di città e territori”21. Storicamente il concetto di densità viene acquisito in ambito progettuale dalla disciplina urbanistica attraverso due parametri, sui quali si incardineranno per decenni i suoi strumenti operativi: il rapporto di copertura e l’indice di edificabilità22. Parametri che oggi, con la giusta distanza critica e alla luce di un approccio culturale alla città più evoluto, possiamo considerare insufficienti per rappresentare la complessità della città. La cosa interessante però è che queste letture più aggiornate e qualitative non mettono in discussione il concetto di densità in quanto tale e la sua efficacia, ma solo l’interpretazione che ne è stata data, facendo emergere alcune potenzialità intrinseche precedentemente non intuite: La possibilità di controllare la qualità urbana agendo non solo a livello volumetrico, ma anche suggerendo modi alternativi di utilizzo dell’hardware costituito dai manufatti, allarga le potenzialità del parametro densità. Saturare, congestionare, densificare, stratificare, così come i loro opposti, diventano strumenti di progetto e di verifica da utilizzare agendo anche sulle abitudini e sui comportamenti delle persone che abitano la città23.
20 M. GIBERTI, La doppia dimensione della città, in “(h)ortus” (Rivista del Dipartimento Architettura e Progetto - “Sapienza” Università di Roma) n. 58, luglio 2012. 21 G. CORBELLINI, Densità, in “Arch’it. Parole chiave” (http://architettura.it/parole/20031012/index.htm). 22 “Interi trattati di urbanistica concentrati in due piccoli numeri capaci di orientare le scelte di architetti e costruttori, ma soprattutto, responsabili della configurazione di un ambiente nel quale quotidianamente abitiamo” (M. GIBERTI, La doppia dimensione della città, cit.). 23 M. GIBERTI, La doppia dimensione della città, cit.
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Anche quando la prospettiva è quella del contenimento del consumo di suolo24, l’utilizzo del concetto di densità non solo risulta decisivo per la descrizione di uno dei più significativi fenomeni che caratterizzano la dinamica urbana contemporanea, ma propone anche elementi originali in chiave progettuale secondo prospettive alternative ai modelli diffusi e dominanti, in particolare per le sue implicazioni rispetto a concetti prossimi come spessore e stratificazione, un vero e proprio salto concettuale da parametro riferito a processi di “scrittura bidimensionale” a parametro di “scrittura topologica”, rintracciabile all’interno della traiettoria delle teorizzazioni dell’architettura contemporanea. Se la densità infatti nell’approccio modernista si limita a essere un concetto applicato alla singola funzione (verificando solamente le possibilità di concentrare volume e non quella di aggregare funzioni considerate incompatibili tra loro) oggi la questione si è enormemente ampliata, a seguito di una serie di acquisizioni culturali legate agli sviluppi della teoria architettonica recente e a nuove modalità di uso dello spazio urbano. Un lungo e tormentato percorso che parte dalla critica dei modelli dispersivi (“Metà della giornata lavorativa – è l’argomento forte di Le Corbusier – se ne va per pagare la nostra vita suburbana”) a favore della concentrazione25, passa per il contributo fondamentale di Jane Jacobs – che mette a fuoco come il parametro densità nell’interpretazione data dal modernismo non sia efficace per descrivere la complessità del fenomeno urbano e nemmeno le situazioni di disagio che in esso si generano26 –, fino al riconoscimento del valore della congestione di koolhaasiana memoria27.
Fig. 4. R. KOOLHAAS, Delirious New York, 1978.
Fig. 5. Scrittura bidimensionale - Alex MacLean, Housing Development at Different Stages, Henderson, Nevada (fonte: http://www.alexmaclean.com/).
