FuoriOrario N°3 Anno XXX (Marzo-Aprile)

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N3°

Anno XXX

Marzo - Aprile 2017

Giovani e Accoglienza

Un grand’angolo su questa reltà

Noi Ribelli Per Amore I cristiani nella resistenza

Per il Filo del Telefono L’efficenza è una virtù?

IN EQUILIBRIO PER

AMARE LA VITA


INDICE pag. 1

EDITORIALE (Chiara di Vito - Pietro Giorcelli) PAROLE DI VITA (Redazione) SPIRITUALITÀ (stefano) NOI RIBELLI PER AMORE (Marco Caselli) IL FUORISEDE DISPERATO

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L’ANGOLO DEL GIURISTA (Pietro Giorcelli) IX SETTIMANA DELL’UNIVERSITÀ

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LA BELLEZZA DI UN’ALLEANZA INTEGRAZIONALE (Francesca Rosellini) L’AMORE PER GLI ALTERI CAMBIERÀ NOI STESSI (Martina Lepovic) PER IL FILO DEL TELEFONO (Massimiliano Puppi)

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É SOLO UNA CANZONE? (Mario Succes) GUARDA E IMPARA: Manchester by the Sea (Lucilla Incarbone) IL PIACERE DELLA LETTURA: Il Giovane Holden (Francesca Bertuglia) RIDICI SU...

RESPONSABILI REDAZIONE Lucilla Incarbone Francesca Bertuglia RESPONSABILE GRAFICO Massimiliano Puppi DIRETTORE RESPONSABILE Maria Teresa Antognazza DIREZIONE, REDAZIONE via S. Antonio, 5 - 20122 Milano EDITORE Coop. Culturale In Dialogo s.r.l. Milano. Registrato presso il Tribunale di Milano, n. 113 del 16/02/1987 Milano, 11 Marzo 2014 Anno XXVIII n. 1

COLLABORATORI Chiara Di Vito Pietro Giorcelli Miriam Maistrelli Giovanna Minotti Gabriella Serra Francesca Rosellini Marco Casetti Stefano Gadaldi Mario Scucces Federica Visconti Martina Lepovic

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EDITORIALE

In Equilibrio «Un gioco può essere descritto in termini di strategie, che i giocatori devono seguire nelle loro mosse: l’equilibrio c’è, quando nessuno riesce a migliorare in maniera unilaterale il proprio comportamento. Per cambiare, occorre agire insieme. Unilateralmente possiamo solo evitare il peggio, mentre per raggiungere il meglio abbiamo bisogno di cooperazione». Questo quanto afferma John Nash, matematico che ha rivoluzionato la “Teoria dei giochi” individuando “l’equilibrio di Nash” che gli valse nel 2009 il premio Nobel per l’economia. Le teorie dei giochi in generale sono molto utilizzate dagli economisti per analizzare l’agire umano, in particolare colpisce lo studio effettuato dal professore sui giochi non cooperativi. Questa tipologia di giochi, nei quali i giocatori non perseguono fini comuni ma non sono neppure in diretta competizione tra loro, risulta essere molto significativa per lo studio economico. Partendo dalle teorie del padre dell’economia moderna Adam Smith, nelle quali l’homo oeconomicus agisce razionalmente e ha come fine ultimo il proprio tornaconto personale, è possibile gettare le basi per leggere l’agire umano. Egli infatti ritiene raggiungibile il bene comune nel caso in cui ciascun individuo segua la propria ambizione agendo per il proprio tornaconto e cercando di ottenere così il massimo risultato. La Teoria dei giochi di Nash però stravolge questo pensiero fin dalle sue premesse, dimostrando che l’equilibrio raggiunto secondo Smith non è il risultato migliore ottenibile né per il singolo né per la società. È infatti possibile migliorare la condizione di un gruppo senza che questa corrisponda al peggiorare della condizione degli individui esterni al gruppo stesso (non è, tecnicamente parlando, un ottimo paretiano) anzi, al limite, è possibile migliorare la condizione di tutti. Questo miglior risultato si ottiene unicamente a condizione che si instauri una cooperazione tra i giocatori affinché abbiano come obiettivo comune il raggiungimento del miglior risultato non per se stessi, ma per il gruppo e dunque, indirettamente, anche per se stessi. Ciò che ha reso così importante la Teoria di Nash è il completo e stravolgente cambio di

mentalità che ha provocato questo pensiero. L’uomo può ottenere dei miglioramenti unicamente mettendo assieme le proprie capacità o, come dicevano i nostri nonni, più semplicemente capendo che “l’unione fa la forza”. Il cambio di mentalità che può derivare dal comprendere pienamente che fare per gli altri e con gli altri è più proficuo anche per se stessi non è più solo un fatto morale per pochi eletti, ma può essere una nuova ed efficace modalità d’azione! Dobbiamo infatti impossessarci voracemente di questo stato di cose, aprire gli occhi e riscoprire una nuova mutualità, un rinnovato impeto volto allo scambio proficuo di risorse, studi, opere, ambizioni e progetti. Possiamo riconoscere ancora che nelle città degli uomini è molto più vantaggioso correre il rischio di aprirsi al prossimo piuttosto che rinchiudersi in una sterile e privata certezza. Raccogliendo le nostre migliori memorie rinnoviamo fra noi un patto, “che noi qui solennemente si prometta che questi morti non siano morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra.” (Abraham Lincoln, Gettysburg, 19 Novembre 1863).

*Si ringrazia per la collaborazione Marcello Maraschi (FUCI Lodi)

CHIARA DI VITO PIETRO GIORCELLI

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PAROLE DI VITA

Papa Francesco tra i fedeli a Milano È stato unico l’evento di sabato 25 marzo: molta gioia nel cuore dei migliaia di fedeli, consacrati e cresimandi che hanno trascorso la giornata insieme a Papa Francesco tra Milano e Monza. Parole di vita sono state quelle trasmesse in un messaggio così ricco di grazia, che non possiamo non riportare nel nostro consueto appuntamento editoriale. Innanzitutto delle parole di solidarietà e di speranza presso il carcere di San Vittore: «Il dolore bussa a molte porte, in tanti giovani cresce l’insoddisfazione per mancanza di reali opportunità, la speculazione abbonda ovunque... Sul lavoro, sulla famiglia, sui poveri, sui migranti, sui giovani... Tutto sembra ridursi a cifre, lasciando che la vita di tante famiglie si tinga di precarietà». E poi durante l’omelia una riflessione sul brano dell’annunciazione: «L’annunciazione a Maria è un brano denso, pieno di vita, e che mi piace leggere alla luce di un altro annuncio: quello della nascita di Giovanni Battista. Due annunci che si susseguono e che sono uniti; due annunci che, comparati tra loro, ci mostrano quello che Dio ci dona nel suo Figlio... L’annunciazione di Giovanni Battista avviene quando Zaccaria, sacerdote, pronto per dare inizio all’azione liturgica entra nel Santuario del Tempio, mentre tutta l’assemblea sta fuori in attesa. L’annunciazione di Gesù, invece, avviene in un luogo sperduto della Galilea, in una città periferica e con una fama non particolarmente buona, nell’anonimato della casa di una giovane chiamata Maria... Un contrasto che ci segnala che il nuovo incontro di Dio con il suo popolo avrà luogo in posti che normalmente non ci aspettiamo, ai margini... Dio stesso è Colui che prende l’iniziativa e sceglie di inserirsi, come ha fatto con Maria, nelle nostre case, nelle nostre lotte quotidiane, colme di ansie e insieme di desideri».

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LA REDAZIONE

In quanto giovani universitari, può essere interessante, nel nostro percorso di crescita, l’invito del Pontefice nel «ricordare quali sono state le persone che hanno lasciato un’impronta nella vostra fede e che cosa di loro vi è rimasto più impresso. Quello che hanno domandato i bambini a me, io lo domando a voi. Quali sono le persone, le situazioni, le cose che vi hanno aiutato a crescere nella fede, la trasmissione della fede». In conclusione di questo breve estratto è doveroso ricordare le parole che l’Arcivescovo Scola, che a suo tempo è stato membro della nostra federazione, ha rivolto al Santo Padre al termine della sua visita: «Chiediamo alla Madonnina che, quando questo cielo di Lombardia è bello come disse il Manzoni - si vede da ogni punto della diocesi, di stendere sempre un lembo del suo manto a protezione del Successore di Pietro. Grazie, Santità».


