la storia del jazz in 50 ritratti

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Cos’è il jazz? Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai.

— Louis Armstrong

Il jazz è ritmo e significato.

— Henri Matisse

© 2022 Centauria Editore srl – Milano

Publisher Balthazar Pagani

Graphic design PEPE nymi

Proprietà artistica letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.

Prima edizione maggio 2022

Isbn 9788869214790

SOMMARIO

LOUIS ARMSTRONG

(New Orleans, 1901 - New York, 1971)

Per aver sparato un colpo di pistola in aria la notte di San Silvestro del 1912, a soli undici anni lo mandano in riformatorio. È proprio lì che Satchmo (nickname affibbiatogli per la spropositata dimensione della sua bocca, dall’inglese satchel mouth, bocca a sacco) scopre il proprio talento musicale ed entra a far parte della piccola orchestra dell’istituto. Il resto lo si deve alla straordinaria atmosfera creativa di New Orleans, ombelico del jazz. Qui la musica rimbalza dai piccoli locali dei vicoli alle riverboat che solcano il Mississippi. Louis Armstrong è instancabile: suona con tutti e dovunque, accompagna con la cornetta e poi con la tromba orchestre, solisti, vocalist e bluesman, e arriva presto (1923) alle prime incisioni. Conquista uno dopo l’altro tutti i palcoscenici più importanti della nazione: la sua vita musicale si fa leggenda, nella storia del jazz. Sono gli anni ruggenti, e tutto ciò che ruota intorno alla musica diventa un must per la società americana.

Armstrong ha la fortuna di cavalcare l’epoca, ma è con la sua attitudine, le sue capacità tecniche, la sua cristallinità, la sua simpatia e la sua voce che riesce a creare ciò che oggi è il jazz. La sua sonorità è senza dubbio una delle più distintive e il background folk lo porta a improvvisare come nessuno mai aveva fatto prima. Tutti i musicisti jazz gli devono qualcosa, soprattutto per il metodo di analisi della materia musicale. E tutto gli perdonano: compresi gli ultimi anni di esibizionismo esagerato.

Passa in Italia in una manciata di occasioni memorabili. E poi regala al grande pubblico l’assurda comparsata al Festival della canzone italiana di Sanremo del 1968, dove parla ancora di Sophia Loren e di spaghetti, senza capire dove sia capitato, circondato com’è da gente che capisce ancor meno di lui e che lo tratta come una specie di simpatico e gigionesco clown di colore. Solo molti anni dopo la sua scomparsa potranno apprezzarlo davvero.

ART ENSEMBLE OF CHICAGO

(Chicago, da fine anni Sessanta a oggi)

Unica eccezione di questi ritratti, l’Art Ensemble of Chicago non è il nome di un musicista, bensì di un collettivo di musicisti, nato a Chicago dalla gloriosa Aacm (Association for the Advancement of Creative Musicians), vale a dire l’organizzazione non-profit fondata nel 1965 dal pianista Muhal Richard Abrams e mossa dalla volontà di dare seguito alle avanguardie post-free della musica afroamericana.

L’impegno dei membri dell’Aacm unisce in un mix di jazz d’avanguardia, classica e world music le risultanti filosofiche delle rivendicazioni sociali collegate alle lotte antirazziste. L’Aacm gestisce anche un’importante scuola, nella quale tutti gli insegnanti sono musicisti membri dell’associazione.

Nei quindici anni che accompagnano il jazz a stelle e strisce sino agli anni Ottanta, il quartetto originale dell’Art Ensemble, composto da Lester Bowie, Joseph Jarman, Malachi Favors e Roscoe Mitchell (poi diventato un quintetto con l’aggiunta del percussionista Don Moye) vola alto nei cieli della creatività più assoluta. Studia a fondo le possibilità della musica nera, e illustra con riferimenti e parodie il serio e il faceto del mondo musicale, giocando anche con un uso prettamente teatrale del palcoscenico, tra costumi, travestimenti e trucchi scenici. È dalle esperienze della Aacm che Chicago diviene di diritto la culla delle avanguardie più eterogenee del new jazz.

In nuce, l’Art Ensemble ha creato una sorta di nuova etnomusicologia, capace di insegnare e aprire strade. Da allora, e specialmente dai dischi e dai live di questo gruppo, il significato di «jazz» dalle parti di Chicago ha assunto un’accezione del tutto peculiare rispetto al territorio jazzistico tout court. Del resto, molti dei grandi nomi dell’intellighenzia jazzistica contemporanea fuoriescono proprio da esperienze chicagoane. Su tutti probabilmente Henry Threadgill (sassofono) e Wadada Leo Smith (tromba).

In breve, un gruppo-esperimento davvero fecondo, a cui le frange dell’avanguardia devono molto.

CHET BAKER

(Yale, 1929 - Amsterdam, 1988)

Trombettista, flicornista, cantante e arrangiatore come davvero pochissimi, Chet Baker è stato un musicista che ha sempre dovuto avere a che fare con un doppio se stesso: da una parte l’elegante e sofisticato argomentatore di materia musicale, in qualche modo sempre dotta e orientata sui binari di una sorta di straordinaria-ordinaria qualità; dall’altra gli spettri di una psiche decisamente labile, talmente delicata da infrangersi continuamente contro le cose della vita. L’esito negli eccessi del consumo di stupefacenti è dunque il classico altro piatto di una bilancia che pesa innanzitutto una sonorità semplicemente unica, arrotolata attorno a una ricchezza melodica e a una capacità interpretativa rarissime al mondo.

La sua esecuzione, la sua articolazione, un appoggio del tutto personale, gli attacchi sempre leggeri, le frasi in semicrome, l’uso sapiente del registro, la sua timbrica sono le cifre assolute che lo rendono inconfondibile. Notazione a parte per il suo cantato: veicolando correttamente il significato per cui la tromba è strumento di prima estensione della voce umana, il mood vocale di Chet è immensamente affascinante e ricco di tanta e tale leggerezza e delicatezza da legarsi e compenetrarsi pienamente con il suono dello strumento metallico che guida anche l’ascoltatore occasionale in un mondo musicale fuori dal comune.

Suona con tutti i grandi nomi del jazz almeno per venticinque anni, dal 1950 a metà degli anni Settanta. Tutti lo ricordano per il suo suono unico: anche in Italia dove, a parte note vicende giudiziarie, lascia segni indelebili su come vivere il jazz. Un suono che poi ripropone, apparentemente disintossicato, negli anni della maturità. Finché non muore, in circostanze ancora oggi del tutto oscure se non stupide, cadendo dalla finestra di un hotel di Amsterdam. La sua tomba è però in quella California che è sempre rimasta nel suo cuore, primaria influenza del sogno di molte sue composizioni.

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la storia del jazz in 50 ritratti by Carlo Gallucci editore Srl - Issuu