24 “Suolo: bene prezioso e non riproducibile. Come ridurne il consumo e tutelarlo” è il titolo della conferenza all’interno della quale si inserisce questo contributo. 25 “Le storture del modello insediativo dispersivo sono chiaramente descritte da Le Corbusier (Manière de penser l’urbanisme, 1946-63), dove l’accento viene posto essenzialmente sullo spreco (di territorio, di denaro, di tempo...). Ma, nonostante la lucidità dell’analisi, le risposte di Le Corbusier – e degli architetti in genere – sembrano risentire da un lato della fascinazione narcisista per l’oggetto isolato e dall’altro di una diffidenza tutta positivista verso la complessità stratificata dei sistemi urbani, che porta sì a concentrare le abitazioni in grandi edifici collettivi, diluiti però in vaste quantità di vuoto destinate a verde e infrastrutture, dove la densità territoriale risulta paragonabile a quella dei suburbi” (G. CORBELLINI, Densità, cit.). 26 “Negli anni Sessanta Jane Jacobs (The Death and Life of Great American Cities, 1961) chiarisce che la densità in sé (abitanti per ettaro) non risulta un parametro decisivo nell’indicare una condizione di degrado sociale, mentre maggiormente rivelatore di situazioni disagiate è senz’altro il livello di coabitazione all’interno degli alloggi (abitanti per vano). La sociologa americana sottolinea inoltre lo strettissimo, complesso e delicato rapporto tra densità e condizione urbana, mostrando come concentrazioni abitative anche superiori ai mille abitanti per ettaro siano non solo possibili ma necessarie per l’attivazione di sistemi sociali altamente organizzati” (G. CORBELLINI, Densità, cit.). 27 “A contribuire a una definitiva inversione di valore, da negativo a positivo, del termine densità e delle questioni a essa collegate, esce, nel 1978, Delirious New York. L’esordio di Rem Koolhaas sulla scena internazionale propone una lettura lucida e radicale di Manhattan come vera e propria icona della modernità. La parola chiave diventa “congestione”, una sorta di iperdensità raggiunta attraverso edifici resi “mutanti” dall’impatto delle nuove tecnologie: ascensori, strutture in acciaio e aria condizionata rendono possibili insiemi edilizi caratterizzati da incredibili concentrazioni di funzioni, abitanti, lavoratori e utenti. Al raggiungimento di una certa “massa critica” la sovrapposizione dei programmi attiva inaspettati sistemi sinaptici, la mobilità verticale tende a sostituire quella orizzontale, il mezzo privato perde la sua necessità e gli effetti congestivi si tramutano in paradossali incrementi di efficienza” (G. CORBELLINI, Densità, cit.).
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di saggi e progetti dello studio MVRDV che esplora in termini estremi la questione della densità e della congestione. Il volume, al di là del giudizio dei critici – “affascinante racconto di una ricerca sulla densità come matrice nei processi di sviluppo dello spazio, cardine del lavoro dello studio” o, come sostiene Giovanni Corbellini, indagine attraversata dall’“ossessione per la massimizzazione quantitativa” –, testimonia finalmente di una nuova consapevolezza rispetto al termine “densità” e alle sue possibili implicazioni come elemento centrale di riflessione dei metodi di progettazione alle varie scale, in grado di ripristinare un piano di relazione tra le differenti discipline del progetto. Una ricerca sulla densità e la sua operabilità in campo architettonico – focus di una buona parte del lavoro di MVRDV a cavallo del millennio – che passa anche attraverso strategie di comunicazione innovative30 e nella quale si analizzano, attraverso il tema della densità, alcune questioni chiave della città:
Fig. 6. Scrittura topologica - Alex MacLean, Up on the roof: New York’s hidden skyline spaces, 2012 (fonte: http://www.alexmaclean.com/).