SPIRITUALITÀ STEFANO GADALDI Filosofia

Arte e fede nella scultura religiosa di don Marco Melzi

Esplorando la retrospettiva dedicata dal Museo Diocesano a don Marco Melzi si avverte il potente riflesso dell’unione spirituale di lavoro e preghiera, di arte e culto. Il percorso espositivo, sito presso il complesso museale dei Chiostri di Sant’Eustorgio dal 23 febbraio al 26 marzo 2017, rende omaggio alla luminosa figura del presbitero, scultore, docente e missionario ambrosiano, nato a Milano nel 1918 e quivi scomparso nel 2013. L’interessante rassegna viene curata da ALBA-Amici della Beato Angelico, in collaborazione con la Scuola Beato Angelico Fondazione di culto di Milano, della quale don Melzi era stato prima intelligente interlocutore e poi direttore. Per comprendere il linguaggio stilistico e l’impostazione iconografica dell’arte presentata nella mostra risulta istruttivo rammentare, per brevi cenni, gli eventi salienti della vita di Marco Melzi. Diplomatosi maestro elementare, insegnò dapprima in diverse scuole della provincia milanese, pur mantenendo fisso il riferimento alla propria parrocchia d’origine, cioè San Gregorio a Milano; fu chiamato alle armi e inviato sul fronte francese e greco-albanese, affrontò l’orrore della prigionia in un lager tedesco della Westfalia, nel quale venne internato con l’accusa di spionaggio e dove, tuttavia, ebbe modo di conoscere Giuseppe Lazzati e Giovanni Guareschi, figure decisive nel cattolicesimo italiano del secondo dopoguerra. Proprio durante la detenzione si palesò nell’animo del maestro milanese la vocazione al sacerdozio, poi coltivata nel Seminario teologico di Venegono Inferiore e all’arte plastica, sviluppata nel

vivace contesto dell’Accademia di Brera; appresa dal padre ebanista una spiccata sensibilità per la modellazione scultorea e la lavorazione del legno, Melzi studia sotto l’ammaestramento di Francesco Messina e di Enrico Manfrini, coltivando una relazione di amicizia con artisti come Giacomo Manzù, Luciano Minguzzi, Marino Marini. Don Marco si aggrega quindi alla scuola religiosa liceale Beato Angelico, dove insegna religione, storia dell’arte e ginnastica, sino a quando la scuola si converte in Istituto d’Arte per l’arredo e il decoro della Chiesa, allorché ne diviene il primo preside. Profondamente significativa nell’influenza del rigore essenziale che caratterizza la sua produzione scultorea è stata l’esperienza missionaria di don Melzi in Burundi e in Colombia, cui sembrano rimandare i lavori che ritraggono l’effigie del beato Mazzucconi, missionario del Pime - realizzata in marmo di Candoglia per il Duomo di Milano - e l’iconografia plastica dell’opera intitolata Fame. Inscrivendosi nel solco spirituale della famiglia benedettina, don Marco segue la regola dell’ora et labora e pratica esclusivamente scultura sacra, caratterizzata dal ricorso a materiali come la terracotta grezza, il gesso dipinto ed il legno nudo, e dall’uso di bozzetti in polistirolo e disegni preparatori su carta. Lo stile scultoreo di don Melzi richiama esplicitamente la prassi artistico-cultuale medioevale, tipicamente contrassegnata dall’anonimato autoriale e dalla rinuncia alla visibilità artigianale dell’artista, che partecipa ad una costruzione collettiva ad maiorem Dei gloriam (per la maggiore gloria del Signore) nel quadro della

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SPIRITUALITÀ pietà popolare della comunità ecclesiale; realizzando modelli in terracotta per altari e sculture sacre, il presbitero ambrosiano, come per gli artisti che lavoravano alle cattedrali romaniche e gotiche e ai “sacri monti” del territorio alpino, svolge un servizio liturgico sintonizzandosi con la ricerca spirituale e la domanda di senso del semplice fedele, per favorirne la preghiera e la devozione; in tal senso don Marco non ha mai partecipato all’inaugurazione delle proprie opere, a testimonianza del nascondimento dalla mondanità e al rifiuto di ogni attribuzione soggettiva. Il linguaggio plastico di don Melzi sembra evocare il non finito dell’ultimo Michelangelo, con una modellazione a “taglio di diamante” che consente di tradurre l’idea compositiva in una struttura dalla geometria semplice, spesso romboidale e verticalmente slanciata, in forme ascetiche e ieratiche ma immediatamente comprensibili; viene accentuato, secondo questa attitudine creativa, il rilievo di bastoni pastorali, panneggi dai tratti essenziali, effetti luministici su volti e corpi, che paiono intenti a contemplare il mistero cristiano dell’Incarnazione e dell’Eucarestia, centrali in questa poetica. La meditazione sul ruolo dell’artista in seno alla Chiesa e l’esplicito richiamo alla tradizione medioevale si coniuga, nel percorso culturale di don Melzi, al dialogo con alcuni tra i principali scultori del panorama italiano del secondo Novecento e alla ricezione dell’apertura all’arte contemporanea da parte del Concilio Vaticano II. Degna di nota è stata, in tal senso, la collaborazione di don Marco con Giò Ponti per la chiesa di San Francesco d’Assisi al Fopponino e la cappella dell’ospedale San Carlo; il modellato della statua della Madonna con Bambino e di San Giuseppe realizzate in questo progetto

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presentano analogie con lo stile sobrio degli edifici di Ponti dello stesso periodo. I lavori di Melzi esibiscono sagome granitiche e monolitiche, gestualità trattenute e severe che non si articolano nello spazio, linee spezzate e quasi intagliate. Nelle opere di don Marco il chiaroscuro senza nettezze sembra connesso alla scultura di Manzù,

lo studio tormentato di figure e geometrie rigide indica l’interesse del presbitero ambrosiano per i lavori di Minguzzi e per il portale orientale in bronzo del Duomo di Milano, mentre le espressioni e lo sguardo dei volti sembra riferirsi allo stile di Manfrini. La mostra, così intensa e raccolta, proposta dal Museo diocesano dichiara allora la volontà di riscoprire la valenza spirituale e liturgica di un cammino che congiunge indissolubilmente povertà dei materiali e ricchezza inesauribile della fede, genio creativo e servizio anonimo.



LA NOSTRA STORIA MARCO CASETTI Giurisprudenza

Noi, ribelli per amore Gli eventi della Resistenza avvenuti in Italia e in Europa sono a tutti ben noti. In occasione della festa del 25 Aprile vogliamo ricordare la non indifferente partecipazione dei cristiani, e in particolare dei cattolici, nella Resistenza italiana. Sebbene in Europa ci sia stato un largo contributo dei cristiani nella lotta al nazifascismo, fu proprio in Italia che i cattolici diedero la più ampia espressione. A favore di ciò ecco i numeri: si contano circa 65-80 mila combattenti cristiani nella Resistenza, su un totale di 180-200 partigiani divisi in 81 brigate. Le Brigate tipicamente composte da cristiani furono le Brigate Osoppo e le Fiamme Verdi. Per i cristiani la Resistenza fu prima di tutto una lotta spirituale: una lotta per l’individuo contro i totalitarismi i quali tendevano e miravano a snaturalizzare il singolo rendendolo prima parte della società e dei suoi ideali, e solo successivamente icona di se stesso. La prima forma di lotta che i cattolici italiani intrapresero fu quella all’interno delle associazioni. Il regime fascista dalla sua nascita aveva tentato di arginare l’attività associativa, soprattutto cattoliche e di sinistra. In merito alle associazioni cattoliche, le azioni del regime furono vincolate dell’articolo 43 dei Patti Lateranensi, il quale garantiva libera operatività alle associazioni legate alla Chiesa Cattolica. A partire dal 1926, la politica di annientamento degli avversari politici ed ideologici del regime fascista ebbe inizio. Inizialmente i fascisti si occuparono di bloccare le correnti di sinistra, credendo che quelle cattoliche sarebbero state più facili da controllare in un secondo momento. A partire dall’aprile 1928 la rappresaglia fascista contro i cattolici ebbe inizio. Il 9 aprile 1928 Mussolini, dopo aver aggredito più volte numerose sedi romane dell’AC, decise d’autorità di sciogliere tutte

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le associazioni non fasciste. I cattolici fecero appello al Papa, il quale in virtù dell’articolo 43 dei Patti Lateranensi, ricordò al Duce che le associazioni cattoliche non potevano essere interesse dello Stato. Mussolini dovette cedere: furono riaperte le sedi dell’A.C e della F.U.C.I a patto che vi si svolgessero azioni esclusivamente di carattere religioso e senza interferire con le attività politiche. In questo momento iniziò l’attività culturale e politica clandestina contro le imposizioni di regime. In particolar modo la F.U.C.I, il cui scopo è quello di formare universitari in base allo spirito del Vangelo e in base ai principi della dottrina sociale cristiana, giocherà un ruolo di primo piano nella lotta al regime, a partire del 1930. Prima come naturale avversaria dei G.U.F, i Gruppi Universitari Fascisti e poi come una delle principali associazioni universitarie italiane dalla quale usciranno buona parte dei dirigenti della Democrazia cristiana come Aldo Moro, Giorgio La Pira e Giulio Andreotti, oltre che diverse personalità religiose di cui sicuramente la più famosa è il beato Paolo VI. I circoli cattolici continuarono fino al 1931 un’attività semiregolare, senza però dimenticare le continue insidie esercitate dai fascisti. L’anno della rottura sarà il 1931: l’A.C. con le sue attività culturali, sociali e ricreative, rischia di far ombra all’Opera Balilla. Analogalmente, qualche mese prima, i fascisti avevano aggredito i circoli della F.U.C.I., i quali rischiavano di essere più popolari e frequentati dei G.U.F. L’Avvenire d’Italia, il giornale cattolico di Bologna, inviterà l’Azione Cattolica a “invadere tutti i settori della vita pubblica”, cosi da bloccare la vita sociale imposta dal fascismo. Mussolini, scontento per le posizioni assunte dai cattolici, fece pressione sulla Santa Sede, affinché la stampa cattolica si moderasse e affinché l’A.C. e la F.U.C.I adempissero ai loro compiti in maniera riservata.


Il Pontefice, Pio XI, preoccupato per i provvedimenti restrittivi imposti dal regime e per lo scioglimento di numerosi circoli cattolici, scrisse l’enciclica “Non abbiamo bisogno” elaborata in pochi giorni e stesa volutamente in italiano al fine di rendere chiara l’esplicita condanna della Chiesa di Roma nei confronti dell’uomo snaturalizzato e senza Dio voluto dal regime fascista. La pubblicazione dell’enciclica fu il punto di svolta nei rapporti tra Chiesa e Regime Fascista. Dopo un’iniziale collaborazione vi fu un reciproco rancore alimentato dalle differenze ideologiche. L’enciclica fu senza dubbio un’efficiente condanna dei crimini del regime. Differentemente da ciò che successe in Germania con l’enciclica Mit brennener Sorge, in Italia i fascisti non si scagliarono barbaramente e violentemente contro i cattolici. Mussolini sapeva bene che per mantenere il potere era necessario scendere a patti con i cattolici e di conseguenza con il Papa. Il 2 settembre 1931, dopo mesi di trattative e soprusi, Pio IX e Mussolini giunsero ad un accordo. Dall’accordo la Santa Sede ottenne la non chiusura dei circoli cattolici, ma si trattò di una vittoria di Pirro poiché l’associazionismo cattolico ne uscirà fortemente ridimensionato e limitato. Proprio da queste limitazione apparenti nacque l’aspetto più nascosto della lotta cattolica al fascismo. Il regime, dopo l’accordo, credeva veramente di aver esiliato

e minimizzato l’Azione Cattolica nelle sacrestie e fu questo errore che lo portò a sottovalutare la forza morale e ideologica delle masse cattoliche. In realtà i cattolici avevano avviato una serie di politiche di denuncia della filosofia del regime, svolta sia pubblicamente che in modo privato: tali attività consistevano in convegni, riunioni ed aggregazioni nelle quali si discuteva apertamente di temi filosofici, oltre che religiosi e politici, facendosi beffa delle privazioni imposte. Ad esempio, dal 1936 la F.U.C.I organizzerà annualmente convegni con diversi temi della dottrina sociale cattolica. I più importanti furono a Firenze nel 1936, in cui si discusse de La cultura e i problemi professionali, nel 1937 della Conoscenza morale, nel 1939 si parlò invece di famiglia e nel 1941 si trattò il concetto cristiano della vita. Questo primo filone della resistenza cristiana, che potrebbe sembrare minimale e non importante, risulta invece di vitale importanza nell’ottica di una dittatura. Per il solo fatto che il regime non riuscì di fatto a bloccare completamente le masse cattoliche, si può affermare che vi sia stata una forma di resistenza alla dittatura ideologica del regime. Un altro aspetto della Resistenza è quello legato alla lotta popolare, sicuramente più noto degli altri. Emblema di questa partecipazione popolare diretta o indiretta dei cattolici è Teresio Olivelli. Giovane lombardo, Teresio Olivelli è

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il prototipo dell’italiano medio sotto il fascismo: tanto credente, quanto fedele allo Stato nella remissione della sua fede per un ideale considerato più alto. Scosso dall’inquietudine, prese successivamente le distanze dal fascismo per prender parte alla resistenza, scrivendo la celebre Preghiera del ribelle dove invocò il Signore della pace e degli eserciti affinché ascoltasse la preghiera dei ribelli per amore. A soli 29 anni, muore nel campo di concentramento di Hersbruck. Destino comune, quello della morte nei lager, a molti partigiani cristiani e non: i fratelli Flavio e Gedeone Corra, ad esempio, esponenti veneti dell’Azione Cattolica attivi durante la Resistenza soprattutto con opere a favore dei civili, morti nel campo di concentramento di Flossenburg. Nota ancora la vicenda dell’emiliano Alberto Marvelli, proclamato beato da Papa Giovanni Paolo II nel 2004. I partigiani cattolici, i quali erano generalmente membri dell’Azione Cattolica o della F.U.C.I, si sono contraddistinti durante la Resistenza ottenendo 17 medaglie d’oro, 31 d’argento, 46 di bronzo e 50 croci di guerra. Altri ancora, per il loro stellare contributo alla lotta contro lo sterminio ebraico, furono insigniti del titolo di Giusti fra le Nazioni. Ancora diverso e più articolato è lo scenario politico antifascista: dalle ceneri del Partito Popolare Italiano di Don Sturzo, rinascerà la politica cattolica in Italia che darà vita in seguito alla Democrazia cristiana, dopo anni di silenzio o clandestinità durante il regime. Il ritorno attivo alla politica lo si vede nel 1943: a Roma in via Cola di Rienzo 217, a due passi dal Vaticano, a casa di Giuseppe Spataro si incominciarono a riunire alcuni esponenti del PPI, tra cui De Gasperi, e le nuove promesse della politica italiana quali Giulio Andreotti e Giorgio Tupini.

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Spataro era stato in grado durante gli anni del ventennio, di tenere le fila dei contatti fra quasi tutti i membri del partito popolare, continuando sporadicamente ad incontrarli. Spataro fu anche in grado di trarre supporto da Mons. Montini, il quale fu capace di tenere e coltivare i contatti anche con i membri delle associazioni cattoliche. Grazie alle iniziative, non sempre prive di rischio, di Spataro, vennero posti in essere collegamenti utili alla vita politica dei cristiani. Il giorno della svolta fu il 25 luglio del 1943, nel quale fu diffuso un documento chiamato Linee di ricostruzione. L’esperienza dei cristiani nella Resistenza non fu quindi minoritaria e anche l’esperienza dei membri della F.U.C.I è stata fondamentale per la riconquista della nostra libertà.


IL FUORISEDE DISPERATO POLLINO LO CHEF FUCINO 250 gr di ricotta 100 gr di zucchero a velo vanigliato 150 gr di farina di cocco cioccolato bianco (facoltativo) cocco q.b. per guarnire cacao amaro q.b. per guarnire pirottini q.b.