5. FARMAX. EXCURSIONS ON DENSITY In architettura troppo spesso il termine “densità” è preso alla lettera e riferito alla concentrazione di edifici verticali. In realtà è un concetto molto più ampio: ha a che fare con l’uso che facciamo della superficie della terra, con il modo in cui qualsiasi cosa è distribuita in pianta su terra e acqua. Wini Maas - MVRDV, 200528
Nel 1998 esce, a cura di Winy Maas, Jacob van Rijs e Richard Koek, il libro FARMAX. Excursions on density (010 Publishers, Rotterdam)29, raccolta
– È possibile sfuggire alle pratiche bidimensionali dello zoning e alle convenzioni che dominano l’attuale normativa urbanistica? – Può la zonizzazione tridimensionale generare città in grado di includere più programmi e quindi aumentare le possibilità di densità? – Porterà questa zonizzazione ad una maggiore capacità globale della città e dell’uomo? – Sarà possibile generare una vera densificazione ed espandere gli spazi esistenti? – E soprattutto, darà luogo la densificazione a città più ricche? Gli studi di MVRDV sulla densità implicano una città che non sia solo di fronte, dietro o vicino a te, ma anche sopra e sotto. In breve una città nella quale il livello zero non esista più, ma si dissolva in una presenza multipla e simultanea di livelli, dove la piazza sia sostituita dal vuoto o da una molteplicità di connessioni, dove la strada venga sostituita dalla simultanea distribuzione e divisione di percorsi e dilatata da ascensori, rampe e scale mobili, dove la lontananza sia sostituita dalla prossimità e il parco venga trasformato in una pluralità di spazi
28 Intervista a Wini Maas – MVRDV in “The Plan”, n. 013, 2006 (http://www.theplan.it/J/index.php?option=com_content&view= article&id=660%3Aintervista-a-wini-maas-mvrdv&lang=it). 29 “L’acronimo del titolo indica la massimizzazione del rapporto fra la superficie utile e quella del lotto sul quale insiste, una condizione indagata attraverso alcuni esempi reali e diversi progetti, tra i quali emergono i cosiddetti datascapes: grandi masse edilizie di volta in volta conformate da parametri misurabili come luce, visibilità, rumore ecc. L’attenzione di Winy Maas e soci verso gli aspetti quantitativi si spiega con un approccio rivolto alla sostenibilità economica e ambientale degli interventi, testimoniata ad esempio con Metacity Datatown (010 Publishers, 1999) dove viene simulata statisticamente una città isolata e autosufficiente di 400 km di lato nella quale si concentra una popolazione pari a quella degli Usa” (G. CORBELLINI, Densità, cit.). 30 cfr. l’esposizione multimediale intitolata “3DCity: Studies in Density Recent Work by MVRDV” tenuta alla Yale Art + Architecture gallery nel 2002 dove vengono presentati alcuni progetti di ricerca e lavori di concorso come MetaCity/Datatown e KM3, 1999; the Dutch Pavilion e Brabant Library, 2000; Pig City e Nuage d’Art, 2001) (http://www.architecture.yale.edu/sites/gallery/mvrdv.htm).
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pubblici. In questo denso mondo a tre dimensioni la qualità dello spazio non si traduce più in morfologia o geometria, ma in ricchezza, diversità, presenza e prossimità. La differenza tra sotto e sopra non è più appropriata. C’è solo simultaneità.
Un approccio progettuale “diretto”, che “percorre la linea di confine tra realtà e sperimentalismo”, capace allo stesso tempo di essere comprensibile e di “esplorare nuove possibilità per il futuro”. Tecnica e strumento contemporaneamente, come ci ricorda Winy Maas:
Fig. 7. MVRDV, Metacity/Datatown, 1999.
Datascape è una ricerca svolta nella prima metà dell’ultimo decennio e pubblicata nel nostro primo libro, Farmax. È sia una tecnica per esplorare l’insieme di regole invisibili che condizionano l’architettura e l’urbanistica – quali le regole sociali, politiche e così via – illustrandone conseguenze ed eccessi, sia uno strumento per esplicitarle il più possibile. Datascape fornisce un insieme di dati reali e chiari, è il piano d’azione per decidere cosa può essere giusto e cosa sbagliato in un determinato contesto. Lo scopo è valutare se queste regole sono valide per il futuro o se è necessario aggiornarle31.
Un’indagine che lavora metodologicamente sul paradosso dell’estrapolazione/estremizzazione tematica per sottoporre a verifica l’applicabilità effettiva delle opzioni alternative, partendo dal presupposto che solo una dimensione fortemente quantitativa può avvalorare i nuovi principi qualitativi e fornire delle risposte plausibili all’“inattualità della pianificazione per zone funzionalmente specializzate”. Nella ricerca “Regionmaker” (2002) MVRDV amplia ulteriormente la scala territoriale, affrontando “le problematiche relative allo sviluppo di una regione della Germania meridionale, la Rhein Ruhr, con l’intento (…) di presentare e definire l’entità regionale come necessario passaggio dalla dimensione urbana e come strumento di contrapposizione a un mondo che appare senza confini”. Come sottolinea Michele Costanzo in un bel saggio sull’attività dello studio32, emerge la necessità di “un cambio di paradigma in grado di affrontare la scarsità di spazio e diversificare la diffusa uniformità” e “di individuare nuovi modelli per un diverso modo di affrontare la realtà ambientale, in cui possano convivere varie funzioni e densità”:
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Fig. 8. MVRDV, KM3 Excursions on capacities, 2005.