In una terrina unire la ricotta, lo zucchero a velo, la farina di cocco e il cioccolato bianco grattugiato, e amalgamate il tutto. Dopo aver ottenuto un composto omogeneo riponetelo in frigo per mezz’ora/un’ora per far sì che si possa compattare. Nel frattempo prendete i pirottini e disponeteli su un vassoio o su un piano. Quando l’impasto sarà ben compatto estraetelo dal frigo ed iniziate a staccarne piccole parti appallottolandole con le mani. Man mano che formerete le palline immergetele nella farina di cocco o nel cacao amaro per guarnirle ed infine disponetele nei pirottini. Riponete le palline di cocco in frigo fino a quando non vi serviranno e...

Un suggerimento in più: Per rendere le palline di cocco più golose o più colorate, potete immergerle nel cioccolato fondente fuso o negli zuccherini colorati. Scatenate la vostra fantasia! 9


L’ANGOLO DEL GIURISTA Recentemente a livello sociale e legislativo notiamo un crescente interesse nella ricerca di sistemi alternativi di espiazione della pena. Superata l’ottica retributiva “occhio per occhio, dente per dente” il moderno sistema penale è tutto volto alla reintroduzione del condannato in società, attraverso la finalità special-preventiva dell’ordinamento penale che vorrebbe vivere l’esperienza carceraria in primo luogo come occasione di recupero della persona, e solo laddove essa fallisca subentrerebbe la neutralizzazione della stessa «Non vi è libertà ogniqualvolta che le leggi permettano che l’uomo da persona diventi cosa» affermava Cesare Beccaria, purtroppo però tutt’ora viviamo una tensione tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, e lo confermano i dati nazionali che vedono il tasso di nuove commissioni di reato al 67%, come messo in evidenza dalla collega Federica. Eppure è ancor più necessario porre in essere strategie adeguate se consideriamo la giovane età della popolazione carceraria, secondo i dati Istat 2013, di cui il 54,4% ha meno di quarant’anni. Senz’altro notiamo uno sforzo in tal senso se consideriamo che risulta occupato in attività lavorative il 23,3% dei detenuti in carcere, in aumento del 13,6% rispetto al 2000, ma è necessario spingersi oltre, per riconquistare non solo una maggior dignità della persona ma anche una maggior efficacia del sistema penale inteso come vera e propria riabilitazione del soggetto. Su questo retroterra sorge il pensiero di una giustizia riparativa, fondata sulla promozione della mediazione tra reo e vittima, con l’obiettivo di restituire alla società una persona non più pericolosa. In maniera estremamente chiara il sito ufficiale del Comune di Milano alla pagina Educazione individua in essa un modello di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunitàà nella ricerca di soluzioni al conflitto allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. Il perno di tutto il procedimento consiste nel riconoscimento dei bisogni delle vittime e della collettivitàà al fine di offrire alla vittima un ruolo di preminenza in cui fondamentale è la sua dignità. Non ci si abbandona alla mera esteriorità del fatto ma si

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PIETRO GIORCELLI Giurisprudenza considerano anche le ripercussioni morali ed emotive che la vittima può avere patito. La giustizia riparativa non dimentica nulla dei patimenti che la commissione di fatti di reato spesso porta con sé. Utopia? No, è proprio questo che fa il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione, un progetto unico nel suo genere in tutta Italia, volto all’affiancamento degli autori di reati sessuali detenuti nel carcere di Bollate sin dalla emanazione della sentenza, per tutta la durata della detenzione e persino durante la reintroduzione in società. Questo disegno ambizioso coinvolge psicologi, criminologi e volontari e si fonda sulla volontà del reo a partecipare, nel rispetto del secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione che impedisce la obbligatorietà dei trattamenti sanitari salve previsioni di legge. Un percorso completo volto a restituire alla società un soggetto non più pericoloso così evitando la recidiva. Il trattamento vuole fornire l’opportunità di rielaborare il proprio reato e capirne fino in fondo le dinamiche e le conseguenze, andando così a scardinare le strutture psichiche ed ambientali che hanno condotto alla commissione del reato in modo da evitare così future ulteriori commissioni. Sicuramente un percorso intenso e faticoso, ma non privo di riscontro. Il 16 Ottobre 2014 la Camera Penale di Milano scriveva un’email aperta al direttorio del C.I.P.M. riconoscendo di avere aveva riscontrato solamente tre casi di recidiva su 150 fra i soggetti fino ad allora partecipanti alle unità di trattamento. Non ci resta che prendere spunto da questa esperienza, superare l’emotività che il reato può suscitare in ognuno di noi e perseguire una strada di profonda pacificazione tra vittima e reo. Il C.I.P.M. insegna che questo sentiero è in salita, ma percorribile e doveroso per abitare una collettività più giusta, rispettosa di tutti. Ci chiamiamo società civilizzata, diamone prova.


CHIARA DI VITO Economia dei Beni Culturali Settimana dell’Università: ma cos’è? La settimana dell’Università è un insieme di incontri che i gruppi della FUCI organizzano in tutta la Penisola per confermare e ribadire l’attenzione che si vuole dedicare a quel luogo che da studenti ci troviamo a vivere quotidianamente. Questa attenzione è costante durante tutto l’anno associativo ma, particolarmente in questa settimana, si vuole riscoprire la centralità dell’Università come luogo favorevole alla formazione delle menti e delle coscienze. Parlare di Università in Università assume dunque un significato profondo per noi che la viviamo ogni giorno. Crediamo infatti che l’Università non sia solo un “esamificio”, ma che sia il posto in cui i saperi possono dialogare tra di loro senza la paura del confronto. L’attenzione costante alla ricerca – caratterizzante l’Universitàci stimola inoltre ad essere persone umili in costante tensione, consapevoli di non essere mai arrivate. È fondamentale che la FUCI sappia offrire una testimonianza di come l’Università sia il luogo privilegiato in cui prendersi cura di sè stessi e degli altri, coltivando quell’attenzione alla persona che siamo chiamati ad avere. Prendersi cura dell’Università dunque per impare a prendersi cura degli altri.

presenti nel territorio di Milano hanno voluto organizzare due incontri sul tema cercando di far scaturire un proficuo confronto tra docenti e studenti. I due articoli che seguono non vogliono essere un mero resoconto di quanto avvenuto durante gli incontri, ma uno spunto di riflessione volto ad aprire un dialogo e un confronto su una tematica che superficialmente sembra essere poco concreta, ma che in realtà apre ad una riflessione molto più ampia sull’Università stessa. Buona lettura!

Tra valutazione e riconosciamento del merito, quale progetto in università? Questa è la tematica che abbiamo approfondito in occasione della IX edizione della Settimana dell’Università, che si è tenuta dal 20 al 26 maggio 2017. I gruppi

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UNIVERSITÀ STATALE MIRIAM MAISTRELLI Giurisprudenza

Tra Valutazione e Merito Il 20 Marzo presso l’Università Statale di Milano si è tenuto un incontro riguardo il sistema delle valutazioni delle Università. Questo argomento è stato affrontato dalla Professoressa Barbarbara Randazzo e dai rappresentanti degli studenti Federico Barbagallo e Federico Pappalettera. È subito emersa la necessità di sensibilizzare gli studenti al tema della valutazione della didattica, perché, sebbene tematica poco conosciuta agli studenti stessi, essa è atta a renderli protagonisti all’interno dell’Università. Infatti il ruolo degli studenti sarà sempre più messo in primo piano grazie al fatto che nei prossimi anni il nostro Ateneo Unimi riceverà la visita del CEV (Comitato Esterno di Valutazione) permettendo agli stessi studenti di essere interrogati sulla valutazione della didattica. Insomma, è il contributo del singolo nelle valutazioni della didattica a fare la differenza. Infatti gran parte dei dati che vengono esaminati dalle commissioni per la valutazione interne all’Università provengono dagli studenti tramite i questionari obbligatori, ed è da essi che ci si basa per affrontare una valutazione del sistema universitario dal suo interno. Si è poi posta l’attenzione sull’ANVUR, che nel nostro paese si occupa di valutazione degli atenei. Il lavoro svolto da questa Agenzia è fondamentale in quanto, sulla base dei dati da essa elaborati, lo Stato si occuperà di tanziare dei fondi cosiddetti “premiali” volti a finanziare gli atenei meritevoli. La “quota premiale”, è bene ribadirlo, è solo una ridotta percentuale del totale finanziamento che viene elargito alle

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università statali, in quanto vi è una “quota base” assegnata a ogni università indipendentemente dal merito. È però stato notato come il principio meritocratico su cui si basa questo sistema si stia però distorcendo in “valutocrazia”, dando al dato valutativo talmente tanta importanza – a maggior ragione se si considera che è da queste valutazioni che si decidono i destini di parte dei finanziamenti dati agli Atenei – da portare a meccanismi non certo virtuosi, come quello di abbassare il livello di difficoltà e di analiticità di certi Corsi di Laurea per permettere alla maggior parte degli studenti di uscire dall’Univerisità stessa con il massimo del punteggio, in modo tale da far salire nelle classifiche il proprio Ateneo. D’altra parte, non si può perdere di vista il principio meritocratico, così occorre premiare sì l’eccellenza, ma tenendo presente un approccio meritopoietico, cioè passare dalla distribuzione di risorse in base al merito ad una distribuzione di risorse atte a generare merito.


UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE MARCO CASETTI Giurisprudenza Giovedì 23 marzo, in occasione della IX Settimana dell’Università il gruppo FUCI dell’Università Cattolica di Milano ha deciso di riflettere con il prof. Angelo Bianchi, preside della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo, a proposito degli obiettivi, i metodi e le criticità della valutazione universitaria. Il professore ci ha aiutati a districarci in questo difficile e complicato tema, che, negli ultimi anni, sta diventando un processo sempre più complesso, tanto da richiedere agli atenei la creazione di uffici appositi per stare al passo con tale sistema e con le sue richieste. Il Prof. Bianchi ci ha detto che è innegabile che la valutazione stia cambiando e continuerà a cambiare l’Università, poiché la stringente necessità di seguire e rispettare i criteri imposti porta gli Atenei ad effettuare cambiamenti per adeguarsi e avere così una buona valutazione. Il professore ci ha poi illustrato i due ambiti che vengono valutati dall’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca): quello della didattica o offerta formativa e quello della ricerca. L’offerta formativa viene valutata in base a un sistema chiamato AVA (Autovalutazione, Valutazione periodica e Accreditamento): la qualità dei corsi di laurea viene stabilita in base a criteri e requisiti per lo più formali. La ricerca viene invece valutata tramite il progetto VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca): gli ambiti della ricerca sono suddivisi in 14 settori, 9 afferenti alle cosiddette hard sciences (le discipline comunemente dette scientifiche) e 5 alle humanities (le discipline umanistiche). Il

La Terza Missione e L’Università primo gruppo di discipline ha un sistema di valutazione differente dal secondo, ma entrambi i sistemi possono facilmente dar luogo a valutazioni inadeguate e scorrette. Nonostante le molte perplessità e i problemi riscontrati nel processo di valutazione, il prof. Bianchi ha evidenziato quanto questo sia fondamentale poiché è riuscito in parte ad arginare il fenomeno della proliferazione di università telematiche (11 solo in Italia; in tutt’Europa ne esistono 9) e delle sedi secondarie che numerosi Atenei hanno aperto in diverse città. Dopo aver messo in luce i problemi legati alla natura e al funzionamento dei metodi di valutazione, nell’ultima parte dell’incontro il professore, rispondendo ad una nostra domanda, ha incentrato la riflessione sul ruolo della cosiddetta “Terza missione” dell’Università. Come ricordato dal Prof. Bianchi, il beato Paolo VI nel 1967 esortò i Fucini a riconoscere ed esaltare il valore socio-culturale dell’Università. La “Terza missione” è dunque un vastissimo campo in cui i nostri Atenei italiani hanno il compito di investire, in modo che la formazione e la ricerca, oltre a coinvolgere la singola realtà universitaria , si aprano a tutta la società e abbiano uno sbocco e un campo d’azione nella realtà geopolitica nella quale le università si inseriscono. Questa è un’importante missione che non è debitamente riconosciuta e soprattutto non è tenuta in conto nel sistema di valutazione delle università.

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GRAND’ANGOLO FRANCESCA ROSELLINI Psicologia

La bellezza di un’alleanza intergenerazionale

I giovani non si preoccupano del sociale; ai giovani non interessano progetti a lungo termine; i giovani non si impegnano se non nella realizzazione di sé e non pensano che gli altri possano essere significativi nella loro vita. Queste le dure parole che in questi giorni ho sentito rivolgere al mondo dei giovani da alcuni adulti. Mi chiamo Francesca Rosellini e sono parte di quella categoria di “giovani” tra i 20 e i 30 anni di cui molti parlano. Sto studiando Psicologia Clinica all’università e uno dei sogni della mia vita è che questi anni di studio si realizzino in un lavoro che sarà difficile e pieno di ostacoli, ma che spero sarà ricco di incontri con realtà di frontiera della mia società. Spero anche che questo lavoro mi dia la possibilità di rendermi autonoma economicamente dai miei genitori perché in questo modo potrei garantire un futuro dignitoso alla famiglia che spero di costruire e a quelli che diventeranno gli anziani della mia famiglia di origine. I soldi non sono niente senza le relazioni, ma sono necessari per vivere nella nostra comunità. Questo è il messaggio che la mia famiglia mi ha passato. Avere tanti soldi, costruire grandi imprese, ma non aver costruito legami forti, non dà la felicità. La felicità è intrecciata alla propria autorealizzazione, ma quest’ultima non sarà mai completa se non tiene conto del rapporto con gli altri. Si può trovare sé stessi grazie ad un incontro con una persona significativa con cui abbiamo deciso di condividere qualcosa di noi. Pensiamo anche solo a come siamo venuti al mondo: un incontro tra due persone ci ha dato la vita. Aristotele diceva che «l’uomo è un essere sociale»: ciò significa che è nella

natura dell’uomo intessere legami, che sono per loro natura caratterizzati da un aspetto che è quello del DONO. Nei legami viene donato tempo, donata attenzione, donato uno sguardo, una parola, un abbraccio e questo è quello che ci fa sentire in qualche modo vincolati a quelle persone che reputiamo significative. Se una persona ci fa un dono, entra in gioco la sensazione di gratitudine e di obbligo nei suoi confronti. Insieme all’affetto che si può provare nel “ricevere”, subito si sente, infatti, una spinta a “dare” e a “ricambiare”. Questa prospettiva del legame come caratterizzato dal dono è una modalità di interazione che risulta generativa, feconda innanzitutto per i singoli ma, in un crescendo, per tutta la società. Penso ai miei amici giovani e ritengo che tanti di loro si sentirebbero traditi da quegli adulti che li definiscono non interessati al mondo circostante. Giovani che hanno voglia di mettersi al servizio degli altri nella loro vita e che nonostante le frustrazioni che dà la nostra società adulta in più ambiti (divorzi sempre maggiori, aziende che sottopagano gli stagisti, precari a 40 anni, adulti bambini e bambini investiti di poteri adulti) hanno deciso di continuare a scommettere sul loro futuro per sé stessi, ma anche per le persone a cui vogliono bene. Penso a Caterina e Simone, che studiano a Genova e ogni fine settimana si fanno un due ore di treno per tornare alla loro città di origine per fare gli educatori gratis e aiutare a crescere i ragazzi degli Scout che gli sono stati affidati. Penso a Rossella che, , ha deciso di accettare un lavoro a tempo indeterminato come educatrice

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per poter contribuire alle spese familiari portando avanti parallelamente il suo studio universitario . Penso a Federica che ha spedito curriculum in ogni dove per poter iniziare a lavorare e mettere da parte soldi per realizzare il sogno di sposarsi con Marco. Penso ad Andrea che ogni giorno si fa un’ora e mezzo avanti e indietro perché lavora a Como, ma vuole mantenere vive le relazioni costruite a Milano e il suo impegno associativo. Penso a Sarah e Claudio che hanno scommesso sulla loro relazione sposandosi a 23 anni e che con sacrifici hanno dato vita ad una famiglia che ora conta anche il piccolo Cristiano. Penso a Matteo e Giovanni che da architetti hanno deciso di non andare all’estero e di restare in Italia, pur lavorando sottopagati in uffici che a malapena gli permettono di pagare l’affitto. Penso a Giovanni e Chiara che in una città divisa da muri urbani come Milano, hanno deciso di andare a vivere insieme ad altre famiglie in una comunità per essere aperti all’accoglienza. Penso a Elena che pur studiando e lavorando passa i suoi martedì pomeriggio e le domeniche ad accompagnare gratis ragazzi disabili a vivere esperienze di crescita. Penso, ancora, a Matilde che fa un master a Roma e che fa sostituzioni in giro per l’Italia per realizzare il suo sogno di insegnare nelle superiori ed educare alla bellezza le nuove generazioni. Penso a Tommaso che finalmente ha passato il test di medicina, sta studiando e ha il sogno di aprire un centro di riabilitazione neuromotoria fruibile da più persone possibile. Pensando a tutti loro non posso che essere investita da un’ondata di speranza! Già, perché sentire uno di questi giovani parlare fa sentire tutta la stanchezza e la difficoltà che stanno affrontando in una società per alcuni versi ostile, ma fa anche vibrare il cuore di entusiasmo e di coraggio per la forza che dimostrano e per la costanza e la lungimiranza con cui perseguono i loro sogni.