Si tratta di un importante cambio di dimensione progettuale (la scala urbanistica sta soppiantando quella dell’edificio) e i suoi strumenti debbono adeguarsi ad affrontare gli effetti derivati dall’avvento della globalizzazione. (…) Sta emergendo un nuovo “ordine” fatto di agglomerazioni e dispersioni. Nell’intensificarsi della complessità si tratta di individuare quale metodo o espediente possa essere proficuamente adottato. È difficile formulare ipotesi; forse è più utile sviluppare un metodo oggettivo che possa essere usato da diversi punti di vista per sviluppare conoscenza, anche al di fuori della contingenza del momento. La produzione di strumenti di visualizzazione e spazializzazione di ipotesi progettuali a scala regionale, diventa sempre più necessaria, per creare con questo un ‘nuovo contesto’ da riconfigurare. Si tratta di costruire delle strutture accessibili per comprendere e concettualizzare il presente e cercare di comunicarlo33.
Intervista a Wini Maas - MVRDV in “The Plan”, cit. M. COSTANZO, MVRDV. Da Farmax a Regionmaker. Riflessioni e studi su un nuovo paesaggio metropolitano, in “Arch’it. Books Review” (http://architettura.it/books/2003/200309009/). 33 M. COSTANZO, MVRDV. Da Farmax a Regionmaker, cit. 32
SULLA DENSITÀ. STRATEGIE PER IL CONTENIMENTO DEL CONSUMO DI SUOLO
6 STRATEGIE La sostanziale differenza tra città orizzontale contemporanea, dove su un punto insiste solo una funzione, e città densa, che si articola in tutte le direzioni possibili, è proprio nell’assenza nella prima del caso, della comunicazione e quindi della frequenza d’uso degli spazi aperti. Progettare lo spessore implica leggere l’interesse del singolo, appropriarsi delle sue richieste per disegnare un paesaggio collettivo, per dar senso ai vuoti attraverso il ricorrere, il ripetersi di un’azione che disegna una delle 99 storie di Queneau34.
Tra il 2002 e il 2003 la rivista spagnola “a+t” dedica una serie di tre numeri al tema della densità (“Density/Densidad”). Che il tema rappresenti, all’inizio del nuovo millennio, non solo una questione d’attualità ma un approccio strategico al problema della sostenibilità – intesa soprattutto in termini di contenimento del consumo del suolo e delle risorse primarie – e una ricerca a tutti gli effetti lo confermano l’uscita dei successivi fascicoli: “Density. Condensed edition. New collective housing” nel 2006, “Density project” e “DBOOK. Density, Data, Diagrams, Dwellings” nel 2007 e “Next” nel 2010 (a+t ediciones) e le parole stesse con cui sono presentati, una vera e propria dichiarazione di intenti: We believe that the combination of different functions inside the same project is the key to the regeneration of the consolidated city and for the creation of new urban nuclei and that collective housing in this context of mixed-use, generating a dense built environment, is the only solution to the consumption of resources35.
In essi vengono promossi il “compact development of urban settlements” e la rigenerazione di vuoti urbani con funzioni nuove, ribadendo che “land is identified more and more as a precious asset that must be protected and used in the appropriate manner”. Il termine “densità”, lungi dall’essere fuori corso, ritrova una dimensione appropriata strutturando i nuovi approcci multiscala alla “nuova dimensione della complessità”, che di volta in volta utilizzano strategie differenti in funzione delle specificità dei contesti e fanno leva su alcuni concetti chiave (densificazione/rarefazione, mix funzionale/ibridazione, infiltrazione/riciclo/macerie (architettura parassita), spazio “tra” (in-between spaces), progetto di suolo,