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Non fanno rumore queste notizie. Due giovani che si sposano, una ragazza che fa volontariato, un giovane che cura e dà continuo vigore alle sue relazioni significative non escono sui giornali, non conquistano la prima pagina e non fanno tanto scalpore quanto le lamentele; ma è pur vero che esistono. Qualcuno ha detto che “Fa più rumore un albero che cade rispetto ad un fiore che cresce”. È vero che il male fa più rumore del bene, ma è anche vero che dal bene si genera bene. Dobbiamo educarci al bene, educarci a non generalizzare e categorizzare il mondo in compartimenti stagni ma andare a vedere ed esaltare l’unicità e la specificità di ognuno! Non siamo tutti uguali, i giovani non sono tutti uguali. Cercano degli alleati negli adulti. Se il giovane può ridare vigore all’adulto sfiduciato, cerca anche l’esempio dell’adulto che ha già vissuto certe situazioni e che può mostrargli come ha trovato il suo posto nel mondo in armonia con gli altri. Noi giovani abbiamo bisogno di adulti coerenti con la propria umanità, abbiamo bisogno di esempi di umanità. Quando un giovane incontra un adulto che crede in lui, che gli dà fiducia e che gli dona la sua competenza e il suo esempio di vita, questa testimonianza si radica in lui e lo aiuterà nelle sue scelte future. L’impegno sociale più grande, quindi, è ricostruire la fiducia tra le generazioni tramite il dialogo e la testimonianza quotidiana di valori condivisi. C’è bisogno di creare questa nuova alleanza intergenerazionale e deve essere impegno personale di ognuno promuoverla e renderla viva fuori e dentro le famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni, nelle scuole, nei centri aggregativi. Da essa non potrà che scaturire una nuova forza che sarà una risorsa importante in questo tempo di crisi.


GIOVANI MARTINA LEPOVIC Giurisprudenza Capita spesso di riflettere sulla mutevole natura dell’attualità sociale in cui ci troviamo a vivere e non possiamo certo negare quanto ciò offra vari stimoli ad assumere un atteggiamento di grave diffidenza. Basti pensare al mondo politico: assistiamo ad una crisi delle grandi democrazie occidentali, messe alla prova innanzi a quello che appare essere un timore collettivo che porta alla ricerca della rassicurante tutela offerta da figure “forti”, a costo di cadere in atteggiamenti populisti che certamente non valorizzano l’acume del dibattito politico-democratico. Analogamente potremmo scoraggiarci di fronte alle statistiche della disoccupazione giovanile che recentemente ha raggiunto il 37,9% contro la media europea del 22%. Certamente è assai triste vedere prendere piede movimenti politici che inneggiano ed incoraggiano ad atteggiamenti di odio nei confronti dello straniero, dell’altro da noi, solo perché la fede da lui professata è da noi pressoché sconosciuta. Quale dunque dovrebbe essere l’atteggiamento dei giovani nel rivolgere lo sguardo a quello che potremmo definire un Medioevo moderno? Il nostro dovrebbe essere un atteggiamento d’amore. Non l’amore raccontato in canzonette, ma l’Amore vero, quello raccontato nei Vangeli. Possiamo amare l’altro dal momento in cui ci svegliamo fino al momento in cui andiamo a dormire. Possiamo mostrare gentilezza e misericordia in ogni aspetto della vita quotidiana. Dobbiamo lavarci del rancore per i nostri fratelli, dobbiamo disintossicarci dalle bugie propinateci da coloro che, per mantenere il potere, hanno puntato sulla divisione

L’Amore per gli altri cambierà noi stessi piuttosto che sull’unione. Solo provando ad amare realmente si concretizzerà quanto scritto dal profeta Isaia, «ed il lupo dimorerà con l’agnello, perché avremo scambiato la rabbia con la compassione, l’odio con la pietà. Così un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is, 11,1). L’Amore è l’arma più potente della terra, ed è citando un grande della terra come Robert Kennedy che vorrei concludere, lanciando un messaggio di speranza: «Pochi avrebbero avuto l’onore di entrare nella storia ma ognuno di noi può lavorare per cambiare il piccolo centro degli eventi e la somma di queste opere sarà registrata nella storia di quella generazione».

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POLITICA E SOCIETÀ

Per il Filo del Telefono Voglio raccontarvi una storia. Voglio raccontarvi una storia francese. Non è una di quelle storie che vanno tanto di moda in televisione, che parlano di giovani stranieri radicalizzati in quartieri degradati. Questa storia inizia molto semplicemente con una ragazza, Stéphani, una ragazza come tante altre a Parigi e nel mondo. 32 anni, una laurea in Legge, un lavoro in una grande società di telecomunicazioni, un appartamento al quarto piano di una palazzina in rue Médéric, dove due isolati più in là c’è l’Arco di Trionfo. La sua mattinata era cominciata come al solito, dopo colazione un po’ di tempo al computer. Aveva provato tre abiti nell’armadio e poi si era avvicinata alla finestra, ma quella mattina Stéphani non aveva aperto semplicemente la finestra per una boccata d’aria. Quattro piani più in giù l’asfalto frena la caduta del suo corpo, uccidendola sul colpo. Era l’11 settembre del 2009. Il motivo di un così tragico gesto sembra risiedere nella società per la quale lavorava e che lei stessa identificava come causa del suo male. Questa società, oggi denominata Orange, all’epoca dei fatti si chiamava France Telecom, ed era la più grande società di telecomunicazioni in Francia e anche in Europa. Stéphani, però, non è stata la sola a togliersi la vita. Infatti tra il 2008 e il 2010 sono stati

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MASSIMILIANO PUPPI Teologia circa sessanta i dipendenti della Telecom France a fare lo stesso. E nonostante questa sia una storia dimenticata, risalente a sette anni fa, tuttavia ha ancora molto da raccontare alla nostra società. Cosa succede quando i rapporti di lavoro diventano sempre più cinici, quando le relazioni all’interno di un’azienda diventano subordinate se non secondarie all’efficienza, quando anche l’ultimo briciolo di umanità muore? Era il 2008, e la crisi cominciata in America con il crollo della Lehman Brothers iniziava ad avere i suoi effetti anche in Europa. La France Telecom, con un debito da 110 miliardi, stava mettendo in pratica il cosiddetto piano next, ovvero il risanamento del debito grazie a un taglio di 22.000 posti di lavoro in due anni e all’attuazione di 10.000 trasferimenti. A capo di tutto questo c’era Didier Lombard, dall’atteggiamento piuttosto arrogante e dalla scarsa empatia per le sorti dei dipendenti. È stato lui, sotto l’accattivante motto del time to move, secondo la procura francese, a perpetrare vessazioni morali, trasferimenti coatti, a creare situazioni di lavoro degradanti nei confronti dei dipendenti. Di fronte all’ondata di suicidi, Lombard disse soltanto che era una moda, e in fondo lui stesso in un discorso ai dirigenti disse che i dipendenti in un modo o in un altro