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multidimensione) per conseguire i propri obiettivi: è così che si può riconoscere in ognuna di esse una sua particolare declinazione (e articolazione), trattandosi comunque sempre di un problema di scelta delle modalità di utilizzo (o di non utilizzo) della superficie. Di fronte alla complessità del sistema e alla sua inerzia alla trasformazione la diversificazione delle strategie di intervento assume quindi il senso di una maggiore consapevolezza della cultura architettonica rispetto alla “necessaria” rinuncia a un disegno unitario degli spazi urbani in termini formali, ormai impraticabile e inattuale. I luoghi che potrebbero maggiormente beneficiare degli effetti (positivi) delle nuove strategie progettuali – ed essere finalmente coinvolti in una visione organica – sono non a caso quelli più problematici per gli attuali assetti territoriali: aree marginali, spazi interstiziali, vuoti urbani, luoghi di risulta, frammenti metropolitani, attraverso una serie di modalità operative in grado di affrontare in modo efficace la loro natura specifica: – lavorare su punti discreti. – rinunciare al continuo compiuto, coerente in se stesso. – non pensare più solo alle coordinate originarie (dialettica tra piano astratto e sua modificazione > città a due dimensioni), ma a una realtà multidimensionale (sviluppo verticale, sezione complessa). – condensare presenze. – risparmiare suolo. – moltiplicare suolo. – offrire maggiore densità di servizi. – rendere attraversabili gli elementi di separazione. – valorizzare le differenze (no alla connettività continua) > gradiente, disomogeneità della relazione, capisaldi. – lavorare per sezioni portanti (vertebrazioni, nervature morfologiche dei bordi urbani, ossatura locale, articolazione della forma). – definire i temi e luoghi della trasformazione (fuochi, piani, sezioni). – istituire nuove relazioni spaziali. – evitare oggetti isolati a favore di uno spazio urbano fondato sulle connessioni. – elaborare nuovi strumenti, soprattutto legati alla valorizzazione dei vuoti, in grado di migliorarne immagine ed efficienza. – estrarre qualità urbana dalla città diffusa.
34 S. MARINI, Spessori e frequenze in architettura, in S. MARINI, F. DE MATTEIS (a cura di), Nello spessore. Traiettorie e stanze dentro la città, cit., p. 131. 35 http://aplust.net/permalink.php?atajo=_density_projects.
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PAOLO VITALI
Fig. 10. Batlle i Roig arquitectes, Parc (al nus viari) de la Trinitat, Barcellona, 1993.
Fig. 9. Diller Scofidio + Renfro, High-line, New York, 20022012.
Fig. 11. A. GALFETTI, rotonda piazza Castello, Locarno, 19882001.
Tutto ciò all’interno di un’ipotesi di sovrascrittura dell’esistente basata sulla reintroduzione del concetto di limite (metafora del lago – sviluppo circoscritto, trasformazione non espansiva) e su un approccio topologico in grado di lavorare sullo spessore e di superare definitivamente una concezione bidimensionale e fondata sulla separazione/segregazione funzionale.
Bibliografia AGNOLETTO M., GUERZONI M. (a cura di), 2012, La campagna necessaria. Un’agenda d’intervento dopo l’esplosione urbana, Macerata. AMBROSINI G., BERTA M. (a cura di), 2004, Paesaggi a molte velocità: infrastrutture e progetto del territorio in Piemonte, Meltemi, Roma.
CALAFATI A. 2009, Economie in cerca di città: la questione urbana in Italia, Donzelli, Roma. CALAFATI A., MAZZONI F., 2008, Città in nuce nelle Marche. Coalescenza territoriale e sviluppo economico, Franco Angeli, Milano. INDOVINA F., 2011, Provincie e metropoli territoriali, in “Archivio di Studi Urbani e Regionali”, pp. 101-102. MAAS W., VAN RIJS J., KOEK R. (edited by), 1998, Farmax. Excursions on density, Rotterdam. MARIANO C., luglio 2012, Densità spaziale e densità relazionale nella “metropoli territoriale”, in “(h)ortus”, Rivista del Dipartimento Architettura e Progetto - “Sapienza” Università di Roma, n. 58. MARINI S., 2010, Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Macerata, 2010 MARINI S., DE MATTEIS F. (a cura di), 2012, Nello spessore. Traiettorie e stanze dentro la città, Nuova Cultura, Roma.