andavano cacciati. Che importanza aveva se dalla porta o dalla finestra, disse lui. Ma Lombard non fu il solo a comportarsi così, assieme a lui il suo vice Louis-Pierre Wenes e l’allora capo delle risorse umane Olivier Barberot perpetrarono una sorta di management del terrore, tanto che oggi tutti questi sono imputati nel processo che li vede accusati di molestie morali. È facile immaginare, seppur sconfortante, che questi dirigenti francesi, il cui deprecabile comportamento è da tutti condannato, non siano i soli al mondo intaccati in situazioni del genere. Infatti attualmente il mobbing è un fenomeno che purtroppo si è espanso a macchia d’olio e potrebbe essere interpretato come un modo peculiare di percepire l’azienda e la gestione di essa. E nondimeno il mobbing si è espanso anche in settori che riguardano i servizi pubblici. Paradossalmente, questo modo di considerare l’ambiente si chiama efficienza ed è oggi un vanto per ogni settore lavorativo. L’efficienza fonda la sua esistenza nella categoria della produzione ed è un termine più consono alle macchine che ad una creatura di Dio, poiché solo una macchina operatrice può essere efficiente. Se guardassimo il campo dell’automobile,

ad esempio, efficienza è indice di un minor consumo, a parità di distanza, e ne consegue che consumare meno equivale a meno spese per chi ne usufruisce. Allo stesso modo, chi possiede un’automobile vecchia che consuma maggior carburante della norma, la può sostituire al più presto per poter risparmiare sul carburante, appunto. Tuttavia, l’automobile precedente non smette di esserci e subisce la svalutazione, diventando così uno scarto della società. Questa stessa logica ha oggi ha svalicato il campo della tecnica ed è approdata in ogni settore, perché, ad esempio, efficiente deve essere la gallina che fa le uova o finisce nel banco frigo, efficiente deve essere la mucca con il latte, efficiente l’essere umano in ogni campo. La tradizione, infatti, nell’ambito delle relazioni umane ha fatto sì che il mondo in cui l’uomo agisce diventi efficiente, il che vuole dire che un lavoratore, a parità di stipendio di un altro, debba produrre di più o debba lavorare più ore. Ma non è finita, poiché lo stesso lavoratore dovrà temere comunque la concorrenza degli altri, dal momento in cui, se un altro lavoratore con lo stesso stipendio produce più di lui, potrà anche vedersi sostituito e allo stesso modo

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di un’automobile diventare anch’egli scarto della società. Questo deriva, in primo luogo, dal percepire i dipendenti come numeri, come la cifra contabile in perdita, quella fastidiosa uscita mensile per pagare macchine che non producono come l’azienda vorrebbe. Ed ecco che il personale, che ha nella sua etimologia del termine la persona, diventa Risorse Umane, dove umane è solo un aggettivo che distingue queste ultime dalle risorse materiali. Allo stesso modo ecco che al sorgere di problemi non si chiama più l’economista, ma l’ingegnere gestionale, perché l’efficienza non sa che farsene di qualcuno che salva l’azienda, preferendo invece qualcuno che la ripari eliminando quei pezzi che non funzionano. Si dimentica sempre come il lavoro sia per l’uomo e non l’uomo per il lavoro. Si dimentica come il profitto e la produzione siano inutili se non è per l’uomo e per il miglioramento delle sue condizioni. Il pensare all’uomo in termini di efficienza porta a considerarlo come una piccola rotella di un grande ingranaggio dove quello che conta alla fine è solo che il numero sia positivo. I numeri ci dicono come la France Telecom, durante quel 2008 (l’anno dei suicidi), abbia

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realizzato ben quattro miliardi di utili, e spontaneamente viene da chiedersi se non vi sia qualcosa di sbagliato in quel profitto. Stéphani e altri sessanta uomini e donne, come lei, di cui non conosciamo nemmeno il nome, si sono tolti la vita per questo, per manager che hanno tutto e che tutto hanno tolto agli altri.


MUSICA MARIO SCUCCES Conservatorio

È solo una canzone?

È tutto pronto, i musicisti prendono posizione, il pubblico attende. Entra August, il giovane direttore. L’Orchestra inizia a suonare. Si avverte un’atmosfera sublime. È questo il potere della musica: innalzare l’uomo a una bellezza che sta al di sopra dell’uomo stesso, ma che si può raggiungere soltanto se ci si mette in ascolto di essa. L’ascolto: è proprio questo che costituisce una delle più grandi difficoltà del nostro tempo; “saper ascoltare” è diventato oggi un talento di pochi, quei pochi che sanno fermarsi. «Parlare è una necessità, ascoltare è un’arte» diceva Goethe, ma in realtà è un’arte spesso dimenticata, persino da coloro che di questa dovrebbero regolarmente nutrirsi. Un musicista che non sa ascoltare non può essere considerato tale, ma questo discorso si potrebbe estendere, in misura evidentemente diversa, a tutti gli ambiti professionali e umani nei quali la virtù dell’ascolto è una componente essenziale. Un aspetto di cui si fa esperienza in Conservatorio è proprio l’attitudine ad ascoltare e ad ascoltarsi, con l’udito e con il cuore, inteso come pura interiorità spirituale. Ad esempio, uno dei principi fondanti del Jazz è proprio riuscire a suonare insieme ad altri dialogando attraverso la musica come ciascuno fa quando chiacchiera con gli amici. Intere pagine del repertorio classico descrivono il dialogo tra i vari strumenti dell’orchestra, tre le diverse voci di un coro o anche soltanto tra i tasti di un pianoforte. Se impariamo a concepire la musica come mezzo per saper ascoltare chi ci sta accanto, per saper dialogare “armonicamente”, allora stiamo facendo un buon uso di essa, allora l’obiettivo della musica stessa, quello

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di elevarci al bello, si può avverare in noi. Se sfruttiamo la musica soltanto per un piacere temporaneo quando non abbiamo nient’altro di meglio da fare, allora non ne abbiamo carpito l’inestimabile valore. È giusto porre l’attenzione sulla relazione profonda presente tra musica e scienza, non riducibile semplicemente alla fisica acustica, ma estesa alla volontà di ricerca e di scoperta scientifica da una parte, alla metafisica dall’altra. Questo legame è chiaro fin dal Medioevo, tanto che la musica era inserita nel Quadrivio insieme con l’aritmetica, la geometria e l’astronomia. Agostino la definiva scientia bene modulandi, scientia appunto per il fatto che il musicista cerca di scoprire sempre più; il musicista e compositore diventa allora vero e proprio ricercatore di una bellezza assoluta. Ma si può pensare la musica soltanto come scienza? Ovviamente no, perderebbe la sua qualità più interessante, quella che ti immerge nell’infinito, quella che unisce la limitatezza umana alla perfezione divina; una bella esortazione di Cassiodoro recita: «Se noi uomini continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci punirà togliendoci la musica». Ecco, dal punto di vista scientifico la musica è una costruzione, ma da quello emotivo è un’armonia che ci investe e ci fa diventare migliori. E investe tutti, non solo coloro che si occupano di musica per professione - musicologi, storici della musica e arrangiatori -, la musica vuole arrivare a tutti; passa attraverso le mani di un musicista ma non proviene da un musicista. Proviene da Dio. «È come se mi stesse chiamando - dice August - Solo alcuni di noi la sentono? Solo alcuni di noi la ascoltano».