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GIOVANBATTISTA TESTOLIN*
I PAESAGGI DEL FOTOVOLTAICO DEL SOLARE TERMICO E DELLE BIOMASSE: COME LE NUOVE ENERGIE MODIFICANO I LUOGHI
In questo breve scritto focalizzeremo soprattutto l’aspetto dell’USO del SUOLO e ENERGIA RINNOVABILE, in particolare in relazione all’industria e all’energia fotovoltaica. Perché l’industria è grande consumatrice di energia e la fonte fotovoltaica applicata in grande scala, anche con impianti a terra, aveva generato nel periodo di picco degli incentivi preoccupazione sul consumo di suolo. L’articolo è quindi articolato in cinque punti: 1. L’industria, i consumi energetici 2. Il Suolo, l’energia rinnovabile, lo sviluppo edilizio, il problema dei costi 3. Possibilità di utilizzare le rinnovabili e collaborare con l’agricoltura. La fisionomia economica di un territorio 4. La comunicazione: un radicato elemento emozionale 5. Conclusioni
1. L’INDUSTRIA, I CONSUMI ENERGETICI Premettiamo che la trattazione ha il fine di informare sul tema con indicazioni di massima e dati medi, che consentano di collocare l’argomento in una prospettiva di massima con calcoli che sono basati su ipotesi MEDIE e finalizzati a collocare il tema nei suoi ORDINI DI GRANDEZZA, e che specifici progetti potrebbero avere numeri sensibilmente diversi. La logica che ha visto sorgere il dibattito sul consumo di suolo è stata: Elevata intensità industriale in provincia di Bergamo ––> Elevati consumi energetici –––> Elevato consumo di suolo per fonti rinnovabili? Per giungere a una possibile risposta metodologicamente è importante qualificare il termine “elevato”:
• Elevato quanto? • Elevato rispetto a che parametri? • In che relazione con l’utilizzo per edilizia/ infrastrutture? • Con che possibilità di collaborazione con Agricoltura? A Bergamo ci sono il 2% dei consumi elettrici nazionali di cui il 63% destinato all’industria, una media maggiore di quella italiana e lombarda1. Inoltre questo proposito va segnalato che nel mondo si sta rapidamente affiancando all’attenzione alla produttività del lavoro, del capitale e multifattoriale, quella della produttività delle RISORSE, che diventeranno nei prossimi anni più scarse del lavoro dal punto di vista economico e più rilevanti rispetto alla crescente attenzione al carico ambientale e sociale che creiamo sul pianeta. Esempi di RISORSE sono: • Energia, • Materie prime, • Aria, acqua, • Suolo, • …. l’evoluzione della cultura, degli stili di vita e dei consumi sta facendo aumentare la componente “immateriale” e diminuire quella “materiale” dei prodotti/servizi acquistati, con preferenza verso chi adotta comportamenti “sostenibili”, Tendenzialmente l’industria e le attività economiche in generale dovranno consumare meno risorse per essere “SOSTENIBILI”, e tali risorse dovranno essere risorse “rigenerabili/rinnovabili”, che vuol dire che ciò che si consuma in una generazione è quanto il pianeta può produrre in una generazione. Diversamente da oggi che ad esempio stiamo consumando in pochi decenni combustibili fossili che il pianeta ha generato con processi geologici durati milioni di anni.
* Ingegnere - Ordine degli Ingegneri di Bergamo. 1 Un buon quadro di riferimento è costituito dalle linee guida contenuto nell’Action Plan for Botanic Gardens in the European Union (Cheney, 2000).
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Sarà molto difficile competere e portare valore/lavoro sul territorio ponendosi al di fuori di questa tendenza generale, e in assenza di abbondanti riserve di materie prime e fonti energetiche.
2. IL SUOLO, L’ENERGIA RINNOVABILE, LO SVILUPPO EDILIZIO, IL PROBLEMA DEI COSTI In Italia c’è una Superficie Agricola Utilizzata (SAU) di 127.442 km2 2 – 927 km2 in provincia di Bergamo3 – in diminuzione per abbandono e urbanizzazione. A livello nazionale alcuni dati sul consumo di Superficie Agricola Utilizzata (SAU) e non (boschi, sup. non utilizzate, altro) sono: – 500 km2/anno di consumo di SAU per uso edilizio e infrastrutturale4, – 18.000 km2 di SAU persi dal 1994 al 20045. In Lombardia la disponibilità procapite di SAU è la metà della media nazionale. Il suolo è una risorsa scarsa, ma d’altronde chi produce energia ricorre all’uso di impianti a terra per la possibilità di produrre elevate quantità di energia e di diminuire i costi con impianti, anche “utility scale” che: – Producono grandi quantità di energia, – Consentono elevate economie di scala nella realizzazione e gestione, diminuendo il costo dell’energia prodotta. Gli alti consumi e il poco territorio richiederebbero a Bergamo lo 2,4% della SAU per produrre il 20% del consumo industriale. Contro lo 0,4% nazionale. È però anche interessante notare che questo ipotetico 20% di consumo dell’industria a livello nazionale potrebbe essere coperto con una porzione di suolo pari ad esempio a: – lo 0,4% dei 127.442 Km2 di SUA (Suolo Agricolo Utilizzabile) esistente in Italia, – 1,0 anni di consumo di SUA per uso edilizio e infrastrutturale, (500 km2/anno4), – il 14,2% dei 18.0005 km2 di SUA persi dal 1994 al 2004, – l’11,1% dei 23.5005 km2 di aree urbanizzate in Italia, Queste percentuali sui parametri scelti come base di confronto ci permettono di contestualizzare meglio il significato di “elevato” come discusso all’inizio. Un problema a oggi (inizio 2011), oltre al reperimento di del suolo è il costo ancora relativamente 1
alto del kwh prodotto via FV: 0,20 €/kwh potrebbe essere il costo indicativo dell’energia prodotta da un impianto FV da 1,8 Mwp a terra nel nord Italia, (alla data dello scritto, inizio 2011), 0,06-0,08 €/kwh il costo indicativo dell’energia prodotta da un impianto termoelettrico italiano. Differenza ampia anche se il costo del FV incorpora alcuni costi che la derivazione da combustibili fossili esternalizza sulla società: • Malattie da inquinamento e relativi costi economici e di benessere delle persone, • Danni da piogge acide, • Effetti dei cambiamenti climatici da aumento temperature (su cui non ci sono pareri concordi), • Etc.. Il problema della riduzione dei costi si pone, se si vogliono produrre grandi quantità di energia da fonti rinnovabili. Questo problema è paradossalmente in parte indotto dagli incentivi, strutturati in modo da favorire più l’installazione e meno lo sviluppo di tecnologie più efficienti. Ci vorrebbero incentivi anche per creare innovazioni che abbassino il costo delle fonti rinnovabili, andrebbero gradualmente ridotti i sussidi a fonti basate su tecnologie che fanno fatica a competere con quelle fossili, (almeno fino a quando i prezzi di queste non saliranno sensibilmente in seguito al loro sempre più difficile reperimento), In questo momento si sta spendendo allo stesso troppo e troppo poco per le fonti rinnovabili: Troppo poco sullo sviluppo di nuove e più efficienti tecnologie, Troppo per incentivare l’installazione molto rapida delle tecnologie esistenti. Chiudiamo la discussione del paragrafo suolorinnovabili con una metafora sull’utilizzo del suolo a fini di PGT sembra la metafora della malattia che invade il corpo in cui cresce
Fig. 1. Milano, Carta Tecnica della Regione Lombardia.
Fig. 2. Fotografia cellula cancerogena alternative cancer.net.
Terna (2009) Dati Statistici sull’energia elettrica in Italia. ISTAT (2007) Indagine sulla struttura e le produzioni delle aziende agricole. 3 ISTAT (2000) 5° Censimento Generale dell’Agricoltura. Presentazione dei dati definitivi. Lombardia. 4 Legambiente (2011) rapporto “Ambiente Italia 2011”. 5 ISPRA - Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale http://www.isprambiente.gov.it/it/temi/suolo-e-territorio/agricoltura/superficie-agricola. 2
I PAESAGGI DEL FOTOVOLTAICO DEL SOLARE TERMICO E DELLE BIOMASSE
3. POSSIBILITÀ DI UTILIZZARE LE RINNOVABILI E COLLABORARE CON L’AGRICOLTURA. LA FISIONOMIA ECONOMICA DI UN TERRITORIO Gli impianti a suolo possono essere realizzati con diverse tecnologie e sistemi di fissaggio, a seconda del suolo, delle dimensioni e di molti altri fattori.