GUARDA E IMPARA LUCILLA INCARBONE Scienze del Servizio Sociale C’è una dimensione misteriosa nel dolore, nostro e altrui, che ci lascia immobili ed incapaci di qualsiasi spiegazione. E così anche di fronte a questo film, Manchester by the Sea, uscito nel 2016 nelle sale americane e fin troppo sottovalutato da quelle italiane. Ambientato nel caratteristico Massachusetts, la pellicola ci catapulta nella solitaria vita di Lee Chandler (Casey Affleck), che lavora come tuttofare. Venuto a conoscenza della morte del fratello, l’uomo fa ritorno nella città natale che dà il nome al film, dove si ritrova a prendersi cura di suo nipote adolescente. Lee proverà a convincere il sedicenne Patrick (Lucas Hedges) che la cosa migliore sia trasferirsi a Boston insieme a lui, ma il ragazzo è riluttante ad abbandonare la propria vita per costruirne un’altra in una città sconosciuta. Il regista di questo film, Kenneth Lonergan, ci rende spettatori di un dramma familiare che va oltre la semplice vicenda raccontata. Attraverso il legame tra zio e nipote infatti entriamo un po’ più a fondo in quella che era la vita di Lee, prima che un dolore così grande lo rendesse l’uomo apatico e solitario che noi conosciamo all’inizio del film. Sullo sfondo di paesaggi innevati e caratteristici, accompagnati da una colonna sonora che rende tutto quasi surreale, possiamo assistere inermi davanti al viaggio che il dolore porta a compiere. Prima di tutto in Lee, che non resiste e si lascia

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sopraffare da esso, quasi arrendendosi alla consapevolezza che nulla può essere riparato. Accanto a lui Patrick, che si trova a dover reagire alla morte del padre come tutti si aspettano che egli reagisca. Ma lui non agisce così, e drammi che sembrano inaccettabili agli occhi degli altri passano inosservati, minuscoli particolari, invece, hanno la forza di sconvolgerlo nel profondo. Su tutto troneggia l’impotenza dello spettatore che non può nulla di fronte a tutto questo, se non stare a guardare, laddove la musica lascia spazio al silenzio disarmante; e toccare con mano, quasi afferrare la vera essenza del dolore, prima che gli sfugga tra le dita. Ci sarebbero milioni di parole da spendere su un tema così profondo, ma la verità è che a volte dobbiamo accettare che di fronte al dolore altrui, piccolo o grande che sembri, non possiamo che essere semplici spettatori. Non sta a noi giudicare, non sta a noi agire, non sta a noi sistemare le cose, perché non ne siamo in grado. Perché ognuno reagisce a modo suo e non possiamo permetterci di giudicare la grandezza del dolore altrui da quello che riteniamo di sapere: non sarà mai una valutazione giusta. Ed è proprio qui che entra in gioco la relazione: è nel rapporto tra Patrick e Lee che entrambi troveranno una via d’uscita, sebbene molto stretta, in cui rimettersi in gioco e riprendere a vivere. E il dolore rimane così, incomprensibile, non solo agli occhi degli altri, ma anche a quelli di chi ne è immerso. Quel che importa non è interpretarlo o dire la propria: quello che fa la differenza è esserci, in modo costante, in modo silenzioso.


IL PIACERE DELLA LETTURA FRANCESCA BERTUGLIA Lettere «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non va proprio di parlarne». Questo è l’incipit di un romanzo sui generis, edito nel 1951, dalla celeberrima copertina bianca. È Il Giovane Holden di J. D. Salinger, appunto, il cui titolo originario è The Catcher in the Rye. Holden Caulfield ormai è l’eroe di una generazione, e non solo della sua, ma anche della nostra, più di quel che ci possiamo aspettare. Diciamolo subito, un po’ tutti noi siamo Giovane Holden. Con la sua leggerezza, col suo voler esagerare sempre, col suo non avere voglia di parlare ma allo stesso tempo non riuscire a trattenersi, col suo porsi domande assurde, del tipo dove vadano le anatre del laghetto di Central Park di New York quando è tutto ghiacciato, se qualcuno le porti da qualche altra parte o se volino via. Holden è il ragazzo a cui piace esclamare peccato che non c’eravate anche voi, come se volesse dire che la vita sia uno spettacolo che merita di essere guardato, con tutte le sue sfumature, con tutti i colori e i rumori della città. E in fondo è quello che vorremmo anche noi, nei momenti della giornata in cui ci sentiamo meglio, in cui tutto sembra perfetto: beh, peccato che qualcuno si sia perso questa bellezza. E per il Giovane Holden la bellezza è stare a guardare la sorellina, la vecchia Phoebe, mentre gioca sulle giostre, è poter immaginare di stare in piedi su un dirupo con intorno migliaia di ragazzini che fanno una partita di basket in un immenso campo di segale, e di acchiapparli al

volo ogni volta che questi stiano per cadere. Una pazzia, insomma. Ma chi non ha mai pensato qualche pazzia? Holden Caulfield è imprevedibile. Se dice qualcosa che non pensa veramente, è la sua espressione a tradirlo. Non riesce a fare a meno dal cacciarsi nei guai. È più forte di lui il fatto di lasciarsi rincorrere dal destino, dalle strade e dalle persone che incontra. Come noi, o è sempre alla ricerca di qualcosa o per lo meno capisce di essere alla ricerca di qualcosa. Per questo la sua testardaggine, la sua indecisione e la sua sbadataggine, altrettanto, sono irritanti quanto affascinanti. A volte coi suoi voli pindarici sembra insopportabile, eppure è un grande testimone di come funzioni la nostra mente. Ambiziosa, anche se confusa. Ma torniamo un momento a quella copertina bianca: Salinger aveva deciso che la copertina sarebbe stata bianca sin dalla prima uscita perché il libro doveva essere scelto per il contenuto, non per il suo aspetto. Sarebbe interessante credere che l’abbia fatto per lasciare proprio la pagina bianca ad Holden, per lasciargli raccontare la sua storia, così come tutti noi avremmo voglia di far ascoltare la nostra.

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RIDICI SU....

domandare è lecito 1) Ma trovare seccante il fatto che piova non è una contraddizione in termini? 2) Ma se un nano alza il gomito diventa alticcio? 3) Ma i pompieri accendono i mutui? 4) Ma per suonare il pianoforte a coda c’è da aspettare tanto? 5) Ma perchè Venerdì è santo e Robinson Crusue no? 6) Ma i pesci rossi si salutano con la pinna chiusa? 7) Ma se mi viene un crampo mentre vado al cimitero è un crampo-santo? 8) Ma uno studente razzista lascia la verifica in bianco? 9) Ma Frankenstein si faceva la doccia o si lavava a pezzi? 10) Ma le ragazze celiache possono avere i fidanzati gnocchi?

che bellissimo essere dio


PROSSIMI APPUNTAMENTI

Gruppo FUCI Università Cattolica 23 30 6 27

MARZO MARZO APRILE APRILE

4-7 MAGGIO

SETTIMANA DELL’UNIVERSITÀ LECTIO COMUNITARIA INCONTRO CULTURALE INCONTRO DI PREPARAZIONE AL CONGRESSO NAZIONALE CONGRESSO NAZIONALE

Gli incontri si tengono il GIOVEDÌ dalle 17 alle 18.30 presso la Saletta F.U.C.I. (secondo chiostro, pianterreno scala F, vicino ingresso Gnomo)

Gruppo FUCI Università Statale 30 MARZO 4

APRILE

12 APRILE 4-7 MAGGIO

ASSEMBLEA DI GRUPPO, A SEGUIRE CENA CONVIVIALE VISITA GUIDATA ALLA CHIESA DI S. MAURIZIO CAMMINATA DI RIFLESSIONE ALL’EREMO S: SALVATORE CONGRESSO NAZIONALE

L’assemblea di gruppo si terrà in sede F.U.C.I. - via S. Antonio 5, secondo piano. La visita guidata sarà alle ore 16 e la camminata alle ore 19 con ritrovo presso sempre in via S. Antonio 5.


La F.U.C.I. è una federazione di gruppi universitari che, con lo stesso sentire e con uno stile condiviso, vogliono vivere l’Università come luogo di crescita umana attraverso l’aggiornamento e la riflessione, con impegno e propositività. Il gruppo si inserisce pienamente nella realtà della chiesa locale e ne condivide il cammino. Dunque è Chiesa in Università e Università nella Chiesa. Questa natura confessionale non impedisce comunque la partecipazione anche a chi non condivide lo stesso cammino di fede. La F.U.C.I. mira anche a formare cittadini responsabili, qualunque sia il loro campo di impegno. Propone quindi ai suoi aderenti percorsi per imparare a “pensare la politica”.

Come Contattarci: FUCI MILANO DIOCESI E-mail: fucimilano@gmail.com Presidente: Chiara Di Vito (chiara.grace.divito@gmail.com /346 490 0749) UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE E-mail: presidenzafuci.ucsc@gmail.com telefono: 02 7234 2565 Presidente: Giovanna Minotti (minottigiovanna@hotmail.it) UNIVERSITÀ STATALE E-mail: fucimilanostatale@gmail.com telefono: 02 5839 1311 Presidente: Miriam Maistrelli (miriam.maistrelli@hotmail.it)

Collabora con noi!

scrivi a: fuoriorario.fucimilano@gmail.com


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