Le possibili collaborazioni tra industria e agricoltura verso la sostenibilità potrebbero svilupparsi su diversi filoni, ad esempio: • Agricoltura Sostenibile. la minor resa è integrata da reddito energetico, • Serre, per energia più agricoltura specializzata
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Se un altro territorio ritenesse di volere (e potere) puntare su una economia a forte consumo energetico, potrebbe dedicare parte dei suoi suoli a produrre da fonti rinnovabili, che sarebbero un tassello dell’orientamento alla sostenibilità. Infine per l’industria le fonti rinnovabili oltre che una opportunità per alimentarsi possono essere una opportunità di prodotto/mercato per noi, infatti: • l’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa e Bergamo la Provincia più manifatturiera d’Italia e con forte presenza di edilizia, • risorse e competenze già acquisite in settori manifatturieri sviluppabili sul “green” (meccanica, automazione, elettrotecnica ed elettronica, edilizia), • si può quindi beneficiare delle opportunità di investimento nella componentistica “verde”, • i distretti italiani e bergamaschi sono un esempio della capacità di reagire agli stimoli di mercato, • partiamo in ritardo, ma in alcuni settori i giochi non sono fatti
4. LA COMUNICAZIONE: UN RADICATO ELEMENTO EMOZIONALE
In una ottica di sostenibilità è comunque raccomandabile utilizzare prima i suoli non adatti per coltivazioni e allevamenti, per esempio: • Terreni • agricoli di bassa qualità o esauriti, per giusti ritmi e ricostituzione delle componenti organiche, • Cave, discariche chiuse e altri terreni dismessi, • … • Aree già urbanizzate/cementificate • Tetti, • Aree industriali non bonificate, • Parcheggi, • … Se tra 10 anni scoppiasse una crisi alimentare, i terreni, bloccati per una ventina d’anni, verrebbero richiesti per coltivare e allevare Inoltre le decisioni su quanto suolo utilizzare dovrebbero essere coerenti con l’evoluzione della fisionomia economica del territorio. Ad esempio se un territorio ritenesse di volere (e potere) puntare su una economia di turismo, alberghi, enogastronomia, bellezza del paesaggio, specialità agroalimentari, benessere, etc... andrebbe privilegiato l’uso del suolo agricolo in modo coerente per produrre bei paesaggi, prodotti agroalimentari, itinerari enogastronomici, ospitalità, etc.
Date le percentuali viste nei paragrafi precedenti prima di avviarci alle conclusioni ci sembra interessante chiederci: “Ma perché l’utilizzo del suolo a fini energetici genera polemiche?” Ci sono aspetti psicologici, antropologici, etici? Che vanno più in profondità delle argomentazioni puramente razionali? Probabilmente si. E bisognerebbe evitarne l’abuso quando si comunica. Alcuni di questi elementi atavici e spirituali pensiamo siano: • la Terra come parte del Creato e come dono per l’Uomo, il suo benessere, • il principio di germinazione della vita, il seme che germina nella terra, ma non nella roccia, • veniamo dalla terra e torneremo terra, …, • forse elementi biologici codificati nel nostro cervello, quali: • La catena alimentare che parte dalla terra, anche quando mangiamo carne (terra –––> fieno –––> mucca –––> carne), • Il rapporto di benessere di cui la terra è Fonte. sdraiati su un prato verde, al sole, a guardare e ascoltare la natura si sta meglio che in coda in una periferia disordinata e malamente cementificata a respirare gas di scarico,… • C’è una ancestrale percezione di essere noi parte di questo mondo
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5. CONCLUSIONI Riassumendo abbiamo visto che: • con l’utilizzo dello 0,4% di suolo agricolo si potrebbe produrre con FV il 20% del fabbisogno elettrico dell’industria italiana, • questo 0,4% corrisponderebbe al 14,5% del suolo agricolo perso nel periodo 1994-2004 e a 1,0 anni di suolo assorbito dall’edilizia al ritmo di 500 km2 all’anno, • in Provincia di Bergamo ci sono consumi più elevati e meno suolo, per cui la percentuale di SAU da utilizzare salirebbe al 2,4%, • attenzione all’utilizzo del suolo anche per fini edili/infrastrutturali, che sembra la metafora della malattia che invade il corpo in cui cresce, • a oggi c’è ancora un problema di costo del
kwh, che va affrontato con stimoli diversi dal semplice incentivo alla installazione, • usare prima zone urbanizzate e terreni dismessi, poi eventualmente i suoli adatta per coltivazione/allevamento, • decidere avendo presente la fisionomia economica su cui punta il territorio, • per l’industria le rinnovabili possono essere anche una opportunità di prodotto/mercato, • gestire con serenità la comunicazione, perché il rapporto uomo-suolo è ricco di valori spirituali, ancestrali, biologici In conclusione per cogliere le opportunità bisogna lavorare su costi, localizzazione degli impianti, utilizzo dell’energia, utilizzo del suolo a fini edili, chiara visione economica, opportunità di prodotto/ mercato e comunicazione non emotiva.
Finito di stampare nel mese di settembre 2013